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Alma Mater Studiorum Università di Bologna Anno accademico 2017-2018 Spazio, percezione e identità: il mondo urbano raccontato dai traceurs Tesi magistrale in Antropologia culturale ed etnologia Di Simone Alfieri
Spazio, percezione e identità: il mondo urbano raccontato dai traceurs 1. Il parkour oggi…………………………………………………………..2 1.1 Nascita, diffusione e localizzazione……………………………….………...2 1.2 Il parkour fra purezza e linguaggio dello spettacolo…………………….....11 2. Ontologia del parkour…………………………………………………..23 2.1 Parkour e place attachment…………………………….…………………..23 2.2 Parkour e dwelling perspective……………………………………….…....31 2.3 Il tema della corporeità nel parkour………………………………………..40 3. Spazio, percezione e identità: il mondo urbano raccontato dai traceurs………………………………………………….50 3.1 Master the space: esplorazione, vision e reinterpretazione della creatività..50 3.2 Identità e alienazione: il paradosso dell’interconnessione spazio-corpo…..63 3.3 Parkour e quotidianità: ostacoli, paura e crescita personale…………...…..73 3.4 Aesthetic resilience: la resilienza come forma d’arte nel parkour…………83 4. Scaletta per intervista…………………...………………………...…...90 (originale: Interviste integrali, pp. 90-150) Bibliografia…………………………………………………………………....91 1
Il parkour oggi 1.1 Nascita, diffusione e localizzazione Provare a definire con esattezza cosa sia il parkour e dove si collochi la sua nascita nel mondo non è certo cosa semplice, soprattutto a fronte della miriade di informazioni e video-documentari disponibili oggi sulla disciplina. Ad ogni modo, si tratta di un fenomeno già di per sé sfuggente alle classificazioni tipiche dell’approccio occidentale, così teso a definire, categorizzare e amplificare il significato delle cose. Partirei, innanzitutto, dalla nomenclatura: la parola parkour deriva dal francese parcour che significa percorso, e sta a indicare appunto l’idea di un percorso tracciato lungo uno spazio. In questo caso si tratta di un ‘percorso a ostacoli’ in cui il singolo praticante, che in gergo è chiamato traceur (‘tracciatore’), attraversa un ambiente contornato da barriere e ostacoli e trova il modo più rapido, efficiente e sicuro per oltrepassarli. Il parkour, in effetti, vanta molti nomi, parkour, art of movement, freerunning, art du déplacement, ed è proprio quando ci si sofferma sulla questione del nome che risalta il 2
problema di ciò a cui il nome si riferisce: è uno sport? Un’arte? Una filosofia? Una disciplina fatta e finita? Questione di punti di vista. Il parkour è un po’ tutte le cose messe insieme, una disciplina plastica e ibrida fondata sulla totale naturalezza e consapevolezza del movimento corporeo. Insomma, è un fenomeno dalla definizione aperta e modellabile a seconda delle situazioni e dei soggetti che lo praticano. Molti sostengono che esso non abbia nulla a che vedere con una predisposizione marcatamente filosofica, ma che sia soprattutto una risposta spontanea e naturale a determinate condizioni ambientali: arte dello spostamento, disciplina, stile di vita, ribellione subculturale, il parkour viene etichettato spesso e volentieri in maniera assai variegata, e questo proprio per via della sua natura plastica e poco ‘regolamentata’1. La realtà è che non c’è nessun accordo specifico sulla definizione di parkour. Esso è comunemente definito come una disciplina fisica finalizzata all'adattamento totale e continuo del corpo all'ambiente circostante, un sistema di allenamento che mira a rendere quest’ultimo più funzionale ed efficace e la mente più rapida e consapevole; è un modo di pensare fondato su una rigorosa auto-disciplina, sull’autonomia e sulla forza di volontà2. È importante, però, precisare che tutte queste sfaccettature derivano da un'unica grande matrice storico-sociale che racchiude lo spirito più profondo e originario della disciplina, ossia quella forma di attività fisica nata a fronte delle condizioni di vita quotidiana nelle banlieue parigine degli anni '90. Sull’argomento si è cimentata soprattutto l’antropologa Julie Angel che, in Breaking the Jump: The Secret Story of Parkour’s High-flying Rebellion (2016), ripercorre la storia degli yamakasi, i padri fondatori della disciplina, rielaborando le interviste accumulate in anni di ricerca su campo e presentando una ricostruzione intima e soggettiva di ognuno di loro, ossia David Belle, Yann Hnautra, Châu Belle Dinh, Laurent Piemontesi, Sebastien Foucan, Guylain N'Guba Boyeke, Charles Perriere, Malik Diouf e Williams Belle. David Belle, universalmente riconosciuto come il maggior esponente nella creazione del parkour, fu ispirato dall’atleticità del padre Raymond, un franco-vietnamita che introdusse nel corpo dei pompieri il metodo naturale di Georges Hébert, un sistema di allenamento 1 “Parkour, therefore, is an open ended and unregulated discipline. It has few genuine rules or definitions for what is ‘correct’ and ‘incorrect’ parkour; prompting rifts and battles for essentially false subcultural authenticity within the community on parkour forums and websites”, Thomas William Raymen, T he Paradox of Parkour: An Exploration of the Deviant-Leisure Nexus in Late-Capitalist Urban Space, 2017, Durham University, p. 28 2 http://www.parkourwave.com/en/ 3
basato principalmente sull’esposizione del corpo agli elementi e alle condizioni ambientali3. Affascinato dalle capacità tecniche del padre, David, intorno alla metà degli anni ‘80, cominciò a trasformare quella stima in azione, prendendo spunto dalle tecniche e dando loro una forma sempre più specifica, intima e, in un certo senso, ‘brutale’4. Di lì a poco egli introdusse quella sua passione a un gruppo di ragazzi di varie etnie provenienti dalle cittadine di Evry e Lisses, a nord di Parigi e, insieme, cominciarono a mettere in pratica quei movimenti sia negli ambienti urbani che in quelli naturali, come la foresta di Sarcelles5. Presto essi presero coscienza che quella particolare forma di gioco era diventata molto più di una passione, ossia una vera e propria esigenza ordinaria, uno sfogo liberatorio da utilizzare a fronte di condizioni sociali misere e problematiche. Cominciarono a proteggere e categorizzare quell’attività ricorrendo al nome parkour, storpiamento estetico del termine francese parcour (percorso), e si posero quotidianamente degli obiettivi personali e di gruppo, quali sfide fisiche e psicologiche che, in un certo senso, li avrebbero trasformati in uomini6. A partire dai primi anni ‘90, gli yamakasi si resero conto di aver preso molto sul serio la loro attività: da bambini che giocavano per noia si evolvettero in ragazzi con obiettivi definiti, finalità ispirate a sorgenti quali la filosofia del Taoismo, i film di Jackie Chan, perfino il ‘combat vital’ del parigino Don Jean Haberey7. Il parkour cominciò a delinearsi nella loro mente per quella che è la sua natura più funzionale e adattiva, come strumento di reazione corporea a un ambiente esterno pieno di ostacoli e sfide. E’ importante però riconoscere che David Belle, dal quale si è sviluppato tutto, non fu l’unico a praticare l’arte dello spostamento ai suoi esordi. Il parkour, infatti, è stato utilizzato da un largo gruppo di individui, inclusi Stephane Vigroux, David Malgogne e Frederic Hnautra, ognuno dei quali ha contribuito a dare una forma più o meno specifica al suo stato embrionale. 3 Per approfondire vedi Sylvain Villaret e Jean-Michel Delaplace, La Méthode Naturelle de Georges Hébert ou «l'école naturiste» en éducation physique (1900–1939) 4 David Belle è famoso per aver applicato al parkour il suo spirito marcatamente ‘guerriero’ e per la tipologia dei suoi allenamenti, costanti, rigidi e particolarmente ardui. 5 https://www.youtube.com/watch?v=Rwx7BOsb2FM 6 “Training was their own form of multicultural utopia, a way to turn lost, searching boys into men. Against this tense antisocial backdrop, ‘being strong’ was a personal mantra-cum-obsession to the friends”, Julie Angel, Breaking the Jump: The Secret Story of Parkour’s High-flying Rebellion, Aurum Press Ltd, pp. 68-69 7 Interview with Erwan Le Corre, Conditioning Research, 2009 4
Stephane Vigroux, per esempio, è stato essenziale per l’elaborazione del flow o di movimenti quali il ‘saut de chat’ (salto del gatto), e Yann Hnautra, forte dell’impostazione culturale e familiare data nel suo paese d’origine, la Nuova Caledonia, è stato una vera e propria guida motivazionale e spirituale per l’intero gruppo. Insomma, ognuno ha contribuito a suo modo a dare una forma più specifica al parkour dei primi anni ‘90. Ad ogni modo, al di là della disciplina in quanto tale, intendo precisare che ricostruire le origini del parkour significa innanzitutto inquadrare le condizioni sociali di vita nelle banlieue parigine degli anni ‘80 e ‘90, caratterizzate da alti tassi di criminalità e scontri quotidiani con le forze dell’ordine8. A tal proposito, la pellicola di Mathieu Kassovitz, La Haine (L’odio) , risulta particolarmente interessante in quanto riproduce fedelmente tali condizioni sociali, da cui poi nacque il parkour. Non a caso la frase simbolo del film afferma:“l’importante non è la caduta, ma l’atterraggio”. Una scena del film L’odio (1995). 8 La Haine & the Social Situation of 1990’s France, 2012, Velvet Studies https://thosessillybohemians.wordpress.com/2012/01/04/la-haine-the-social-situation-of-1990s-france/ 5
Il parkour è, per sua natura, un’attività visivamente sbalorditiva che è in grado di catturare all’istante l’occhio e gli interessi esterni. Non appena gli yamakasi cominciarono a definire e ad affinare le loro tecniche sul palcoscenico urbano, passando da semplici capriole e salti, a movimenti sempre più complessi e particolareggiati, l’attenzione dei media locali cominciò a farsi sentire, tanto che quell’innocente ‘saltare per la città’ fu interpretato come potenziale ‘macchina per soldi’. Fu così che nel 2001, in occasione dell’uscita del film di Luc Besson, Yamakasi. Les samouraïs des temps modernes, si ebbe la prima grande spaccatura nel mondo del parkour: alcuni dei fondatori (Yann, Chau, Williams) decisero di cogliere l’opportunità del grande schermo; altri, in particolare David Belle, rifiutarono apertamente la cosa in quanto la ritennero oltraggiosa e irritante, una sorta di ‘prostituzione’ della disciplina. Ad ogni modo, grazie a quella pellicola, il parkour fu riconosciuto nazionalmente come fenomeno culturale, raggiungendo in breve tempo l’attenzione mediatica dell’intera Europa e i fondatori si ritrovarono, per così dire, famosi da un giorno all’altro. Tuttavia, in un secondo momento, anche David Belle fu assorbito da quella “calamita commerciale” e divenne protagonista dello spot BBC Rush hour9 e del video Speed Air Man, nonché di un secondo film di Besson intitolato Banlieue 13 (2004). he il parkour fosse apparso sul grande schermo è chiaro, ma per avere un resoconto accurato sull’arte dello spostamento bisognerà attendere l’uscita del documentario Jump London trasmesso su Channel 4 alla fine del 2003 con protagonisti i traceurs f rancesi Sébastien Foucan, Jerome Ben Aoues e Johann Vigroux. Questo fu un punto di svolta per la diffusione e la comprensione della disciplina, in quanto incentrato, oltre che sulla prestazione fisica, sui suoi aspetti più profondi e filosofici. Con l’uscita del suo seguito nel 2005, Jump Britain, documentario prodotto da Carbon Media, il parkour fu ufficialmente posto sotto i riflettori di tutto il mondo. 9 https://www.youtube.com/watch?v=VLWfvAWfQ0M&t=4s 6
I fondatori durante le riprese del film Yamakasi. Les samouraïs des temps modernes (2001). Sébastien Foucan sul set di Jump London (2003). 7
Negli ultimi dieci anni, con l’avanzare della tecnologia, il parkour è diventato sempre più popolare. Oggi i canali youtube dei singoli praticanti e da gruppi di traceurs sono pressoché impossibili da conteggiare, tanto che risulta paradossalmente fuorviante farsi un’idea precisa di un fenomeno che sta evolvendo in maniera sempre più rapida e specifica. Ogni traceur, infatti, è rappresentante di una singola comunità ed è, a sua volta, rappresentato dalla quella stessa comunità in termini di appartenenza culturale e attività sociale. Da questo punto di vista il parkour, così come altre tendenze contemporanee, rientra in quello che Bauman ha definito processo di ‘glocalizzazione’, ossia l’effetto scaturito dalla globalizzazione rapportata a livello locale10. Secondo questa logica il vero fondamento della società è dato dall’interazione fra individui appartenenti a una data realtà sociale, i quali usufruiscono dei vantaggi offerti dal mondo globalizzato per intessere una rete di informazioni e saperi da diffondere entro i propri confini relazionali. Un curioso paradosso sta nel fatto che la disciplina è diventata accessibile e fruibile soprattutto a livello locale, e che grazie alla digitalizzazione e a trend quali blogging e videosharing è possibile che esse si incontrino/scontrino da una parte all’altra del mondo creando spunti, dibattiti e nuove forme della disciplina stessa. Il parkour, in effetti, è soggetto a innumerevoli discussioni riguardanti soprattutto la sua essenza: trattasi in particolare di distinguere il parkour inteso come disciplina simile alle arti marziali, e quindi con un certo rigore sia teorico che pratico, e il parkour delle acrobazie e dei ‘trick’ (backflip, sideflip, kork ecc.), paragonabile alla ginnastica artistica, incentrato più sull’idea di performance. Su questo punto torneremo nel capitolo successivo. La scuola di Parkourgenerations, ad esempio, insegna che ‘parkour’, termine che libera la gente dai limiti e dai metodi convenzionali di movimento e di spostamento, è comunque solo un termine. La sua visione è che, benché la comunicazione odierna richieda l’utilizzo di termini universalmente riconosciuti e accettati, il concetto che si sta esprimendo è più importante di qualsiasi nome o etichetta. Il movimento è sempre movimento, ed è la padronanza che ciascuno ha su di esso che va ricercata e coltivata. 10 Globalizzazione e glocalizzazione, Zygmunt Bauman, 2005, Armando editore 8
Il parkour degli ultimi anni sta crescendo lontano dalle sue radici di Lisses o Evry, ed è diventato una pratica subculturale mondiale costantemente rimodellata e rimodellabile a ogni nuova generazione. In effetti, grazie ad ogni nuovo soggetto generazionale, la disciplina trova una nuova via di espressione che è, per sua natura, imprevedibile e nebulosa, difficile da identificare e comprendere del tutto. Il parkour si è evoluto (e si sta evolvendo) in maniera sempre più creativa e strutturata e la sua diffusione sta innescando un importante processo di valorizzazione degli spazi urbani sia nelle grandi città che nei piccoli centri. Molti spot, infatti, sono diventati luoghi simbolo attorno ai quali traceurs di tutto il mondo si riuniscono in occasione di contest, raduni o viaggi di allenamento ed esplorazione, i cosiddetti ‘parkour trip’; fra questi rientrano l’isola di Santorini, gli storici spot di Evry e Lisses, dove si trova la Dam du lac (Dama del lago), una struttura simile a una piramide sulla quale ci si può arrampicare, e quelli di Londra come il dismesso Vauxhall, i muri di Imax e Avenue Park. Per quanto riguarda l’Italia, invece, possiamo menzionare lo spot milanese di Romolo, Corticella e ‘Lo scarabeo’ a Bologna, ‘Le banche’ a Padova, Stezzano e il parco Goisis a Bergamo. Oltre alla questione politica della riappropriazione dello spazio, molte comunità di praticanti sono attive anche dal punto di vista sociale grazie soprattutto alla promozione dell’attività sportiva; in riferimento all’Italia, ad esempio, l’impegno dell’associazione Parkourwave è stato decisivo per l’ampliamento della conoscenza della disciplina a livello nazionale. In ogni caso, il modo di vivere la disciplina in vari contesti locali, è costruito sulla base di un continuo contatto con il mondo esterno (reale e/o virtuale). Senza il contatto con l’esterno, e quindi con l’idea di globalizzazione, la singola comunità di parkour non può ampliare il suo bacino conoscitivo, il che si traduce in un effetto contrastante con quelli che vedremo essere i suoi valori portanti di condivisione, solidarietà e apertura mentale. A differenza di alcuni decenni fa, in cui gli yamakasi ebbero in qualche modo ‘carta bianca’ nel plasmare la loro disciplina, oggi, nonostante l’infinito bacino di possibilità espressive offerte dal parkour, risulta estremamente difficile mantenere intatta la propria identità corporea, poiché spesso il praticante tende a identificarsi troppo nei movimenti di altri traceurs. È questo un altro dei temi ricorrenti fra chi pratica parkour. 9
Questa parentesi storica è stata per lo più introduttiva e necessaria per inquadrare il fenomeno nella sua cornice originaria e nel suo attuale momento evolutivo. Nel prossimo capitolo, invece, discuteremo uno degli argomenti topici del parkour di oggi: la spettacolarizzazione. Prima però vorrei elencare quelli che sono i maggiori temi toccati dagli studi sul fenomeno, così da poter affrontare i prossimi capitoli con maggior consapevolezza, soprattutto in vista della parte empirica: - Il parkour è anzitutto una forma d’arte, l’arte dello spostamento, e come tale si sta evolvendo al di là delle sue concezioni funzionali e di adattamento all’ambiente; - Il parkour è considerato una sorta di reazione o ‘ribellione’ sociale/culturale a una serie di costrizioni dettate dalla vita urbana, ed è un’attività che consente di ri-appropriarsi liberamente dello spazio circostante; - Dal punto di vista sociale il parkour è un potente strumento di inclusione poiché facilmente accessibile e fruibile a tutti, senza particolari attrezzi, strutture o gadget (in realtà negli ultimi anni c’è tutto il tema dei parkour park costruiti appositamente per praticare la disciplina, cosa che contrasta con l’essenza della scoperta e dell’adattamento continuo del corpo all’ambiente cittadino); - Il parkour abitua i suoi praticanti ad affrontare il tema del rischio, a mettersi nelle condizioni di oltrepassare ostacoli apparentemente impossibili da superare, a livello fisico, mentale o entrambi. In questo senso lo studio del fenomeno parkour tocca questioni psicologiche, fisiologiche, cognitive e sociologiche; - Il parkour induce a riconnettere il proprio corpo con l’ambiente circostante, qualcosa che l’uomo moderno sta perdendo lentamente e in maniera per lo più passiva. Grazie a questa riconnessione il soggetto acquisisce competenze trascurate e consapevolezze nuove su di sé, lo spazio e gli altri. Quest’ultimo è il macrotema antropologico sul quale si sviluppa il mio lavoro, incentrato principalmente sugli effetti percettivi che il traceur esperisce durante la sua pratica, considerata come attività di congiunzione con l’ambiente esterno. 10
1.2 Il parkour fra purezza e linguaggio dello spettacolo Come abbiamo visto, il parkour nasce come reazione più o meno spontanea a condizioni di vita precarie e difficili, per poi evolversi all’interno di una cornice più propriamente commerciale grazie soprattutto all’uscita di Yamakasi (2011) e Jump London (2003). Con l’avanzare della tecnologia è aumentata la possibilità di condividere e diffondere informazioni su ogni tipo argomento, e così è stato anche per il parkour, fenomeno la cui popolarità è oggi più viva che mai. Grazie soprattutto a youtube e all’attività di sharing s ui social media, la sua conoscenza è incrementata a dismisura nel giro di pochi anni ed è culminata in una diffusione pressoché inarrestabile. La fama del parkour, infatti, ha catturato l’immaginazione collettiva delle nuove e vecchie generazioni non solo grazie alle opportunità date dalla tecnologia, ma anche grazie a una vasta gamma di strumenti “ludico-commerciali” quali talent show, videogame come Mirror’s Edge o Assassin’s Creed, e spot dedicati al fitness contemporaneo in tutte le sue possibili varianti. 11
Da questo punto di vista possiamo considerare la diffusione del parkour come una conseguenza del fatto che esso è entrato a far parte della cultura consumistica e dell'informazione digitale a livello globale. Al fine di collocare il fenomeno all’interno di queste logiche simbolo dell’era contemporanea, vorrei partire da un famoso saggio di Guy Debord intitolato La Société du Spectacle (1967). Secondo la prospettiva del filosofo francese, la società odierna è caratterizzata da una predisposizione alla spettacolarizzazione delle cose: tutto è commerciabile, dai prodotti, ai servizi, alle immagini, e tutto è spettacolo in quanto vale esclusivamente per come appare.11 Anticipando la realtà di diverse decadi, Debord è stato in grado prevedere la trasformazione sociale e comunicativa che ha condotto l’uomo postmoderno al di là dell’atteggiamento consumistico, precisando che egli, da consumatore informato e passivo, sarebbe divenuto un attore creativo e, allo stesso tempo, soggetto all’illusione di un’apparenza sul palcoscenico sociale. Questo significa che nella società dello spettacolo delineata dall’intellettuale francese, la comunicazione è uno strumento così pervasivo da influenzare tutti gli ambiti della vita umana, dalla famiglia al lavoro, dai sentimenti ai desideri, dai progetti alle aspirazioni. Tutto ciò conduce alla prevaricazione di ciò che potremmo definire il ‘non-essere’ inteso come fossilizzazione dell’identità umana, data soprattutto dalla diffusione repentina delle nuove tecnologie dell’informazione create dalla scienza occidentale. Fra le 221 teorie elaborate nella sua opera, Debord afferma: “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini”. “Lo spettacolo si presenta nello stesso tempo come la società stessa, come parte della società, e come strumento di unificazione. In quanto parte della società, esso è espressamente il settore più tipico che concentra ogni sguardo e ogni coscienza”. “La società basata sull'industria moderna non è fortuitamente o superficialmente spettacolare, essa è fondamentalmente spettacolista. Nello spettacolo, immagine dell'economia dominante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole realizzarsi che solo in se stesso”12. 11 “Senza dubbio il nostro tempo preferisce l'immagine alla cosa, la copia all'originale, la rappresentazione alla realtà, l'apparenza all'essere”, L udwig Feuerbach, prefazione alla seconda edizione de L'essenza del Cristianesimo ( 1841) 12 Guy Debord, La società dello spettacolo (2008), p. 11, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 12
Nella società dello spettacolo tutto viene realizzato e vissuto solamente in funzione di come verrà percepito dagli altri soggetti-spettatori: l’uomo contemporaneo cessa di valere per quello che ‘è’ e inizia a valere per come ‘appare’. L’excursus sull’opera di Debord è stato necessario per inquadrare la dimensione della spettacolarizzazione odierna come una vera e propria calamita per qualsivoglia fenomeno e tendenza sociale, incluso il parkour. In parallelo a questa analisi, infatti, possiamo affermare che esso rientra a pieno nelle logiche della società dello spettacolo descritta dal filosofo francese; ma vediamo come e attraverso quali elementi. Per cominciare, partirei da un recente lavoro13 pubblicato da Emanuele Isidori, professore di pedagogia generale e sociale all'Università di Roma Foro Italico e responsabile scientifico della collana Education & Sport Studies, il quale afferma che la società dello spettacolo è rappresentata fondamentalmente da otto elementi distinti. Al fine di rendere l’analisi più lineare, provvederei innanzitutto a suddividerli in generali e specifici: quelli generali sono l’individualismo, il consumismo e la globalizzazione; quelli specifici, sono l’egemonia di internet, la tecnofilia, l’importanza socio-culturale dei media, la democrazia della fama e il focus sui giovani. In merito a quanto riportato finora, si nota che il parkour è strettamente riconducibile a ognuno di questi elementi. Per quanto riguarda la tecnofilia, ad esempio, vedremo che l’espressione del sé, che in tale disciplina è veicolata principalmente dal corpo, passa attraverso un uso spesso incondizionato dei social media, a tal punto da rendere quell’opportunità di espressione alienante, finalizzata esclusivamente all’attività di sharing, la quale diventa il reale obiettivo del traceur. Di contro, tuttavia, va riconosciuto che “ormai la maggior parte della conoscenza umana non deriva più dall’esperienza diretta del singolo, ma da quella collettiva”14, quindi è ragionevole e, allo stesso tempo opinabile, pensare che la connettività virtuale e universale sia il nuovo fronte di comunicazione del sapere, e per tanto abbia un valore culturale ed educativo che, per quanto relativamente incomprensibile, è effettivo, reale15. Un’altra questione non indifferente riguarda la democratica possibilità di emergere quale individuo “socialmediamente” famoso, in particolar modo attraverso la rete di contatti 13 La comunicazione spettacolarizzata: una riflessione pedagogica tra Debord e YouTube ( 2015), Emanuele Isidori, METIS, Mondi educativi. Temi indagini suggestioni 14 L’educazione e gli scenari della comunicazione spettacolarizzata, Emanuele Isidori, METIS, Mondi educativi. Temi indagini suggestioni 15 Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere (2013), Michel Serres, Bollati Boringhieri, Torino 13
sviluppata su social quali facebook o instagram. Internet permette ad ognuno di creare una propria immagine pubblica e di diffonderla ovunque per mezzo della rete. I giovani, in tutto questo, sono certamente i soggetti più disinvolti e influenzabili, tanto dediti al consumismo virtuale. Un giovane traceur intento a scattare un selfie sui tetti di una cittadina inglese. Nella società dello spettacolo si vive a cavallo tra la naturalezza delle tecniche corporee, intese in termini maussiani come base dell’apprendimento e dell’agency, e l’artificiosità delle tecniche mediatiche e comunicative che rendono qualsivoglia fenomeno sociale condizionato dal consumismo digitale. Senza dilungarci oltre sull’analisi di Isidori, basti pensare che il parkour, come molte tendenze sociali contemporanee, è fondamentalmente uno spettacolo rappresentato su un palcoscenico virtuale la cui platea è il mondo intero (almeno potenzialmente). La società dello spettacolo, infatti, dà a tutti l’illusione della possibilità di diventare famosi; non fa che ricordarci che anche noi potremmo essere su quel palcoscenico, a patto che improntiamo la nostra esistenza sull’apparire costruendo e diffondendo un’immagine pubblica facilmente spendibile. In linea con queste riflessioni l’industria dell’intrattenimento rivolge le sue attenzioni al mondo dei giovani, notoriamente buoni 14
consumatori perché facilmente influenzabili. Da questo punto di vista, possiamo tracciare una suddivisione più o meno netta fra due macro-categorie di iniziative commerciali promosse da TV nazionali e internazionali, nonché famosi brand come Red Bull, le quali hanno contribuito fortemente alla sua diffusione nel vocabolario globale: i reality e i contest. Fra i primi rientrano i cosiddetti ‘Got Talent’ quali Ninja Warrior16 e Italian’s o Britain’s Got Talent, programmi televisivi in cui artisti non professionisti di varie discipline e settori esibiscono il loro talento sul grande schermo; fra i secondi rientrano le spartan race17 e in particolare il Red Bull Art of Motion18, competizione che, seppur contrastante con i principi originari del parkour, mantiene un certo grado di linearità con quella che è la reale disciplina, almeno dal suo punto di vista propriamente tecnico ed estetico. Ninja Warrior (abbreviato NW), ad esempio, è un talent show in cui un gruppo di concorrenti si sfidano per arrivare alla fine di un percorso ad ostacoli nel minor tempo possibile. Essendo tutto predisposto e conforme a norme di sicurezza, essi possono permettersi di trascurare cose che nel mondo reale sono importanti e viceversa: è importante arrivare in fondo (magari anche alla svelta) ma non è importante non cadere (tanto sotto c’è l’acqua); è importante riuscire ad arrivare sulla piazzola alla fine del percorso, ma non è fondamentale come ci si arriva (tanto è imbottita di gommapiuma); è importante riuscire a resistere allo stress sociale della telecamera ma non è importante vedere possibilità alternative al percorso prestabilito. Al termine della performance l’atleta NW viene gratificato con applausi, trombe, luci colorate e una bella posizione nella classifica dei tempi. Insomma, il tutto è predisposto affinché il partecipante sia totalmente focalizzato su un riconoscimento proveniente dall’esterno, ben visibile all’occhio della telecamera; così facendo, la sua motivazione diventa del tutto estrinseca, scollegata dai principi basilari che stimolano un traceur, inteso come effettivo praticante e “attore urbano”. 16 https://www.nbc.com/american-ninja-warrior 17 http://www.spartanrace.de/hu/race/detail/2968/sponsors?filter=super 18 https://www.redbull.com/us-en/events/red-bull-art-of-motion 15
Il traceur Matt McCreary durante la sua performance al Britain’s Got Talent 2015. Richard Dustin Bredford alle finali dell’American Ninja Warrior di Denver 2017. 16
Nell’Art of Motion, la più grande manifestazione competitiva di parkour/freerunning al mondo, vari esponenti della disciplina si sfidano a suon di salti fra i tetti dell’incantevole città di Santorini in Grecia, cercando di completare una run di un minuto ad elevato contenuto tecnico e creativo. In questa competizione gli atleti sono costantemente soggetti alla pressione del tempo e delle telecamere, e il tutto è basato principalmente sull’adrenalina, che vedremo essere contrastante con diversi aspetti del parkour, e la spettacolarizzazione del corpo in movimento. Gli atleti, inoltre, sono portati ad assumere atteggiamenti artificiosi e “da palcoscenico”, quali inchini e facce buffe, che ben si collocano nella logica della società dello spettacolo da cui nessuno (o quasi) è più in grado di disconnettersi. La differenza principale fra i due canali comunicativi è che i talent show s ono basati sì sulle competenze dei partecipanti, ma guidati da logiche prettamente commerciali finalizzate a rendere pubblica sul grande schermo la reazione emotiva di atleti e spettatori e ad aumentare spudoratamente i guadagni; i contest fanno altrettanto, ma più che concentrarsi sull’impatto emozionale sono indirizzati a incorniciare la performance dell’atleta sotto il marchio di uno specifico brand, aspetto altrettanto commerciale e discutibile. Tuttavia, come vedremo, la prestazione del traceur in sé non è del tutto contrastante con l’etica della disciplina, ma più che un reale obiettivo essa è un “piacevole effetto collaterale” della pratica. Quindi, in un certo senso, l’Art of Motion rispecchia alcune situazioni che durante gli allenamenti vengono realmente vissute dai traceurs, quali gestione del rischio e attenzione estetica, cose che in termini tecnici si verificano, ad esempio, durante un break the jump o una sessione di flow. Più avanti esploreremo anche questi aspetti specifici, ma per il momento è importante precisare che, nonostante le innumerevoli scuole e l’impegno sociale di molti gruppi di traceurs, l’aspetto estetico e performativo rimane ancora il più gettonato fra la maggior parte di coloro che si approcciano alla disciplina, poichè perfettamente in linea con le logiche della società dello spettacolo, in cui l’apparenza conto molto più dell’essere. In conclusione a questi ragionamenti, è possibile dedurre che l’artificiosità, intesa in termini debordiani come ‘non autenticità’, e la motivazione estrinseca che guida il “traceur-attore” sono i due elementi cardine che allontanano il pubblico da una comprensione veritiera e non superficiale del parkour. 17
Pedro "Phosky" León Gómez di GUP (Galizian Urban Project) all’Art of Motion del 2015. Il traceur olandese Bart Van Der Linden all’Art of Motion del 2016. 18
Di contro a questi canali comunicativi, esiste una gamma di eventi comunemente definiti raduni o workshop in cui decine, se non centinaia, di praticanti si ritrovano in luoghi simbolo per condividere giornate di conoscenza e allenamento, tentando di esplorare sia a livello tecnico che teorico i confini meno superficiali della disciplina, spesso con l’ausilio di praticanti e coach d’eccellenza. Trattasi solitamente di allenamenti collettivi ben organizzati e strutturati distribuiti su varie giornate, completi di condizionamento, tecniche e discussioni teoriche. Fra questi rientrano, ad esempio, i workshop internazionali dell’ADD Academy guidati da yamakasi come Chau, Yann e Laurent, i rendezvous di Parkourgenerations capeggiati da Chris Rowat e Dan Edwardes, e il Gerlev International Parkour Gathering di Danimarca guidato da valenti coach quali Martin Kallesøe. Per quanto riguarda l’Italia fra i raduni più gettonati ci sono il Lario Parkour di Mandello, in provincia di Lecco, giunto alla sua quarta edizione nel 2016, il Junglewave di Parkourwave che nell’anno successivo ha proposto una variante extraregionale sulle pendici del monte Etna, e i workshop locali di Next Area Parkour, in provincia di Vicenza. Un esempio particolare, poi, è dato dall’esame per la certificazione ADAPT19 rilasciata da K, l’unica qualifica al mondo per assistenti e coach di parkour. Scopo Parkourgenerations U formale di questo percorso è quello di ottenere un certificato per l’insegnamento della disciplina in corsi principalmente indoor, che sul suolo italiano è promossa dell’ente UISP (Unione Italiana Sport per Tutti) facente capo al CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) . Scopo più profondo e, se vogliamo, più pedagogico e formativo di tale iniziativa, è quello di approfondire il significato del parkour attraverso la condivisione di sforzi ardui da affrontare, i quali verranno poi rielaborati a livello personale in vista dell’esame finale, suddiviso in prove fisiche, tecniche, teoriche e di coaching. Come precisa il traceur Ghost, uno degli intervistati del mio lavoro, il focus è soprattutto sulla crescita personale: 19 “T he ADAPT qualifications ensure that any individual who wishes to coach others in the discipline of parkour / freerunning will do so in a knowledgeable, professional, competent and safe manner. The global ADAPT network provides an existing resource of highly experienced coaches and coaching bodies to support each individual in their personal and professional development”, Parkourgenerations.com 19
“Personalmente ritengo sia un utile strumento per conoscersi gettarsi col cuore e coi coglioni in prove apparentemente impossibili, dal punto di vista fisico, tecnico, mentale. La forma è secondaria, conta la sostanza del disagio che provoca la situazione. Maggiore sarà lo stress, maggiore, se si supera, sarà la conoscenza di sé e l'allargamento della propria zona di comfort”20. Il traceur Saiu, coach di Parkourwave, al seminario ADAPT 2 tenutosi a Bergamo nel maggio 2017. I partecipanti del Gerlev International Parkour Gathering del luglio 2017. 20 Allievo del vento, allenamento, pensieri, azioni. ADAPT, 30/10/2017 http://allievodelvento.blogspot.it/2017/10/adapt-2.html 20
La differenza fondamentale fra questi due mondi distinti, quello dei contest e quello dei workshop, è che nei primi vige soprattutto la regola dell’agonismo, nei secondi no, poiché la competizione è solo con sé stessi e in condivisione con l’Altro. È bene precisare che quella che intercorre spesso nelle discussioni fra i traceurs è una dicotomia generale e generalizzante fra ‘parkour puro’ e ‘parkour commercializzato’: il primo fa riferimento ai principi originari, quali forza, adattamento, solidarietà, e oggi anche resilienza; il secondo riguarda tutti quegli aspetti della disciplina legati alla sua commercializzazione esterna, che sia attraverso brand, contest o talent show. Più nello specifico, poi, il ‘parkour puro’ è quello che tendenzialmente trascura o rigetta la performance come elemento centrale della pratica per focalizzarsi, invece, su tutti quegli aspetti interiori e invisibili legati alle sensazioni provate durante l’attività e la sua condivisione. Ad ogni modo, questa dicotomia risulta a tutti gli effetti debole poiché, come vedremo, il parkour è una disciplina facilmente malleabile e riproducibile a seconda della personalità di ogni praticante: che sia parkour, freerunning o art du déplacement tutti i traceurs praticano fondamentalmente la stessa cosa. Dan Edwardes, Ceo di Parkourgenerations al seminario ADAPT 2 di Bergamo del 2017. 21
Il parkour è un oggetto di studio antropologicamente interessante poiché ogni traceur mostra uno stile di movimento tutto suo, derivante non tanto dalle personali capacità motorie o dalla scuola di appartenenza, ma soprattutto dalla visione specifica che egli ha dello spazio circostante. Attraverso gli occhi del traceur è possibile sviluppare tutta una serie di accorgimenti, stimoli, attenzioni e movenze che avranno un effetto particolare anche su qualcun altro, osservatore o praticante che sia. In questo senso sia traceurs che passanti sono invitati a curiosare e riflettere sulla spazialità e le architetture che li circondano. Il vero oggetto di studio, ad ogni modo, è il corpo in movimento: esso è il medium fra il punto di vista emico e l’occhio esterno dell’osservatore. I salti e le tecniche potenzialmente infinite del parkour sono un esempio di cultura immateriale soggetta a continue trasformazioni, una sorta “palinsesto intergenerazionale” per una disciplina alternativa e in evoluzione. Al fine di intraprendere una conoscenza meno superficiale del fenomeno è necessario, innanzitutto, setacciare le innumerevoli fonti informative disponibili e intraprendere, con spirito critico, quelle che sono le definizioni comunemente utilizzate per descrivere il fenomeno. Il mio interesse etnografico sta proprio in questo approccio ed è basato, oltre che su una selezione approfondita delle suddette fonti, su una ricerca di campo intesa a estrapolare le informazioni più intime e soggettive riguardanti il vissuto di un gruppo di traceurs storici delle prime generazioni italiane. 22
2. Ontologia del parkour 2.1 Parkour e place attachment Il termine place attachment, letteralmente ‘attaccamento allo spazio’21, si riferisce a un concetto multidimensionale impiegato principalmente nella branca della psicologia ambientale, incentrata sull’interazione fra individui e ambiente. Originariamente questo concetto è stato analizzato da studiosi come Bachelard (1958)22 ed Eliade (1963)23 in riferimento alla dimensione fenomenologica ‘dell’essere nel mondo’ e all’attaccamento del singolo alla spazialità sacra e domestica. Per anni l’interesse accademico nei confronti della soggettività è stato dominante rispetto al più ampio contesto storico e culturale. A partire dalla fine degli anni ‘70, tuttavia, l’approccio fenomenologico ha subìto un ampliamento importante perché influenzato dagli studi sul comportamentismo e la psicologia ambientale. Negli ultimi anni, infatti, l’interesse si sta spostando sempre di più sull’utilizzo culturale dello spazio da parte di individui e gruppi. La studiosa Setha Low, ad esempio, ha riflettuto in merito alla sua applicabilità in differenti scenari cittadini riportando casi studio provenienti da ricerche urbane spazianti dalla ritualità delle comunità spagnole all’attaccamento degli infanti allo spazio domestico.24 In generale l’argomento sta riscuotendo molto successo nelle scienze sociali e negli studi urbanistici. Uno delle analisi più recenti è quella elaborata da Manzo e Devine-Wright25, autori che attraverso un approccio strettamente multidisciplinare, forniscono metodi per una più ampia applicazione del concetto di place attachment. La varietà di argomenti a cui tale nozione è applicabile mi ha spinto a riscontrarne una coerenza anche con il fenomeno parkour e ad espormi direttamente all’analisi di alcuni punti 21 “Place attachment is dened as one's emotional or affective ties to a place, and is generally thought to be the result of a long-term connection with a certain environment. This is different from a simple aesthetic response such as saying a certain place is special because it is beautiful”, Leila Scannell, Robert Gifford, R., Defining place attachment: A tripartite organizing framework ( 2010), Journal of Environmental Psychology, vol. 30, p. 2 22 Gaston Bachelard, The Poetics of Space ( 1958) 23 Mircea Eliade, The Sacred and The Profane: The Nature of Religion (1963) 24 “The word "attachment" emphasizes affect; the word "place" focuses on the environmental settings to which people are emotionally and culturally attached. The question arises, however, as to what is meant by the word place”, Setha M. Low, Irwin Altman, Place Attachment, 1992, Plenum Press, NY & London, p. 5 25 Lynne C. Manzo, Patrick Devine-Wright, Place Attachment: Advances in Theory, Methods and Applications, 2013, Routledge 23
specifici; in particolare intendo indagare il concetto di place attachment in relazione al modello tripartito proposto da Scannell e Gifford (fig. 1). Sulla base di questo ragionamento il processo di ‘attaccamento allo spazio’ può essere studiato su più livelli e da diversi punti di vista, i quali rispecchiano tre dimensioni fondamentali: la persona (individuo), il processo (psicologia) e lo spazio (ambiente).26 La prima ha che fare con gli attori coinvolti, quindi ‘chi è attaccato’, la seconda con i processi mentali ed emozionali che si manifestano in tale attaccamento, la terza con la natura e le caratteristiche del luogo attaccato. Se applichiamo questo concetto strutturale al parkour vedremo, innanzitutto, che l’attore principale è colui che pratica, quindi il traceur, che i processi psicologici sono i meccanismi mentali e le emozioni che si attivano durante il processo di interazione con un determinato spazio, e che quest’ultimo è lo spot di allenamento del traceur con tutte le sue caratteristiche morfologiche e architettoniche. Ora, in base a questa suddivisione avremo una gamma di elementi peculiari inerenti a ognuna delle dimensioni sopra citate, i quali possono variare a seconda della soggettività dell’individuo coinvolto. Sulla base delle informazioni empiriche che andremo ad analizzare più avanti, intendo elencare ed esaminare alcuni di questi elementi partendo dalla dimensione del processo. Il processo nel parkour riguarda soprattutto la capacità di adattamento del corpo all’ambiente, sia dal punto di vista più propriamente fisico che da quello psicologico. L’adaptation è l’elemento primario che domina sull’intero quadro d’analisi del concetto place attachment applicato al parkour. Vedremo, però, che le competenze adattive del corpo umano non sono più considerabili esclusivamente in termini di funzionalità in un dato contesto e momento, ma a fronte di continui cambiamenti evolutivi e culturali assumono anche significati più profondi e variegati. Per quanto riguarda il processo, ad ogni modo, possiamo individuare una gamma di sensazioni, comportamenti e cognizioni che assumono una valenza specifica a seconda del tipo di attaccamento allo spazio e al tipo di allenamento intrapreso dal traceur (team training, sensorial, a-done, break the jump). A seconda di quelle che sono le caratteristiche del luogo e gli obiettivi del praticante, quindi, emergeranno differenti elementi da analizzare. 26 Leila Scannell, Robert Gifford, R., Defining place attachment: A tripartite organizing framework ( 2010), Journal of Environmental Psychology, vol. 30, p. 2 24
Fig. 1. Modello tripartito dell’attaccamento allo spazio27. Per quanto riguarda le sensazioni, ad esempio, la paura è certamente una di quelle più interessanti e significative. Come avremo modo di vedere, infatti, la paura intesa come emozione percepita durante il processo interattivo ‘tracciatore-spot’, assume una valenza non indifferente e ambigua: da un lato è veicolo di instabilità e incertezza, e quindi è un'emozione negativa, ambivalente e pericolosa, dall'altro è un trampolino di lancio verso l’ampliamento e il potenziamento della dimensione del sé, uno dei motori fondamentali per la crescita personale del traceur. Come sostiene Saville la paura non è solo un’emozione percepita dal traceur in un determinato momento, ma un processo da costruire e gestire da cui si possono trarre grandi vantaggi28. 27 Leila Scannell, Robert Gifford, Defining place attachment: A tripartite organizing framework, Journal of Environmental Psychology 30 2010 pp. 1-10 28 “The changing embodied movements of parkour can be both motivated by different kinds of fear, as well as a ‘method’ for altering, unveiling, rening and layering emotional engagements with places. Emotions here are more than simply something that ‘happen to’ a body; rather when fear is a lived and mobile process it can be considered, cultivated and sometimes even enjoyed”, Stephen John Savill, Playing with fear: parkour and the mobility of emotion, 2008, Social & Cultural Geography, Vol. 9, p. 893 25
Altre sensazioni possono riguardare il concetto di fatica che, per certi versi, nel parkour assume la valenza di una vera e propria dimensione etica. La fatica è strettamente legata al concetto di sfida (challenge), alla volontà di intraprendere sforzi psico-fisici singolari e funzionali, ancora una volta, non solo alla crescita personale, ma anche alla possibilità di mettersi in gioco in situazioni sempre più complesse e stimolanti. Per quanto riguarda le cognizioni, invece, intese come senso di consapevolezza verso il mondo esterno, l’elemento del significato (meaning) induce a riconoscere nello spot delle opportunità di crescita dal punto di vista fisico, psicologico e, più in generale, a livello di competenze tecniche sulla disciplina. Prendendo in considerazione lo studio di Bavinton, possiamo allargare ulteriormente questa dimensione e sostenere che gli ostacoli sono innanzitutto delle opportunità di valorizzazione e re-interpretazione dei vincoli urbani, intesi come restrizioni spaziali e percorsi obbligati tipici dello spazio pubblico postmoderno29. L’elemento del significato, quindi è estremamente importante nella pratica del parkour: ogni luogo, ogni allenamento, ogni singola azione relegata allo spazio urbano porta con sé un valore unico, riproducibile e tendenzialmente soggettivo. Un altro elemento interessante è quello della memoria. I ricordi legati a un determinato luogo, infatti, ad esempio quello di un salto non completato oppure di una sessione di movimenti portata a termine efficacemente, sono rilevanti nella misura in cui creano un legame intimo e profondo fra traceur e spot. Questo particolare legame suscita delle emozioni circoscrivibili esclusivamente in quel dato contesto e momento. In tal senso, la stretta connessione fra ricordi e spazialità va a incrementare quella che è l’aura identitaria del soggetto, grazie soprattutto all’accettazione e la rielaborazione di queste emozioni, ciò che in termini tecnici è definito place identity30. I luoghi, in un certo senso, diventano frammenti di memorie personali e, quindi, di identità. Infine c’è l’elemento del comportamento (behavior) che concerne tutti quegli aspetti legati alla condotta del singolo rispetto all’ambiente in cui si trova. Nello specifico i comportamenti di un traceur variano a seconda della sua etica personale e riguardano soprattutto il suo atteggiamento nei confronti dello spot e delle persone che incontra in quello spot. 29 Nathaniel Bavinton, From obstacle to opportunity: parkour, leisure, and the reinterpretation of constraints, 2007, Annals of Leisure Research 10(3/4), pp. 391-412 30 “Place-identity is defined as those dimensions of self that define the individual's personal identity in relation to the physical environment by means of a complex pattern of conscious and unconscious ideas, feelings, values, goals, preferences, skills, and behavioral tendencies relevant to a specific environment”, Harold Proshansky, The city and self-identity, Journal of Environment and Behaviour, Vol. 10, p. 59 26
Molti tracciatori, come vedremo, instaurano un legame affettivo con i luoghi in cui si allenano e questo li porta, spesso, a prendersi cura di questi spazi nel vero senso della parola, ad esempio rimuovendo la sporcizia ed eventuali elementi dannosi o fastidiosi (ferri sporgenti, chiodi, muschio sui muretti, ghiaccio ecc.). Per quanto riguarda l’aspetto relazionale, invece, l’analisi concerne il tipo di comportamento che il traceur, o il gruppo di traceurs, adotta nei confronti degli abitanti o dei lavoratori di passaggio, più in generale di tutte le persone che incontra durante lo svolgimento della sua attività. Alcuni mostrano curiosità e comprensione, altri possono risultare schivi, freddi e provocanti, quindi l’atteggiamento può variare in maniera non indifferente, e questo comporta delle conseguenza anche a livello di comprensione sociale della disciplina. Ad ogni modo, è interessante soffermarsi su ciò che accade quando un tracciatore si ritrova a spiegare la sua attività ai passanti sconosciuti. Seguendo lo schema di Scannell e Gifford, poi, vedremo che anche la dimensione dello spazio (place) risulta estremamente rilevante nell’analisi del fenomeno parkour. La spazialità può essere analizzata a 360° considerando il punto di vista specifico de traceur, il quale mira a interpretarla diversamente in termini di ambiente (urbano o naturale), conformazione (elementi), complessità, creatività, riproducibilità, estetica e così via; e questo per quanto riguarda la dimensione puramente ‘fisica’. Per quel che concerne l’aspetto sociale, poi, i temi di ricerca sono altrettanto variegati: ad esempio, è particolarmente rilevante il discorso sulla simbologia che ruota attorno allo spot il quale può assumere, di volta in volta, la valenza di un punto di aggregazione o di una meta per le sfide del gruppo o del singolo. Il caso dell’evento JWC (Junglewave Camp) 31 è sicuramente esemplare da questo punto di vista, in quanto mostra a tutto tondo quelli che sono gli aspetti sociali legati alla disciplina, soprattutto la condivisione dello sforzo e la solidarietà. Le cascate del fiume Serio in alta Val Seriana diventano il punto di raccolta simbolico dell’evento, in cui tutti i partecipanti sono chiamati a meditare e ripensare ai momenti passati insieme durante le giornate di allenamento in natura. Il JWC costituisce, a tutti gli effetti, un florido campo di ricerca etnografico. 31 “Tra le attività praticabili in natura, oltre al parkour, avremo delle sessioni di yoga e slack-lining preparate per noi da esperti nelle rispettive discipline, e gli immancabili laboratori di metodo naturale, incentrati su tutte le attività che ci hanno sempre ispirato: bouldering (arrampicata sui sassi), allenamento tramite l’utilizzo di attrezzi non convenzionali, combattimento e difesa personale”, http://www.parkourwave.com/en/junglewave/ 27
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