Diario di Emanuela Lucchi - LA TESTIMONIANZA DI UN'INFERMIERA VIDAS AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

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Diario di Emanuela Lucchi - LA TESTIMONIANZA DI UN'INFERMIERA VIDAS AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
Diario
               di Emanuela Lucchi
LA TESTIMONIANZA DI UN’INFERMIERA VIDAS
        AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
Diario di Emanuela Lucchi - LA TESTIMONIANZA DI UN'INFERMIERA VIDAS AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
17 marzo 2020

               Piccole cose. Nonostante le mascherine e i guanti.
               Nonostante tutto.

            Mi è stato chiesto “come va?”. Cerco di rispondere più come
           esercizio che altro… l’aggettivo che uso di più per descrivere
questi giorni è “triste”. Triste la preoccupazione. Triste la prospettiva.
Triste la stupidità… certo. Triste.

Ma questa settimana per me è stato triste (ma davvero triste!) assistere
le persone con mascherina e guanti.
Accarezzare con guanti in nitrile il
viso o la mano di chi – cosciente – da
lì a breve sarebbe morto. Parlargli e
sorridergli dietro una mascherina che
toglie il fiato. Valutare ogni singolo
gesto con la paura di mettere in
pericolo i miei cari… E poi insegno
che in questo mestiere ci si deve
dimenticare di sé per il bene dell’altro.
Non oggi. Oggi non si può. Ed è
triste. È triste stare nei pressi faticosi
della morte e pronunciare parole feroci e dolcissime ad un padre, un
fratello, una figlia che piangono ad un metro di distanza. E non poter
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abbracciare e non poter stringere mani. Quando ci si sente
abbandonati si ha bisogno di presenze, di abbracci. Triste
anche pensare di non poter fare un funerale… non è nulla,
ma forse non è vero.
Triste leggere il terrore negli occhi dei genitori dei bimbi
malati, cui si aggiunge angoscia ad angoscia. Ci chiedono miracoli in
fondo che noi purtroppo non possiamo fare.
Tristi i messaggi di chi è rimasto solo e mi parla di echi di silenzio che
aumentano la mancanza.
Triste sapere la fatica dei tanti colleghi che si stanno spendendo anima e corpo.

Eppure… eppure ogni mattina mi sveglio (non che di notte si possa proprio
dire che dorma…) e mi sento carica di speranza. Cerco il bello. Mi ostino a
guardare le piccole cose che mi circondano (che piccole non sono). Cerco di
rimanere stretta ai miei ragazzi, ai miei amici, ai colleghi, a Dio… Cerco
di leggere tanto. Condivido per far circolare il pensiero come l’aria fresca in
stanze chiuse.

Ma mi accorgo che è questo che mi permette di andare, di custodire, di stare
nonostante tutto. Questo mi nutre e mi sostiene davvero.

Questa mattina è morta Carla*. L’ho vista ieri. Era tranquilla. “Grazie che
sei venuta!”. Piccole cose. Nonostante le mascherine e i guanti.
Nonostante tutto.
Diario di Emanuela Lucchi - LA TESTIMONIANZA DI UN'INFERMIERA VIDAS AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
16 aprile 2020

               Finalmente il giovedì di questa interminabile
               settimana.

            Mi sembra di procedere come un alpino, che cammina con
           rigidi scarponi nel fango o nella neve fresca, dovendo resistere
passo dopo passo al rischio costante di scivolare e cadere senza potermi più
rialzare. Le spalle cariche di una gerla piena di sassi: ciascun sasso un
pensiero. Questo maledetto virus, la paura e i rischi, le incertezze, il carico
lavorativo (le persone a me affidate, i loro parenti, i bambini malati e le
loro famiglie...), le responsabilità e infine la vita che scioccamente prosegue
chiedendo semplicemente di essere vissuta coniugando la normalità con
la sua singolare forma attuale.
“Tanta roba” direbbero i giovani: tanta, lo dico anch’io e il fiato ad ogni
passo manca un po’ di più. Ma in tutto questo, sono già arrivata al giovedì
di questa interminabile settimana. Tre visite, una in fila all’altra.

Ma tra la prima e la seconda visita, mi suona il telefono: è una delle figlie
della signora Marianna* che mi dice che una delle sue sorelle (sono quattro
in tutto) l’ha avvisata che la mamma “respira male”. Lei sta correndo là.
Mi chiede cosa deve fare. Le dico di stare tranquilla (che è sempre una
buona idea, per quanto spesso impraticabile...) e le chiedo di richiamarmi
una volta da lei.
So cosa sta succedendo. Ho visto lunedì la signora: sta morendo.
Finisco e salgo in macchina.
Nel tragitto penso a lei: al pezzo di
vita che mi ha raccontato, al pezzetto
in cui ci ha chiesto di accompagnarla,
alle sue figlie...

Penso alla visita di lunedì: la
signora Marianna sul suo letto
all’ingresso di casa, al centro della
casa, in salotto. Come sempre la
trovo elegante e bella, ma questa
volta la trovo anche morente. Penso
da subito che è un peccato perché
è bello chiacchierare con lei; è una
persona capace di ascoltare e comprendere senza giudicare,
mostrando le cose da un’altra prospettiva.

Durante la visita, conosco un’ennesima figlia: dolce, strampalata e
premurosa come le sue tre sorelle. Mi ritrovo a dire le solite frasi e a dare le solite
raccomandazioni: “Lasciatela tranquilla, non la svegliate…”. Ma la signora
Marianna riesce a stupirmi e a farmi sorridere ancora una volta e accenna
un sorriso quando saluto accomiatandomi: mi riconosce e risponde al mio
saluto con un ciao sussurrato che mi riempie il cuore... Accenno una carezza
(maledetti guanti!) e le “solite frasi” mi sembrano meno solite e più morbide
per lei: la accarezzano le figlie compensando la mia goffa carezza
guantata di blu.

Il tempo di questi pensieri e arrivo. Parcheggio. Accendo il tablet,
sincronizzo. Apro la visita. Gel. Mani. Mascherina. Un respiro.
Ci sono. Scendo. Borsa. Zaino. Altra borsa. Citofono. Aprono. Salgo.
Eccomi. Entro...

La signora Marianna come pensavo sta morendo: la sua particolare
bellezza, la dolcezza del suo viso,
sono già tristemente imbruttiti
dall’imminenza della morte per
malattia. Le quattro ragazze sono
tutte lì: “pronte”... certo. Sanno cosa
sta succedendo. Piangono. Tutte con la
mascherina: lo fanno per me, constato, e per
quanto grata un po’ me ne dispiaccio.

Non c’è nulla che devo fare: sta andando tutto tristemente come deve.

La signora sembra tranquilla. I farmaci sono scritti. Le ragazze glieli
somministrano senza farle male grazie al sottocute. Va bene. Ora si
tratta solo di aspettare. Passivamente. Inattivamente. Senza poter fare
nulla di apparentemente utile.
Piccole minuscole cose. Bagnatele le labbra. Quanto durerà? Non lo so.
Rispondo alle piccole ed enormi domande che le ragazze mi
fanno. Spiego delicatamente ciò che posso. Tanta commozione
anche in tanta dignitosa compostezza.

Ad un certo punto alzo lo sguardo: sembra un quadro
questo salotto con la mamma che muore in centro e le
ragazze intorno. Io non credo che ci sia morte più bella per
una mamma che morire con i suoi quattro figli accanto.

Mai così tanto in questi giorni ho apprezzato la mascherina. Avrei voluto
farmi piccola e scomparire dietro a quel velo multistrato azzurrino. Cerco
di nascondermi e di respirare. Mi capita di commuovermi nelle case: capita
perché sono di carne anch’io per fortuna e mi lascio toccare dal dolore altrui.

Termino la visita. Le guardo. Le abbraccio con lo sguardo (maledetto
virus!). Accarezzo la signora Marianna per l’ultima volta (non la
rivedrò, lo so) e le auguro mentalmente buon viaggio. Sorrido dietro la
mascherina. Rinnovo la mia disponibilità per qualsiasi cosa a qualsiasi
ora. Credo serva. Saluto. Vado.

Macchina. Scarico le borse. Salgo. Mi siedo. Tolgo
la mascherina. Respiro. Gel. Mani. Un sorso di
tisana ormai fredda. Vado. Ciao signora Marianna.
Buon viaggio davvero. Ciao ragazze. Grazie.
* I nomi sono stati cambiati per rispetto della privacy.
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