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La crisi dell’“ordine fiscale internazionale”:riflessioni sulla allocazione internazionale della “business income tax base” e spunti in tema di “causa impositionis” dei profitti conseguiti dai nuovi modelli di business sviluppatisi in seno alla “new economy”. Abstract: La crescente diffusione di gruppi multinazionali operanti secondo nuovi modelli di business altamente integrati, unitamente alla rivoluzione rappresentata dall’e-commerce che consente alle imprese di operare da “remoto” e, non ultimo, dallo sviluppo di “imprese digitali” tra cui, in primis, le c.d. web companies, hanno avuto l’effetto di mettere in crisi “l’ordine fiscale internazionale”, di cui il “Modello contro le doppie imposizioni”, redatto sotto l’egida dell’OCSE, risulta essere il paradigma giuridico generalmente accettato dalla gran parte degli Stati. Tale crisi, però, non può esclusivamente attribuirsi ai menzionati players della c.d. new economy ed alle loro pur aggressive tax policy. Essa risulta avere nella innovazione tecnologia, negli investimenti in ricerca e sviluppo culminanti nella creazione dei beni c.d. intangibles, quali value drivers factor di ultima generazione, l’origine più profonda. È il sopravanzare di questo nuovo scenario tecnologico e i suoi riflessi sull’economia globale a far apparire obsoleto il “Modello”, elaborato tenendo conto di un sistema di international trade risalente ai primi anni del secolo scorso. Ma anche il suo impianto giuridico risulta esser datato, in quanto ab origine condizionato dai rapporti di forza tra gli Stati che ne furono i principali artefici. Esso infatti presenta delle regole ripartitorie della potestà impositiva degli Stati contraenti nonché delle regole allocative della tax base concepite in favore degli Stati c.d. della residenza (al tempo esportatori di capitali) a discapito degli Stati c. d. della fonte. Consentendo con ciò agli Stati della residenza delle “head-office” di estrarre l’extra profits conseguito dalle subsidiary e dalle stabili organizzazioni facenti parte del medesimo gruppo, lasciando ad esse solo quei redditi calcolati sulla base di parametri “routinari”. Approccio quest’ultimo riaffermato dagli USA con la riforma fiscale del 2017. Gli Stati promotori del BEPS Project, e del relativo Action Plan articolato in 15 punti, che si oppongono a tale policy unilaterale, rivendicano ora, a difesa della propria tax base la revisione della nozione di stabile organizzazione unitamente all’introduzione di una web tax, ancorché abbiano acquisito per decenni tax revenue dagli Stati della fonte, spesso developing coutries, impedendo a questi ultimi di esercitare la potestà fiscale sui profitti originati dal mercato dei propri consumatori. L’articolo propone una sintesi di tali criticità collocandole nell’ambito di una più ampia cornice geo- politica, riservando altresì specifiche riflessioni sul sistema fiscale italiano di cui si è inteso sottolineare l’opportunità di una riconsiderazione concettuale di taluni suoi postulati in tema di tassazione del reddito transnazionali che l’operare della tax competition congiunto con l’avvento della c.d. new economy hanno da tempo già iniziato a mettere in crisi. 1
Abstract: The growing diffusion of Multinational companies operating within highly integrated model of business together with the revolutionary chance represented by the “e-commerce” which allow many companies to exert their business remotely operating, and, last but not least, the development of the “digital firm”, among which stand out the “web companies”, have all contributed to dismantle the “international fiscal order” which is embodied by the “OCSE Tax Model”, whose juridical pattern is generally followed by the States in the conclusion of the bilateral tax convention. The said new economy companies cannot be considered as the only responsible of such crisis because of their aggressive tax policy. In real terms that seems more due to the widespread of the technology innovation, to the investment in research and development finalized at the creation of intangible assets, to be currently seen as the most remarkable income producing factors. It is the taking place of this new high tech scenario and its impact on the “global economy” to have lifted the veil on the obsolescence of the “OCSE Tax Model” which was inspired by un international trade system dated one century ago and now totally outdated. Also its normative rules share the same inadequacy given that they were figured out in favor of the State of the “residence” to the detriment of the State of the “source”. That meant that the controlling company was allowed to capture the extra profits earned by the subsidiary or by the permanent establishment even if they were being parts of the same group. The only profits remaining attributable to them were to be calculated on the basis of routine parameters on the assumption of the ancillary function exerted by these entities. It is to be outlined that such an aggressive approach has been recently promoted within the US fiscal tax reform of 2017. The States maker of the BEPS Project and the relative 15 Action Plans which are strongly opponents to such unilateral policy and which claim, with the aim to defend their own tax base, the urgent revision of the concept of the permanent establishment, as well as the implementation of a web tax in their domestic fiscal system, have for several years denied the same options to the so called “developing countries”. Therefore such countries were prevented from taxing the profits sourced in their internal market where did operate their consumers. The essay aims at submitting a summary concerning the issues abovementioned trying to analyze them in connection with a more ample geo–political framework. Moreover, it will be also room to express some specific reflections on the Italian fiscal system by upholding the opportunity to reconceptualize a few tax principle concerning the taxation of the cross-border income whose rationale has been liable to change, if not already changed, under the effects produced both by the tax competition and the advent of the new economy. SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. La tassazione del reddito transnazionale nell’ordinamento tributario italiano. – 3. La tassazione dei soggetti non residenti: critiche. – 4. Il superamento della concezione unitaria del tributo. – 5. Gli ”extra profits” nei rapporti “intra-company”: dalle colonie alla “new economy”. – 6. L’evoluzione dei criteri di attribuzione della “tax base” nell’ambito delle imprese multinazionali. – 7. Il c.d. “functionally separate entity approach”. – 8. L’allocazione della “tax base” nell’era della “new economy”: il c.d. “formulary apportionment method”. – 9. La “source of value” nelle imprese “multinazionali” e il conflitto “allocativo” tra Stato della fonte e Stato della residenza. – 10. La crisi della nozione di “s.o” e le relative tesi revisionistiche in funzione della cattura dei ”business profits” prodotti da “remoto” dalle imprese non residenti. – 11. La concezione della “s.o” quale principio c.d. “soglia” (“threshold principle”). – 12. La “s.o.” quale “attività” volta alla allocazione della “tax base”: un possibile inquadramento teorico. – 13. La “s.o.” sub specie di “presenza digitale o economica significativa”. – 14. La “s.o.” domestica in relazione alla problematica della tassazione degli utili prodotti da “remoto” da parte delle imprese non residenti. – 15. La “s.o.” sub specie di “significativa e continuativa presenza economica” nel territorio dello Stato. – 16. Lo spunto fornito dalla teoria “dell’accesso 2
al mercato” quale “causa impositionis” dei “profits” conseguiti da “remoto” dalle imprese non residenti. – 17. Spunti offerti dalla recente prassi di alcuni “Developing Countries”. – 18. Riflessioni conclusive. – 19. … con riguardo all’ordinamento tributario italiano. * * * 1. - Introduzione L’attuale ordinamento fiscale internazionale affonda le sue radici nei lavori intrapresi sotto l’egida della Società delle Nazioni a partire dagli anni ’20 del secolo scorso. Tali lavori vennero successivamente rielaborati dall’OCSE fino alla pubblicazione nel 1977 del primo modello di convenzione contro le doppie imposizioni (nel seguito “il Modello”), il quale ha rappresentato (e nelle sue versioni aggiornate rappresenta) il paradigma “giuridico” a cui gli Stati si sono nella maggioranza conformati per la stipula delle relative convenzioni fiscali bilaterali. Esso è nato con la funzione preminente di rimuovere le “tax barriers”, riducendo al riguardo i fenomeni di “doppia imposizione giuridica”, ponendo altresì talune regole “ripartitorie” dell’esercizio delle potestà impositive degli Stati contraenti, nonché stabilendo dei criteri per la allocazione della “tax base” tra gli stessi. Il “Modello”, così, ha contribuito allo sviluppo del diritto internazionale fiscale e alle relazioni tra gli Stati tanto che si contano oggi ben più di 3500 trattati conclusi in materia fiscale. Esso, tuttavia, formulato sulla base di teorie economiche sviluppate in relazione ad un sistema di “international trade”, quale quello del secolo scorso, presenta attualmente varie criticità. In particolare, la “struttura schedulare” (ossia di “categorie isolate”) del reddito considerato nel “Modello” è contenuto nelle relative regole distributive aventi il fine di ripartire il diritto alla sua tassazione tra gli Stati contraenti. La previsione di “tax rates” diversi gravanti su tali “categorie reddituali isolate” ha incentivato operazioni elusive da parte dei contribuenti attraverso una “riconfigurazione” delle tipologie di reddito al fine di ottimizzarne la fiscalità. Anche il “treaty shopping” si è amplificato soprattutto al crescere delle “imprese multinazionali”, sfruttandosi, da parte di queste, le possibilità di insediamento in qualsiasi giurisdizione e, in generale, le possibilità, come vedremo, di articolare “tax planning” aggressivi1. Lo stesso principio del “valore normale”, adottato nel “Modello” per consentire “transfer pricing adjustments” tra società correlate, mal si adatta alla crescita e alla diffusione di tali “gruppi societari” e alla progressiva interdipendenza economica tra le relative “entity” (inclusive delle “stabili organizzazioni”) operanti in distinte giurisdizioni. In sostanza, l’impianto “giuridico” del “Modello” non risulterebbe più in grado di dare risposta alle “nuove” problematiche insorte dallo sviluppo della c.d. “new economy”2. 1 S. Cipollina, “I redditi “nomadi” delle società multinazionali nell’economia globalizzata”, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, LXXIII, 1, I, 21-63 (2014), p. 21 ss; Assonime, “Imprese multinazionali: aspetti societari e fiscali”, Note e studi, 17/2016; Assonime, “La fiscalità d’impresa nel nuovo mondo globalizzato e digitalizzato”, Note e studi, 1/2017. 3
Un altro dei grandi temi della fiscalità internazionale connesso con tale nuovo scenario è dato dalla necessità di riconsiderare la nozione di “stabile organizzazione” (nel seguito, ”s.o.”); necessità indotta dalle nuove forme di “e-commerce” che consentono il “trade” all’interno di uno Stato senza il tramite di alcun insediamento materiale. Con il risultato di un “profits shifting”, ossia, di una non tassazione dei “business profits” ai danni del c.d. Stato della fonte. Da quanto accennato emerge, in sostanza, come il menzionato “ordine fiscale internazionale”, che possiamo identificare nel “Modello”, sia messo in discussione nelle sue fondamenta dalle questioni sorte in relazione ai modelli di “business” altamente integrati ovvero alle c.d. “web companies”, recanti altresì nuove forme di creazione del “valore”. Dunque, soprattutto in tali modelli di “business”, si pone l’esigenza di effettuare una corretta attribuzione di redditi alle “entità” che li generino; la difficoltà in ciò risiede, con riguardo alle “multinazionali”, nel fatto di dover allocare su base nazionale un reddito prodotto dall’impresa “as a whole”. Collegata all’anzidetta problematica è quella delle menzionate “web companies”, imprese più di tutte espressive della “new economy”, che si caratterizzano per la centralità strategica, ai fini del loro sviluppo, degli “intangibile assets” e dalla emersione di nuovi “value drivers”. Si pone qui l’esigenza di individuare le “funzioni” causalmente operanti nell’ambito di quella che sempre più appare una “global chain value”; anche al fine di elaborare nuove regole fiscali che, in prospettiva, diano risposta alle diverse istanze emerse in seno agli Stati che con le proprie “market resources” abbiano, quel “value”, verosimilmente contribuito a produrre. La concertazione svoltasi in seno all’OCSE per affrontare le menzionate criticità, culminata con l’emanazione, sulla base del c.d. Progetto BEPS,3 di un Action plan articolato in 15 “points”, non esime tuttavia gli Stati nazionali da una adeguata riflessione sulle reali priorità da perseguire. Sia perché tali “raccomandazioni” devono essere gestite dagli Stati uti singuli, sia perché dovrà trovarsi un componimento tra l’adeguamento ai nuovi standards internazionali formulati dall’OCSE, e le tentazioni, da parte di taluni Stati, di conservare i vecchi regimi fiscali che tanto parte hanno avuto nella “race to the bottom” della competizione fiscale. In questo quadro complesso - e veniamo all’Italia a cui sono dedicate le riflessioni iniziali - si dovrebbero cogliere le opportunità che le situazioni di crisi spesso offrono. L’Italia, quale Stato ormai “importatore di capitali”, dovrebbe, ove possibile, procedere ad una “modernizzazione” della propria “international tax policy”, iniziando dalla “riconcettualizzazione” di taluni postulati che governano la fiscalità sul reddito transnazionale4. 2 S. Cipollina, “Profili evolutivi della CFC legislation: dalle origini all’economia digitale”, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, LXXIV, 3, I, 356-393 (2016), p. 356 ss. 3 OECD/G20, “Base Erosion and Profit Shifting”, Project (2013). 4 Cfr. C. Sacchetto, “L’evoluzione del principio di territorialità e la crisi della tassazione del reddito mondiale nel paese di residenza”, in Rivista di diritto tributario internazionale 2/2001, p. 35 ss; secondo A. Uricchio e W. Spinapolice, ”scienza giuridica e ordinamento tributario sono 4
Di tutto ciò passiamo ad occuparci con maggior dettaglio. 2. - La tassazione del reddito transnazionale nell’ordinamento tributario italiano Nei sistemi fiscali improntati al principio della “capacità contributiva” (ma il discorso è riferito al nostro ordinamento), la tassazione sul reddito estero conseguito da un contribuente rileva nella prospettiva della “doppia imposizione giuridica” e, per la sua eliminazione, interviene il metodo del “credito d’imposta”, il quale consente la detrazione in capo al contribuente (pur nei limiti previsti) delle imposte estere che hanno gravato sul reddito “transnazionale”. Viene così garantita la effettiva valutazione della “capacità contributiva” del contribuente in relazione a quella riferibile ad altri soggetti che avessero conseguito redditi di uguale importo ma di fonte interna (gravati quindi della sola fiscalità domestica). Il principio in esame, non solo concerne il rapporto fiscale “verticale” tra Stato e contribuenti, imponendo un uguale trattamento di questi ultimi a parità di condizioni, ma attiene soprattutto al rapporto, per così dire “orizzontale”, tra i contribuenti stessi, consistente in una valutazione comparatistica delle rispettive “capacità contributive”, ripartendo in ragione di ciò il concorso alle “spese pubbliche”. Così inteso, il precetto costituzionale (in combinato disposto con altri principi fondamentali) va a connotare l’utilizzo della fiscalità in chiave non solo perequativa ma anche solidaristica e redistributiva. Nello specificare le caratteristiche degli obblighi contributivi che incombono sui contribuenti, osserviamo, riportando le parole del Prof. Fedele, che “la razionale attuazione del concorso alle ”spese pubbliche” di una data comunità impone l’adozione di criteri di riparto idonei a identificare coloro che, per relazioni personali, rapporti economici o di altra natura, sono coinvolti nella comunità stessa ed obiettivamente “interessati” alla sua sussistenza; in sostanza, il tributo, ogni tributo deve esprimere, nella definizione del suo presupposto, un criterio di appartenenza alla “collettività” di cui ripartisce i carichi pubblici” 5. Come noto, il criterio più intenso di appartenenza alla “collettività” di un individuo è quello della residenza. Si ritiene che, per effetto di questo intenso legame, solo l’“ente esponenziale” di quella collettività (i.e. lo “Stato”) possa realizzare una imposizione personale e progressiva, essendo più agevole tenere conto dei profili anche famigliari del contribuente. Si osserva, per inciso, che la inclusione del reddito di fonte estera nel coacervo di redditi personali non consegue dallo status di residente ma sempre dall’operare del criterio del concorso alle spese pubbliche in ragione del principio della “capacità contributiva”. troppo spesso rimasti inerti o comunque ancorati a schemi datati inidonei a cogliere i complessi fenomeni che l’economia digitale disegna”, “La corsa ad ostacoli della web tax”, in Rassegna Tributaria, 3/2018, p. 455. 5 A. Fedele, “Appunti dalle lezioni di diritto tributario”, Torino 2005, p. 180. 5
Dunque, è certo che tale principio si riferisca al contribuente inteso quale “persona” i cui aspetti soggettivi, famigliari, unitamente agli indicatori della complessiva capacità reddituale, rappresentano tutti elementi rilevanti ai fini del riparto dei tributi erariali. 3. - La tassazione dei soggetti non residenti: critiche La suesposta “concezione” dell’obbligo contributivo mal si concilia, però, con la soggezione teorica al medesimo obbligo dei soggetti non residenti. È opinione diffusa nella dottrina internazionalistica, infatti, ritenere che lo Stato della fonte (del reddito), non prendendo in considerazione la “capacità contributiva” effettiva e globale (nel senso sopra indicato) dei non residenti, non possa esercitare su di essi il proprio potere impositivo sulla base degli stessi principi e finalità che informino la tassazione dei residenti6. Sarebbe molto più realistico, secondo tale orientamento, giustificarne la tassazione nell’ottica della c.d. “benefit taxation”7, secondo cui il contribuente non residente, in cambio del “gain” o del “benefit” conseguito nello Stato della fonte, sopporti il costo dei servizi, che, “lato sensu”, hanno consentito l’acquisizione di quel “beneficio”. In altri termini, lo Stato della fonte fornirebbe dei servizi che il mercato non offre e coprirebbe i relativi costi tassando il non residente sul “beneficio” conseguito dall’interazione con il proprio ordinamento. Non sarebbe dunque il coinvolgimento del non residente nella collettività a giustificarne la tassazione: la “causa impositionis” sarebbe esclusiva funzione del “beneficio”. Ovviamente, correlare in modo aritmetico la tassazione al “benefit” risulta complicato. Molti commentatori convergono comunque sul fatto che la tassazione sull’utilità conseguita dai non residenti dovrebbe essere inferiore a quella gravante sui residenti, posto che i costi del settore pubblico imputabili ai primi sarebbero necessariamente inferiori a quelli sostenuti in favore dei secondi. Tale conclusione, tuttavia, è contraddetta da chi ritiene che l’accesso alle giurisdizioni terze da parte dei non residenti risulti orientata verso ordinamenti in cui l’ordine sociale, l’alfabetizzazione, il sistema giuridico, etc. etc., garantiscano la protezione del “ritorno” sull’investimento. Di conseguenza, una tassazione sensibilmente inferiore non sarebbe giustificata, mentre lo sarebbe una tassazione, per ritenuta alla fonte o mediante imposizione sostitutiva, comparabile al prelievo applicato ai residenti. 6 “The theoretical underpinning for taxation in the country of residence and for taxation in the country of source differ from each other: while taxation in the country of residence is driven by the ability to pay principle and the notion of capital export neutrality, taxation in the country of source is grounded in the benefit principle and follow the notion of capital import neutrality”, L. Cavelti, C. Jagg, T.F. Rohner, ”Why Corporate Taxation Means Source Taxation”, World Tax Journal (volume 9) No. 3, 2017, p.1. 7 Per la letteratura al riguardo si rinvia a quanto riportato da B. Arnold, “Threshold requirements for taxing profits under tax treaties”, nota 4, in B. Arnold, J. Sasseville and H. Zolf, “The taxation of Business Profits Under Tax Treaties” (Canadian Tax Foundation, 2003), nonché da J. Pinto, “The Need to Reconceptualize the Permanent Establishment Threshold”, 60, Bulletin for International Taxation, (2006), p.206. 6
Secondo altri, la tassazione dei non residenti troverebbe migliore giustificazione in ragione “dell’accesso al mercato”8; l’ammontare del tributo risentirebbe della “domanda” per tale “accesso”, essendo altresì condizionato dalla tassazione applicata dagli altri Stati per “l’ingresso” ai relativi mercati. Oltre a ciò, occorre rilevare come il profilo di originalità contenuto in questa “concezione” consista nel recuperare un elemento “contrattualistico” nel rapporto fiscale tra lo Stato del mercato e i soggetti che vi accedono. Detto in modo conciso, se il non residente decide di “accedere” a quel mercato e sostenere la tassazione prevista, l’imposta è ipso facto un giustificato gravame. A tali orientamenti si contrappone quello, “granitico”, della giurisprudenza e dottrina italiane. Nel condensarne i lineamenti, osserviamo che la finalità prima della tassazione sarebbe quella di suddividere tra i membri di essa gli oneri ascrivibili alla necessità della convivenza organizzata. Da tali premesse, consegue quindi che, se la vita del soggetto si svolge pienamente nel contesto della collettività, l’obbligo di contribuire alle pubbliche spese è ragionevole che sia correlato alla attitudine complessiva di tale soggetto a partecipare allo sforzo comune. Ove invece un soggetto sia in contatto con tale collettività solo relativamente a specifici episodi sintomatici di idoneità alla contribuzione ma non di un legame preferenziale e assorbente individuo-comunità, non troverebbe fondamento la chiamata a concorrere con tutte le proprie risorse alle spese pubbliche di quel gruppo sociale9. Al riguardo, la “ratio” del tributo sottesa a tale interpretazione pare distinguere lo status del residente dallo status del non residente facendo ricorso ad un criterio di valutazione “quantitativa” della rispettiva “capacità contributiva”. Tuttavia, posto che la tassazione non percuote il soggetto non residente per aver conseguito un reddito di fonte domestica ma, piuttosto, risulti gravare detto reddito collegato poi a tale soggetto10, essa appare minata proprio sotto il profilo “personalistico”. Tassandosi un reddito e non il percipiente il principio della “capacità contributiva” resterebbe quindi estraneo a tale fattispecie. E verrebbe meno anche la concezione del tributo quale dovere di solidarietà derivante a sua volta dalla concezione “comunitaria” dell’individuo11. Si paleserebbe dunque una contraddizione sul piano dello stesso principio di “capacità contributiva”; invero, non rilevando il profilo soggettivistico dei non residenti non può che conseguire una mutazione genetica del principio medesimo ove ad essi riferito. 8 S. E. Shay, J. C. Fleming, R. J. Peroni, in The David R. Tillinghast Lecture, “What’s source got to do with it?”, 56 Tax L. Rev. 81 (2002) p. 81-155. 9 R. C. Guerra, “Diritto Tributario Internazionale”, Milano, 2012, pag. 85 e ss. 10 “A source country in this contest is simply a country that is imposing its tax based on its relationship to the income of a taxpayer, nor to the taxpayer itself”, S. E. Shay, J. C. Fleming, R. J. Peroni, in The David R. Tillinghast Lecture, “What’s source got to do with it?” op. cit. pag. 83, nota 2. 11 M. Miscali, “Il diritto alla giusta imposta”, Milano, 2009, p. 39. 7
Invocare una “capacità contributiva” del non residente coincidente con il reddito prodotto nel territorio italiano appare solo un artifizio in ossequio ad una formalistica interpretazione dell’art. 53 della Costituzione. Il principio in esame sarebbe da ridefinire tenendo conto delle conseguenze sugli assetti normativi da esso derivanti, incentrati, per quanto concerne la “substantive jurisdiction” e la “enforcement jurisdiction”, sul tradizionale collegamento tra soggetto e ordinamento nonché tra reddito e territorio, collegamento che il fenomeno della “globalizzazione” e le correlate nuove forme di “business digitale” hanno sotto vari profili stravolto12. E’ proprio in tale ottica che l’approccio dogmatico della riferita concezione risulta ancor più permeabile. In particolare, essa non può essere lasciata immune dal diffuso affermarsi di moduli impositivi organizzati in funzione della tassazione del reddito “transnazionale” su dati valoriali del tutto distanti dal presupposto “individuo-comunità” (ancorché il secondo termine non sia assorbente del primo). Innanzitutto, in merito alle “sourcing rules” di cui all’art. 23 del Tuir, si deve sottolineare come l’esistenza di un ragionevole collegamento con il territorio/collettività sia progressivamente risultato cedevole rispetto al collegamento di fattispecie reddituali rappresentato piuttosto dalla concreta possibilità di esercitare su di esse la tassazione13. Così, la logica stessa dei criteri di collegamento territoriali che dovrebbe localizzare i redditi in base alla relativa fonte produttiva è andata perdendo anche la sua significatività ai fini dell’inclusione, per quanto poco più che “figurativa”, del non residente nel predetto rapporto “individuo-comunità”. Le forme di tassazione, inoltre, sempre più si esauriscono con l’applicazione di moduli impositivi a carattere “sostitutivo”, quasi sempre a carico del soggetto pagatore, con aliquota proporzionale sul reddito lordo; ciò riflettendo la difficoltà dei sostituti d’imposta di tenere conto di quelle deduzioni che sarebbero richieste per tassare un valore netto. Ne consegue che la tassazione del reddito a scaglioni con aliquote progressive, teoricamente concepito per il realizzo di finalità “redistributive”, non possa in pratica trovare applicazione per i non residenti. 4 - Il superamento della concezione unitaria del tributo La nostra conclusione – per quanto “suggestiva” - è che la distinzione tra imposte personali e reali non sia più da considerarsi come espressiva di una concezione unitaria del tributo. 12 W. Hellerstein, “Jurisdiction to Tax Income and Consumption in the New Economy: A Theoretical and Comparative Perspective”, Georgia Law Review, 2003, p. 1. 13 “… il nostro ordinamento ha mostrato segnali di reazione forse scomposta alla perdita della propria sovranità fiscale: inseguendo, anche al di là di legittimi presupposti, le basi imponibili che fuggono o “inventando” basi imponibili che non ci sono o che, più semplicemente, sono già state assoggettate a tassazione qui o altrove. I gruppi multinazionali … operanti in Italia tramite controllate qui localizzate sono stati oggetto di accertamenti fiscali volti a contestare l’esistenza di presunte basi imponibili non dichiarate”, L. Carpentieri, “La crisi del binomio diritto territorio e la tassazione delle imprese multinazionali”, in Rivista di diritto tributario, fasc.4/2018, p.369. 8
In questa prospettiva, le menzionate “sourcing rules” non paiono più regole sulla localizzazione dei redditi intesi quali “indici di capacità contributiva” ma – lo si ripete – assumono la funzione di criteri di allocazione di fattispecie reddituali al territorio in funzione della possibilità tecnica di applicare su di esse il prelievo, perseguendo dunque una finalità “distributiva”, per non dire “acquisitoria”, del reddito transnazionale e del relativo “tax revenue” (sottraendo, come precisato in nota, il relativo “guadagno fiscale” allo Stato della residenza)14. Per contro, le “taxing rules” risultano talvolta formulate con lo scopo principale di attrarre investimenti di capitale nel mercato interno (fino a giungere alla esenzione di taluni redditi finanziari) ovvero al fine di creare “esternalità positive” nel sistema economico, in termini di “auspicato” aumento della produttività o della occupazione (offrendo, a tali fini, gli stessi regimi di favore riservati da molti Stati alle spese c.d. di “ricerca e sviluppo” ovvero ai redditi da esse derivanti come quelli di cui al c.d. “patent box regime”)15. In sostanza, la fiscalità sul reddito “transnazionale” appare ormai “etero-diretta” da logiche di competizione economica/fiscale tra Stati; competizione, quest’ultima, che in un mondo globalizzato, caratterizzato dalla perfetta mobilità dei capitali finanziari, dall’economia digitale e dall’inadeguatezza delle vigenti regole fiscali operanti nelle convenzioni contro le doppie imposizioni, si risolve in una inarrestabile erosione delle entrate tributarie nazionali che si somma agli effetti depauperanti indotti dalle recenti crisi economiche internazionali16. Da una parte, la fisiologica reazione degli organismi statuali attinti da tali fenomeni ha portato ad una offensiva “condivisa”, rappresentata dal progetto “BEPS” elaborato in seno all’Ocse17. Dall’altra, gli Stati hanno unilateralmente “reagito” per non essere esclusi dalla competizione internazionale, utilizzando, nel senso sopra indicato, il potere da sempre più gelosamente detenuto: quello di imporre tributi o di garantire esenzioni. Si spiega così come gli Stati, tra cui il nostro, nel cercare di conferire alla imposizione del reddito “transnazionale” una funzione di difesa della “base imponibile nazionale”, abbiano iniziato ad alterare la funzione originaria (quella cioè “perequativa e redistributiva”) della fiscalità, 14Nel contesto della tassazione del “reddito transnazionale”, il gettito conseguito dallo Stato della fonte è virtualmente sottratto all’erario dello Stato della residenza che preleverebbe un tributo analogo ove l’investimento fosse effettuato entro il proprio territorio: esso, dunque, subisce una “perdita di materia imponibile”. Tale “conflitto“ di pretese impositive riguarda, pertanto, la ripartizione del gettito tributario tra i due Stati menzionati. Il problema di come e di quanto ripartire quella “perdita” tra i contribuenti attiene invece esclusivamente allo Stato della residenza (cfr. C. Garbarino, “La tassazione del reddito transnazionale”, Padova, 1990, p. 67 e ss). 15 Cfr. il programma “industria 4.0” e gli incentivi fiscali contemplati, su cui v. A. Uricchio, “La fiscalità dell’innovazione nel modello Industria 4.0”, in Rassegna Tributaria, n. 4/2017, p. 1041, ss. Secondo l’OECD/G20 Inclusive Framework on BEPS, Progress report, July 2017- June 2018: “to date, 112 regimes are in the process for have already been modified or abolished. Consequently, there are only three remaining regimes where this is not the case and which have been found to cause actual harm, all of which are IP regimes. France, Italy and Turkey”. 16Cfr. C. A. Gagliano, S. Orlando, P. N. Salemi, “Fisiologia e patologia della Fiscal Competition”, in Diritto e Pratica Tributaria Internazionale, Aprile Giugno 2017, ove si osserva che, “nell’ambito della competizione fiscale tra Stati, la tax competition postulando un gioco non cooperativo diretto ad attrarre capitali mediante regimi fiscali agevolati, è un’arma a doppio taglio: da un lato crea le condizioni per operare in modo efficiente e comporta, in prima istanza, una riduzione delle imposte; dall’altro, determina effetti patologici, sottraendo agli Stati base imponibile mediante condotte elusive”. 17 “L’economia del terzo millennio, tecnologica, digitale e globalizzata, determina nuovi equilibri di poteri e necessita di nuove regole da parte degli Stati nazionali e della comunità internazionale in assenza delle quali impone le proprie, sgretolando la sovranità statuale indebolendo le istituzioni politiche sovranazionali”, A. Uricchio, W. Spinapolice, “La corsa ad ostacoli della web taxation”, in Rassegna Tributaria, n. 3/2018, p. 455. 9
modificando in conseguenza la composizione della spesa pubblica in funzione delle logiche di competizione con gli altri ordinamenti a discapito del perseguimento di obiettivi di “equità” sociale. 5. - Gli ”extra profits” nei rapporti “intra-company”: dalle colonie alla “new economy” I principi e le regole fiscali che si sono venuti configurando nel corso del tempo, come detto, risalgono ad elaborazioni condotte a partire dagli anni ‘20 sotto l’egida della Società delle Nazioni18. Furono gli Stati vincitori del primo e del secondo conflitto mondiale a far prevalere i loro interessi in qualità di Stati esportatori di capitali rispetto agli Stati importatori, cosi detti Stati della fonte (di produzione del reddito). I rapporti tra “casa-madre” e “branch” vennero intesi avendo come riferimento il rapporto tra le società inglesi e le “sedi secondarie” impiantate nell’allora “British India”. In tale prospettiva, il favor nei confronti dello Stato di residenza si giustificava ritenendo che il contributo maggiore alla produzione del reddito fosse imputabile alla “casa-madre”, avendo essa fornito alla “branch” i capitali e il “know how”19. Inoltre, in linea con le teorie economiche sull’impresa e sul rischio imprenditoriale elaborate da Coase20 e da Knight21, l’imprenditore (nonché “capital owner”) si riteneva non solo esposto al rischio d’impresa oggettivo ma anche al rischio derivante dalle “poor managerial performances in decision- making “; pertanto, non solo il suo utile sarebbe stato incerto e variabile ma vi era anche il rischio che fosse perduto l’intero capitale conferito. 18 K. Vogel, Worldwide vs. source taxation of income - A review and re-evaluation of arguments (Part I), Intertax, 8-9, pp. 216-219 (1988). Oltre all’OCSE anche gli USA hanno basato la loro “treaty policy” sul Report of the League of Nations (1923). Cfr. J. Wittendorf, “The Transactional Ghost of Article 9(1) of the OECD Model”, Bulletin for International Taxation, IBFD (2009), pp.-107-130. Wittensdorf osserva a p. 108 che “in 1928, the League of Nations published four model tax conventions dealing with the prevention of double taxation, succession duties, administrative assistance, and assistance in the collection of taxes. The double taxation of business income should be prevented by allocating the taxing rights between the contracting states with the PE concept as the focal point […] The 1928 Model, however, intentionally did not address the income allocation issue due to time constraints. Hence, it was left to the competent authorities to reach an arrangement regarding income allocation. This applied to both PEs and affiliated companies that were treated as separate entities for tax purposes under the 1928 Model. In 1930, the Fiscal Committee resolved to make a detailed survey of the domestic rules on income allocation in a number of countries. The inquiry was entrusted to Mitchell B. Carroll who examined the taxation of business income in 35 jurisdictions, culminating in the 1933 report entitled Taxation of Foreign and National Enterprises”. Cfr. anche League of Nations, Double Taxation and Evasion – Report Presented by the Committee of Technical Experts on Double Taxation and Tax Evasion, League of Nations Document C.216.M.85.1927.11 (April 1927); League of Nations, Double Taxation and Evasion – Report Presented by the General Meeting of Government Experts on Double Taxation and Tax Evasion, League of Nations Documents C.562.M.178.1928.11 (October 1928). V. altresì M. B. Carroll, General Report: Taxation of Enterprises with International Interests, in Cahiers de Droit Fiscal International, Vol. I (1939). 19 Tale approccio è tornato di prepotenza in auge a seguito della riforma fiscale approvata dal Congresso degli Stati Uniti il 20 dicembre 2017 ed entrata in vigore il 1° gennaio 2018. Tra le varie misure varate vi è il nuovo istituto del “Global Intangible Low Tax Income” (GILTI). In sostanza, tutto l’extra-profitto prodotto all’estero dalle consociate di un gruppo, eccedente il cd. “net deemed tangible return”, determinato in misura pari al 10 per cento degli “asset” materiali qualificati (qualified business asset investment, c.d. QBAI) viene assoggettato a tassazione negli USA, nel presupposto implicito che esso sia da riqualificare come royalty in quanto “asseritamente” derivante dal contributo recato alla catena del valore dalla proprietà intellettuale della capogruppo USA. La “ratio” di tale regime muove dall’idea che la ricchezza sia sostanzialmente generata dagli “intangibile assets” e che i relativi diritti impositivi debbano essere riconosciuti alla giurisdizione di residenza della capogruppo (e cioè, la società americana proprietaria di tali “assets”). Cfr. al riguardo, Assonime, circolare n. 19 del 1° agosto 2018; ”La riforma fiscale USA 2017: il GILTI (Global Intangible Low tax Income)” p. 66, in “Fiscalità internazionale: le nuove linee d’intervento OCSE, USA e UE a confronto”. 20 R. H. Coase, The Nature of the Firm, ECONOMICA, New Series, Vo. 4 (Nov. 1937). 21 F. H. Knight, ”Risk, Uncertainty and Profit, Reprint of Economic Classics”, A. M. Kelley, Bookseller, New York (1964). 10
Dunque, l’imprenditore, nel delegare la gestione del business svolto in altri Stati tramite “foreign entities” ad “agents” ossia ad “amministratori” di fiducia, avrebbe avuto diritto all’intero “residual income”(detto anche “extra profits”) derivante dall’attività d’impresa svolta su più territori “terzi” (essendo esposto, per contro, alle relative perdite complessive). Per remunerare tali rischi, lo Stato della fonte non avrebbe potuto che tassare limitatamente i dividendi in uscita, nel caso di subsidiary ivi residenti; ovvero avrebbe tassato i “business profits” prodotti da una “branch” solo in ragione del “rischio” gestito ad essa attribuibile. La “branch” (termine poi sostituito da quello, adottato nelle recenti versioni del “Modello”, di “permanent establishment”), pertanto, sarebbe stata remunerata sulla base di parametri “routinari”, nell’assunto di un contributo, postulato scarso, dato alla produzione del reddito dell’impresa di cui essa era parte. In ultima analisi, la funzione assegnata in tale quadro alla “s.o.” è stata quella di consentire allo Stato della “casa madre” di distrarre reddito c.d. “primario” (ossia, nella terminologia anglo- sassone, “active business”) dal territorio dello Stato della fonte, secondo le anzidette “logiche economiche”. Nel corso del tempo, si è affermata una formula – più edulcorata - per rappresentare l’anzidetta contrapposizione di interessi economici. Sì è cioè fatto riferimento al rapporto “dialettico” tra “Stato della residenza” (quello cioè della “casa-madre”) versus “Stato della fonte” (quello cioè di produzione dell’”active business”). La stessa problematica ha poi trasceso i rapporti “intra-company” per estendersi a quelli “inter- company” e, dunque, finendo necessariamente per amplificarsi in relazione al progressivo imporsi delle “imprese multinazionali”. Anche in tale ottica il conflitto è rimasto in sostanza lo stesso: da una parte vi è lo Stato della “controlling company” il quale ritiene di avere diritto agli “extra profits” generati nel territorio della “subsidiary”, nell’assunto che l’attività svolta da quest’ultima sia da ritenersi “ancillare” rispetto a quella riferibile alla prima (in ragione dei rischi da essa sostenuti e degli “assets” detenuti). Come già riferito (cfr. nota 19) e come precisato nel seguito, è questa la vera questione che alimenta, sempre più chiaramente, la strisciante guerra fiscale nell’era della “new economy” tra le due sponde dell’atlantico (i.e. tra gli Usa e i Paesi UE). 6. - L’evoluzione dei criteri di attribuzione della “tax base” nell’ambito delle imprese multinazionali Nelle prime versioni del “Modello” era emerso un approccio che rappresentava, almeno in parte, una soluzione alla questione in esame. Secondo un illustre autore, il principio sotteso alla allocazione dei “profits” di cui all’art. 7 del “Modello”, avrebbe consentito, a fronte di un’impresa “globale”, l’utilizzo del c.d. “relevant 11
business approach”, ai sensi del quale: ”all that can be apportioned and attributed to the various permanent establishments of a multinational enterprise must come out of the ‘profits of the enterprise’ as a whole”. “It is only within this framework established by art. 7(1) that the arm’s lenght principle laid down in art. 7(2) may be applied. The aim of this principle is to ensure that the elements of profits of a multinational enterprise are attributed to its various permanent establishments in a manner taking account of who generated profits, that is, by looking at the contribution made by the individual partial units” 22. In sostanza, risultava recepito il principio della attribuzione alla “s.o” dei “profits of the enterprise as a whole”, e ciò non sulla base di asseriti parametri “routinari” ma in ragione del suo contributo funzionale. Da tale premessa conseguiva però che i rapporti “intra-company” potessero produrre “tax consequences” solo in quanto da essi si producesse un “segregable benefit” alla “s.o” e, al contempo, alla impresa considerata “as a whole”. Pertanto, tali “profits” risultavano attribuibili alla “s.o” sulla base delle sole operazioni da essa effettuate verso terzi. Tale inquadramento non precludeva quindi l’allocazione del “residual income” ovvero degli ”extra-profits”, per via diretta o per via consolidata, alla “ultimate company”. Esso, tuttavia, nel considerare le varie imprese associate quale soggetto economico unitario apriva l’ingresso alla teorica possibilità dell’utilizzo di un “fractional apportionment” dei “business profits”, ancorché tale metodo venisse considerato, ai sensi dello stesso art. 7 del “Modello”, come una eccezione, nell’assunto che esso fosse poco idoneo ad attribuire correttamente i “profits” dell’impresa a quelle sue parti che li avessero effettivamente generati. 7. - Il c.d. “functionally separate entity approach” L’OCSE, a partire dal 2008, ha di fatto “bandito” l’anzidetto metodo imponendo, nell’ambito di una sostanziale integrazione delle regole volte alla determinazione degli utili attribuibili alla “s.o”, il c.d. “functionally separate entity approach”. Tale approccio consiste nel tenere conto delle transazioni “intra-company” sulla premessa di una riconosciuta maggiore indipendenza della “s.o” rispetto alla “casa-madre” nonché rispetto alle eventuali altre entità del gruppo. In sostanza, la finalità dell’approccio in esame è quella di attribuire alla “s.o.” il reddito da essa generato tenendo conto del “valore economico” attribuibile alla attività funzionale dalla stessa svolta. Secondo il c.d. ”authorised OECD approach”23 gli “steps” consistono: 1) nell’ipotizzare, sulla base di una analisi funzionale, gli “assets, risks, capital structure and liabilities” che potrebbero essere ritenuti riconducibili alla “s.o.” ove essa fosse una “separate entity”; 2) nel valutare, tenendo conto dei fattori 22 K. Vogel, “On double taxation conventions”, Londra, 1998, p.433. 23 Cfr. il rapporto dell’Ocse in tema di “attribution of profits to the permanent establishment” (luglio 2010). 12
predetti, il reddito attribuibile alla “s.o” per le transazioni effettivamente svolte, applicando, al riguardo, il più appropriato “transfer pricing method” 24. Quegli stessi fattori che giustificavano l’allocazione del “residual profits” in favore della Stato della residenza della “casa-madre” vengono ora, ove “figurativamente” riferibili alla “s.o”, utilizzati per allocare tali “profits”, sub specie di “tax base”, in favore dello Stato della fonte, ossia quello in cui sia operante la “s.o.” medesima. Il principale tra gli indicati “drivers value” è stato considerato il fattore “rischio”; inoltre, poiché il rischio si è ritenuto gravare sempre su degli “assets”, questi ultimi si riterrebbero presenti dove si svolgerebbe la gestione del rischio, ossia dove opererebbero le persone “performing the significant functions”. “Labor, property and capital” sono dunque considerati i “macro fattori” cui collegare i “business profits”, e ciò in funzione del loro “peso” relativo. Tuttavia, l’approccio in esame si è rivelato non sempre idoneo, posto che “there are some significant cases in which the arm’s lenght principle is difficult and complicated to apply, for example in MNE groups dealing in the integrated production of highly specialized goods in unique intangible and/or in the provision of specialized services”25. Per fare fronte a tali problematiche è stata prevista la possibilità di utilizzare il c.d. “Transactional Net Margin Method” (TNMM”) ovvero il c.d. “Profits Split Method”, ossia criteri non già incentrati sulle “comparable transactions” ma volti in sostanza alla ripartizione di “profits” tra le “entity” interessate. Questi due metodi, ancorché facciano riferimento anche all’”arm’s lenght standard”, risultano, in definitiva, non del tutto distanti da una allocazione dei profitti sulla base di una formulazione matematica. Ad ogni modo, occorre osservare come l’orientamento prescelto dall’OCSE abbia, di fatto, consentito di “trasferire valore” da Stati ad “high level taxation” verso giurisdizioni con “low taxation regime”. Invece di arginare i fenomeni di “profit shifting” si è assistito ad un esiziale loro incremento reso possibile dal fatto che dei fattori selezionati per la attribuzione di “income”, quali, lo ricordiamo, il “rischio”, gli “assets” e le “funzioni”, si sfruttasse la “mobilità” ad essi intrinseca per realizzare, sulla base di “semplici contratti inter-company” ovvero di “internal dealings”, pianificazioni fiscali erosive della base imponibile degli Stati della fonte. 24 Il criterio del “valore normale” è stato originariamente introdotto a seguito delle OECD Transfer Pricing Guidelines (1979), le quali vennero approvate dall’OCSE solo nel 1995, poi con “minor updates” nel 2008 e 2009 e con “significant update” nel 2010. Nell’ambito del progetto BEPS ulteriori novità sono state contemplate per tenere conto dei nuovi “business models”. 25 “Transfer Pricing Guidelines”, OECD, Parigi, 1995, par. 1.8. Concetto ribadito anche nel documento in tema di “Review of comparibility and of Profits methods: revision of chapters I-III of the Transfer pricing Guidelines” (OCSE, 22 luglio 2010). 13
E’ potuto accadere così, tra le varie fattispecie elusive, che il reddito attribuibile alla “s.o.” (nella sua versione “personale”) fosse a somma zero (v. la c.d. “zero sum theorie”)26 ovvero che si alterasse l’operatività della “s.o. materiale” attraverso semplici artifici “giuridici” (v. i c.d. “commissionaire agreements”). Infine, deve darsi evidenza al ruolo svolto dai c.d. “intangibile assets”, ascesi a nuovi “drivers value” delle imprese organizzate sulla base di modelli di “business” con “impronta digitale” e che sono al centro delle principali “related transactions”. La valutazione e definizione della “ownership” di tali “assets” rappresentano complesse questioni da cui solitamente consegue la estrema difficoltà di determinazione del loro “valore” di trasferimento “infra-gruppo”. Ciò ha consentito alle imprese di sfruttare queste incertezze operando “tax planning” aventi ad oggetto gli “intangibles” con la complicità di Stati, tra cui quelli europei. Tra gli Stati stessi, dunque, vi sono quelli che, in cambio di “tax incentives”, hanno attratto società e investimenti senza curarsi della “profits erosion” ai danni di terze giurisdizioni conseguente a questi accordi. Gli “Advance Price Agreements” concessi ad alcuni potenti “gruppi multinazionali” hanno garantito degli speciali trattamenti fiscali agli utili formalmente prodotti in tali Stati o che transitavano al loro interno. Ciò ha indotto a reagire, oltre all’OCSE27, anche la Commissione UE, la quale ha cercato di contrastare tali fenomeni facendo applicazione della dottrina degli “Aiuti di Stato”, di cui all’art. 107 del trattato sull’Unione Europea: a comprova della difficoltà di affrontare altrimenti le indicate questioni sulla base dei vigenti assetti giuridici internazionali. 8. - L’allocazione della “tax base” nell’era della “new economy”: il c.d. “formulary apportionment method” A fronte del fallimento delle metodologie per l’applicazione dell’”arm’s lenght standard” nelle transazioni “intra-gruppo” e alla contestuale ascesa dei modelli di “business” della “new economy”, si è formata una corrente di pensiero favorevole ad una radicale diversa impostazione del problema in esame. Secondo i suoi fautori, l’allocazione del reddito alla “s.o” dovrebbe essere effettuata tenendo conto del fatto che essa, sotto il profilo economico, opererebbe per contribuire ai “profits” dell’attività d’impresa multinazionale, da intendersi quale “unitary business” in senso globale; pertanto, il reddito “attribuibile” a tale entità non potrebbe essere verosimilmente computato sulla base del “separate entity approach” (altrimenti detto “arm’s lenght method”) ma dovrebbe essere determinato 26 Cfr. A. Crazzolara, “OECD (2018), Additional Guidance on the Attribution of Profits to Permanent Establishments, BEPS Action 7. La determinazione dell’utile della stabile organizzazione personale”, in Rivista di diritto tributario, Fasc. n. 3/2018. 27 Le nuove “Transfer Pricing Guidelines”, pubblicate il 10 luglio 2017, contengono al capitolo VI le nuove regole sugli “intanglibles”, in recepimento delle azioni 8, 9, e 10 del “Final report Beps”. 14
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