ALEKSANDR SVECHIN E LA SCUOLA - MILITARE RUSSA di O.G.
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ALEKSANDR SVECHIN E LA SCUOLA MILITARE RUSSA di O.G. “Il grande stratega militare Alexander Svechin una volta ha scritto: “Per ciascuna guerra è necessario elaborare una linea differente di elaborazione strategica”. Ogni guerra è un caso unico, che richiede il superamento dello schema predefinito…Il nostro Paese ha pagato con fiumi di sangue il non aver dato ascolto a questo professore dell’Accademia dello Stato Maggiore”. Valerij Gerasimov, attuale generale capo di stato maggiore Nel precedente articolo in cui si accennava alla Guerra Liminale (1) non ci si poteva soffermare come dovuto sul pensiero di Svechin. La Russia, nel ‘900, ha prodotto la più avanzata scienza matematica, con la “Teoria del Caos”, con la “Teoria dei Sistemi Complessi” (Andrej Nikolaevic Kolmogorov, Pavel Aleksandov e il famoso teorema KAM) e la più avanzata
scienza militare. Sul piano dell’arte militare prima con la “guerra lampo” attuata dall’offensiva Brusilov del 1916 (Брусиловский прорыв) – plagiata in seguito dallo Stato Maggiore nazionalsocialista tedesco – poi con la teoria della Guerra di difesa e di resistenza nazionale di Svechin, che è antagonista alla dottrina della “guerra lampo”, il pensiero strategico russo fa enormi passi in avanti. Svechin era solito definirsi un “ideologo della nazione russa”, non un burocrate. La figura storica di Svechin è una dignitosa personificazione del fatto che la tradizione pedagogica, culturale e morale del corpo degli ufficiali russi ha fortissime radici storiche; le forze armate russe, a differenza della maggior parte delle forze militari delle altre potenze, sono intrinsecamente politiche. E’ fuori dalla portata della realtà storica la definizione invalsa nei circoli accademici militari occidentali di Svechin come del “Clausewitz russo”. Quest’ultimo influenza decisamente tuttora le narrazioni ideologiche delle “tecnocrazie” militaristiche e militarizzate che, nelle loro forze di sicurezza nazionale dalla Cina all’Occidente, molto debbono appunto al Clausewitz (2). Svechin, nonostante le sue ricerche sulla scuola militare prussiana e nonostante la sua biografia di Clausewitz in cui non nasconde l’ammirazione per quest’ultimo, non è un militarista e non segue il modello sociale e civile dell’egemonismo militaristico in ambito politico-civile. Nel concetto sveciniano della guerra moderna è molto più importante il pensatore Hans Delbruck, uomo politico nazionalista prussiano, piuttosto che il Clausewitz. Svechin non a caso rifiuta il concetto di “guerra totale”, la sua concezione anticipa le odierne tesi strategiche fondate sulla pratica della “guerra liminale” o “guerra ibrida”; la “guerra senza limiti” praticata da decenni dalle forze militari cinesi, con notevole successo almeno sino a oggi, è invece chiaramente clausewitziana avendo reso l’economia, la
tecnologia, la cultura igienico-sanitaria un privilegiato campo di battaglia militare geopolitico e trascendendo sistematicamente e astrattamente la fase propriamente politica. Brevi cenni storici e strategici della vita e del pensiero di Svechin Aleksandr Andreyevich Svechin nasce a Odessa nell’anno 1878, ma il giorno di nascita è oscuro, talune fonti riportano il giorno di nascita del 7 aprile, altre quello del 17 agosto. La sua è una famiglia militare, il padre conclude la carriera come generale dell’esercito imperiale russo. A 17 anni il giovane Svechin si diploma al “secondo corpo cadetti”, a 19 anni nella I° categoria della scuola di artiglieria Mikhailovsky. Dal 1903 inizia a far parte dello Stato Maggiore Imperiale e pubblica regolarmente saggi su problemi strategici, con pseudonimo o più abitualmente con le sole iniziali AS. Partecipa al conflitto russo-giapponese del 1904- 1905. Un bollettino dell’archivista della truppa da campo riporta: “Nella notte sul fiume Yalu nelle vicinanze di Y- chzhu e Shakhedza tra il 13 e il 14 aprile il 22° reggimento fucilieri della Siberia orientale…perde il tenente capo Semenov. Allo stesso tempo, il capitano Svechin, inviato sulla sponda opposta del fiume dello stato maggiore, scoprì la presenza di un grande campo nemico a sud di Yi-zhu”. Nel giugno 1907 Alexander sposa Irina Viktorovna che si situa anche lei su posizioni di patriottismo russo molto spinto. Nel corso del primo conflitto mondiale viene insignito dell’Arma di San Giorgio (1916) per il fatto di “essere comandante del reggimento nominato con il grado di colonnello nella battaglia del 17 agosto 1915, mentre ristabiliva la posizione che avevamo perso il giorno prima…attaccò rapidamente con il suo reggimento….ribaltando il reggimento di fanteria tedesco”. Il suo ultimo grado nell’esercito imperiale zarista è quello di maggiore generale. Svechin è probabilmente l’unico ufficiale nella storia dell’esercito monarchico russo ad essere messo in prigione
militare su ordine diretto dell’imperatore a causa di un articolo molto critico riguardo alla strategia del monarca. Alexander ha un carattere particolare: pur rispettando da militare le gerarchie, non esita a bollare come “anti- nazionale” il lassismo e la corruzione di certe figure vicine all’imperatore Nicola II. Rifiuta promozioni e innalzamenti di grado, non è particolarmente sensibile alle lusinghe, caratterizza la sua missione sia durante la monarchia che sotto come quella di “un piccolo soldato della Santa madre Russia”. Con la rivoluzione russa e la nascita del regime sovietico, Svechin seguendo le direttive del Ministero della Guerra passa dalla parte dei bolscevichi. Questo fatto è dovuto a due eventi politicamente molto importanti. Il primo è rappresentato dall’indubbio carisma militare di Trockij, il quale è molto abile e furbo nel teorizzare di fronte ai migliori ufficiali e generali patrioti o nazionali che il nuovo stato sovietico saprà anzitutto lottare per il bene della nazione russa, ben più che per quello dell’internazionalismo proletario comunista (3). Il secondo elemento è spiegato da Pavel Miljukov, leader dei “cadetti” – il partito democratico costituzionale – che legge l’ingresso di militari nazionali del rango di Svechin nelle fila bolsceviche come una vendetta storica e politica per la sconfitta politica del “nazional-patriota” bianco Lavr G. Kornilov, ucciso a Ekaterinodar il 13 aprile 1918. Dalle fonti emerge che Svecin era da una parte un grande sostenitore del “nazionalista” Kornilov, durante il governo provvisorio sostiene su tutta la linea la “ribellione di Kornilov”, e che dall’altra avrebbe deciso di passare con i bolscevichi proprio tra la fine di marzo e aprile nell’imminenza della fine del “sogno” korniloviano. Da agosto a dicembre 1918 dirige lo stato maggiore. Già nel 1919 iniziano però i problemi dello stratega russo; in seno al partito bolscevico si fa strada la presenza di un fronte militare patriottico anti-universalista
che starebbe conquistando dall’interno l’Armata rossa, il trockista Grigorij Jakovlevič Sokolnikov denuncia un progetto “bonapartistico” e ultra-nazionalista che sarebbe guidato dal generale Svechin. Tuchacevskij rincara la dose definendo Svechin un teorico antimarxista, agente del nazional- patriottismo e nemico della rivoluzione mondiale. Per quanto vi possano essere esagerazioni e lotte di frazione è indubbio che Svechin cospiri in qualche modo per portare il nazionalismo russo in posizione di supremazia ideologica interna. Dalla fine del 1918 sino alla fine degli anni ’20 è docente a tempo pieno presso l’Accademia militare dell’Armata rossa. Il fratello di Aleksandr, frattanto, anche lui un militare, unitosi all’esercito bianco durante la guerra civile dopo la rivoluzione fa parte della grande “emigrazione bianca” che abbandona la Russia. Il concetto nazionalista e sorprendentemente attuale, moderno, di “difesa strategica”, che negando il concetto clausewitziano di “guerra totale” supporta la pratica della guerra liminale ai fianchi, sino all’esaurimento delle risorse strategiche o informative dell’avversario, è destinato a non fare proseliti in ambito bolscevico, nemmeno allorquando si impone l’egemonismo teorico del “socialismo in un solo paese”. 1914 poco dopo l’inizio del conflitto mondiale: foto di gruppo di elevati esponenti dell’elite militare russa. A.
Svechin è il primo da sinistra. Uno degli strateghi sovietici per eccellenza è l’offensivista Tuchaveskij e il modello strategico sovietico, anche dopo l’esecuzione del futuro maresciallo, rimane questo stesso. Quando nel 1930 Svechin si trova in prigione, il futuro maresciallo Tuchaveskij lo attacca pubblicamente e rimaneggia un significativo opuscolo che viene diffuso tra le elites militari: “Contro le teorie reazionarie sul fronte militare. Critica delle visioni strategiche del Professor Svechin”. Il paradosso è che nel corso degli anni Trenta, Tuchaveskij coltiva come Stalin il progetto di unità strategica russo- tedesca che Svechin, ben più realista sul piano geopolitico, dichiara impossibile non solo perché sa che da Bismarck al Fuhrer, il Pangermanismo vede la Russia come l’“Africa tedesca” (la definizione è appunto del Bismarck) ma anche perché sostiene apertamente che, come già nella prima guerra mondiale dominò la linea nazionale su quella economicista di classe, il proletariato europeo non si farà problemi di alcun tipo a combattere contro quello sovietico, o viceversa, nel sacro nome della Nazione. Svechin contesta, come fece del resto lo stesso Trockj, l’offensiva sovietica ordinata da Lenin, condotta, tra gli altri, dallo stesso Tukhacevskij, già nella campagna di Polonia nel 1920. Nel mondo odierno, in cui le tesi di Samuel Huntington, che non vanno assolutamente confuse con i neocons o con le folli e criminali guerre senza fine di Bush e Blair, e quelle di Eisenstadt S.N. sulle modernità nazionali multiple de- secolarizzate e differenziate, sono le più significative per comprendere i nostri giorni, la figura teorica dello stratega russo emerge come quella di un autentico luminare padre putativo. Svechin nel 1926, quando la memoria della guerra civile in Russia è ancora molto fresca, arriva alle seguenti
conclusioni. Anzitutto, nella premonizione sveciniana la seconda inevitabile guerra non sarà che una continuazione della prima e non un fatto a se stante, l’esercito nipponico sarà all’offensiva, vengono predette con gran precisione sia Pearl Harbor sia l’uso massiccio dell’aviazione da parte giapponese, è in atto il grande risveglio storico dell’Oriente che caratterizzerà i futuri secoli; le opere di Svechin vengono da allora bandite sulla stampa aperta sovietica, in quanto il comando di intelligence dell’Armata rossa ha fondati timori che i militari in Giappone, dove conoscono bene Svechin, potrebbero trarne utili conclusioni (4). Taluni ricercatori russi dei nostri tempi vedono una prefigurazione di Danzica ’39 in un passo dello Svechin riguardante il confine polacco come fattore di instabilità permanente che avrebbe portato alla guerra, ma si tratta di una evidente forzatura. Il generale russo pensa a una guerra Occidente versus Oriente ben al di là del marginalissimo contenzioso polacco. Svechin contesta apertamente il pressapochismo strategico staliniano secondo cui la guerra si combatterà in territorio straniero, non toccherà minimamente il territorio russo grazie al sostegno delle classi operaie dei paesi occidentali; la teoria staliniana “poco sangue interno e guerra rapida” è sconfessata su tutta la linea da Svechin. Quest’ultimo prevede anzi che il nemico arriverà alle porte di Mosca – inizialmente pensa all’imperialismo francese ma poi, già prima della presa del potere nazionalsocialista, vira sulla marcia verso oriente del pangermanismo anche se non scarterà mai convintamente la pista francese- e che impostare la difesa strategica su Leningrado, proprio ciò che farà Stalin, sarebbe una follia in quanto gli svantaggi della posizione strategica della città di Lenin sono ulteriormente esacerbati dalla sua distanza dalle fonti di carburante, grano e materie prime; il generale invita genialmente il potere sovietico, che per ricompensa lo spedisce di nuovo nei Gulag nel febbraio 1931 (“Caso Primavera”) dopo il precedente arresto del 1930, a spostare la produzione industriale negli
Urali e nelle regioni orientali più distanti dai confini occidentali. Tutto ciò sarà imposto dal regime stalinista a costo di un numero innumerevole di vittime dal ’41, ben circa 15 anni dopo la prudente premonizione di Svechin. Infine Svechin, poco prima della morte, con una veridica concezione politica patriottica, afferma con sorprendente percezione del reale storico, rara capacità di comprensione (e ancora una volta in sintonia con Trockj) che la Russia avrebbe trionfato in tutti i conflitti basati sulla “resistenza nazionalista” (5) o sulla guerra di difesa mentre sarà sconfitta in tutte le guerre d’avanzata o proiezioni offensive. Allo stadio attuale, la Russia non sta facendo guerre offensive dal ’79 afghano. Piccolo necessario excursus, la presenza dei Wagneriani russi in Siria, in Africa, in Donbass non può essere considerata una forma di guerra offensiva o “imperiale” in quanto i soldati russi sono stati direttamente chiamati dai ministeri della difesa o degli interni dei paesi teatri di conflitto. L’antiuniversalismo radicale e il non eurasianesimo del “Gruppo Wagner” emergono tra l’altro da un foglio educativo interno trovato in Mali pochi mesi fa dalla BBC, foglio diviso in 7 punti, dove i concetti di “mito russo”, “sacrificio russo”, gloria russa”, “nazione grande-russa”, sono costantemente, metodicamente ribaditi sopra e contro ogni altro elemento concettuale o storico. Non vi è altro motivo di sacrificio che il “mito nazionale russo”, dunque, per il wagnerismo. Tornando a Svechin, il generale vive gli ultimi anni della sua breve ma intensa vita al numero 34 della Sofiyskaya embankment app. 116. Gli vengono sequestrati, poco prima dell’arresto del ’37, i 1800 voll. della biblioteca, molti dei quali riguardanti discipline matematiche e filosofiche, altri specifici di arte militare e strategia. I testi di storia del
fascismo italiano presenti nella biblioteca, sottolineati, con appunti del generale, attesterebbero per gli inquisitori staliniani “l’ultra-nazionalismo” svecinista! Questi volumi non saranno peraltro mai restituiti alla famiglia. Oggi i moscoviti che passano di fronte al n. 34 di Sofiyskaya nab. non osano immaginare che qui visse uno dei più grandi eroi nazionali della millenaria storia russa. Svechin è arrestato, sarà il suo ultimo arresto…!, il 30 dicembre 1937, non si fa più alcuna illusione, è nell’elenco, n. 107, dei 139 militari del Centro di Mosca accusati di preparare una “cospirazione militare fascista e ultra-nazionalista”. Tutti i 139 sono soggetti a condanna categoria 1°, ovvero esecuzione rapida. L’ordine di esecuzione di Svecin, caso unico tra i 139, è firmato direttamente da Stalin e Molotov. Il generale Svechin è fucilato il 29 luglio 1938 nel villaggio di Kommunarka, già poligono di tiro per le forze armate, regione di Mosca e ivi sepolto. I giorni precedenti alla imminente fucilazione vedono un uomo tranquillo, attivo, pronto al suo destino. Nei momenti immediatamente precedenti alla fucilazione il generale indossa la divisa militare, si segna sul corpo con la mano destra, al modo di Cristo, fa appena in tempo a gridare al cielo “Viva la Russia immortale” prima che gli schizzi copiosi di sangue ondeggianti sulla divisa e sull’erba volino infine nell’atmosfera e divengano sul piano invisibile, ma concreto, mito russo. La schizofrenia del regime che uccide il generale è tale che appena un anno dopo aver martirizzato l’ “ultra-nazionalista fascista” Svechin lo stalinismo corre ad abbracciare il nazionalsocialismo tedesco coprendogli costantemente le spalle nella conquista d’Europa. Svechin, che aveva predetto la ascesa al potere mondiale del nazionalismo orientale giapponese, il risveglio storico di Cina, India e Persia e l’inevitabilità del conflitto, su base nazionale non ideologica, tra Urss e Germania, non c’è ormai più quando il Fuhrer lancia, nel giugno ’41, l’Operazione Barbarossa e il tentativo di conquista di Mosca.
Stalin calpestando la dottrina marxista e ogni utopismo internazionalistico ritira fuori la lezione di Kutuzov e dell’eterna nazione russa. E’ la stessa teoria della “difesa strategica” come assoluto nazionale, la teoria sveciniana negata dalla strategia sovietica sino a un attimo prima ma infine imposta dai fatti. Solzenicyn dirà: “con la lunga guerra di resistenza patriottica, buttammo finalmente nel fosso la bandiera rossa. E vincemmo”. Non è stata sufficiente nemmeno questa manifestazione storica straordinaria – “una pura esplosione di amore per la nostra patria, niente altro che questo!” dice sempre Solzenicyn – perché stalinisti e sovietici abbandonassero finalmente il messianismo globale ed astrattamente universalistico. La patria russa, a parte il famoso brindisi al popolo russo, sempre in seconda linea. Svechin e la Russia di oggi. Il problema identitario. La visione secondo cui una Russia strategicamente nazionale e difensivistica vincerà tutti i conflitti esterni, una universalistica o imperiale li perderà tutti, costituisce un punto strategico e tattico assolutamente attuale del pensiero sveciniano, che sarà ripreso nel contesto odierno solo da Solzenicyn, che si sofferma su Svechin nel ciclo “La ruota rossa”; lo scrittore di “Una giornata di Ivan Denisovic” si è più volte richiamato al pensiero storico, politico e militare sveciniano, la sua proposta politica nazionalista grande-russa degli anni ’90 è certamente neo-svecinista e proprio negli anni ’90 spinge i ricercatori di storia militare russa alla ripubblicazione integrale delle opere del generale (6). Per quanto oggi la Russia tenti con alcune sue fazioni di integrare i concetti strategici sveciniani all’interno della “guerra liminale” (da Limen, Soglia, non da Limes, Confine), Svechin non gode in patria dell’importanza che meriterebbe. Se nel sito dell’Accademia militare americana di West Point compaiono nella biblioteca online le maggiori opere sveciniane, nelle biblioteche di molte scuole militari russe vi è ancora spazio per le opere militari di Friedrich Engels,
un pensatore che per usare un eufemismo non aveva eccessivo amore verso il popolo russo e ivi il nome di Svechin non compare quasi mai. Il presidente Putin, che ha coraggiosamente riabilitato nobili figure, ma quantomeno assai divisive per la memoria identitaria russa, come Ivan Ilyn, Nikolaj Berdjaev, Lev Gumilev, Aleksandr Solzenicyn, Anton Denikin e Aleksandr Vasil’evic Kolcak, non ha invece mai parlato di Svechin, figura al massimo grado unificatrice del patriottismo grande- russo, molto simile per taluni specifici versi a quella eroica e straordinaria del martire nazionale russo Pavel Florenskij. In questo senso ha sicuramente ragione Sergio Romano, se esiste una ideologia di Putin i suoi massimi riferimenti sono effettivamente Lev Gumilev e Dughin (7). Ciò non significa, naturalmente, che Vladimir Putin prenda lezioni da Dughin o che la Russia odierna sia esclusivamente eurasiana, ma di fatto tra una proiezione nazionale grande-russa o quella eurasiatica Putin sembra aver concretamente privilegiato quest’ultima via. Le stesse elite della Chiesa ortodossa russa e del patriarcato di Mosca sono strategicamente di tendenza eurasiana, probabilmente vedono inverarsi i tempi prefigurati nel romanzo “L’anno 4338” del principe Vladimir Odoevski, scritto nel 1835 ma che già prevedeva i computer, i voli spaziali e i viaggi aerei, le fotocopiatrici, la dissoluzione interna d’Europa, il primato mondiale di cinesi e russi. Se vi è però un elemento di estrema debolezza da non trascurare nell’odierna azione di Stato putiniana è rappresentato dal fatto che, nonostante tutti sforzi dell’amministrazione, non si è stati capaci di arrestare quel declino demografico russo che ha avuto inizio dall’epoca sovietica e che non si è più fermato. C’è chi già parla, forse estremizzando tendenze che sembrano comunque sempre più invadenti, di un irreversibile inverno demografico russo che non lascerebbe spazio che al peggiore pessimismo (8). La visione proposta da Vladimir Putin riguardo alla cultura
nazionale del Paese sembra molto equilibrata, differenziando correttamente un patriottismo nazionale identitario, positivo, da un nazionalismo regressivo e contestando lo slogan “la Russia ai russi” come pericoloso per il destino della nazione, storicamente multietnica e multiculturale (17.02.21). Corretto e sacrosanto, ma ancora di più degno di nota il fatto che il maggior rischio strutturale della Russia di questi tempi è incarnato dal fatto che dopo essere riuscita nella difficoltosa impresa di aver debilitato e demistificato il progetto globalista a trazione anglo-americanista, la nazione si trovi privata di quel prezioso patrimonio morale giovane e dinamico, indispensabile nella sempre più stringente Guerra Liminale tra superpotenze. Senza voler riportare in auge il famoso slogan “il numero è potenza”, il potere globale cinese e indiano qualcosa dovranno pure al fatto in questione, così come la sorprendete resistenza iraniana al globalismo qualcosa deve pure al fatto di essere quello persiano un popolo tra i più giovani che vi siano. Il risveglio identitario della nazione russa associato nell’era putiniana a quello dei popoli eurasiatici non ha purtroppo incentivato uno sviluppo demografico e un sano rinnovamento endogeno, tutt’altro ed è stato per taluni versi anche alla base della pesante ritirata da Kiev. In conclusione, la guerra di resistenza patriottica, la guerra sveciniana dei tempi odierni è, in primo luogo, per ciò stesso guerra assoluta identitaria: conflitto ibrido e liminale per la conservazione identitaria e per una nuova affermazione e manifestazione del mito identitaristico. In tal senso va detto chiaramente che se volessimo oggi radicalizzare la prospettiva nazionale svecinista, una eventuale alleanza strategica tra Russia e Cina sarebbe il più grande tradimento della grande lezione storica dello Svechin. Avrebbe lo stesso infausto significato, mutatis mutandis, del Ribbentrop-Molotov!
La Resistenza e la qualità della resistenza nella logica della guerra liminale svecinista è data infatti dalla concentrazione assoluta, identitaria, della forza morale militare. Al tempo stesso, lo stratega russo deriderebbe chi oggi si perde in astrazioni e in fumisterie su presunte guerre spaziali, centrali e decisive. Svechin è ancora lì a insegnare che solo il sangue e il sacrificio, oltre alle fondamenta economiche e sociali basate sul Lavoro concreto e sulla modernità ben impostata, portano avanti una nazione o una comunità. Disperdere totalmente le proprie energie strategiche in presunte guerre spaziali o macchiniche è infatti il modo migliore per dichiararsi sconfitti senza guerreggiare. I combattenti nazionali debbono lottare e essere pronti ogni momento alla lotta, ciò ci dice Svechin. Non avere una elite di tal tipo significa essere i sauditi dei nostri tempi. Meglio sarebbe essere i ribelli Houthi, allora, come i fatti storici e geopolitici ci rivelano ancora una volta. Chi non ha identità nazionale sparisce, sempre più è, e sempre più sarà la legge principale della politica internazionale. Il discorso di Putin di Monaco del 2007 aprì una nuova epoca storica e pose le basi della fine del Globalismo anglosassone. Il discorso del presidente russo del 2021 a Valdai, quattordici anni dopo Monaco, discorso storico al pari di quest’ultimo, pone le basi del nuovo ordine politico internazionale, tutto fondato sulla missione degli spiriti nazionali e sulla incipiente neo-nazionalizzazione identitarista. Tale orientamento dovrebbe al riguardo essere indicativo di una nuova strategia russa, fortemente identitaristica appunto, dopo la definitiva morte del globalismo anglosassone e occidentale decretata proprio dal discorso “nazionale” putiniano a Valdai, appena pochi mesi fa. Un identitarismo russo che potrebbe da ora in poi basarsi su una pedagogia di massa assolutamente e organicamente nazionale-patriottica e non messianica, superando qualsivoglia tentazione storica o storiografica di eccessiva positività attribuita alle precedenti esperienze universalistiche
(zarismo, comunismo), continuando perciò sentimentalmente a descrivere dostoevskianamente i russi come coloro i quali si sarebbero sacrificati per il mondo, per poi ritrovarsi però sempre a terra impietosamente sconfitti nei momenti decisivi, 17’ o 89’ che sia. E’ tempo di Rinascita della Grande Russia, come dicono i volontari nazionali wagneriani presenti nei vari continenti nel nome della patria amata. Gli europei non vogliono i russi, i cinesi in fondo disprezzano i russi, gli anglosassoni vedono nella Russia odierna un nemico strategico? Non è forse un meraviglioso punto di forza, nella logica matematica dell’effetto farfalla, cosa c’è da recriminare? Non significa forse questo che la Russia è all’avanguardia oggi, timidamente seguita solo da India e Iran? La Russia è più avanti di tutte le altre nazioni nell’esperienza storica, tragica e ammonitrice, di tale evidenza del fallimento inevitabile di ogni forma di universalismo, ha detto proprio Putin a Valdai rivolgendosi ai signori di Davos e del Pentagono. Aleksandr Svechin, il nome del Mito russo grande come quello di Kutuzov, rimane il capitale più prezioso in tale direzione. E’ perciò ancora tra noi. Sette vite per Aleksandr Svechin, mille anni per la Grande Russia. NOTE IL MONDO VISTO DALLA RUSSIA di O.G. (sollevazione.it) Anche Lenin stratega fu, a differenza di Svechin, decisamente seguace del Clausewitz. V. Sorine, nella “Pravda” n. 1 del 1923, scrisse nell’articolo “Marxismo, Tattica, Lenin” che il leader bolscevico sosteneva il principio che “la tattica politica e la tattica militare sono due campi quasi identici….perciò i militanti del Partito studieranno non senza frutto le opere di Clausewitz”. Radek, Portrety i pamflety, Ritratti ed opuscoli, Mosca
1927, p. 33. Svechin, Postizhenie voennogo iskusstva, Comprensione dell’arte militare, Accademia Militare Mosca 1999, pp. 303 e sgg. Sappiamo che il concetto politico di “nazionalismo” nella Russia dei nostri giorni può essere problematico e potrebbe ideologicamente rimandare alla nota marcia del 4 novembre in cui a fianco dei “neo-zaristi” marciano anche i suprematisti etnici, pericolosi politicamente e ben distanti dal concetto di coscienza nazionale russa. Il concetto di “patriottismo”, per altri versi certamente più corretto, non è però di per sé indicativo di quell’Unione grande-russa sempre più storicamente necessaria per impedire la catastrofe demografica e la possibile estinzione culturale russa. A. Svechin, Op. Cit., p. 690. Romano, Putin e la ricostruzione della Grande Russia, Milano 2016, pp. 81-86. Россия заглянула в демографическую пропасть: Население сократилось рекордно за 15 лет | 28.01.21 | finanz.ru
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