SOCIETÀ IN HOUSE: LA NON FALLIBILITÀ COMPLICA L'APPLICAZIONE DEL DECRETO 231

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SOCIETÀ IN HOUSE: LA NON FALLIBILITÀ
COMPLICA L’APPLICAZIONE DEL DECRETO 231
Carlo Manacorda, Presidente del Nucleo di Valutazione dell’Università della Valle d’Aosta, già
Docente di Pianificazione, programmazione e controllo delle aziende pubbliche, Università di
Torino

   Con sentenze n. 28699/2010 e n. 234/2011, la Corte di cassazione penale ha affermato
   che sono esclusi dall’applicazione della disciplina del d.lgs. 231/2001 (dopo decreto
   231, o solo decreto) – giusta il disposto del comma 3 dell’articolo 1 – soltanto lo Stato,
   gli enti pubblici territoriali, gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale e gli altri
   enti pubblici non economici. Ne ha quindi stabilito l’applicabilità anche alle società miste.
   La tassatività delle conclusioni della Suprema Corte penale – estese anche alle società
   pubbliche – indurrebbe a ritenere che il decreto vada applicato a tutti gli enti privati e
   pubblici, non rientranti tra quelli esonerati per legge, comprese quindi le società in house.
   La Corte d’Appello dell’Aquila – sulla scorta di pregressa giurisprudenza della Corte di
   Cassazione civile –, con sentenza n. 304 del 3 marzo 2015 ha dichiarato la non fallibilità
   di una società in house accertandone la non alterità rispetto all’ente pubblico controllante,
   fino a concludere che il danno arrecato al patrimonio della società in house da
   comportamenti illegittimi dei suoi amministratori è riconducibile al patrimonio della stessa
   amministrazione pubblica controllante. E, poiché un’amministrazione pubblica è esclusa
   per legge dalle norme sul fallimento, questa condizione si trasla anche alla società in
   house da essa controllata.
   La pronuncia del Giudice dell’Aquila – ancorché espressa su fattispecie specifica –
   sembra però ricreare dubbi circa l’applicabilità del decreto 231 quanto meno alla società
   in house, stante l’anomalia di questo Modello nell’ambito delle società pubbliche.
   Lo scritto intende svolgere alcune riflessioni su questa questione, anche tenendo conto
   delle evoluzioni del ruolo del decreto 231 intervenute ad opera delle norme anticorruzione.

   1. Le sentenze della Corte di cassazione n. 28699/2010 e n. 234/2011 e il
fenomeno della proliferazione delle società pubbliche

   Con le sentenze emarginate (rispettivamente del 09 luglio 2010 e 10 gennaio
2011), la Corte di cassazione (II sez. pen.) afferma che il decreto 231 si applica anche
ad una società mista. Chiamata a decidere – nell’ambito di controversie riguardanti
una società mista impegnata nella prestazione di servizi sanitari ed una società mista
costituita per la prestazione di servizi pubblici per la raccolta di rifiuti – se il decreto
231 vada applicato anche a soggetti di questa natura, conclude affermativamente. Ciò
poiché (e con argomentazioni simili in entrambe le sentenze) «sono esonerati
dall’applicazione del d.lgs. 231/2001 soltanto lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli
enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale e gli altri enti pubblici non
economici (art. 1, ultimo comma). Dunque, il tenore testuale della norma è
188    La responsabilità amministrativa delle società e degli enti

inequivocabile nel senso che la natura pubblicistica di un ente è condizione
necessaria, ma non sufficiente, all’esonero della disciplina in discorso, dovendo altresì
concorrere la condizione che l’ente medesimo non svolga attività economica»1. E poi
aggiunge che «ogni società, proprio in quanto tale, è costituita pur sempre per
l’esercizio di un’attività economica»2. Ove si riconoscesse alle pronunce della Suprema
Corte penale portata totalizzante, si dovrebbe concludere che sono assoggettabili al
decreto 231 tutte le società pubbliche, a condizione che svolgano attività economica3.
    Occorre però osservare che nel settore pubblico c’è stato, nell’ultimo ventennio,
un proliferare di strutture societarie e associative di ogni genere, costituite secondo
un’ampia varietà di modelli e per le finalità più varie. Unitamente alle società miste,
sono sorti migliaia di altri soggetti (società miste a capitale pubblico maggioritario o
minoritario, per azioni o a responsabilità limitata, con socio unico, fondazioni,
consorzi, associazioni di varia natura), ormai tutti ricondotti al termine unificante di
«partecipate»4. Fa parte di questa galassia anche la società in house.
    La società in house presenta, tuttavia, connotazioni che la differenziano da altre
forme societarie presenti nell’area pubblica. Esse sono così peculiari da far dire alla
Corte d’Appello dell’Aquila (sent. 3 marzo 2015, n. 304 – infra) e ad altri giudici di
merito5 che «non c’è alterità tra l’ente pubblico partecipante e la società in house», con
la conseguenza che il danno arrecato al patrimonio di una società in house dal
comportamento illegittimo di un suo amministratore «è arrecato ad un patrimonio
riconducibile all’ente pubblico» che l’ha costituita.
    Non si può negare che la dimensione di una simile affermazione può anche
travalicare l’ambito del giudicato, con riflessi su altre situazioni che attengano alla
società in house. Potrebbe rientrare tra queste l’applicazione alla società in house
della disciplina del decreto 231. Merita quindi sviluppare, sul punto, alcune riflessioni,

      1
        Per un’analisi delle due pronunce, cfr., Manacorda, Le nuove frontiere del decreto 231: l’attività economica pubblica,
in questa Rivista, 2011, 37 ss.
      2
         Anche il Comando generale della Guardia di Finanza, con circolare 83607/2012 (vol. III, 3), sottolinea analoghe
conclusioni. Ne consegue che, ove nel corso di attività di polizia giudiziaria condotte presso società pubbliche emergano
situazioni riconducibili a violazioni di norme del decreto 231, sorge l’obbligo, a carico dei poliziotti che eseguono le
attività, di denunciare il fatto all’autorità giudiziaria.
      3
        Per il vero, nel settore pubblico non è facile stabilire quando si è in presenza di attività economica. Non esistendo
criteri definiti normativamente, si può fare ricorso, indirettamente, all’art. 2082 c.c. per cui è economica l’attività
«organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi». In realtà, la norma dice in che cosa consiste
l’attività economica, senza valutarne i risultati. Se cioè questi debbano presentare determinate caratteristiche. Per chiarire
il punto, possono allora intervenire le dottrine economiche d’azienda per cui è economica l’attività quando si svolge in
condizioni di equilibrio di bilancio, tendendo cioè al pareggio tra i costi e i ricavi (cfr. Onida, Economia d’azienda, 1971,
56 ss.). Una simile argomentazione può essere valida nel settore privato, ma incontra difficoltà ad essere calata «tout court»
nel settore pubblico. Partendo dai casi dei due giudicati in esame, si può osservare che la società mista è (o dovrebbe
essere) costituita soltanto per svolgere servizi pubblici. Questi, per loro natura, sono destinati a soddisfare i bisogni della
collettività. Quindi, devono essere resi in ogni caso e con continuità, indipendentemente da valutazioni economiche.
L’applicazione rigorosa del principio dell’impresa privata per cui è economica l’attività che si svolge in pareggio tra costi
e ricavi non sempre (quasi mai) può essere praticata in un’impresa pubblica. Un’illuminante interpretazione in materia
viene addirittura dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale (Corte Cost., 12 gennaio 2011, n. 26, e 03 novembre
2010, n. 325). Il Giudice delle leggi afferma che l’esercizio dell’attività di un servizio pubblico con metodo economico va
inteso nel senso che l’attività «considerata nella sua globalità, deve essere svolta in vista quantomeno della copertura, in
un determinato periodo di tempo, dei costi mediante i ricavi (di qualsiasi natura questi siano, ivi compresi gli eventuali
finanziamenti pubblici». Dunque, sebbene in presenza di autorevole giurisprudenza specifica, non sono poche le
perplessità che sorgono in materia di applicazione del decreto 231 alle società miste e pubbliche in generale.
      4
         Nel «Rapporto del Ministero dell’economia e delle finanze sulle partecipazioni detenute da amministrazioni
pubbliche al 31 dicembre 2012» (luglio 2014), risulta che le amministrazioni centrali dello Stato partecipano, direttamente o
in via indiretta, in 440 enti. Le amministrazioni locali hanno dichiarato di detenere , in via diretta o indirettamente, 35.311
partecipazioni che insistono in 7.726 enti.
      5
        Ad es. Trib. Verona, 19 dicembre 2013, n. 651.
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti   189

anche tenendo conto delle evoluzioni del ruolo del decreto 231 intervenute ad opera
delle norme anticorruzione. Le riflessioni non possono che partire da un breve esame
dell’origine e delle peculiarità della società in house.

    2. La società in house: modello societario anomalo

    Nell’accezione economica più ampia, per «mercato» s’intende l’incontro tra
domanda e offerta. Nell’area pubblica però il «mercato» si sviluppa seguendo
metodologie proprie. Infatti, l’incontro tra domanda e offerta non può avvenire
liberamente, ma deve seguire un complesso di regole specifiche la cui finalità prima
è quella di assicurare l’imparzialità della pubblica amministrazione6. L’applicazione di
queste regole e metodologie proprie dà luogo alle cosiddette «procedure ad evidenza
pubblica», vale a dire a un insieme di atti dell’amministrazione mediante i quali essa
rende pubblica la sua volontà di addivenire alla stipulazione di contratti per
l’esecuzione di lavori o l’acquisizione di beni, forniture o servizi. Stabilisce inoltre –
attraverso l’apposito strumento del «bando di gara» – le condizioni in base alle quali
gli operatori economici devono formulare la loro offerta per l’esecuzione delle
prestazioni richieste e fissa le regole contrattuali che saranno applicate a detta
esecuzione7. Sono questi i fatti che danno luogo a quelle operazioni comunemente
definite «gare pubbliche». L’adesione dell’Italia all’Unione europea (Ue) obbliga il
nostro Paese ad adeguare le procedure ad evidenza pubblica alle direttive dell’Ue al
riguardo. Sono anzi queste che disciplinano ormai tutta l’attività negoziale della
pubblica amministrazione.
    La linearità del procedimento dell’evidenza pubblica s’interrompe allorché
s’inserisce nel mercato della pubblica amministrazione – per ragioni diverse – la figura
della società mista, vale a dire una società che vede la presenza nel capitale di denaro
pubblico e privato8. La presenza nel capitale anche di denaro pubblico induce,
progressivamente, a ritenere che si giustifichi il superamento delle metodologie
dell’evidenza pubblica. Si forma cioè il convincimento che gli enti pubblici che
partecipano al capitale possano affidare direttamente ad una società mista, da essi
costituita, l’esecuzione di lavori di loro interesse o la fornitura di beni o servizi dei
quali abbisognino. Si giunge fino alla creazione di vere e proprie «catene societarie»
che consentono a una pluralità di enti, sulla base della supposizione poc’anzi detta,
di sottrarsi alle procedure dell’evidenza pubblica per il solo fatto di aver conferito
denaro o altre risorse nel capitale di una molteplicità di società miste dagli oggetti
sociali più differenziati, alle quali si chiedono, in funzione dell’oggetto sociale,
prestazioni di varia natura.

     6
       La pubblica amministrazione amministra denaro pubblico, cioè dei cittadini. Deve quindi garantire che esso sia
speso, oltre che in maniera economicamente apprezzabile, anche senza effettuare favoritismi, possibili se i comportamenti
fossero discrezionali e non vincolati da norme cogenti. Il principio dell’imparzialità della pubblica amministrazione è
sancito nell’art. 97 della Costituzione italiana.
     7
       Le procedure ad evidenza pubblica sono ora disciplinate dal d. lgs. 163/2006 «Codice dei contratti pubblici relativi
a lavori, servizi e forniture» (v. però nota 17 infra).
     8
       Sul processo genetico ed evolutivo della società mista, cfr. Levis, Manacorda, Le società miste, Milano, 2005, 2 ss.
190    La responsabilità amministrativa delle società e degli enti

    E’ di tutta evidenza che comportamenti di questa natura confliggono con i principi
generali sulla concorrenza fissati dal Trattato sull’Unione europea9. Accertatane
tuttavia l’esistenza, occorre disciplinarli in qualche maniera. In particolare, è necessario
stabilire come possa svilupparsi l’attività negoziale della pubblica amministrazione
allorché l’altro contraente sia un soggetto creato e capitalizzato da essa. In sintesi e
in termini di larga massima, le società partecipate dalla pubblica amministrazione
vengono distinte in due categorie. Appartengono alla prima le società le quali, benché
partecipate dalla pubblica amministrazione, non subiscono da questa controlli così
penetranti da annullarne l’autonomia comunemente riconosciuta ad una società
regolata dalle norme civilistiche10. La seconda comprende le società nelle quali il
controllo dell’amministrazione pubblica partecipante è così penetrante e assorbente
da togliere loro la quasi totalità delle autonomie. Questa seconda categoria dà luogo
alle società cosiddette «in house», soggetti cioè che – anche soltanto stando al valore
letterale del termine – sono organicamente legati alla pubblica amministrazione che
li ha costituiti. Uno degli elementi che le differenzia, totalmente, dalle società della
prima categoria è quello che l’amministrazione costituente può affidare loro, senza
applicare le procedure ad evidenza pubblica, l’esecuzione di lavori o la fornitura di
beni o servizi, stipulando i conseguenti contratti11. L’affidamento diretto dà luogo al
cosiddetto «in house providing»12. Le società della prima categoria – anche questo in
termini di larga massima – possono eseguire prestazioni a favore dell’amministrazione
pubblica costituente. Devono però partecipare come concorrenti a gare pubbliche
indette da questa.
    Mancando norme positive che stabiliscano quando si è in presenza di una società
in house, interviene la giurisprudenza per definirne le caratteristiche. L’intervento si
rende necessario per il fiorire di contenziosi in materia. La Corte di Giustizia europea
– con sentenza del 18 novembre 1999 (causa C-107/98 Teckal) – stabilisce che, per
giustificare l’in house providing, occorre che l’ente affidante eserciti sul soggetto
affidatario un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, e che il soggetto
affidatario realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti
che lo controllano (cd. attività prevalente)13. Appare evidente l’anomalia di questo
modello societario14, nel quale è totalmente assente l’autonomia gestionale che
l’ordinamento positivo assicura ad una struttura societaria. Di talché la società, nel

     9
        Rilevano al riguardo, principalmente, gli articoli del Trattato 81 («Sono incompatibili con il mercato comune e
vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano
pregiudicare il commercio tra gli Stati e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco
della concorrenza all’interno del mercato comune») e 82 («E’ incompatibile con il mercato comune e vietato, nella misura
in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese
di una posizione dominante sul mercato comune o su una parte sostanziale di questo»).
     10
        Viene qui in causa, in particolare, l’art. 2449 c.c. riguardante le società con partecipazione dello Stato e degli enti
pubblici. In argomento, v. anche Cass. Civ. 06 dicembre 2012, n. 21991; Cass. Civ. S.U. 03 maggio 2013, n. 10299.
     11
        La prima definizione di contratto in house è contenuta nel «libro bianco» della Commissione europea del 1998. Lo si
definisce «il contratto aggiudicato all’interno della pubblica amministrazione, ad esempio tra un’amministrazione centrale
e le amministrazioni locali, ovvero tra un’amministrazione e una società da questa interamente controllata».
     12
        Per alcuni spunti sull’in house providing, v., per tutti, Manacorda, Contabilità pubblica, Torino, 2009, 256 ss.
     13
        La sentenza della Corte di Giustizia europea ha poi prodotto una sterminata giurisprudenza comunitaria e nazionale,
tutta in ogni caso che conferma le caratteristiche originariamente stabilite dalla sentenza Teckal, con l’aggiunta che
possono essere soci della società in house soltanto enti pubblici. In sede interna, la puntualizzazione delle caratteristiche
della società in house è avvenuta, in generale, dalla sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato dello 01-03
marzo 2008 e dalla sentenza della Corte costituzionale 439/2008. Un’ampia rassegna della giurisprudenza, comunitaria e
nazionale, riguardante le società in house è presente in Salvato, Società pubbliche, responsabilità degli amministratori e
riparto della giurisdizione, www.scuolamagistratura.it/.../368-formazione-permanente-p15064.html?.
     14
        Cfr. Cass. Civ., S.U., 25 novembre 2013, n. 26283.
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti    191

caso in house, «non è più un istituto dotato di specifiche caratteristiche e collegato ad
uno specifico regime giuridico, ma si trasforma in un dato meramente formale,
manipolabile a piacere»15.
     La situazione di perdurante stato confusionale e conflittuale in materia di in house
providing verosimilmente cesserà con la piena applicazione dei principi stabiliti,
anche per questa materia, dalla Direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del
Consiglio del 26 febbraio 2014 (dopo soltanto Direttiva Ue) che stabilisce la nuova
disciplina sugli appalti pubblici16. La Direttiva Ue, benché già vincolante, dovrà essere
recepita dagli Stati membri della Ue17.
     Tutto ciò premesso, si rileva che le caratteristiche della società in house diventano
anche il punto da cui partire per stabilire la possibilità o non di applicare ad essa altri
istituti generali previsti dall’ordinamento positivo. La sentenza della Corte d’Appello
dell’Aquila, sulla scorta di ripetuta giurisprudenza della Corte Suprema di cassazione,
si muove lungo questa linea.

    3. La sentenza della Corte d’Appello dell’Aquila n. 304, del 3 marzo 2015

    Con la sentenza n. 304/2015, la Corte d’Appello dell’Aquila revoca una pronuncia
del Tribunale civile di Pescara che dichiara il fallimento di una società in house18. Per
il Giudice di seconde cure, l’assunzione di questo modello da parte di una società
partecipata dalla pubblica amministrazione impedisce la dichiarazione di fallimento
per mancanza del requisito soggettivo della fallibilità. La Corte d’Appello perviene al
suo convincimento attraverso una lettura congiunta della norma della legge

    15
         Fimmanò, La giurisdizione sulle società pubbliche, in Società, 2013, 974.
    16
         Analogamente a quanto già affermato in materia dalla giurisprudenza a partire dalle sentenza Teckal del 1999, l’art.
12 della Direttiva Ue – rubricato «Appalti pubblici tra enti nell’ambito del settore pubblico» – al paragrafo 1 stabilisce che
«Un appalto pubblico aggiudicato da un’amministrazione aggiudicatrice ad una persona giuridica di diritto pubblico o di
diritto privato non rientra nell’ambito di applicazione della presente direttiva quando siano soddisfatte tutte le seguenti
condizioni: a) l’amministrazione aggiudicatrice esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello
da essa esercitato sui propri servizi; b) oltre l’80% delle attività della persona giuridica controllata sono effettuate nello
svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche
controllate dall’amministrazione aggiudicatrice di cui trattasi; c) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna
partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano
controllo o parere di veto [...]. Si ritiene che un’amministrazione aggiudicatrice eserciti su una persona giuridica un controllo
analogo a quello esercitato sui propri servizi ai sensi della lett. a) qualora essa eserciti un’influenza determinate sia sugli
obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata. Tale controllo può anche essere
esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall’amministrazione aggiudicatrice».
L’art. 12 della Direttiva Ue prosegue esaminando le varie ipotesi che si possono presentare nell’applicazione di questi
principi. Al paragrafo 5, stabilisce i criteri per stabilire la percentuale dell’80% dell’attività prevalente.
      17
         Il 14 gennaio 2016, il Parlamento italiano ha approvato il d.d.l. diventato poi la legge 28 gennaio 2016, n. 11,
concernente: «Deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle
procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il
riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture». Il Governo è delegato
ad adottare, entro il 31 luglio 2016, un decreto legislativo per il riordino complessivo della disciplina vigente in materia
di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture. Il decreto darà luogo al nuovo «Codice degli appalti pubblici e dei
contratti di concessione», che sostituirà il d. lgs. 63/2006 (v. nota 2). La legge di delega contiene anche le direttive cui il
Governo dovrà attenersi per disciplinare l’in house providing (art 1, comma 1, lett. eee) e iii).
      18
         La sentenza del Tribunale civile di Pescara dello 08 luglio 2014 aveva dichiarato il fallimento della società a
responsabilità limitata Riscossioni comunali di Pescara, a totale partecipazione comunale. Contro la sentenza, è stato
proposto reclamo ai sensi dell’art. 18 della legge fallimentare (R.D. 257/1942, sost. dai dd.lgs 5/2006 e 169/2007). Donde
la pronuncia della Corte d’Appello «de qua».
192    La responsabilità amministrativa delle società e degli enti

fallimentare che individua i soggetti passivi delle disposizioni sul fallimento e di
recente giurisprudenza che puntualizza la natura delle società in house sulla base dei
requisiti che questi soggetti devono possedere per essere classificati in tal modo.
    La norma della legge fallimentare (v. nota 18) in questione è l’articolo 1. Modificato
con i decreti legislativi 5/2006 e 169/2007, al comma 1 recita: «Sono soggetti alle
disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano
una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici». Pertanto, ove alla società in house
fosse attribuibile «tout court» la qualificazione di ente pubblico, se ne determinerebbe
la non fallibilità. Così non essendo, è necessario ricorrere ad elementi esegetici per
giustificare la dichiarazione di non fallibilità di questo soggetto.
    Nel caso «de quo», la Corte dell’Aquila richiama la sentenza della Corte di
cassazione civile n 26288, del 25 novembre 2013. Nel contesto della pronuncia, la
Suprema Corte richiama le caratteristiche che un ente societario deve possedere per
essere considerato in house. In linea con le posizioni comunitarie, iniziali ed evolutive,
richiamate nel paragrafo precedente, ricorda che la società in house si caratterizza per
la presenza di tre requisiti: la natura esclusivamente pubblica dei soci; l’esercizio
dell’attività in prevalenza a favore dei soci stessi (attività prevalente); la sottoposizione
ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui loro uffici
(controllo analogo). E’ soprattutto quest’ultimo il requisito dirimente per stabilire la
possibile configurazione giuridica del modello societario in house.
    Osserva la Corte di cassazione (di qui a un po’ varranno i principi dell’art. 12 della
Direttiva Ue) che sussiste il controllo analogo quando l’ente pubblico partecipante
abbia statutariamente il potere di dettare le linee strategiche e le scelte operative della
società partecipata. Dall’altro canto, nella società in house vi è la totale subordinazione
dei suoi gestori all’ente pubblico partecipante. La presenza di siffatte condizioni fa
concludere, in sintesi, che «non c’è alterità tra l’ente pubblico partecipante e la società
in house». Cosicché il danno arrecato al patrimonio di una società in house dal
comportamento illegittimo di un suo amministratore «è arrecato ad un patrimonio
riconducibile all’ente pubblico». Ampliando il ragionamento, «va seguito l’orientamento
che parifica, in qualche misura, le società in house agli enti pubblici, con il
conseguente impedimento alla fallibilità delle stesse»19.
    D’altro canto, la Corte di cassazione ha espresso analoga posizione nella sentenza
n. 26283, sempre del 25 novembre 2013. Dopo aver osservato che la società in house
ha solo la forma esteriore della società ma che, in realtà, costituisce un’articolazione
della pubblica amministrazione, sottolinea che essa – come in qualche modo già la
sua stessa denominazione denuncia – non pare in grado di collocarsi come un’entità
posta al di fuori dell’ente pubblico. Questi ne dispone come di una propria
articolazione interna, di talché l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto
all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri
dell’amministrazione stessa20. Seguendo una simile linea di pensiero, si giunge
addirittura ad affermare che il contratto stipulato con la società in house configuri,

     19
        Non c’è dunque una qualificazione della società in house come ente pubblico – impossibile tenendo conto che
vige, tuttora, l’art. 4 della legge 70/1975 per cui «nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per
legge» –, ma l’affermazione di una «parificazione», col che si ritiene applicabile l’art. 1 della legge fallimentare che esclude,
per l’appunto, la fallibilità degli enti pubblici.
     20
        Così anche Cons. Stato, ad. pl., 1-3 marzo 2008, n. 1.
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti   193

nella sostanza, un rapporto contrattuale intersoggettivo tra aggiudicante ed affidatario,
perché quest’ultimo – in realtà – è solo la «longa manus» del primo21.
      Alla luce di queste premesse, la Suprema Corte conclude che «gli organi di tali società,
assoggettati come sono a vincoli gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione,
neppure possono essere considerati, a differenza di quanto accade per gli amministratori
delle altre società a partecipazione pubblica, come investiti di un mero ‘munus’ privato,
inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato con la medesima società. Essendo
essi preposti ad una struttura corrispondente ad un’articolazione interna alla stessa
pubblica amministrazione, è da ritenersi che essi siano personalmente a questa legati da
un vero e proprio rapporto di servizio, non altrimenti di quel che accade per i dirigenti
preposti ai servizi erogati direttamente dall’ente pubblico. L’analogia tra le due situazioni
[...] non giustificherebbe una conclusione diversa nei due casi, né quindi un diverso
trattamento in punto di responsabilità e di relativa giurisdizione. D’altro canto, se non
risulta possibile configurare un rapporto di alterità tra l’ente pubblico partecipante e la
società in house che ad esso fa capo, è giocoforza concludere che anche la distinzione
tra il patrimonio dell’ente e quello della società si può porre in termini di separazione
patrimoniale, ma non di distinta titolarità. Dal che discende che, in questo caso, il danno
eventualmente inferto al patrimonio della società da atti illegittimi degli amministratori, cui
possa aver contribuito un colpevole difetto di vigilanza imputabile agli organi di controllo,
è arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile all’ente pubblico».
      Tenendo dunque conto della posizione che assume una società in house rispetto
all’ente pubblico costituente e partecipante, e richiamando anche i principi affermati
dalla Cassazione penale (supra, 1), si può vedere se e come le caratteristiche della
società in house possano conciliarsi con le norme di fondo del decreto 231.

   4. Le norme di fondo del decreto 231

    Come ricordato in precedenza, l’articolo 1, comma 3, del decreto 231 stabilisce, in
via generale, che le sue disposizioni non si applicano allo Stato, agli enti pubblici
territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono
funzioni di rilievo costituzionale. Ne consegue che, per il Giudice penale, sono attratti
alla disciplina del decreto tutti gli altri soggetti che non rientrano tra quelli indicati da
questa norma (supra, 1).
    L’articolo 5, comma 1, del decreto stabilisce che: «L’ente è responsabile per i reati
commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni
di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità
organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché da persone che
esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone
sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lett. a)».
L’articolo 7, comma 1, dispone che: «Nel caso previsto dall’articolo 5, comma 1, lett.
b), l’ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile
dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza». L’articolo 9 e ss. e l’articolo

   21
        Corte cost. 13 marzo 2013, n. 46.
194   La responsabilità amministrativa delle società e degli enti

27 contengono le norme riguardanti le sanzioni applicabili agli illeciti amministrativi
dipendenti da reato nei termini previsti dalla disciplina del decreto 231.
     Si tratta allora di vedere se e come queste regole possano trovare applicazione
all’interno di una società in house, stanti le connotazioni di questo soggetto prima
evidenziate.

   5. L’applicazione del decreto 231 alla società in house

   5.1. Non applicabilità

     Una sintetica ipotesi estrema porterebbe, addirittura, alla conclusione che il
decreto 231 non è applicabile alla società in house.
     S’è detto che la società in house si caratterizza per la presenza di tre requisiti: controllo
analogo, attività prevalente e assenza, nel capitale, di capitali privati. Nell’interpretazione
giurisprudenziale prima richiamata (supra, 3), un soggetto che presenta, contestualmente,
questi tre requisiti non si pone in posizione di alterità con l’ente pubblico partecipante e
controllante. Si sottolinea, anzi, che la società in house ha solo la forma esteriore della
società ma che, in realtà, costituisce un’articolazione della pubblica amministrazione
controllante; questa dispone di essa come di una propria articolazione interna. Ed ancora,
che la società in house deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione
controllante, una sua «longa manus», e non può considerarsi entità posta al di fuori
dell’ente pubblico. Da ultimo, che va seguito l’orientamento che parifica, in qualche
misura, le società in house agli enti pubblici, con il conseguente impedimento alla
fallibilità delle stesse. Cosicché il danno arrecato al patrimonio di una società in house dal
comportamento illegittimo di un suo amministratore «è arrecato ad un patrimonio
riconducibile all’ente pubblico» partecipante.
     Sulla base di queste argomentazioni, si potrebbe giungere ad escludere che la
disciplina del decreto 231 possa essere applicata alla società in house. Non essendoci
infatti frattura con l’ente partecipante e controllante, e coincidendo questo ente –
almeno come finora si conosce – con lo Stato, un ente pubblico territoriale o un altro
ente pubblico non economico, la non assoggettabilità della società in house alla
disciplina del decreto 231 discenderebbe dalle stesse norme del decreto.

   5.2. Applicabilità, ma problematica

   Ove non s’intenda condividere la tesi di sintesi poc’anzi esposta e si vogliano
analizzare ipotesi di applicazione del decreto 231 anche alla società in house, si
prospettano tuttavia profili problematici che generano numerose perplessità sulle
possibilità di quest’applicazione.

   5.2.1 Attività prevalente

   Consideriamo il requisito dell’attività prevalente. In base ad esso, risulta dunque
che la società in house svolge una duplice attività: quella prevalente a favore
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti     195

dell’amministrazione controllante ed una – per così dire «residuale» – in maniera
libera. Non interessa entrare nel merito della percentuale dell’una e dell’altra22.
Tenendo tuttavia sempre presente la posizione della società nei confronti
dell’amministrazione controllante, si può dire che l’attività prevalente è attività
riconducibile, direttamente, all’ente pubblico. Questa parte di attività resterebbe,
quindi, esclusa dall’applicazione del decreto 231. Resta l’attività libera. Astrattamente,
per questa si potrebbe anche ipotizzare un’applicazione della disciplina del decreto
231, tuttavia non facilmente attuabile. D’altro canto, se la giurisprudenza di legittimità
e di merito richiamata in precedenza afferma la non fallibilità della società in house,
ove la si potesse frazionare si potrebbe giungere alla conclusione che la società in
house è «parzialmente fallibile».

     5.2.2 Controllo analogo

    Come s’è appena detto, in astratto l’attività della società in house può essere
duplice. Di conseguenza, anche il requisito del controllo analogo potrebbe
assumere aspetti diversi a seconda che riguardi l’attività prevalente o quella
residuale. Per la prima, si suppone che siano le stesse condizioni che regolano
l’affidamento dei compiti che ne individuino i contenuti. Per la seconda, si
dovrebbero trovare criteri d’individuazione nello statuto della società o, quanto
meno, all’interno della convenzione-quadro che definisce i rapporti tra l’ente
controllante e la società. Infatti l’amministrazione controllante – anche per non
alterare equilibri del mercato e della concorrenza – dovrebbe definire confini e
contenuti dell’attività libera della società che dipende da essa. Né va dimenticato
che il Consiglio di Stato, definendo le caratteristiche della società in house, indica
infatti anche: «la totale dipendenza dell’affidatario diretto in tema di strategie e
politiche aziendali»23. Per le ragioni dette a proposito dell’attività prevalente,
sarebbe comunque arduo, anche sotto questo profilo, distinguere due parti
differenziate dello stesso soggetto.

     5.2.3 Interesse o vantaggio nella commissione del reato

    Il decreto 231 stabilisce che c’è responsabilità dell’ente se il reato è commesso nel
suo interesse o a suo vantaggio. Esistendo una quasi compenetrazione tra società in
house e amministrazione pubblica controllante, bisogna chiarire a chi debba essere
riportato l’interesse o il vantaggio perseguito con la commissione del reato. Per tutto
quanto finora detto, parrebbe che interesse o vantaggio verrebbero, da ultimo, riferiti
all’amministrazione pubblica controllante. Ma se questa è esclusa dalla disciplina del
decreto 231, anche questa disposizione non è applicabile.

      22
         Nel tempo, il requisito dell’attività prevalente è stato variamente interpretato. La Corte costituzionale, con sentenza
n. 439 del 23 dicembre 2008 (supra, nota 8), ha stabilito che, per verificare la prevalenza dello svolgimento dell’attività
a favore dell’ente pubblico conferente, il giudice comune deve valutare gli aspetti quantitativi di essa, senza rigide
predeterminazioni della relativa percentuale, ed i profili qualitativi riferiti all’attività svolta in maniera tale da stabilire se
l’attività d’impresa sia svolta, in maniera preponderante, per l’ente pubblico affidante. Recentemente, la questione è stata
anche esaminata dal Consiglio di Stato, sezione II, che ha formulato, in data 30.01.2015, il parere 298/2015. Il parere tiene
ormai conto della percentuale dell’80% stabilita dalla Direttiva 2014/24/UE (supra, nota 16).
      23
         Cons. Stato, ad. pl., cit.
196    La responsabilità amministrativa delle società e degli enti

    5.2.4 Autonomia finanziaria e funzionale

    L’articolo 5, comma 1, del decreto stabilisce che c’è attribuzione di responsabilità
all’ente quando sussiste un’autonomia finanziaria e funzionale. Ma, proprio alla luce
dei requisiti della società in house, è ipotizzabile una sua autonomia finanziaria e
funzionale e in quale misura? Essendo difficile l’individuazione di queste condizioni,
viene a cadere un altro degli elementi che consentirebbero l’applicazione del decreto
231 alla società in house.

    5.2.5 Reato commesso per l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza

    L’articolo 7, comma 1, parla di imputabilità di responsabilità all’ente se la
commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di
direzione o vigilanza. Anche per questo elemento, occorrerebbe procedere ad una
complessa ricostruzione per definire quando l’inosservanza agli obblighi di direzione
o vigilanza sia riferibile agli uffici interni della società o a carenze ravvisabili
nell’ambito del requisito del controllo analogo.

    5.2.6 L’apparato sanzionatorio

    L’articolo 9 (e seguenti) contempla l’apparato sanzionatorio applicabile agli illeciti
amministrativi dipendenti da reato. Un rapido sguardo ad esso evidenzia la pressoché
totale inapplicabilità delle sanzioni indicate. Quelle pecuniarie o di natura
para-pecuniaria (confisca) – proprio tenendo conto della giurisprudenza di legittimità
e di merito richiamata nello scritto – dovrebbero essere sostenute con fondi pubblici;
in ogni caso appartenenti ad un ente escluso per legge dall’applicazione del decreto
231. Quelle interdittive appaiono, di per sé, inapplicabili ad una società in house
tenendo conto delle sue caratteristiche che ne giustificano la stessa costituzione24.
    L’articolo 27, comma 1, stabilisce che: «Dell’obbligazione per il pagamento della
sanzione pecuniaria risponde soltanto l’ente con il suo patrimonio o con il fondo
comune». Nell’applicazione di questa disposizione, va però tenuto presente quanto
precisato dalla giurisprudenza circa la sostanziale inesistenza di un patrimonio
autonomo della società in house, e della sua convergenza nel patrimonio dell’ente
pubblico partecipante.

    5.2.7 La responsabilità degli amministratori

   Anche in materia di responsabilità degli amministratori, si configura una situazione
diversa a seconda che si tratti di comportamenti causati da loro nell’ambito di una
società partecipata o di una società in house. La questione è stata inquadrata,
essenzialmente, nell’individuazione del giudice competente per danno causato dagli
amministratori alla società pubblica.

    24
       L’art. 9 del decreto elenca le seguenti sanzioni interdittive: interdizione dall’esercizio dell’attività, sospensione o
revoca delle autorizzazioni, licenze e concessioni funzionali alla commissione dell’illecito, divieto di contrattare con la
pubblica amministrazione, esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi ed eventuale revoca di quelli già
commessi. Come ben si vede, sono tutte sanzioni che «smonterebbero» la stessa società
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti   197

    Dopo interpretazioni giurisprudenziali ondivaghe nel passato25, è intervenuta la
sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione civile n. 26806, del 19 dicembre
2009. Essa ha stabilito che è competente il giudice ordinario per il danno arrecato da
amministratori di una società pubblica dovendosi far ricorso ai principi dell’art. 2392
c.c. e ss., non diversamente che in qualsivoglia altra società privata con la conseguenza
che «il danno cagionato dagli organi della società al patrimonio sociale, non è idoneo
a configurare anche un’ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte dei
conti, perché non implica alcun danno erariale, bensì unicamente un danno sofferto
da un soggetto privato (appunto la società), riferibile al patrimonio appartenente
soltanto a quel soggetto e non certo ai singoli soci - pubblici o privati - i quali sono
unicamente titolari delle rispettive quote di partecipazione».
    Le responsabilità degli amministratori di una società in house vanno però ora lette
alla luce della più volte citata sentenza della Corte di cassazione 26283/2013. Stante
una sorta di «incorporamento» tra società in house e amministrazione pubblica
controllante, non possono valere i limiti alla giurisdizione contabile nei giudizi
riguardanti la responsabilità degli organi di società a partecipazione pubblica. Di
talché, come in precedenza evidenziato, «essendo essi preposti ad una struttura
corrispondente ad un’articolazione interna alla stessa pubblica amministrazione, è da
ritenersi che essi siano personalmente a questa legati da un vero e proprio rapporto
di servizio, non altrimenti di quel che accade per i dirigenti preposti ai servizi erogati
direttamente dall’ente pubblico. L’analogia tra le due situazioni [...] non giustificherebbe
una conclusione diversa nei due casi, né quindi un diverso trattamento in punto di
responsabilità e di relativa giurisdizione»26.

    5.2.8 Una sintesi

    Com’è dato di vedere, non sono poche le questioni che sorgerebbero ove si
pensasse di tentare un’applicazione del decreto 231 alla società in house. Si potrebbero
risolvere nell’ambito del Modello di organizzazione e controllo previsto dall’art. 6 del
decreto? Se ne può dubitare per la complessità e le incertezze esistenti. E ciò vale
anche come premessa per sviluppare qualche annotazione in merito alla considerazione
delle società in house nell’ambito delle norme anticorruzione introdotte dalla legge
190/2012.

    6. Società in house e normativa anticorruzione: un incontro problematico

   L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), con deliberazione 8/2915, del 17
giugno 2015, ha dettato le «Linee guida per l’attuazione della normativa in materia di
prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto
privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici».

    25
      In punto, cfr. Levis, Manacorda, op. cit., 62 ss.
    26
      In materia di amministratori di società pubbliche, si può richiamare quanto previsto dall’art. 16 del d.l. 90/2014,
convertito nella legge 114/2014. La norma ha sostituito i commi 4 e 5 dell’art. 4 del d.l. 95/2012, convertito nella legge
135/2012, che prevedevano che i consigli di amministrazione delle partecipate dovessero essere costituiti da non più di
tre membri di cui due dipendenti dall’amministrazione partecipante o controllante. L’art. 16 del d.l. 90/2014 mantiene il
numero dei componenti, ma non è più previsto l’obbligo della scelta tra i dipendenti dell’ente; è facoltà.
198    La responsabilità amministrativa delle società e degli enti

Per definire l’ambito soggettivo di applicazione della normativa in materia di
prevenzione della corruzione e di trasparenza alle società pubbliche, l’ANAC le
distingue in società direttamente o indirettamente controllate dalle amministrazioni
pubbliche, individuate ai sensi dell’art. 2359 c.c. 27, e in società a partecipazione
pubblica non di controllo, in cui cioè la partecipazione pubblica non è idonea a
determinare una situazione di controllo. Tra le società controllate colloca, ai fini
dell’applicazione delle norme di prevenzione della corruzione previste dalla legge
190/2012, la società in house.
    Le «linee guida» prevedono che le società controllate debbano rafforzare i presidi
anticorruzione già adottati ai sensi del decreto 231. Ove non siano stati adottati, le
amministrazioni controllanti devono assicurare che le società controllate adottino un
Modello di organizzazione e gestione ai sensi del decreto 231. Stante la direttiva
emanata dall’ANAC, è auspicabile che sia la stessa Autorità a stabilire indirizzi per
l’applicazione del decreto 231 alle società in house, così consentendone il
rafforzamento per la lotta alla corruzione. Allo stato, per le società in house è più
facile pensare alla redazione del Piano triennale per la prevenzione della corruzione,
previsto dall’articolo 1, comma 5, della legge 190/2012.

     27
        2359 c.c. «Società controllate e società collegate. - Sono considerate società controllate: 1) le società in cui un’altra
società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria; 2) le società in cui un’altra società dispone
di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria; 3) le società che sono sotto influenza
dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa. Ai fini dell’applicazione dei numeri 1) e 2)
del primo comma si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta; non
si computano i voti spettanti per conto di terzi. Sono considerate collegate le società sulle quali un’altra società esercita
un’influenza notevole. L’influenza si presume quando nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei
voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in borsa».
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