ALGERIA: UNA TRANSIZIONE IMPOSTA DALL'ALTO - CESPI
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Algeria: una transizione imposta dall’alto di Mattia Giampaolo 1 LA RIVOLTA E LA CADUTA DEL RA’IS. Nel febbraio del 2019 milioni di algerini si sono riversati nelle strade del paese, per chiedere le dimissioni del presidente Bouteflika e impedirne la quinta candidatura alla guida del paese. L’ex presidente, da tempo malato, non compariva in pubblico se non per brevissimi momenti - da circa sei anni e la proposta della sua candidatura aveva scatenato la rabbia del popolo algerino che non si sentiva più rappresentato (né tanto meno governato) dal vecchio ra’is. Negli eventi pubblici cui il presidente avrebbe dovuto partecipare venivano allestite delle gigantografie che “sostituivano” la persona di Bouteflika. Con il tempo, l’ex ra’is era diventato per molti un fantasma di cui nessuno conosceva le reali condizioni di salute, alimentando i sospetti persino di una sua ipotetica morte. La grave crisi economica, che attanaglia da tempo il paese, e l’alto grado di corruzione del sistema politico hanno di fatto velocizzato quella spinta dal basso che da molto tempo covava all’interno della società algerina. La ricandidatura del presidente appariva come un mezzo per mantenere il potere clientelare del ristretto circolo alla testa del regime, composto soprattutto da membri della famiglia dello stesso presidente. –In particolare il fratello Sai‘id- e i membri del FLN (Fronte di Liberazione Nazionale) al governo dal 1962. Sotto la pressione della piazza e delle forze armate, nell’aprile 2019- a due mesi dall’inizio delle proteste - il presidente Bouteflika ha rassegnato le dimissioni, aprendo una nuova fase di transizione. TRA MILITARI E “VECCHIO” REGIME www.cespi.it cespi@cespi.it La fase di transizione è stata caratterizzata dal ruolo centrale dell’esercito, che ha di fatto preso il controllo politico del paese con l’obbiettivo di tutelare vecchi interessi persi sotto il regime di Bouteflika. La strategia dei militari, sin dalle prime battute, è stata molto chiara e ha puntato a costruire attorno al loro potere una serie di barriere istituzionali per proteggersi
da possibili capovolgimenti all’interno del vecchio regime. Nonostante i manifestanti chiedessero una nuova costituzione, l’esercito ha cercato di imporre il proprio potere per mantenere la vecchia costituzione, che assicurava agli apparati militari privilegi e piena autonomia rispetto al governo centrale, - soprattutto in termini di controllo del budget annuale per l’esercito e per la gestione della sicurezza nazionale -. 2 Una seconda mossa dei militari è stata quella di portare dalla propria parte il potere giudiziario così da poter rimuovere tutti quei giudici vicini alla “piazza” e proteggere coloro che si opponevano ad un cambiamento ai vertici governativi. Il legame con giudici e magistrati ha inoltre consentito all’esercito di attuare politiche repressive verso i manifestanti, permettendo alle forze di sicurezza di arrestare i principali attivisti protagonisti delle proteste e mettere a tacere le voci di dissenso. Il potere militare ha proseguito poi imponendo di fatto nuove elezioni che, a causa dell’assenza di una forte organizzazione popolare che si opponesse anche a livello politico, ha di fatto accelerato il processo di transizione politica, favorendo le forze politiche legate al vecchio regime. Un regime che, soprattutto negli ultimi anni, date le precarie condizioni di salute del suo presidente, ha rafforzato la fitta rete securitaria e politica con l’obbiettivo di controllare il dissenso interno. Già nel 2011, sulla scia delle proteste in Tunisia ed in Egitto, gli apparati governativi algerini, in seguito a sporadiche proteste nel paese, sono stati abili nel mantenere un discreto grado di sicurezza interna, che permettesse al regime di superare l’ondata rivoluzionaria. Alle rivendicazioni delle proteste, il regime ha risposto con riforme civili di facciata e con concessioni sociali per sedare il malcontento, grazie anche ad un uso pragmatico di tutte le istituzioni statuali, in particolare-magistratura e corte costituzionale. Le proteste che hanno animato il paese nell’ultimo anno e mezzo hanno per contro aperto il “vaso di pandora” algerino. I partiti politici di opposizione, - sia quelli di matrice islamista che quelli di matrice “laica” -, che fino ad allora avevano mantenuto pragmaticamente un filo diretto con il regime, hanno perso di fatto la poca legittimità politica che era loro rimasta. La piazza è diventata così il nucleo dell’opposizione politica, facendo crollare quell’apparato politico- istituzionale che aveva sostenuto il regime fino allo scoppio delle proteste. Il regime è riuscito tuttavia a ricalibrare dall’alto il suo
potere, incidendo sulle scelte politiche del post-Bouteflika. In questo passaggio, emblematiche sono le biografie dei quattro candidati alle presidenziali, tutti ex figure di spicco dei vari governi Bouteflika, come il suo ex primo ministro - oggi neo-presidente della Repubblica - Abdelmajid Tebboune, o Abdelqader Bengrina, ex ministro del turismo. Lasciati completamente fuori dagli ambienti decisionali, i 3 manifestanti hanno deciso, anche sulla base della lezione appresa con le proteste del 2011, di rioccupare la piazza e di boicottare le elezioni, dimostrando quanto il governo avesse scarsa legittimità popolare e fosse fortemente condizionato dalle pressioni dei militari. UNA TRANSIZIONE SENZA PIAZZA Gli algerini non hanno ceduto e non hanno accettato la transizione imposta dall’alto, e i numeri delle elezioni presidenziali ne sono la dimostrazione. Nonostante il forte desiderio di democrazia e cambiamento all’interno del paese, le elezioni del dicembre 2019 hanno dimostrato il livello di dissenso: solo il 40% degli aventi diritto si è recato infatti alle urne. La piazza animata dal movimento di protesta Hirak - contrario all’establishment attuale - ha portato avanti, durante tutto il periodo elettorale, il boicottaggio delle elezioni stesse e l’accusa diretta ai quattro candidati di essere vicini al vecchio regime e ai vertici delle forze armate . Nonostante le differenze ideologiche all’interno della piazza, la transizione così imposta ha di fatto rinsaldato le fila dei manifestanti, evitando “matrimoni a tempo” tra deep State e parte dei movimenti - come accaduto in Egitto tra Fratelli Musulmani ed esercito nei mesi successivi alla rivolta del 2011- che avrebbero potuto portare anche ad un’escalation della violenza. Il carattere pacifico delle proteste, soprattutto per i traumi ancora impressi nella memoria degli algerini dal decennio nero della guerra civile, ha di fatto evitato divisioni all’interno della piazza e uno scontro violento con il regime, che tuttavia ha approfittato della reazione pacifica dei manifestanti per condurre azioni repressive contro di loro. In quest’ultimo periodo, segnato dalla crisi del Covid-19, il governo ha effettuato una serie di arresti tra i ranghi degli attivisti di spicco, aumentando ulteriormente le distanze politiche già presenti. La crisi del Covid-19 ha inoltre aperto un altro scottante problema - messo in risalto proprio dall’emergenza - relativo ai servizi sanitari del paese, provocando un
ulteriore inasprimento delle misure repressive del governo. Come per altri governi della regione, la crisi del Coronavirus sembra essere un duro banco di prova. La guerra dei numeri dei contagi e la tenuta dei già precari sistemi sanitari, messi in difficoltà da anni di politiche di austerità, risultano veri e propri crash test per i vari esecutivi. 4 Se da un lato si può affermare che il movimento di piazza algerino, a differenza dei suoi corrispettivi regionali, soprattutto egiziani, è riuscito a portare avanti le proteste e a non “accontentarsi” della caduta dell’uomo simbolo del vecchio regime, dall’altro è anche vero che sino ad oggi, tra le fila del movimento di piazza, non è emersa una forte organizzazione in grado di proporre una vera alternativa politica e, soprattutto, economica per il futuro del paese. Quello che sembra mancare ai movimenti di piazza è la presenza di un soggetto politico capace di dettare alternative programmatiche alla transizione. Se il carattere acefalo delle proteste, - per quanto non manchino figure di riferimento all’interno del movimento algerino, - potrebbe essere visto come un indicatore di una forte democrazia interna, dall’altro l’assenza di struttura riduce l’azione politica del movimento ad una mera ripetizione, che porterà all’abbandono da parte della piazza. LA SFIDA ECONOMICA E IL POSSIBILE RITORNO “FISICO” DELLA PIAZZA. I tagli annunciati dal neo-presidente Tebboune alla spesa pubblica, in seguito alla caduta del prezzo del petrolio -si parla di circa 15 miliardi di dollari, pari a circa il 25% della spesa pubblica - hanno generato ulteriore malcontento tra la popolazione. L’Algeria, insieme agli stati del Golfo e alla vicina Libia, fa parte di quei paesi che hanno basato l’intera economia nazionale sugli introiti del greggio. Le rendite del petrolio coprono, secondo le stime ufficiali, circa il 70% del budget annuale, e la crisi dei prezzi e il calo delle esportazioni hanno fatto sprofondare l’economia algerina. Le politiche economiche incentrate sui tagli ai servizi pubblici, soprattutto in una fase di emergenza come questa, potrebbero in qualche modo far tornare il paese ad una condizione pre-rivoluzionaria, determinando un maggiore ricorso all’uso della forza contro gli oppositori. Per ora, a causa del lockdown, le piazze restano di fatto vuote. Tuttavia, la battaglia contro il governo continua sui social network e con le reti di solidarietà che i vari movimenti della piazza hanno attivato per far fronte alle gravi carenze dello stato, soprattutto nelle zone più marginalizzate.
Nonostante ciò non è scontato che la piazza possa tornare ad animarsi, anche fisicamente, nel prossimo periodo così come è successo nelle ultime settimane, nonostante i divieti di assembramento, sul fronte rivoluzionario libanese. 5 Piazza Venezia 11 00187 Roma
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