PURSUIT OF HAPPINESS E SPERANZA POST-MODERNA - RORTY SU HAVEL, PATOČKA (E OLTRE)

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389 Etica & Politica / Ethics & Politics, XXIV, 2022, 1, pp. 389-408
    ISSN: 1825-5167

     PURSUIT OF HAPPINESS E SPERANZA
     POST-MODERNA
     RORTY SU HAVEL, PATOČKA (E OLTRE)

     VALERIO MORI
     Dipartimento di Scienze politiche
     Università “Sapienza” di Roma
     valerio.mori@uniroma1.it

     ABSTRACT
     In this paper I examine Rorty’s article The Seer of Prague, in which He reflects on Václav Havel’s
     speech at the US Congress – February the 21th, 1990 – and analyzes Havel’s approach to politics
     in the light of Martin Heidegger’s and Jan Patočka’s Philosophy. Rorty appreciated Havel’s and
     Patočka’s engagement in defense of democracy and civil rights in Seventies’ Czechoslovakia (Ca-
     hrter77), despite He criticizes their philosophical aptitude as a political task. On the one hand, I
     try to argue that Rorty’s claim about freeing liberal-democracy from the problem of metaphysical
     foundation – as a matter of private life of the philosopher – is incoherent; on the other hand, I
     try to enhance Rorty’s distributive justice argument (in Achieving our Country) in the light of
     nowadays populist’s challenge to liberal democracy.

     KEYWORDS
     Political Philosophy and Metaphysics; Rorty and Heidegger, Patočka, Liberal Democracy, Di-
     stributive Justice.

     1. PERCHÉ HAVEL: LA DEMOCRAZIA COME ORIZZONTE1

        Il 1o luglio del 1991 Richard Rorty (1991c)2 firma un articolo-recensione nel
     quale presenta e discute il discorso tenuto da Václav Havel al Congresso statuni-
     tense il 21 febbraio 1990 (Havel 1990b), ponendolo in relazione a testi del filosofo
     cecoslovacco Jan Patočka (che Rorty legge in inglese e francese)3. Come nello stile
     dell’Autore, The Seer of Prague è l’occasione per una riflessione di ampia portata,
     che annoda temi distinti di politica, cultura e filosofia secondo l’idea rortyana per la

        1
          Si veda in generale Ferrara (2014).
        2
          Questo scritto si citerà indicando i riferimenti di pagina, fra parentesi tonde, nel corso del testo.
        3
          Rorty qui recensisce Patočka (1983a; 1983b; 1989). Cfr. in generale Lom (1999), che si impegna
     a mostrare le ‘incomprensioni’ di Rorty rispetto alla filosofia di Patočka (ma vedi infra) e – più di
     recente, e più utilmente – Malachowsky (2020: 469 ss.). Dove non diversamente indicato, le tradu-
     zioni sono mie.
390 VALERIO MORI

    quale la filosofia non dovrebbe godere di alcuno statuto speciale: linguaggio fra lin-
    guaggi, voce fra voci.
        Rorty, nel 1991, era già un intellettuale di punta dell’America “leftist”4; e il di-
    scorso di Havel al Congresso statunitense rappresentava un evento a suo modo sto-
    rico – e tanto più per Rorty –: un intellettuale anti-comunista che, da ex dissidente,
    più volte incarcerato, è eletto presidente da un Parlamento di ex comunisti. Havel
    poneva il tema della fine dei due blocchi contrapposti, se non come fine della storia,
    senz’altro come fine di una storia5; inoltre, nella sua autobiografia intellettuale, egli
    stesso si dichiara vicino a istanze liberal-socialiste, ancorché vagamente adombrate6:
    altro tratto che raccoglie, inizialmente, la simpatia rortyana – salvo poi indurre Rorty
    alla delusione, per la svolta sostanzialmente filo-capitalistica e solidale con il presi-
    dente George Herbert Walker Bush (Bush ‘padre’) impressa da Havel alla sua po-
    litica, soprattutto estera (Natalizia 2021: 115-120; Žižek 1999)7.
        Havel tiene di fronte al Congresso un discorso diviso in due sezioni, sottoli-
    neando in premessa la straordinaria velocità dei mutamenti politici di vasta portata
    allora in atto (fra l’89 e i primi anni Novanta, in Europa centrale e centro-orientale,
    obiettivamente notevole) nonché l’esigenza di una nuova identità europea – tema
    delicato, quest’ultimo, sia in rapporto alla presenza della Nato (Rorty 1999a), sia in
    rapporto all’allora amministrazione americana (Bush ‘padre’, si era insediato alla
    Casa bianca nel 1989), intenzionata a capitalizzare politicamente al massimo la fine
    ‘ufficiale’ della Guerra fredda (Havel 1994). Sullo sfondo, inoltre, si situavano i temi
    della riunificazione tedesca, del disfacimento della ex Urss e del ‘destino’ dell’im-
    ponente arsenale atomico di cui disponeva.
        Nel suo intervento, Havel inserisce dette questioni nel quadro dell’imminente
    insorgere, a suo dire, “irreversibile”, di un nuovo ordine multipolare, che accosta –
    forse per captatio benevolentiae – a un vago e ‘irenistico’ cosmopolitismo lì desunto
    da Abraham Lincoln e avendo già menzionato, a proposito del rapporto Usa-Eu-
    ropa, con particolare riferimento a Masaryk come “epigone” della tradizione poli-
    tica statunitense8, Woodrow Wilson.

       4
          Cfr. Habermas (2007). Rorty (1998: 58) si è sempre proclamato un “anticomunist leftist”.
       5
          Rispettivamente: Fukuyama (1989; 1992). Si veda anche Fukuyama (1995: 36), in cui critica –
    non senza un velo di sarcasmo – la definizione rortyana di Havel come “politico post-moderno”. Cfr.
    Hughes (2012).
        6
          Cfr. Havel (1990a: 32-33). Tale aspetto – l’idea di un umanesimo politico de-ideologizzato par-
    tendo da Havel – sarà valorizzato da Rorty (1992; 2013a: 218 ss.).
        7
          Proprio riferendosi ad Havel, Rorty confesserà di lì a qualche tempo la sua delusione per la
    semplice sovrapposizione, di sapore hayekiano, fra ‘capitalismo’ e ‘democrazia’ che iniziava a intrav-
    vedere nell’esercizio della presidenza haveliana, delusione che condivideranno numerosi altri intel-
    lettuali, sodali di Havel negli anni della dissidenza (Bělohradský 2011).
        8
          Così Havel (1990b): “Ha fondato [il nostro stato], come sapete, sui medesimi principi sui quali
    furono fondati gli Usa, come i manoscritti di Masaryk, conservati nella Library of Congress, atte-
    stano”.
391 “Pursuit of Happiness” e speranza post-moderna

         Nella seconda parte del suo discorso Havel si diffonde su questioni che definisce
     “filosofiche” – che riconosce essere alla base del suo impegno politico iniziale –
     concernenti i cambiamenti che andavano maturandosi nel quadro di una ‘impossi-
     bile’ democrazia del tutto compiuta; in breve: “da quando i popoli sono popoli, la
     democrazia, nel senso pieno del termine, non sarà mai altro se non un ideale. Lo
     si può assumere […] come orizzonte, ma non può essere mai compiutamente rag-
     giunto”9.
         Sotto questa formula Havel introduce alcune riflessioni conclusive: dalla denun-
     cia del peso della tecnica nella vita e nella politica, non senza risonanze husserliane,
     heideggeriane, andersiane – “l’anonimo impianto macchinale [anonymous mega-
     machinery] che abbiamo creato […] ci ha sottomessi” (cfr. Findlay 1999: 405 ss.) –
     , alla necessità di collocare lo sviluppo morale alla guida delle scelte politiche: “an-
     cora non sappiamo come porre la moralità alla guida della politica, della scienza e
     dell’economia. E ancora non siamo stati in grado di intendere che la vera, unica
     spina dorsale del nostro agire, se vogliamo che sia morale, è la responsabilità” (cfr.
     Elshtain 1995). Quest’ultima dovrebbe guidare, in modo speciale, l’agire pubblico
     di un ‘intellettuale’: “se subordino ogni mia azione a quell’imperativo, mediato dalla
     mia coscienza, non posso sbagliare. […] Non sono io il primo e non sarò l’ultimo”.
     Anche tale tematica è da Havel posta in parallelo con il significato di due secoli di
     libertà ‘americana’ e di democrazia in regime di federalismo.
         Rorty coglie l’occasione per rimarcare un’affermazione che suonava al pubblico
     statunitense come una suggestiva quanto oscura ‘massima sapienziale’, che ha la sua
     importanza nel nostro discorso: “la coscienza precede l’essere e non, come sosten-
     gono i marxisti, viceversa”, e rimarca la correlazione da Havel stabilita fra l’uso pub-
     blico della coscienza e la tesi di Jefferson sul governo, trascritta nella Dichiarazione
     di indipendenza: “[per garantire questi diritti] vengono istituiti tra gli uomini dei
     governi che derivano dal consenso dei governati il loro giusto potere”10.
         Mentre le osservazioni sulla attualità politica (peraltro significative, scandite per
     punti) non attirano qui l’interesse di Rorty, a catturare la sua attenzione è il rapporto
     con la filosofia (mediato sempre da Patočka) che Havel (2011) intrattiene, così
     come il trait d’union che Havel individua fra politica e responsabilità, comune –
     nella sua assunzione – alle due sponde dell’Atlantico: “non furono forse le migliori
     menti del vostro paese, persone che a buon diritto potreste definire ‘intellettuali’,
     che scrissero la celebre Dichiarazione di indipendenza, la vostra Carta dei diritti
     dell’uomo e la Costituzione, e che – soprattutto – si sobbarcarono la responsabilità
     di agire per garantire a tutto ciò attuazione?”.
         Il rapporto fra pensiero politico statunitense e filosofia ‘continentale’ è senza
     dubbio un tema focale dell’‘ultimo’ Rorty, così come lo è il concetto stesso di de-
     mocrazia, assunto come prioritario rispetto alla filosofia, che ne è strumento e non

        9
             Dove non diversamente indicato, i corsivi sono miei.
        10
             Cfr. Graziani (2016: 115 ss.).
392 VALERIO MORI

    viceversa – phlosophia ancilla democratiae, si potrebbe chiosare (Rorty 1990)11 – e
    come orizzonte regolativo, in sé auto-validante, che riecheggiava nel già citato passo
    del discorso di Havel, sul carattere ‘parenetico’ dell’impegno democratico.
       Ora, il tema della non necessità di fondazione dell’istituto democratico ha a
    lungo impegnato interpreti simpatetici e critici di Rorty (i secondi più numerosi) ed
    emerge qui alla luce di una particolare angolatura prospettica: la ricerca della felicità
    come elemento motivazionale, ‘ispirazionale’ – si è parlato a proposito di Rorty di
    inspirational liberalism (Bernstein 2020[1993]) –, dell’istituto democratico in re-
    gime di liberalismo politico, pensato quale calco della tradizione politica statuni-
    tense – osservata, qui, dal suo versante jeffersoniano – che Rorty tende a valorizzare
    per il suo potenziale anti-autoritario (cfr. Chin 2019; Rondel 2011), lato sensu anti-
    metafisico (pur essendo Jefferson un giusnaturalista, infra) nel suo svolgimento sto-
    rico, rivolto – questa la veloce attualizzazione che ne ricava Rorty – ad un liberali-
    smo ‘basico’ dei sentimenti: un liberalismo della ‘compassione’ e della speranza per
    una svolta politica di fin de siècle, anche negli Usa – ma che da sé, sarà questa la
    preoccupazione del Rorty ‘finale’, non può bastare (infra)12.

    2. DUE ASSOLUTI, UNA CONTINGENZA

        “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario,
    il loro essere sociale che determina la loro coscienza” (Marx 1969: 34). Rorty
    muove da questa citazione – evocata da Havel – per introdurre la questione che gli
    pare più rilevante: il nesso fra azione politica e obbligazione morale. Va detto che
    Rorty è un lettore selettivo, in modo particolare quando si rivolge alla filosofia eu-
    ropea, rispetto alla quale impiega un lessico (e schemi concettuali ed ermeneutici)
    sostanzialmente modellati sulle sue esigenze, più che sulla ricerca dell’accuratezza
    filologica (e talvolta a scapito di quella filosofica)13. Non si tratta – naturalmente – di
    trascuratezza, ma di una istanza ermeneutica che per Rorty è tematica. In breve: a
    ricoprire importanza, qui, è il principio di carità ermeneutica di Davidson, autore
    caro a Rorty, impiegato nella comunicazione interculturale – e anche
       11
           Si vedano fra gli altri Hirsch (2008); Donatelli (2019).
       12
           Cfr. Rorty (1998); Deneen (1999).
        13
           È solo tenendo presente tale caveat che si può comprendere perché Rorty assuma Hegel, ad
    esempio, come portatore di una visione orientata alla comprensione della contingenza con il pen-
    siero, estrapolando tale plesso dal quadro della dialettica dello ‘spirito assoluto’ il che, chiaramente,
    appare quanto meno discutibile sul piano della ricostruzione dello ‘storicismo’ hegeliano. The Seer
    of Prague non fa sotto questo aspetto eccezione: l’assunzione rortyana di alcune posture filosofiche
    haveliane – la cui fondatezza appare discutibile – avviene secondo una concezione della storia della
    filosofia per la quale l’utilizzabilità in vista di uno sviluppo ‘contingente’ giustifica la ri-calibrazione di
    concetti e lessici filosofici. Si veda per esempio (p. 35): “Havel e i suoi sodali hanno speso decenni a
    resistere all’accusa per la quale la loro opposizione alla brutalità criminale e alla corruzione fosse
    mera cattiva coscienza borghese, perciò hanno dovuto opporsi all’idea che la coscienza fosse un pro-
    dotto circostanziale della storia”.
393 “Pursuit of Happiness” e speranza post-moderna

     transgenerazionale14 – in vista di una sua messa a buon frutto politico: un dialogo è
     tale unicamente se paritario, ciò è possibile solo nella misura in cui non si abbia da
     alcuna delle parti pretesa pregiudiziale di supremazia, il che vale anche nel dialogo
     diacronico che il pensiero intrattiene con sé; del resto: se lo ‘smantellamento’
     dell’apparato metafisico appare a Rorty fondamentale al fine di destituire le pretese
     autoritative della filosofia nel senso del suo autonomo ‘farsi’, immaginata nell’atto
     di crescere su sé stessa per Aufhebung, allora la lettura deliberatamente omissiva di
     aspetti, pure fondamentali, di un autore o di un pensiero risulta non solo legittima,
     ma per Rorty necessaria da un punto di vista pragmatistico, per il quale non ha
     senso accettare o respingere en bloc una tesi speculativamente organica, se l’obiet-
     tivo e renderne ripensabili e disponibili aspetti peculiari, in base a nuove e diverse
     esigenze (cfr. Chin 2018: 83 ss.; Tamborrino 1997: 60 ss.).
         Rorty ricostruisce dunque in quest’ottica il percorso intellettuale di Patočka, così
     influente su Havel, fra Masaryk, Husserl e Heidegger, in particolare sul crinale trac-
     ciato dalla Krisis husserliana e dalle tesi heideggeriane dell’immediato Dopoguerra
     che – tenuta presente la natura ellittica e selettiva dell’appropriazione rortyana della
     filosofia europea – incontrano tutto l’interesse e in larga parte la solidarietà di Rorty.
     In particolare egli apprezza temi heideggeriani quali la denuncia dello scientismo
     esasperato, interpretato come volontà di potenza che determina l’epoca della tec-
     nica e della spersonalizzazione quale ‘portato’ della metafisica, suo coronamento
     ‘destinale’, già tutto implicito – secondo Heidegger - nell’opera del suo ‘iniziatore’
     Platone (pp. 35-36)15.
         Rorty accede a Patočka tramite i volumi che in The Seer of Prague (formal-
     mente) recensisce e che sostanzialmente per così dire rimodula; non conosceva –
     né, nel 1991, avrebbe potuto conoscere – l’intera produzione patockiana, ma la sua
     acuta sensibilità di filosofo quasi malgré soi gli fa cogliere la radicale divergenza di
     Patočka dai suoi maestri Husserl e Heidegger. A Husserl Patočka rimprovera il
     razionalismo di sapore settecentesco che ne innerva, con particolare riferimento al
     tema politico, soprattutto la produzione finale, che culmina col tentativo di restau-
     rare la filosofia come “scienza rigorosa”16; a Heidegger di aver dato a sua volta corso
     ad una metafisica del destino (negativo) dell’Occidente, cui non si riconosce alcun
     possibile ‘finale’ se non la catastrofe: una storia dell’Ab-Gründ, che qui vale più che
     altro ‘baratro senza riscatto’, explicit storicisticamente ‘dialettico’ dal quale “solo un
     Dio ci può salvare” (Heidegger 1987).

        14
           Cfr. Rorty (1979: 318), dove si afferma che essere razionale significa, anzi tutto, “la volontà di
     assumere il ‘gergo’ (jargon) dell’interlocutore anziché tradurre il suo nel nostro”.
        15
           Cfr. Heidegger (1976; 1997). Cfr. Arendt (2015: 30 ss.) e Mori (2017; 2018b: 39 ss.).
        16
           Cfr. Mori (2018a: 111 ss.) e l’analisi lì affrontata della produzione più specificatamente fenome-
     nologica di Patočka.
394 VALERIO MORI

        Per Rorty (1991d)17 una simile veduta è affetta dall’idea della fuga dal tempo in
    quanto indebita soppressione dell’incertezza e della contingenza: “Heidegger, a
    conti fatti, ha ceduto alla medesima tentazione che ha soggiogato Marx: sostituire la
    previsione alla speranza” (p. 37), oltre che essere per sua natura anti-democratica.
    Rorty capta perfettamente questo segnale e ne soppesa a pieno le ricadute, destinate
    a creare una politica per soli filosofi, poeti e menti visionarie (p. 37) – rortyana-
    mente, l’ironismo ‘radicale’ Curtis (2015) –; e infatti – così chiosa Rorty – la que-
    stione della “felicità umana” e quella “dell’armonia sociale […] provocavano ad Hei-
    degger” né più né meno che “repulsione”18. Ragion per cui Heidegger – così Rorty
    – dopo il nazismo, non tornerà più nella ‘caverna’: giudicherà la differenza fra de-
    mocrazia e tirannide filosoficamente irrilevante dinanzi al ‘dramma’ dell’auto-disfa-
    cimento della metafisica, ossia del tentativo, impossibile, di ‘dominare’ l’essere in-
    dentificandolo con un assoluto determinato: “una idea platonica, Dio in cielo, un
    io autentico, interiore e razionale” (p. 36).
        Patočka, pur non discostandosi dalla tradizione fenomenologica centro-europea,
    ribalta il quadro con una sua personale opzione antimetafisica: Platone, secondo
    lui, non è per nulla un metafisico, se con metafisico s’intende grosso modo ciò che
    intese Heidegger, e cioè pensatore sistematico la cui opera tenda a racchiudere il
    ‘reale’ nel ‘principio’. Il platonismo che coltiva Patočka è un “platonismo nega-
    tivo”19, per il quale l’idea non è un oggetto, e per questa ragione non è un possesso
    che si possa in qualche modo ottenere, razionalmente o meno (p. 36)20. Concorda
    dunque con Heidegger sul fatto che la metafisica sia un progetto autocontradditorio,
    ma differentemente da Heidegger non pensa affatto che non si diano valori degni
    di essere perseguiti nella ‘caverna’ (Ferrara 2019). In altre parole, Patočka non cede
    alla tentazione dello scetticismo sulla prassi – e ancor meno a quella della ‘filosofia
    privata’ -: Rorty apprezza molto la critica di Patočka alla metafisica, per la quale la
    filosofia non svolge a pieno il suo ruolo pubblico limitandosi a confutare la tesi
    trasimachea con argomenti razionali – non deve, cioè, dimostrare che la giustizia è
    un valore in sé e che, malgrado le apparenze, l’ingiustizia sia un disvalore in sé (p.
    37) –, deve svolgere semmai un compito differente (Chin 2018: 77), ciò che Pa-
    točka definisce “cura dell’anima”.
        In tale enigmatica formula Patočka individua la radice di una pedagogia della
    vigilanza morale, una Bildung dell’‘uomo spirituale’ – figura altra e distinta da quella

       17
            Cfr. soprattutto Rorty (1991b: 34): “Questa ricerca della chiarezza […] può essere intesa solo
    come tentativo di fuga dal tempo, di vedere il Sein come qualcosa che non ha molto a che vedere
    con lo Zeit”.
         18
            Su questo si veda Habermas (2007: 428).
         19
            Il gruppo di scritti che compongono il ‘blocco’ al quale Rorty fa qui riferimento è tradotto in
    italiano in Patočka (2015: 87 ss.); Rorty li ha letti in traduzioni inglese nella raccolta a cura di E. Kohak
    (Patočka 1989).
         20
            Si vedano i versi da Ulysses di Alfred Tannyson a cui Rorty fa riferimento in The Seer of Prague
    (p. 36).
395 “Pursuit of Happiness” e speranza post-moderna

     dell’‘intellettuale’21 – che si schiera dalla parte giusta senza alcun bisogno di doverlo
     dimostrare con argomenti deduttivi. Perciò: rispetto a Husserl la distinzione è sul
     segno di tale Bildung; mentre rispetto all’ultimo Heidegger, che aveva mosso criti-
     che analoghe a Husserl, la divergenza è sull’explicit: Rorty infatti prende congedo
     dalla ‘storia della metafisica’ heideggeriana come storia del decadimento da un pre-
     sunto ‘regno dell’essere’. È dunque in questi termini che Rorty pone la questione
     sollevata da Havel – la coscienza (individuale) precede l’essere (sociale)22 – posi-
     zione che gli appare ambigua: un richiamo coscienziale che avesse la pretesa di
     porsi al di là dello spazio (sociale) e del tempo (storico) gli sembra coincidere con
     un assunto metafisico che, in quanto tale, sarebbe da respingere23.
        Ora, il crinale su cui si gioca l’accettazione della contingenza della scelta politica,
     senza per questo inclinare a forme radicali di scetticismo, su cui Rorty tenta di edi-
     ficare la sua proposta liberal-democratica, esibisce su questo tema una duplicità, che
     secondo Rorty risulta oscurata dal “recente” (1991) “clamore” a proposito di ‘asso-
     lutismo’ e ‘relativismo’. In tale discussione (Bernstein 1994: 240 ss.) accade, se-
     condo Rorty, che chi evochi tale dicotomia “tipicamente sovrapponga due distinti
     significati di assoluto”, essendo il primo il modo in cui Patočka e Havel hanno
     schierato le proprie vite a difesa della propria coscienza ed essendo il secondo
     quello invocato da chi afferma che sia doveroso contrapporre argomenti logici alla
     tesi di Trasimaco (“il […] cinico fascista [sic!] della Repubblica di Platone”, p. 37)
     sulla moralità e immoralità, in termini assoluti, dell’ingiustizia. Nel primo caso ‘as-
     soluto’ significa rifiuto pubblicamente praticato di una vita estranea alla propria co-
     scienza, e perciò – “incondizionatamente” – agire in funzione di quel richiamo in-
     teriore; nell’altro significa (secondo Rorty) postulare l’esistenza di ‘oggetti metafisici’
     – “da qualche parte, là fuori” – sottratti al divenire delle cose umane (cfr. Pasquali,
     2013). Tale dicotomia rappresenta un nodo problematico dello stesso impianto
     rortyano: Rorty non intende cedere ad una interpretazione del relativismo come
     scetticismo radicale (Penales 2006: 214-216), e infatti apprezza l’‘assoluto’ nella
     prima declinazione, ma non può giustificare tale apprezzamento con un argomento
     normativo (à la Rawls, secondo la formula “most reasonable for us” o à la Haber-
     mas, secondo la sua assunzione della validità del migliore argomento in condizioni
     ideali), perché il suo quadro di riferimento non vi si adatta. Resta però il fatto che
     la scelta per la versione coscienziale dell’‘assoluto’ non è una scelta equivalente: è
     ciò che permette al pluralismo, doxastico come epistemico, di potersi esprimere, il

        21
             La citata antologia a cura di Kohák non riporta il testo che in Italia conosciamo con il titolo
     L’intellettuale e l’“uomo spirituale”, Patočka (2012: 157-170).
        22
            Havel, dal ‘canto’ suo – che era poi la cella di un carcere – aveva parlato di “ordine dell’essere”:
     tutto ciò pare alludere a forme di assolutismo morale, strutturate sulla posizione di valori ‘sostantivi’
     collocati in un ‘non-tempo’ e prescindenti da giustificazione sociale.
         23
            E Patočka non esita – negli scritti per Charta77 AA.VV. (1978) – a difendere la natura incondi-
     zionata dei principi morali, i quali non dipendono “da vantaggi, svantaggi e circostanze” (pp. 37-38).
     Rorty aveva presumibilmente letto solo quelli riportati in Patočka (1989: 340 ss.).
396 VALERIO MORI

    che non è, per un impianto liberale, ancorché ‘minimale’ come quelle rortyano,
    solo un fatto, ma un valore (Ferrara 2019: 391 ss.)24.
        Sarà piuttosto un accesso estetico, quello che Rorty prediligerà nel suo discorso
    sull’immediato ‘post-89’: è da questa angolatura che Rorty propende per il primo
    senso di ‘assoluto’ – sentimento coscienziale senza alternativa –, e si impegna ala-
    cremente per ‘sostenere’ la spinta democratica, ancorché sottratta alla ‘tesi del fon-
    damento’.
        In questo senso è la differenza rortyana fra verità e giustificazione a dover essere
    qui considerata, essendo il significato della ‘prima persona’ ad essere in quel plesso
    determinante (Ferrara 2014: 196 ss.): centrale è allora il riconoscimento del carat-
    tere strumentale dell’espressione simbolica che, non esprimendo una corrispon-
    denza oggettiva fra individuo e mondo (verità), è un contingente (e però necessario)
    veicolo di scambio (giustificazione). Detto altrimenti: contingente la lingua, neces-
    sario un linguaggio, senza il quale non si dà alcuna comunicazione e quindi alcuna
    comunità politica – conflittuale o meno (Fraser 1990: 314-315) –; una “normatività
    senza fondazione”25, per la quale la lingua non si decide ‘a tavolino’, ma nel mo-
    mento in cui si impone nell’uso – e si impone per iniziativa sia pure involontaria di
    qualcuno –, essa assume carattere ‘normativo’, che si costituisce nella sfera della
    contingenza in quanto solo ‘luogo’ nel quale è possibile sperimentare la libertà ed
    esercitare la solidarietà26.
        Ora, stando alle ‘categorie’ rortyane, è certamente un problema di linguaggi e
    ‘posture’, ma immaginare un nuovo linguaggio per persuadere altri a perseguire la
    realizzazione di una nuova ri-descrizione del mondo politico è ragionevolmente
    obiettivo perseguibile da chi padroneggi una ampia possibilità di canali espressivi e
    di capacità di ‘gestione’ positiva del contrasto: cioè di elaborare una lingua che possa
    ‘ristrutturare’ il linguaggio per comunicare nuovi contenuti (Ferrara 2019). La co-
    municazione, secondo il principio di carità di Davidson (e di Quine), caratterizzan-
    dosi per la valorizzazione dell’empatia come disposizione ermeneutica ‘aperta’ ed
    egualitaria è da Rorty assunta quale adesione spontanea, ‘estetica’, all’altro soffe-
    rente, che diviene “one of us”, soprattutto in quanto si mostra individuo soggetto
    all’esercizio della crudeltà (Ferrara 2014: 46; Bernstein 1990), ma con una

       24
            Ferrara (2019), in contesto platonico, svolge una accurata analisi del dilemma del pluralismo per
    le filosofie normativistiche di orientamento liberale, che da un lato non possono ammettere la forzosa
    riduzione ad unum del pluralismo e dall’altro non possono ‘funzionare’ se non sulla base di principi
    di rispetto dell’uomo, nel senso di Larmore (1999; cfr. Ferrara 2019: 398 ss.). Tuttavia: la postula-
    zione di un iper-valore (qui il rispetto) ripropone il problema dell’assunzione del dilemma del plura-
    lismo ad un altro livello. Non diverso l’esito del pluralismo di Berlin (1992; Ferrara 2019: 398 ss.):
    ammettendo il pluralismo come una verità ‘metafisica’, si pone il problema del pluralismo che non
    ammette interpretazioni pluralistiche.
         25
            Su questo si veda la perspicua analisi di Koopman (2011).
         26
            Cfr. Habermas (2007: 429); per l’importanza del versante empatico del principio di carità di
    Davidson si veda di recente Rainone (2019: 59 ss.); Ferrara (2014: 201 ss.).
397 “Pursuit of Happiness” e speranza post-moderna

     problematicità che, nello specifico della discussione che qui si sta tentando si se-
     guire, non per questo si dissipa del tutto27.
         Certo: le “ondate di gioia del 1989” (p. 40) che suscitano l’adesione generale
     (anche quella di Rorty) in definitiva sembrano aver fatto a meno di una fondazione
     teorica: hanno piuttosto avuto a che fare con l’uso pubblico della ricerca della feli-
     cità (infra) che, per essere perseguita, ha bisogno di un contesto di agibilità. Questo,
     a sua volta, costituendo la ‘condizione’ per la spinta alla realizzazione di sé, perse-
     guimento di un progetto di vita, assume carattere necessariamente politico sia in
     senso istituzionale – potendosi svolgere compiutamente solo nella forma liberal-
     democratica – sia, in senso maggiormente complesso, in direzione dell’apertura
     come condizione per il perseguimento del progresso. Ora, dal punto di vista di
     Rorty la ‘felicità’ è sostanzialmente ciò che ‘per me’, qui ed ora, rileva; e tolto l’ap-
     pello alla ‘natura umana’ in astratto, il tema che si pone è la necessità del mutuo
     accordo sul diritto reciproco alla ricerca della felicità che si sostanzia nel dovere di
     non ostacolare la altrui ricerca; diritto che, essendo il ‘portato’ storico di una circo-
     stanza, e potendosi esercitare unicamente in uno spazio istituzionale dato, non può
     sic et simpliciter avere carattere universale (Penales 2006). E infatti, il discorso ror-
     tyano inclina piuttosto alla valorizzazione del ‘sentimento’ quale molla per l’impe-
     gno politico teso alla riduzione della sofferenza dell’altro quando questa sia conse-
     guente all’esercizio della crudeltà (Shklar 1984: 44; Donatelli 2019: 625).
         Si presenta allora la questione del ruolo dell‘intellettuale’, questione peraltro am-
     piamente ‘haveliana’: da un lato è la vicinanza al senso comune che garantisce la
     coesione sociale necessaria a promuovere la spinta al cambiamento, tale spinta non
     può essere maturata attraverso la tensione teorica, specie se declinata in un lessico
     esoterico (Ballacci 2017), ma facendo appello alla speranza di un futuro più felice,
     e cioè attraverso un accorto esercizio della retorica; ma dall’altro entra in gioco la
     capacità di “ridescrizione” linguistica, plesso canonico della filosofia rortyana. In ciò
     si innesta una questione topica per il Rorty politico: la ‘scissione’ fra pubblico e
     privato anche per quanto riguardi il ruolo dell’intellettuale, in quadro in cui il plu-
     ralismo non è solamente delle ‘dottrine comprensive’, ma anche di modalità espres-
     sive. Come osserva Marjorie C. Miller, “il punto cruciale è rappresentato dall’esi-
     genza che la morale privata resti privata – affinché ciascun individuo possa seguire
     la propria spinta verso la felicità sin tanto che questa non riduca le altrui possibilità
     di fare lo stesso” (Miller 2020: 180; cfr. Ballacci 2017); che nei termini del presente
     tema implica una riflessione circa il problema della filosofia privata e impegno pub-
     blico negli stessi termini rortyani.

        27
            Anche la dimensione ‘estetica’, se non è sostenuta da un sensus communis, perde la sua efficacia:
     è il richiamo a un comune universo di valori che fa sì che il fatto sia un esempio, e non appunto un
     mero fatto; ma su cosa si strutturi tale sostrato comune è aspetto da Rorty lasciato eccessivamente in
     ombra (Donatelli 2019: 619-620).
398 VALERIO MORI

        Il tema della carenza di fondazione discorsiva, e cioè non metafisica del ragiona-
    mento rortyano si riverbera anche su quest’ultimo punto. In breve: se l’intellettuale
    Havel, che scrive le sue meditazioni heideggeriane e il fenomenologo Patočka, che
    erige il suo monumento alla filosofia fenomenologica, non hanno (immediata-
    mente) contribuito a far progredire la libertà e la solidarietà, l’attivista politico Havel
    e il portavoce di Charta77 Patočka evidentemente sì. La distinzione pubblico\pri-
    vato, su cui Rorty ha molto insistito, ne risulta messa in questione (Llanera, 2016;
    Donatelli 2019) se non altro nella sua declinazione rigidamente dicotomica, per la
    quale il privato/esistenziale (l’edificazione di un sé migliore nella cultura) sta da un
    lato, il pubblico impegno dall’altro, perché si dovrebbe poter assumere che un ipo-
    tetico Havel digiuno di letture heideggeriane avrebbe comunque esercitato il suo
    ruolo di intellettuale, disponendosi a subire la carcerazione pur di non deflettere
    dall’assoluto coscienziale e che un ipotetico Patočka, eventualmente molto più di-
    sincantato sul ruolo della filosofia nella costruzione dell’Europa, si sarebbe comun-
    que esposto, mettendosi a diffondere materiale propagandistico illegale, a set-
    tant’anni, nelle strade della Praga ‘normalizzata’ della seconda metà degli anni Set-
    tanta, ben consapevole che ne avrebbe subito drastiche conseguenze. Ma cosa au-
    torizza una simile assunzione? In altre parole: l’ironia quale forza di dissimulazione
    dell’esistente nella forma del potere politico in vigore – l’ironia ‘radicale’ – è altra
    cosa, nel caso Havel-Patočka, dalla prassi dissidente o non vi è fra di esse uno stretto
    legame? Rorty, che assume le dimensioni della self-creation e del public engage-
    ment come entrambe cruciali ancorché non commensurabili rispose (in Contin-
    gency, Irony and Solidarity) di no; lo stesso Rorty che pone la questione del ruolo
    dell’intellettuale in politica, che ci ricorda che “una gran varietà di persone diverse,
    hanno collaborato nella creazione di una tale comunità [scil. la “comunità più libera
    e felice”, infra] […]” (p. 40) pare in vero attenuare tale radicalità (p. 35).

    3. “UNA COMUNITÀ PIÙ LIBERA E PIÙ FELICE”: LIBERTÀ, CONTIN-
    GENZA, VULNERABILITÀ

       “A molti questo [scil. l’assenza di fondazione metafisica] sembrerà insufficiente.
    Straussiani come Allan Bloom, filosofi analitici che si esaltano con ciò che chia-
    mano ‘realismo morale’ insistono sulla fondazione metafisica dell’opzione politica”
    (p. 37). Patočka pare sfuggire a tale dicotomia: assume che la libertà non è un og-
    getto della filosofia in quanto e soprattutto perché essa non è ‘oggetto’, quanto piut-
    tosto un ‘orizzonte’, che si sostanzia nella presa di distacco dal ‘fatto’ – dal ‘dato’
    anche come sistema di rapporti sociali, giuridici e politici – e contemporaneamente
    nella impossibilità di dominare detto orizzonte – ciò che Patočka chiama ‘trascen-
    denza’. Se la libertà non è un ‘ente’, e quindi neppure un guadagno che si possa
    definitivamente ottenere così da poterlo ‘detenere’, essa è piuttosto una ‘postura’,
    uno status del quale si può solamente fare esperienza, che in quanto tale è
399 “Pursuit of Happiness” e speranza post-moderna

     individuale e pienamente radicata nell’orizzonte entro cui “la speranza non è previ-
     sione” (p. 36)28. Patočka, così Rorty, “non è un filosofo della democrazia e diritti
     umani, se con ciò s’intende il tipo di filosofo che intende assicurare alla democrazia
     e alle speranze democratiche una ‘stabile fondazione filosofica’ […] se si rifiuta la
     metafisica […] si respinge l’idea che vi siano, da qualche parte, là fuori […] oggetti
     come ‘legge morale’ e ‘diritti umani’” (p. 37). La libertà è perciò perseguimento
     della speranza (recisamente) contro le apparenze e non, semplicemente, al di là
     delle apparenze: “Patočka è un filosofo della speranza infondata, Heidegger è un
     filosofo della fondata disperazione” (p. 37).
         Patočka, nel suo rifiuto radicale dell’orizzonte metafisico, tematizza la libertà
     come impegno etico per la comunità senza alcuna pretesa di poter superare la con-
     tingenza come orizzonte fattuale. Si tratta dell’“impegno per un progetto di comu-
     nità armoniosa e felice”, che si connette (p. 36) con “l’esperienza dell’insoddisfa-
     zione” e appunto con “l’esperienza della libertà”: trascendimento dell’immediato
     senza per questo ‘abolire’, fatto del resto di per sé impossibile, la contingenza.
     Esclusa dunque la via dell’‘assoluto’ metafisico – ed era su questa base che Rorty
     aveva individuato, tanto in Marx che in Heidegger, tale tentazione – rimane la via
     dell’‘assoluto coscienziale’ nei termini già indicati (supra), dato che la presa in carico
     della dimensione contingente coincide con il commiato dal quadro di ‘mitologie
     escatologiche’ di varia natura (p. 36). Se ciò rappresenta secondo Rorty motivo di
     disagio per gli intellettuali europei e statunitensi di orientamento radicale del ‘post-
     89’29, non costituisce in alcun modo una menomazione, quanto piuttosto lo speci-
     fico della condizione umana, la quale impone di spingersi fino all’estremità del
     “salto nel vuoto” (p. 39), se s’intende conferire senso alla vita in comunità.
         La ricerca di una normatività senza metafisica, non potendo risolversi, dato l’im-
     pianto rortyano, in una argomentazione à la Rawls e neppure nel ‘pluralismo meta-
     fisico’ à la Berlin (1992: 80 ss.), valorizza il potenziale di ‘chiamata’ all’azione, più
     che di riflessione teorica, implicito in quella posizione e reso esplicito dall’impegno
     personale di Havel e dell’‘ultimo’ Patočka, che assume la leadership pubblica di
     Charta77 come atto finale della sua vita (p. 36), azione che è però presso di lui
     conseguenza della sua tematizzazione della filosofia come esercizio della libertà a
     contatto con il reale dell’esperienza totalitaria; e questo costituisce un tema speci-
     fico.
         Ora, l’accettazione della contingenza come orizzonte insuperabile implica la
     presa d’atto di ciò che è il correlato della contingenza dell’‘umano’: la sua vulnera-
     bilità. È su questo aspetto che Rorty fa perno per tentare di superare gli aspetti
     problematici che abbiamo già osservato circa la pretesa di non fondazione della

        28
           Cfr. Havel (1991: 181), ove ricorre la formula menzionata da Rorty, qui – p. 36 – e in Rorty
     (2013a).
        29
           Si veda ad esempio Rorty (2013a: 210; 1998). Cfr. Mari, Marsonet, Vitale (2001: 199 ss.), ove si
     argomenta a proposito della presa di distanza da parte di Rorty dalla “sinistra culturale” americana.
400 VALERIO MORI

    democrazia. In The Seer of Prague tale elemento è infatti largamente enfatizzato.
    In parole di Rorty:
              ciò che ci spinge ad agire e ci rende felici è la convinzione condivisa che le persone
            debbano godere del diritto di dire ciò che pensano, che non debbano essere costrette
            a mentire e a prostrarsi perché i figli possano avere pane e dei libri”; “[quel]la convin-
            zione condivisa è stato ciò che ha acceso una euforica ondata di fraternità in giro per
            il mondo negli ultimi mesi dell’89” (p. 39) .
                                                        30

        Il binomio che Rorty identifica alla base della spinta di liberazione dell’89 è dun-
    que chiarissimo: libertà civili e politiche e lotta contro l’umiliazione (“prostrazione”)
    che deriva dalla privazione, in quanto lesione dello specifico umano: nel primo caso
    appunto come facoltà di mettere in questione l’esistente perché ritenuto insoddisfa-
    cente, nel secondo come esigenza di opporre rifiuto all’inflizione dell’umiliazione,
    temi che caratterizzano il pensiero rortyano che si basano sulla percezione dell’umi-
    liazione e dell’assoggettamento violento dell’altro come fatto di per sé esecrabile
    perché crudele. Il liberalismo rortyano è del resto un liberalismo dell’empatia (cfr.
    supra, a proposito del concetto di empatia di Davidson): a questo va aggiunto che
    Rorty inclinerà progressivamente a una interpretazione anche economica dell’egua-
    glianza (infra).
        Nel discorso patočkiano ciò che Rorty non considera condivisibile è la pretesa
    di renderlo in senso tecnico ‘filosofia’ e con ciò patrimonio esclusivo di una ‘tradi-
    zione’, di un linguaggio cui si riconosca una priorità teoretica e storico-politica. E
    questo, rortyanamente, è ciò che lo rende inadatto – in certo modo ‘soverchiante’
    – a dar conto delle “ondate di gioia” del 1989, che hanno una spiegazione meno
    soggetta alle idiosincrasie del filosofo (Rorty 1982: 202; 2003: 46), più legata all’an-
    tropologia della sofferenza che alla ricerca teoretica (Marchetti 2019: 636). In pa-
    role di Rorty: “la preoccupazione dell’essere ha troppo spazio nella filosofia della
    storia di Patočka, mentre l’empatia troppo poco”; e “la suggestione cristiana per la
    quale guardiamo all’altro come ad un eguale sofferente, piuttosto che un eguale
    viandante-ricercatore nelle lande dell’essere, dovrebbe avere maggior peso di quel
    che Patočka gli concede […] la diffusione della carità e della compassione quali virtù
    ha contribuito ad erigere l’Europa” ben più che la filosofia (p. 40). Il distacco ri-
    spetto all’apparato filosofico continentale – “le meditazioni carcerarie di un Havel
    inglese o americano avrebbero tutt’altro tenore, e userebbero altre parole” (p. 39),
    non sarebbero, cioè, “meditazioni heideggeriane” (p. 36)31 – assume la coloritura
    dell’ironia, del resto tematizzata da Rorty quale elemento centrale della sua ‘propo-
    sta’ liberale (che più che una teoria, è un ethos determinato da una tradizione). La
    figura del ‘liberale ironico’ andrebbe qui presa, più che ‘alla lettera’, ‘sul serio’:

       30
         Cfr. Ferrara (2014: 58).
       31
         Si tenga presente che Rorty propone una netta distinzione fra esercizio privato e pubblico del
    pensiero filosofico, e il contesto nel quale si colloca l’epistolario di Havel è pensato quale privato,
    non pubblico.
401 “Pursuit of Happiness” e speranza post-moderna

     ironia (irony) da εἰρωνεία – ‘dissimulazione’, ‘domanda’ – e quindi solo dopo ciò
     lo si potrebbe mettere in relazione all’‘ironista’ par excellence della storia filosofica
     occidentale: Socrate. E si pone allora (di nuovo) la questione Socrate, che però è
     qui l’uomo che interroga l’uomo essendo a sua volta disposto a farsi interrogare,
     nell’orizzonte insormontabile del linguaggio, e cioè prima che i suoi connotatiti ve-
     nissero trasformati in quelli dell’eroe metafisico del ‘platonismo positivo’32.Quel So-
     crate si avvicina alla figura del liberale ironico rortyano poiché – tolto l’incombere
     dell’idea platonica come contenuto causale ‘epistemocratico’ (Ferrara 2019) – resta
     l’interrogazione che avviene nel perimetro del comune orizzonte contingente, senza
     la tentazione di dover riscontrare un ‘dominio dell’oggettivo’, perciò nella inevita-
     bile circostanza di non poter eludere la scelta: e per tanto di dover esercitare la
     responsabilità (Rorty 1979: 375-376)33. Di là dalla metafisica (che Rorty tende a va-
     lutare come una forma di passività che richiede adesione a parametri non umani34)
     non si apre il baratro del ‘nulla’, ma la difesa attiva di valori che, non avendo pretesa
     di essere eterni, non di meno possono essere normativi – se non altro: parenetici –
     poiché motivano l’agire nel pericolo immediato in vista del superamento del pre-
     sente di una concreta comunità senza per questo pretendere di ‘abolire’ per decreto
     (filosofico) il contingente (Vattimo 2007: 440-441). Nei termini di The Seer of Pra-
     gue: “La confusione tra questi due sensi [scil. di ‘assoluto’], ossia di assolutezza
     come ‘obbligazione individuale incondizionata’ e assolutezza come ‘certezza obiet-
     tiva’ si presenterà ogni qualvolta un metafisico dirà che se Dio, o l’idea del bene, o
     un autentico sé, o l’essenza della natura umana non esistono, allora tutto è per-
     messo” (p. 39). Una “comunità più libera e felice” è infatti quella in cui:
              “libera discussione” […] [significa] quella che ha luogo quando stampa, potere giu-
             diziario, il processo elettorale, le università sono libere, la mobilità sociale è frequente
             e rapita, l’alfabetizzazione è universale, l’istruzione di livello superiore è diffusa, ci
             sono pace e benessere necessari a disporre del tempo libero per ascoltare una am-
             plissima varietà di persone a proposito di ciò possano avere da dire […]. [e si tratta
             qui di] istituzioni politiche democratiche e le condizioni necessarie a renderle con-
             cretamente funzionanti (Rorty 1989: 84).

         Del resto: la filosofia che si interessa ab externo della vita (ossia la filosofia che
     postula un senso ulteriore della vita umana: religioso, o anche ideologico) è una
     filosofia che si dispone a trovare una ragione fondante extra-umana del male sociale
     ed esistenziale (Rorty 1989: 92-94)35. Ma non ogni filosofia è scissione dalla vita, non
     ogni filosofia elude la dimensione contingente e perciò vulnerabile dell’umano: Pa-
     točka ne è un esempio, che Rorty per un verso accoglie e per l’altro respinge.

        32
           Cfr. Patočka (1999); testo al quale Rorty non aveva potuto avere accesso.
        33
           Su questo si veda di recente Voparil (2019: 587).
        34
           Cfr. Ramberg (2008: 444).
        35
           In questo Rorty valorizza una radice nietzscheana (Donatelli 2019).
402 VALERIO MORI

    4. PURSUIT OF HAPPINESS E ‘PRINCIPIO SPERANZA’: UNA CONCLU-
    SIONE

        Rorty è stato più volte accusato di essere un sostanziale apologeta dello status
    quo politico (Bernstein 1994: 250-252), di depotenziare le possibilità di contrasto
    al potere riducendo il fattore agonale della democrazia (Mouffe 1996), possibile
    anche con l’uso dell’ironia36, conseguenza del suo confinare le questioni di principio
    nel ‘privato’, e dunque di condurre il suo discorso verso una sterile “de-teorizza-
    zione della politica” e “de-politicizzazione della filosofia” (McCarthy 1990: 366-
    367).
        Non è forse irrilevante osservare, oggi, che le critiche al Rorty ‘politico’ risalgono
    ad una fase punto differente, non solo perché distante un ventennio dalla odierna
    vicenda politica statunitense ed europea. Si pensi all’esperienza dell’amministra-
    zione Trump – e la sua ‘fragorosa’ conclusione, con i fatti di Capitol Hill del 6
    gennaio 2021 – e all’insorgenza di regimi a vocazione autoritaria nell’Europa cen-
    trale – esemplare l’Ungheria di Orban – temi che intanto suggeriscono, ad opinione
    di chi scrive, di ripensare con occhio maggiormente benevolo al ‘tiepido’ liberali-
    smo bourgeois rortyano, che si colorerà di tinte più marcatamente ‘leftist’ in Achie-
    ving our Conuntry. Soprattutto il Rorty di fine anni Novanta si attira non poche
    critiche per la sua orgogliosa rivalutazione della tradizione della ‘sinistra’ statuni-
    tense, più attenta alle questioni sociali della riduzione delle diseguaglianze, dell’ac-
    cettazione della convivenza fra welfare state ed economia di mercato che alle tema-
    tiche più care all’ala ‘intellettual-radicale’ (definizione rortyana) del movimento pro-
    gressista post-Sessantotto. In altri termini: senza trascurare la questione dei diritti
    civili, le istanze del femminismo, la questione razziale, dal punto di vista del Rorty
    ‘finale’ il tema in ogni caso dirimente resta quello dei diritti sociali ed economici in
    quanto necessari per l’eguaglianza sostanziale.
        Può valere la pena, allora, tanto alla luce di The Seer of Prague e dei richiami
    haveliani alla tradizione statunitense della Dichiarazione d’indipendenza che vi si
    incontrano37, quanto in rapporto ad alcune delle questioni che i critici di Rorty sol-
    levano, considerare il tema della pursuit of happiness in relazione a quello della
    difesa della social hope. Il recupero dell’esperienza jefferonsiana avviene presso
    Rorty previa depurazione dalle sue matrici giusnaturalistiche originarie38, quindi
       36
           Cfr. Ferrara (1990); Curtis (2015: 96-98) che propone l’ulteriore distinzione fra ironia pubblica
    (tesa a recuperare la disponibilità ad attenuare le questioni di ordine valoriale) ed un uso privato,
    maggiormente radicale. In questo senso può tornare buona la duplice possibile interpretazione del
    Socrate ironista proposta (supra).
        37
           Ed essa compare anche nel ‘giovane’ Patočka (1936 – ventinove anni) già tematizzata nella figura
    di Masaryk e delle sue suggestioni americane. Lo scritto giovanile al quale Rorty allude (p. 35) e che
    ha letto nella citata ‘antologia’ curata da Kohák, è Spirtitual Crisis of European Humanity in Husserl
    and Masaryk. Cfr. Findlay (1999: 417 ss.); Tucker et al. (2000).
        38
           Sulla formazione di Jefferon, inter alios, cfr. Graziani (2016: 52 ss., 60-64); Bassani (2002: 23
    ss.); Barbato (1999, passim).
403 “Pursuit of Happiness” e speranza post-moderna

     attraverso una “ridescrizione” (o appropriazione selettiva, supra) di ciò che in quella
     posizione appare rilevante ai fini di ciò che Rorty considera essere progresso sociale
     e politico. E cioè non le “verità evidenti per sé stesse” o le “leggi della natura e di
     Dio”39, bensì la messa a frutto del carattere non sostantivo della nozione jefferso-
     niana di “happiness” che, infatti, nella Dichiarazione, non è definita se non come
     oggetto di una ricerca individuale cui si ha diritto, ma non nei termini di una idea
     determinata (Rorty 2000: 7). Al netto dalle considerazioni heideggeriane sul destino
     dell’Occidente e dall’esaltazione del primato del ‘filosofico’ di Havel e Patočka, su
     cui ci siamo già diffusi, dal punto di vista di Rorty la connessione fra scelta del go-
     verno da parte dei governati – in buona sostanza, la democrazia secondo gli istituti
     tipici della rule of law – e riduzione delle diseguaglianze sociali come questione
     eudeimonologica appare il più compiuto e fruttuoso lascito della tradizione ameri-
     cana40. Il governo come conseguenza dell’accordo di una società umana, a cui Havel
     aveva fatto riferimento citando appunto Jefferson, è centrale nella postura anti-au-
     toritaria rortyana perché unita al tema della “social hope”; e ancor più lo sarà nel
     Rorty di fine anni Novanta (Rorty 1999b: 237), per il quale la presenza degli istituti
     liberal-democratici sul piano istituzionale da sé non basta a mettere la democrazia
     al sicuro.
         Ciò ci porta a concludere il presente contributo riprendendo alcune delle criti-
     che a Rorty cui si è fatto testé cenno. Per il Rorty che inneggia al cambiamento
     sociale un regime politico che comprimesse la libertà, annullasse la speranza sociale
     sostituendo ad essa un calcolo costi-benefici, che esibisse solamente il baculum,
     impedendo così la ricerca della felicità, non è uno status quo degno di essere con-
     servato. Proprio la presenza di una pluralità vasta, presa sul serio, di regimi politici
     possibili porta a concludere che Rorty non è un apologeta di ‘qualunque’ status quo,
     ma un intellettuale ‘schierato’ perché consapevole che ciò che è frutto di circostanze
     storiche, non essendo destinato a permanere identico a sé, immortalato una ipote-
     tica atemporalità costitutiva, non può solo progredire, ma può ben regredire. Per-
     ciò, il liberalismo bourgeois postmodernista (Rorty 1983), che appare a chi sostenga
     tesi radicali tiepido e naïf, rappresenta, visto con gli occhi di oggi e comparato alle
     svolte autoritarie nel cuore dell’Europa, o alle esplosioni di radicalismo cui di re-
     cente si è assistito negli Usa, di per sé un elemento interrogante rispetto al concetto
     di status quo. Rorty ne discute (per tempo) per esempio rispetto al ‘caso Foucault’,
     mettendo in luce il rischio dell’eterogenesi dei fini, implicito in un radicalismo
     astratto e ‘marxisteggiante’, se non nelle conclusioni, nella pretesa ‘parossistica’ di

        39
             Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, oggi in Graziani (2016: 122 ss.).
        40
           La postura giusnaturalistica jeffersoniana appare qui superata, oltre che per le ragioni già viste e
     attinenti all’abbandono della pretesa extra-temprale – tipica delle assunzioni metafisiche –, che si
     sostanzia nel carattere ‘aperto’ della ricerca della felicità, anche sul piano storico, per la sua insuffi-
     cienza nel proteggere i neri americani dalla brutalità della schiavitù prima, dalle discriminazioni raz-
     ziali poi (Graziani, 2016: 86 ss.). Cfr., su democrazia e felicità in America, anche Scuccimarra (1997:
     11; 184).
404 VALERIO MORI

    universalità come discorso sul potere in quanto potere, più che come discorso su
    quale potere, opzione ben più cara a Rorty (2005: 40; 1991a: 175; 1993: 63 ss.).
        In questo senso, calandoci per un attimo nel contingente attuale, avendo a mente
    il Rorty di Acheiving Our Country, potrebbe forse valere la pena prendere in con-
    siderazione le questioni, varie e variegate, che vanno sotto il nome di ‘populismo’,
    non ultimo il tema del rapporto masse-élites (Urbinati 2019; Fabrizzi 2021). Gli
    anni della prosperità economica, dell’‘escatologia’ della crescita costante hanno la-
    sciato il posto alle angosce della classe media americana (ed europea) e delle classi
    economicamente più deboli, fatto che interroga particolarmente l’intellettualità e la
    politica ‘liberal’, pesantemente (al di là dei giudizi di dettaglio che se possono de-
    durre) posta sotto accusa nei processi elettorali, politici, non meno che culturali
    (Maffettone 2020: 14 ss.).
        La proposta di Rorty, in Achieving Our Country, sembrava ‘prevedere’ il rischio
    profondo del distacco dalla base storica del movimento progressista americano,
    consumatosi particolarmente sul piano dell’accresciuto peso delle diseguaglianze
    economiche e quindi di mancate risposte sul terreno della giustizia distributiva, più
    che su altri crinali della vicenda politico-sociale. Una analisi di tale tematica eccede
    le possibilità e le ambizioni del presente contributo; che si può quindi chiudere qui,
    nella convinzione che il ‘capitolo Rorty’ può, a distanza di tre decenni da The Seer
    of Prague e di due da Achieving Our Country, essere riaperto, poiché proprio
    Rorty, che non teneva poi molto ad essere ‘filosofo’, pare aver presentito prima di
    altri che la pursuit of happiness, interpretata nella sua pienezza, non si chiude nella
    sola posizione dell’eguaglianza formale: necessaria, certamente, ma non sufficiente;
    ma implica lo sforzo per la promozione dell’eguaglianza sostanziale, nella convin-
    zione che le questioni di giustizia non sono solo questioni di ‘solidarietà’ innanzi al
    comune orizzonte dell’incertezza, ma elemento rilevante per la tenuta degli assetti
    democratici.

    RIFERIMENTI BILIOGRAFICI

       AA.VV. 1978. Charta77, Bologna: Cseo.
       Arendt, Hannah. 2015. Socrate, a cura di I. Possenti, A. Cavarero e S. Forti, 23-70.
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       Barbato, Maurizio. 1999. Thomas Jefferson o della felicità, Palermo: Sellerio.
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