ALEKSANDR SVECHIN E LA SCUOLA - MILITARE RUSSA di O.G.

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ALEKSANDR SVECHIN E LA SCUOLA
MILITARE RUSSA di O.G.

                                                          “Il
grande stratega militare Alexander Svechin una volta ha
scritto: “Per ciascuna guerra è necessario elaborare una linea
differente di elaborazione strategica”. Ogni guerra è un caso
unico, che richiede il superamento dello schema predefinito…Il
nostro Paese ha pagato con fiumi di sangue il non aver dato
ascolto a questo professore dell’Accademia dello Stato
Maggiore”.

Valerij Gerasimov, attuale generale capo di stato maggiore

Nel precedente articolo in cui si accennava alla Guerra
Liminale (1) non ci si poteva soffermare come dovuto sul
pensiero di Svechin. La Russia, nel ‘900, ha prodotto la più
avanzata scienza matematica, con la “Teoria del Caos”, con la
“Teoria dei Sistemi Complessi” (Andrej Nikolaevic Kolmogorov,
Pavel Aleksandov e il famoso teorema KAM) e la più avanzata
scienza militare. Sul piano dell’arte militare prima con la
“guerra lampo” attuata dall’offensiva Brusilov del 1916
(Брусиловский прорыв) – plagiata in seguito dallo Stato
Maggiore nazionalsocialista tedesco – poi con la teoria della
Guerra di difesa e di resistenza nazionale di Svechin, che è
antagonista alla dottrina della “guerra lampo”, il pensiero
strategico russo fa enormi passi in avanti.

Svechin era solito definirsi un “ideologo della nazione
russa”, non un burocrate. La figura storica di Svechin è una
dignitosa personificazione del fatto che la tradizione
pedagogica, culturale e morale del corpo degli ufficiali russi
ha fortissime radici storiche; le forze armate russe, a
differenza della maggior parte delle forze militari delle
altre potenze, sono intrinsecamente politiche. E’ fuori dalla
portata della realtà storica la definizione invalsa nei
circoli accademici militari occidentali di Svechin come del
“Clausewitz russo”. Quest’ultimo influenza decisamente tuttora
le narrazioni ideologiche delle “tecnocrazie” militaristiche e
militarizzate che, nelle loro forze di sicurezza nazionale
dalla Cina all’Occidente, molto debbono appunto al Clausewitz
(2).

Svechin, nonostante le sue ricerche sulla scuola militare
prussiana e nonostante la sua biografia di Clausewitz in cui
non nasconde l’ammirazione per quest’ultimo, non è un
militarista e non segue il modello sociale e civile
dell’egemonismo militaristico in ambito politico-civile. Nel
concetto sveciniano della guerra moderna è molto più
importante il pensatore Hans Delbruck, uomo politico
nazionalista prussiano, piuttosto che il Clausewitz. Svechin
non a caso rifiuta il concetto di “guerra totale”, la sua
concezione anticipa le odierne tesi strategiche fondate sulla
pratica della “guerra liminale” o “guerra ibrida”; la “guerra
senza limiti” praticata da decenni dalle forze militari
cinesi, con notevole successo almeno sino a oggi, è invece
chiaramente clausewitziana avendo reso l’economia, la
tecnologia, la cultura igienico-sanitaria un privilegiato
campo di battaglia militare geopolitico e trascendendo
sistematicamente e astrattamente la fase propriamente
politica.

Brevi cenni storici e strategici della vita e del pensiero di
Svechin    Aleksandr Andreyevich Svechin nasce a Odessa
nell’anno 1878, ma il giorno di nascita è oscuro, talune fonti
riportano il giorno di nascita del 7 aprile, altre quello del
17 agosto. La sua è una famiglia militare, il padre conclude
la carriera come generale dell’esercito imperiale russo. A 17
anni il giovane Svechin si diploma al “secondo corpo cadetti”,
a 19 anni nella I° categoria della scuola di artiglieria
Mikhailovsky. Dal 1903 inizia a far parte dello Stato Maggiore
Imperiale e pubblica regolarmente saggi su problemi
strategici, con pseudonimo o più abitualmente con le sole
iniziali AS. Partecipa al conflitto russo-giapponese del 1904-
1905. Un bollettino dell’archivista della truppa da campo
riporta: “Nella notte sul fiume Yalu nelle vicinanze di Y-
chzhu e Shakhedza tra il 13 e il 14 aprile il 22° reggimento
fucilieri della Siberia orientale…perde il tenente capo
Semenov. Allo stesso tempo, il capitano Svechin, inviato sulla
sponda opposta del fiume dello stato maggiore, scoprì la
presenza di un grande campo nemico a sud di Yi-zhu”.

Nel giugno 1907 Alexander sposa Irina Viktorovna che si situa
anche lei su posizioni di patriottismo russo molto spinto. Nel
corso del primo conflitto mondiale viene insignito dell’Arma
di San Giorgio (1916) per il fatto di “essere comandante del
reggimento nominato con il grado di colonnello nella battaglia
del 17 agosto 1915, mentre ristabiliva la posizione che
avevamo perso il giorno prima…attaccò rapidamente con il suo
reggimento….ribaltando il reggimento di fanteria tedesco”. Il
suo ultimo grado nell’esercito imperiale zarista è quello di
maggiore generale.

Svechin è probabilmente l’unico ufficiale nella storia
dell’esercito monarchico russo ad essere messo in prigione
militare su ordine diretto dell’imperatore a causa di un
articolo molto critico riguardo alla strategia del monarca.

Alexander ha un carattere particolare: pur rispettando da
militare le gerarchie, non esita a bollare come “anti-
nazionale” il lassismo e la corruzione di certe figure vicine
all’imperatore Nicola II. Rifiuta promozioni e innalzamenti di
grado, non è particolarmente sensibile alle lusinghe,
caratterizza la sua missione sia durante la monarchia che
sotto come quella di “un piccolo soldato della Santa madre
Russia”.

Con la rivoluzione russa e la nascita del regime sovietico,
Svechin seguendo le direttive del Ministero della Guerra passa
dalla parte dei bolscevichi. Questo fatto è dovuto a due
eventi politicamente molto importanti. Il primo è
rappresentato dall’indubbio carisma militare di Trockij, il
quale è molto abile e furbo nel teorizzare di fronte ai
migliori ufficiali e generali patrioti o nazionali che il
nuovo stato sovietico saprà anzitutto lottare per il bene
della   nazione   russa,    ben  più   che   per  quello
dell’internazionalismo proletario comunista (3). Il secondo
elemento è spiegato da Pavel Miljukov, leader dei “cadetti” –
il partito democratico costituzionale – che legge l’ingresso
di militari nazionali del rango di Svechin nelle fila
bolsceviche come una vendetta storica e politica per la
sconfitta politica del “nazional-patriota” bianco Lavr G.
Kornilov, ucciso a Ekaterinodar il 13 aprile 1918. Dalle fonti
emerge che Svecin era da una parte un grande sostenitore del
“nazionalista” Kornilov, durante il governo provvisorio
sostiene su tutta la linea la “ribellione di Kornilov”, e che
dall’altra avrebbe deciso di passare con i bolscevichi proprio
tra la fine di marzo e aprile nell’imminenza della fine del
“sogno” korniloviano. Da agosto a dicembre 1918 dirige lo
stato maggiore. Già nel 1919 iniziano però i problemi dello
stratega russo; in seno al partito bolscevico si fa strada la
presenza di un fronte militare patriottico anti-universalista
che starebbe conquistando dall’interno l’Armata rossa, il
trockista Grigorij Jakovlevič Sokolnikov denuncia un progetto
“bonapartistico” e ultra-nazionalista che sarebbe guidato dal
generale Svechin. Tuchacevskij rincara la dose definendo
Svechin un teorico antimarxista, agente del nazional-
patriottismo e nemico della rivoluzione mondiale.

Per quanto vi possano essere esagerazioni e lotte di frazione
è indubbio che Svechin cospiri in qualche modo per portare il
nazionalismo russo in posizione di supremazia ideologica
interna. Dalla fine del 1918 sino alla fine degli anni ’20 è
docente a tempo pieno presso l’Accademia militare dell’Armata
rossa. Il fratello di Aleksandr, frattanto, anche lui un
militare, unitosi all’esercito bianco durante la guerra civile
dopo la rivoluzione fa parte della grande “emigrazione bianca”
che abbandona la Russia. Il concetto nazionalista e
sorprendentemente attuale, moderno, di “difesa strategica”,
che negando il concetto clausewitziano di “guerra totale”
supporta la pratica della guerra liminale ai fianchi, sino
all’esaurimento delle risorse strategiche o informative
dell’avversario, è destinato a non fare proseliti in ambito
bolscevico, nemmeno allorquando si impone l’egemonismo teorico
del “socialismo in un solo paese”.

1914 poco dopo l’inizio del conflitto
mondiale: foto di gruppo di elevati
esponenti dell’elite militare russa. A.
Svechin è il primo da sinistra.

Uno degli strateghi sovietici per eccellenza è l’offensivista
Tuchaveskij e il modello strategico sovietico, anche dopo
l’esecuzione del futuro maresciallo, rimane questo stesso.
Quando nel 1930 Svechin si trova in prigione, il futuro
maresciallo Tuchaveskij lo attacca pubblicamente e rimaneggia
un significativo opuscolo che viene diffuso tra le elites
militari: “Contro le teorie reazionarie sul fronte militare.
Critica delle visioni strategiche del Professor Svechin”. Il
paradosso è che nel corso degli anni Trenta, Tuchaveskij
coltiva come Stalin il progetto di unità strategica russo-
tedesca che Svechin, ben più realista sul piano geopolitico,
dichiara impossibile non solo perché sa che da Bismarck al
Fuhrer, il Pangermanismo vede la Russia come l’“Africa
tedesca” (la definizione è appunto del Bismarck) ma anche
perché sostiene apertamente che, come già nella prima guerra
mondiale dominò la linea nazionale su quella economicista di
classe, il proletariato europeo non si farà problemi di alcun
tipo a combattere contro quello sovietico, o viceversa, nel
sacro nome della Nazione.

Svechin contesta, come fece del resto lo stesso Trockj,
l’offensiva sovietica ordinata da Lenin, condotta, tra gli
altri, dallo stesso Tukhacevskij, già nella campagna di
Polonia nel 1920.

Nel mondo odierno, in cui le tesi di Samuel Huntington, che
non vanno assolutamente confuse con i neocons o con le folli e
criminali guerre senza fine di Bush e Blair, e quelle di
Eisenstadt S.N. sulle modernità nazionali multiple de-
secolarizzate e differenziate, sono le più significative per
comprendere i nostri giorni, la figura teorica dello stratega
russo emerge come quella di un autentico luminare padre
putativo.

Svechin nel 1926, quando la memoria della guerra civile in
Russia è ancora molto fresca, arriva alle seguenti
conclusioni. Anzitutto, nella premonizione sveciniana la
seconda inevitabile guerra non sarà che una continuazione
della prima e non un fatto a se stante, l’esercito nipponico
sarà all’offensiva, vengono predette con gran precisione sia
Pearl Harbor sia l’uso massiccio dell’aviazione da parte
giapponese, è in atto il grande risveglio storico dell’Oriente
che caratterizzerà i futuri secoli; le opere di Svechin
vengono da allora bandite sulla stampa aperta sovietica, in
quanto il comando di intelligence dell’Armata rossa ha fondati
timori che i militari in Giappone, dove conoscono bene
Svechin, potrebbero trarne utili conclusioni (4).

Taluni ricercatori russi dei nostri tempi vedono una
prefigurazione di Danzica ’39 in un passo dello Svechin
riguardante il confine polacco come fattore di instabilità
permanente che avrebbe portato alla guerra, ma si tratta di
una evidente forzatura. Il generale russo pensa a una guerra
Occidente versus Oriente ben al di là del marginalissimo
contenzioso polacco. Svechin contesta apertamente il
pressapochismo strategico staliniano secondo cui la guerra si
combatterà in territorio straniero, non toccherà minimamente
il territorio russo grazie al sostegno delle classi operaie
dei paesi occidentali; la teoria staliniana “poco sangue
interno e guerra rapida” è sconfessata su tutta la linea da
Svechin. Quest’ultimo prevede anzi che il nemico arriverà alle
porte di Mosca – inizialmente pensa all’imperialismo francese
ma poi, già prima della presa del potere nazionalsocialista,
vira sulla marcia verso oriente del pangermanismo anche se non
scarterà mai convintamente la pista francese- e che impostare
la difesa strategica su Leningrado, proprio ciò che farà
Stalin, sarebbe una follia in quanto gli svantaggi della
posizione strategica della città di Lenin sono ulteriormente
esacerbati dalla sua distanza dalle fonti di carburante, grano
e materie prime; il generale invita genialmente il potere
sovietico, che per ricompensa lo spedisce di nuovo nei Gulag
nel febbraio 1931 (“Caso Primavera”) dopo il precedente
arresto del 1930, a spostare la produzione industriale negli
Urali e nelle regioni orientali più distanti dai confini
occidentali.

Tutto ciò sarà imposto dal regime stalinista a costo di un
numero innumerevole di vittime dal ’41, ben circa 15 anni dopo
la prudente premonizione di Svechin. Infine Svechin, poco
prima della morte, con una veridica concezione politica
patriottica, afferma con sorprendente percezione del reale
storico, rara capacità di comprensione (e ancora una volta in
sintonia con Trockj) che la Russia avrebbe trionfato in tutti
i conflitti basati sulla “resistenza nazionalista” (5) o sulla
guerra di difesa mentre sarà sconfitta in tutte le guerre
d’avanzata o proiezioni offensive.

Allo stadio attuale, la Russia non sta facendo guerre
offensive dal ’79 afghano. Piccolo necessario excursus, la
presenza dei Wagneriani russi in Siria, in Africa, in Donbass
non può essere considerata una forma di guerra offensiva o
“imperiale” in quanto i soldati russi sono stati direttamente
chiamati dai ministeri della difesa o degli interni dei paesi
teatri di conflitto.

L’antiuniversalismo radicale e il non eurasianesimo del
“Gruppo Wagner” emergono tra l’altro da un foglio educativo
interno trovato in Mali pochi mesi fa dalla BBC, foglio diviso
in 7 punti, dove i concetti di “mito russo”, “sacrificio
russo”, gloria russa”, “nazione grande-russa”, sono
costantemente, metodicamente ribaditi sopra e contro ogni
altro elemento concettuale o storico. Non vi è altro motivo di
sacrificio che il “mito nazionale russo”, dunque, per il
wagnerismo.

Tornando a Svechin, il generale vive gli ultimi anni della sua
breve ma intensa vita al numero 34 della Sofiyskaya embankment
app. 116. Gli vengono sequestrati, poco prima dell’arresto del
’37, i 1800 voll. della biblioteca, molti dei quali
riguardanti discipline matematiche e filosofiche, altri
specifici di arte militare e strategia. I testi di storia del
fascismo italiano presenti nella biblioteca, sottolineati, con
appunti del generale, attesterebbero per gli inquisitori
staliniani “l’ultra-nazionalismo” svecinista! Questi volumi
non saranno peraltro mai restituiti alla famiglia. Oggi i
moscoviti che passano di fronte al n. 34 di Sofiyskaya nab.
non osano immaginare che qui visse uno dei più grandi eroi
nazionali della millenaria storia russa. Svechin è arrestato,
sarà il suo ultimo arresto…!, il 30 dicembre 1937, non si fa
più alcuna illusione, è nell’elenco, n. 107, dei 139 militari
del Centro di Mosca accusati di preparare una “cospirazione
militare fascista e ultra-nazionalista”. Tutti i 139 sono
soggetti a condanna categoria 1°, ovvero esecuzione rapida.
L’ordine di esecuzione di Svecin, caso unico tra i 139, è
firmato direttamente da Stalin e Molotov. Il generale Svechin
è fucilato il 29 luglio 1938 nel villaggio di Kommunarka, già
poligono di tiro per le forze armate, regione di Mosca e ivi
sepolto. I giorni precedenti alla imminente fucilazione vedono
un uomo tranquillo, attivo, pronto al suo destino. Nei momenti
immediatamente precedenti alla fucilazione il generale indossa
la divisa militare, si segna sul corpo con la mano destra, al
modo di Cristo, fa appena in tempo a gridare al cielo “Viva la
Russia immortale” prima che gli schizzi copiosi di sangue
ondeggianti sulla divisa e sull’erba volino infine
nell’atmosfera e divengano sul piano invisibile, ma concreto,
mito russo.

La schizofrenia del regime che uccide il generale è tale che
appena un anno dopo aver martirizzato l’ “ultra-nazionalista
fascista” Svechin lo stalinismo corre ad abbracciare il
nazionalsocialismo tedesco coprendogli costantemente le spalle
nella conquista d’Europa. Svechin, che aveva predetto la
ascesa al potere mondiale del nazionalismo orientale
giapponese, il risveglio storico di Cina, India e Persia e
l’inevitabilità del conflitto, su base nazionale non
ideologica, tra Urss e Germania, non c’è ormai più quando il
Fuhrer lancia, nel giugno ’41, l’Operazione Barbarossa e il
tentativo di conquista di Mosca.
Stalin calpestando la dottrina marxista e ogni utopismo
internazionalistico ritira fuori la lezione di Kutuzov e
dell’eterna nazione russa. E’ la stessa teoria della “difesa
strategica” come assoluto nazionale, la teoria sveciniana
negata dalla strategia sovietica sino a un attimo prima ma
infine imposta dai fatti. Solzenicyn dirà: “con la lunga
guerra di resistenza patriottica, buttammo finalmente nel
fosso la bandiera rossa. E vincemmo”. Non è stata sufficiente
nemmeno questa manifestazione storica straordinaria – “una
pura esplosione di amore per la nostra patria, niente altro
che questo!” dice sempre Solzenicyn – perché stalinisti e
sovietici abbandonassero finalmente il messianismo globale ed
astrattamente universalistico. La patria russa, a parte il
famoso brindisi al popolo russo, sempre in seconda linea.

Svechin e la Russia di oggi. Il problema identitario.      La
visione secondo cui una Russia strategicamente nazionale e
difensivistica vincerà tutti i conflitti esterni, una
universalistica o imperiale li perderà tutti, costituisce un
punto strategico e tattico assolutamente attuale del pensiero
sveciniano, che sarà ripreso nel contesto odierno solo da
Solzenicyn, che si sofferma su Svechin nel ciclo “La ruota
rossa”; lo scrittore di “Una giornata di Ivan Denisovic” si è
più volte richiamato al pensiero storico, politico e militare
sveciniano, la sua proposta politica nazionalista grande-russa
degli anni ’90 è certamente neo-svecinista e proprio negli
anni ’90 spinge i ricercatori di storia militare russa alla
ripubblicazione integrale delle opere del generale (6).

Per quanto oggi la Russia tenti con alcune sue fazioni di
integrare i concetti strategici sveciniani all’interno della
“guerra liminale” (da Limen, Soglia, non da Limes, Confine),
Svechin non gode in patria dell’importanza che meriterebbe. Se
nel sito dell’Accademia militare americana di West Point
compaiono nella biblioteca online le maggiori opere
sveciniane, nelle biblioteche di molte scuole militari russe
vi è ancora spazio per le opere militari di Friedrich Engels,
un pensatore che per usare un eufemismo non aveva eccessivo
amore verso il popolo russo e ivi il nome di Svechin non
compare quasi mai.

Il presidente Putin, che ha coraggiosamente riabilitato nobili
figure, ma quantomeno assai divisive per la memoria
identitaria russa, come Ivan Ilyn, Nikolaj Berdjaev, Lev
Gumilev, Aleksandr Solzenicyn, Anton Denikin e Aleksandr
Vasil’evic Kolcak, non ha invece mai parlato di Svechin,
figura al massimo grado unificatrice del patriottismo grande-
russo, molto simile per taluni specifici versi a quella eroica
e straordinaria del martire nazionale russo Pavel Florenskij.
In questo senso ha sicuramente ragione Sergio Romano, se
esiste una ideologia di Putin i suoi massimi riferimenti sono
effettivamente Lev Gumilev e Dughin (7). Ciò non significa,
naturalmente, che Vladimir Putin prenda lezioni da Dughin o
che la Russia odierna sia esclusivamente eurasiana, ma di
fatto tra una proiezione nazionale grande-russa o quella
eurasiatica Putin sembra aver concretamente privilegiato
quest’ultima via. Le stesse elite della Chiesa ortodossa russa
e del patriarcato di Mosca sono strategicamente di tendenza
eurasiana, probabilmente vedono inverarsi i tempi prefigurati
nel romanzo “L’anno 4338” del principe Vladimir Odoevski,
scritto nel 1835 ma che già prevedeva i computer, i voli
spaziali e i viaggi aerei, le fotocopiatrici, la dissoluzione
interna d’Europa, il primato mondiale di cinesi e russi.

Se vi è però un elemento di estrema debolezza da non
trascurare nell’odierna azione di Stato putiniana è
rappresentato dal fatto che, nonostante tutti sforzi
dell’amministrazione, non si è stati capaci di arrestare quel
declino demografico russo che ha avuto inizio dall’epoca
sovietica e che non si è più fermato. C’è chi già parla, forse
estremizzando tendenze che sembrano comunque sempre più
invadenti, di un irreversibile inverno demografico russo che
non lascerebbe spazio che al peggiore pessimismo (8).

La visione proposta da Vladimir Putin riguardo alla cultura
nazionale del Paese sembra molto equilibrata, differenziando
correttamente un patriottismo nazionale identitario, positivo,
da un nazionalismo regressivo e contestando lo slogan “la
Russia ai russi” come pericoloso per il destino della nazione,
storicamente multietnica e multiculturale (17.02.21). Corretto
e sacrosanto, ma ancora di più degno di nota il fatto che il
maggior rischio strutturale della Russia di questi tempi è
incarnato dal fatto che dopo essere riuscita nella
difficoltosa impresa di aver debilitato e demistificato il
progetto globalista a trazione anglo-americanista, la nazione
si trovi privata di quel prezioso patrimonio morale giovane e
dinamico, indispensabile nella sempre più stringente Guerra
Liminale tra superpotenze.

Senza voler riportare in auge il famoso slogan “il numero è
potenza”, il potere globale cinese e indiano qualcosa dovranno
pure al fatto in questione, così come la sorprendete
resistenza iraniana al globalismo qualcosa deve pure al fatto
di essere quello persiano un popolo tra i più giovani che vi
siano.

Il risveglio identitario della nazione russa associato
nell’era putiniana a quello dei popoli eurasiatici non ha
purtroppo   incentivato uno sviluppo demografico e un sano
rinnovamento endogeno, tutt’altro ed è stato per taluni versi
anche alla base della pesante ritirata da Kiev.

In conclusione, la guerra di resistenza patriottica, la guerra
sveciniana dei tempi odierni è, in primo luogo, per ciò stesso
guerra assoluta identitaria: conflitto ibrido e liminale per
la conservazione identitaria e per una nuova affermazione e
manifestazione del mito identitaristico. In tal senso va detto
chiaramente che se volessimo oggi radicalizzare la prospettiva
nazionale svecinista, una eventuale alleanza strategica tra
Russia e Cina sarebbe il più grande tradimento della grande
lezione storica dello Svechin. Avrebbe lo stesso infausto
significato, mutatis mutandis, del Ribbentrop-Molotov!
La Resistenza e la qualità della resistenza nella logica della
guerra liminale svecinista è data infatti dalla concentrazione
assoluta, identitaria, della forza morale militare. Al tempo
stesso, lo stratega russo deriderebbe chi oggi si perde in
astrazioni e in fumisterie su presunte guerre spaziali,
centrali e decisive. Svechin è ancora lì a insegnare che solo
il sangue e il sacrificio, oltre alle fondamenta economiche e
sociali basate sul Lavoro concreto e sulla modernità ben
impostata, portano avanti una nazione o una comunità.
Disperdere totalmente le proprie energie strategiche in
presunte guerre spaziali o macchiniche è infatti il modo
migliore per dichiararsi sconfitti senza guerreggiare. I
combattenti nazionali debbono lottare e essere pronti ogni
momento alla lotta, ciò ci dice Svechin. Non avere una elite
di tal tipo significa essere i sauditi dei nostri tempi.
Meglio sarebbe essere i ribelli Houthi, allora, come i fatti
storici e geopolitici ci rivelano ancora una volta.

Chi non ha identità nazionale sparisce, sempre più è, e sempre
più sarà la legge principale della politica internazionale. Il
discorso di Putin di Monaco del 2007 aprì una nuova epoca
storica e pose le basi della fine del Globalismo anglosassone.
Il discorso del presidente russo del 2021 a Valdai,
quattordici anni dopo Monaco, discorso storico al pari di
quest’ultimo, pone le basi del nuovo ordine politico
internazionale, tutto fondato sulla missione degli spiriti
nazionali e sulla incipiente neo-nazionalizzazione
identitarista. Tale orientamento dovrebbe al riguardo essere
indicativo di una nuova strategia russa, fortemente
identitaristica appunto, dopo la definitiva morte del
globalismo anglosassone e occidentale decretata proprio dal
discorso “nazionale” putiniano a Valdai, appena pochi mesi fa.
Un identitarismo russo che potrebbe da ora in poi basarsi su
una pedagogia di massa assolutamente e organicamente
nazionale-patriottica e non messianica, superando qualsivoglia
tentazione storica o storiografica di eccessiva positività
attribuita alle precedenti esperienze universalistiche
(zarismo, comunismo), continuando perciò sentimentalmente a
descrivere dostoevskianamente i russi come coloro i quali si
sarebbero sacrificati per il mondo, per poi ritrovarsi però
sempre a terra impietosamente sconfitti nei momenti decisivi,
17’ o 89’ che sia.

E’ tempo di Rinascita della Grande Russia, come dicono i
volontari nazionali wagneriani presenti nei vari continenti
nel nome della patria amata.

Gli europei non vogliono i russi, i cinesi in fondo
disprezzano i russi, gli anglosassoni vedono nella Russia
odierna un nemico strategico? Non è forse un meraviglioso
punto di forza, nella logica matematica dell’effetto farfalla,
cosa c’è da recriminare? Non significa forse questo che la
Russia è all’avanguardia oggi, timidamente seguita solo da
India e Iran? La Russia è più avanti di tutte le altre nazioni
nell’esperienza storica, tragica e ammonitrice, di tale
evidenza del fallimento inevitabile di ogni forma di
universalismo, ha detto proprio Putin a Valdai rivolgendosi ai
signori di Davos e del Pentagono. Aleksandr Svechin, il nome
del Mito russo grande come quello di Kutuzov, rimane il
capitale più prezioso in tale direzione. E’ perciò ancora tra
noi. Sette vite per Aleksandr Svechin, mille anni per la
Grande Russia.

NOTE

       IL MONDO VISTO DALLA RUSSIA di O.G. (sollevazione.it)
       Anche Lenin stratega fu, a differenza di Svechin,
       decisamente seguace del Clausewitz. V. Sorine, nella
       “Pravda” n. 1 del 1923, scrisse nell’articolo “Marxismo,
       Tattica, Lenin” che il leader bolscevico sosteneva il
       principio che “la tattica politica e la tattica militare
       sono due campi quasi identici….perciò i militanti del
       Partito studieranno non senza frutto le opere di
       Clausewitz”.
       Radek, Portrety i pamflety, Ritratti ed opuscoli, Mosca
1927, p. 33.
Svechin, Postizhenie voennogo iskusstva, Comprensione
dell’arte militare, Accademia Militare Mosca 1999, pp.
303 e sgg.
Sappiamo che il concetto politico di “nazionalismo”
nella Russia dei nostri giorni può essere problematico e
potrebbe ideologicamente rimandare alla nota marcia del
4 novembre in cui a fianco dei “neo-zaristi” marciano
anche i suprematisti etnici, pericolosi politicamente e
ben distanti dal concetto di coscienza nazionale russa.
Il concetto di “patriottismo”, per altri versi
certamente più corretto, non è però di per sé indicativo
di quell’Unione grande-russa sempre più storicamente
necessaria per impedire la catastrofe demografica e la
possibile estinzione culturale russa.
A. Svechin, Op. Cit., p. 690.
Romano, Putin e la ricostruzione della Grande Russia,
Milano 2016, pp. 81-86.
Россия заглянула в демографическую пропасть: Население
сократилось рекордно за 15 лет | 28.01.21 | finanz.ru
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