Riflettendo sul linguaggio dei giornali italiani nei casi di femminicidio

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Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752
                                               Direttore responsabile: Antonio Zama

Riflettendo sul linguaggio dei giornali italiani nei casi di
                       femminicidio
                                                 24 Settembre 2021
                                                  Maria Dell'Anno

Nel 1970 Monica Vitti interpretava il film di Ettore Scola Dramma della gelosia (tutti i particolari in
cronaca) – in cui la protagonista veniva uccisa dal suo ex fidanzato, interpretato da Marcello Mastroianni,
che diceva di amarla, anzi di amarla “come un pazzo”. Sono trascorsi cinquant’anni, quindi, da quel
racconto che mesco-lava a piene mani i concetti di amore e violenza, e che finiva per sminuire la
responsabilità dell’uomo assassino – condannato infatti a una pena irriso-ria – perché provocato dalla
decisione della donna di lasciarlo per un altro uomo, che l’avrebbe fatto impazzire. Il mio saggio Parole e
pregiudizi [1] parte proprio da questo interrogativo: in cinquant’anni come e quanto è cambiata la
narrazione del femminicidio?

La cronaca dei giornali e dei telegiornali continua a raccontarci uccisioni di donne da parte, per lo più, di
uomini a loro vicini, compagni o ex. I dati del Ministero dell’Interno ci dicono, infatti, che gli omicidi di
uomini avvengono per lo più nel contesto della criminalità organizzata e sono commessi per lo più da
persone sconosciute, mentre le uccisioni di donne avvengono in larga maggioranza nel contesto familiare e
amicale, per mano di persone conosciutissime [2].

Non si tratta di un fenomeno criminale come gli altri, perché tali uccisioni sono motivate dalle aspettative
di genere che la nostra cultura ha nei confronti delle donne: ci si aspetta dalle donne un certo ruolo, certi
comportamenti, certe caratteristiche, ed è proprio nel momento in cui una donna si allontana da quel ruolo
che l’uomo si sente in diritto di punire questa ribellione in modo violento. Si tratta quindi di un fenomeno
strutturale della nostra società, non di un’emergenza; si tratta inoltre di un fenomeno trasversale, che
interessa tutti i contesti socio-culturali ed economici; si tratta di un fenomeno pervasivo, nei cui con-fronti
nessuno può considerarsi immune, perché affonda le proprie radici nella cultura che tutte e tutti
condividiamo.
Questa consapevolezza dovrebbe ormai essere acquisita, eppure così non è. E la stampa ha una rilevante
responsabilità in questo contesto. La lingua e le parole sono uno strumento di potere. E chi utilizza la
lingua e le parole per mestiere ha un potere enorme, perché costruendo ogni frase orienta
l’interpretazione di chi legge decidendo di rappresentare in un certo modo la realtà sociale. Ogni
parola che si sceglie di utilizzare porta con sé il bagaglio culturale che chi parla o scrive ha su quel tema,
ma anche gli stereotipi e i pregiudizi sociali e culturali con cui tutti e tutte siamo cresciuti. “La lin-gua non
solo manifesta, ma condiziona il nostro modo di pensare: incorpora una visione del mondo e ce la impone”
[3].
I giornali hanno quindi una responsabilità quotidiana nella narrazione di un grave fenomeno sociale quale è
la violenza maschile contro le donne, che, radicando la propria origine nella cultura, ancora di più si
scontra con quei pregiudizi e quegli stereotipi che è indispensabile combattere per eli-minarla. Dire
qualcosa in un certo modo significa pensare quel qualcosa in un certo modo; e significa condizionare anche
chi legge a pensarlo in quel modo. Il modo in cui si racconta la violenza maschile contro le donne non è
mai neutro, e pensare che il/la giornalista di cronaca si limiti a riportare fatti in modo puramente oggettivo
è irreale: è inevitabile che il linguaggio di chi scrive rispecchi sempre la sua cultura e le sue idee su quel
particolare argomento o contesto.
Partendo quindi dal presupposto che la violenza di genere sia un problema cul-turale, che deve trovare la
propria soluzione nella cultura e non solo nella legge, con Parole e pregiudizi ho voluto analizzare il
linguaggio che i quoti-diani italiani scelgono di utilizzare nel riportare in cronaca i casi di femmi-nicidio, al
fine di verificare se la narrazione che viene restituita a chi legge sia coerente o no con gli obiettivi di
prevenzione della violenza e di ogni forma di discriminazione. Dopo essermi confrontata con altre ricerche
condotte da studiose in questo campo [4], ho voluto condurre un’analisi degli articoli comparsi sui più
diffusi quotidiani italiani nell’arco di un anno tra aprile 2019 e aprile 2020 riguardanti 26 casi di donne
uccise da un uomo identificato con cui avevano o avevano avuto una relazione intima. Ho analizzato,
quindi, in maniera critica il discorso mediale, interrogandomi non solo su cosa viene detto, ma anche e
soprattutto su come viene detto.
Ho potuto così verificare che la stampa italia-na, nel riportare i casi di femminicidio, tende a fornire al
lettore un frame inter-pretativo che deresponsabilizza l’azione violenta dell’uomo, rappresentando per lo
più il fatto come un delitto d’impeto, determinato da un discontrollo episodico, e causato spesso da un
comportamento della donna che ha deluso le amorose aspettative del partner, con la conseguenza di isolare
ciascun evento dall’altro senza coglierne la comune matrice culturale.
Il caso che apre la mia indagine è oltremodo esplicativo: il 25 agosto 2019 scompaiono Elisa Pomarelli e
Massimo Sebastiani dopo un pranzo sulle colline di Piacenza. Quattordici giorni dopo vengono ritro-vati:
lui è vivo, lei no; lui ha ucciso lei e ne ha occultato il cadavere per poi nascondersi fino alla cattura.
Massimo ed Elisa non avevano una relazione sentimentale, erano amici; lui avrebbe voluto di più, mentre
lei gli aveva sempre assicurato che nulla di più ci sarebbe stato tra loro. Massimo ha uc-ciso Elisa perché
lei ha esercitato il diritto di dire di no, un no che gli uomini figli del patriarcato si rifiutano ancora di
accettare. Perché gli uomini che uccidono le donne non sono pazzi, malati o figli di un’altra cultura diversa
dalla nostra, sono figli della nostra cultura, di quella cultura che ha sempre detto – e in una certa misura
continua a dire – che le donne hanno un deter-minato ruolo sociale dal quale non è possibile prescindere.
Questi sono i fatti, per questo Elisa Pomarelli è stata uccisa. Ma la stampa italiana ha raccontato la sua
morte in tutt’altro modo. L’inizio di settembre ha visto apparire sui quotidiani nazionali un’informazione
superficiale e ric-ca di stereotipi volti a sminuire l’azione di Massimo Sebastiani e a provare compassione
per lui. Tra tutti emerge il titolo su «il Giornale» che definisce l’assassino un “gigante buono”. Come si
può definire buona una persona che ha ucciso? In un sussidiario delle scuole elementari qualunque
bambino/a che in un esercizio di associazione tra sostantivi e aggettivi (del genere erba/verde,
ghiaccio/freddo) associasse al sostantivo “assassino” l’aggettivo “buono” si ritroverebbe un segno rosso e
un brutto voto. Eppure qui si sostiene – anzi, si implica – che Massimo Sebastiani ha sì ucciso, ma è
comunque una buona persona. In secondo luogo si affianca il concetto di amore a quello di omicidio,
affermando – anzi, implicando – che Massimo Sebastiani ha ucciso perché era un innamorato non
corrisposto, ha ucciso per troppo amore. Sull’ossimorico concetto della violenza dell’innamo-rato ho a
lungo riflettuto nel saggio Se questo è amore. La violenza maschile contro le donne nel contesto di una
relazione intima [5]: quale migliore prova che quest’uomo non amava questa donna del fatto di averla
uccisa? L’amore, l’affetto, è di per sé un sentimento opposto alla violenza, all’aggressione, al male. Eppure
la stampa continua a riproporci quest’ossimoro avallando lo stereotipo dell’uomo che ha ucciso ma,
poverino, era tanto innamorato di lei. È ancora forte l’eco del delitto d’onore, abrogato dal codice penale
ma vivo nella cultura degli italiani. Il problema di questo genere di narrazione è che non solo attenua
la respon-sabilità dell’assassino, ma colpevolizza la vittima, della quale si dice che è stato il suo
comportamento a scatenare la violenza dell’uomo che mai in altre circostanze aveva e avrebbe agi-to
così. Cioè noi donne dobbiamo essere in grado di controllare e limitare il nostro comportamento per
riuscire a controllare e limitare quello degli uomini che non ne sono capaci autonomamente!
Allora diventa evidente perché è così importante riflettere sul linguaggio, riflettere non solo su cosa ci
viene raccontato ma soprattutto su come ci viene raccontato. Perché l’informazione non solo informa, ma
forma le nostre idee sulla realtà in cui viviamo. Il giornale non solo ci dice cosa è successo, ma anche cosa
dobbiamo provare nei confronti di ciò che è successo.
E dobbiamo tristemente constatare che alla crescente presenza di femminicidi nella stampa italiana non è
seguita una maggiore attenzione al modo in cui viene proposta la narrazione di tali fatti. Sembra che
l’accresciuta notiziabilità del femminicidio sia connessa all’accresciuta notiziabilità della cronaca nera, e
non invece alla riflessione su un problema socio-culturale relativo al rapporto uomo-donna. Al posto di
scrivere che lui l’ha uccisa per-ché era stato lasciato o perché il suo amore non era corrisposto,
bisognereb-be scrivere che lui ha ucciso lei perché non accettava la libertà della donna, la sua autonomia di
decisione, perché non concepiva che lei fosse libera di rifiutarlo, perché non la vedeva come una persona
ma come un oggetto. Al posto di colpevolizzare la donna uccisa, perché l’aveva lasciato, o perché non
l’aveva lasciato o denunciato dato che era violento, bisognerebbe imparare che l’unica persona da
colpevolizzare è chi ha commesso il crimine.
“Qualche mezzo d’informazione ospita talvolta l’opinione di chi avanza l’idea che dietro alla morte delle
donne non ci sia per niente l’amore, ma una cultura che assegna loro un minor valore umano e un ruolo
sociale subordinato, nor-malizzando la loro soppressione quando se ne discostano; ma questa lettura non è
mai presente nelle pagine di cronaca in cui vengono date le notizie dei femminicidi e la loro ipotetica
spiegazione. L’editoriale controcorrente lo scor-reranno in pochi, ma la storiaccia in cronaca invece la
leggeranno tutti, con-vincendosi ulteriormente che la prima causa della morte violenta delle donne sia di
volta in volta l’amore di uomini malati oppure la malattia di uomini innamorati.” [6]
Merita una riflessione questo passo scritto riguardo al femminicidio di Eli-sa Ciotti:
«Ci deve essere una maledizione su questo quartiere. Un incantesimo al contrario scagliato sulle donne
che vivono qui». Pasqualina è una donna anziana che si trascina per il quartiere popolare San Valentino
di Cisterna di Latina, sotto un’afa agostana, scuotendo la testa. La notizia dell’ennesimo femminicidio,
accaduto a due passi da dove lei vive, in via Palmarola la porta subito con la mente alle storie di altre
donne nate e cresciute lì il cui epilogo è stato tragico. […] Tre donne, tre destini spenti dalla violenza di
uomini respinti. In poco più di un anno Cisterna di Latina piange una giovane stuprata e poi morta, e due
donne vittime della rabbia di amori non corrisposti. […] Pasqualina è convinta davvero si tratti di una
(sic) maleficio da cui si sfugge solo scappando via. (Repubblica, 11/06/2019) Ebbene non si tratta
affatto di un maleficio. Forse sarebbe più facile trova-re l’antidoto se lo fosse. Si tratta invece di una
distorsione culturale talmente profonda e radicata nella nostra società da non essere spesso vista, e
talmente difficile da combattere che appare più facile ignorarla, continuando ad attri-buire il
problema solo a qualcuno, a qualcun altro.
In Parole e pregiudizi ho voluto ripercorrere anche i principali studi condotti riguardo all’influenza e agli
effetti dei mass-media; qui mi limito a segnalare che se tutta la stampa ripropone in modo coerente e
persistente lo stesso tipo di lessico e gli stessi frame narrativi per descrivere la violenza maschile contro le
donne, inevitabilmente l’accu-mulazione di questi messaggi ha una potente influenza sul pubblico di lettori
e lettrici, che, non avendo nella maggioranza dei casi un’autonoma forma-zione su questo tema, accetterà
come vero ciò che viene loro detto e come viene loro detto.
“Cambiare il linguaggio significa, utilizzando quello più appropriato, anche po-ter dare un contributo
importante nel rappresentare correttamente il proble-ma e contribuire a combattere quei luoghi comuni e
quegli stereotipi che tanta parte hanno nell’alimentare la violenza contro le donne. Affinché proprio per il
tramite della comunicazione la violenza di genere possa emergere come un quadro socio-culturale di
insieme, quale esso realmente è, e non come una mera sequela di fatti accidentali e isolati non riconducibili
in un unico, se-colare fenomeno di usurpazione di controllo e possesso maschili sul genere femminile” [7].
L’obiettivo e la speranza di chi come me riflette sul potere delle parole è che i mass media comprendano
l’importanza dell’utilizzo di un linguaggio corretto e assumano l’impegno di dare il proprio contributo al
progresso della società in cui tutte e tutti viviamo, e in cui soprattutto crescono le nostre bambine e i nostri
bambini. Loro hanno diritto di avere un futuro migliore e libero da pregiudizi.

[1] M. Dell’Anno, Parole e pregiudizi. Il linguaggio dei giornali italiani nei casi di femminicidio
, LuoghInteriori, Città di Castello (PG) 2021.
[2] Ministero dell’Interno, Dossier Viminale, 1/08/2018 – 31/07/2019, in https://www.interno. gov.it/it/sala-
stampa/dati-e-statistiche/ferragosto-2019-dossier-viminale. Si veda anche ISTAT, Omi-cidi di donne
, 2018, in https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/omicidi-di-donne.
[3] G. Priulla, La quotidiana responsabilità della parola, in F. Dente, A. Cagnolati (a cura di),
Comunica-zione di genere tra immagini e parole, FahrenHouse, Salamanca 2019, p. 9.
[4] In particolare si segnalano qui, tra le altre:
L. Lipperini, M. Murgia, “L’ho uccisa perché l’amavo” Falso!, Roma-Bari, Laterza, 2013;
C. Gius, P. Lalli, “I loved her so much, but I killed her”. Romantic love as a representational frame for
intimate partner femicide in three Italian newspapers, in «ESSACHESS. Journal for Communication
Studies», vol. 7, no. 2(14) / 2014, pp. 53-75;
E. Giomi, Tag femminicidio. La violenza letale contro le donne nella stampa italiana, in «Problemi
dell’infor-mazione» 3/2015, pp. 549-574;
S. Abis, P. Orrù, Il femminicidio nella stampa italiana: un’indagine linguistica, in «Gender Sexuality
Italy», 3/2016, pp. 18-33;
E. Giomi, S. Magaraggia, Relazioni brutali. Genere e violenza nella cultura mediale, Il Mulino, Bologna
2017.
[5] M. Dell’Anno, Se questo è amore. La violenza maschile contro le donne nel contesto di una relazione
intima, LuoghInteriori, Città di Castello (PG) 2019.
[6] L. Lipperini, M. Murgia, “L’ho uccisa perché l’amavo” Falso!, cit., p. 4.
[7] N. Somma, L. Martini, Le parole giuste, presentARTsì, Castiglione delle Stiviere (MN) 2018, p. 14.

TAG: femminicidio, giornalismo, linguaggio

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