La Chiesa: genesi e sviluppi storici del Corpo mistico di Cristo
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La Chiesa: genesi e sviluppi storici del Corpo mistico di Cristo La Chiesa: genesi e sviluppi storici del Corpo mistico di Cristodi Francesca Angelini del 27-02-2021 “La Chiesa è il Vangelo che continua”, in questo modo viene definita dal cardinale svizzero Charles Journet (1891 – 1975). In molti altri hanno tentato di descriverla, spesso in modo scorretto, ognuno modellando la propria definizione in base al personale punto di vista ed al tipo di rapporto intrattenuto con essa – quasi il Vangelo fosse emblema del relativismo odierno. Per capire cosa sia realmente la Chiesa è però necessario partire dalla sua origine e ripercorrere le tappe storiche con le conseguenti vicissitudini affrontate. La Tradizione fa risalire la sua nascita all’evento di Pentecoste, riportato negli Atti degli Apostoli: “Vi tramsetto quello che ho ricevuto” amava ripetere Monsignor Marcel Lefebvre, ed ancora tradere significa “trasmettere”. La cattedra di San Pietro (in latino Cathedra Petri) è un trono ligneo, che la leggenda medioevale identifica con la cattedra vescovile appartenuta a san Pietro
apostolo in quanto primo vescovo di Roma e Papa. Quello che si conserva è un manufatto del IX secolo, donato nell’875 dal re dei Franchi Carlo il Calvo a papa Giovanni VIII in occasione della sua discesa a Roma per la propria incoronazione a imperatore. L’opera del Bernini è collocata nell’abside di fondo della Basilica Vaticana, aggettante con effetto scenografico dalla cornice architettonica delle lesene. Al centro si trova il trono in bronzo dorato, al cui interno è situata la cattedra lignea vera e propria. Su un drappo frontale è rappresentata la traditio clavum (la “consegna delle chiavi”, ovvero l’atto secondo cui, nella dottrina cattolica, Cristo conferisce a Pietro il primato papale). Quattro colossali statue anch’esse in bronzo, raffiguranti quattro dottori della Chiesa (in primo piano sant’Agostino e sant’Ambrogio per la Chiesa latina e in secondo piano sant’Atanasio e san Giovanni Crisostomo per la Chiesa greca), sono rappresentate nell’atto di sorreggere la cattedra, che pare librarsi senza peso su nuvole di stucco dorato. Secondo l’evangelista Giovanni, ha inizio dal costato ferito di Gesù sulla croce nel momento in cui questi dona lo Spirito. Il quarto evangelista mostra la Chiesa come dono di Dio e sottolinea il carattere trinitario della sua nascita, infatti, nasce dal Padre, per mezzo del Figlio, con l’aiuto dello Spirito. Il termine Chiesa deriva dal greco ekklēsía, con cui si indicava l’assemblea pubblica dei cittadini. Questo vocabolo è stato poi utilizzato dalla Bibbia dei Settanta (versione della Bibbia in lingua greca) per tradurre l’ebraico qahal, con cui si intendeva la convocazione del popolo da parte di Dio, oppure per tradurre l’ebraico edah, con cui si chiamava la comunità raccolta per pregare o il luogo di preghiera. I due termini hanno diverse sfumature in quanto il primo indica maggiormente una convocazione passiva, mentre il secondo un raduno attivo. Nel Nuovo Testamento l’ecclesia (termine latino) non è la sinagoga che è, invece, la comunità degli ebrei. Utilizzando il termine al plurale si indica una particolare Chiesa locale, invece, al singolare l’insieme di tutte le Chiese. È da tenere presente che nell’Antico Testamento non è possibile parlare di Chiesa nel senso moderno del termine, ma in quello originario, per questo motivo è un concetto che viene espresso con varie immagini come quella del “popolo di Dio”, che racchiude un aspetto storico visibile (popolo) ed un aspetto teologico invisibile (Dio). Espressione usata dopo l’esilio perché Israele acquisisce sempre “maggiore coscienza” di essere il popolo eletto che appartenendo a Dio non appartiene a se stesso, a differenza degli altri popoli definiti come le “genti”. Un’altra espressione usata è “alleanza”, Dio vuole stabilire un’alleanza e libera con essa, all’alleanza sinaitica Israele deve sentire il bisogno di rispondere con la fedeltà. Altro termine
è “resto di Israele”, utilizzato nel periodo dell’esilio, indica la piccola porzione degli israeliti che è riuscita a rimanere fedele. Si potrebbe facilmente pensare che il fondatore della Chiesa, intesa come l’istituzione odierna, sia Cristo, ma occorre fare delle precisazioni. Spesso si utilizza la celebre frase del Vangelo secondo Matteo Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam – Tibi dabo claves Regni Caelorum (Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevaranno contro di essa – Mt 16,18) per sostenere questa idea, ma l’espressione va intesa in senso post pasquale, infatti, la Chiesa per Matteo è opera del Risorto e vive con lui, inoltre l’evangelista sottolinea la sua natura apostolica e l’importanza di Pietro. Quindi, se per fondazione si intende la forma giuridica, Gesù non l’ha fondata. Cristo ha parlato di un Regno e raccoglie cerchi concentrici di persone che ruotano intorno a lui: i dodici apostoli, i settantadue discepoli, la folla, indicando una connessione tra Regno e comunità. Il suo scopo non era radunare persone per creare una Chiesa come forma giuridica vicino la già esistente comunità di Israele, ma per fondare Israele stesso, un Israele escatologico, mostrando un’apertura verso tutti. In poche parole non ha fondato la Chiesa, ma l’ha preparata. La sua nascita effettiva avviene con il mistero pasquale. Per l’evangelista Marco la Chiesa è universale, aperta ai giudei ed ai pagani – affinché tendino alla Verità cristica, dunque alla conversione -, ed è chiamata a seguire Gesù fino alla croce e ad ascoltare la Parola e a metterla in pratica. Mette anche in evidenza la fragilità propria della comunità. Secondo l’evangelista Luca il peccato della Chiesa è l’attaccamento di alcuni suoi membri ai beni terreni. Inoltre l’esperienza del martirio è un evento fondamentale per la sua coscienza, infatti, usa il termine Chiesa, mai usato nel suo Vangelo, negli Atti degli apostoli ad esempio dopo il martirio di Stefano. Negli Atti, poi, è evidenziata la dimensione ministeriale della Chiesa, che è una comunità organizzata gerarchicamente. Per Luca il tempo della Chiesa è il tempo dello Spirito che la sostiene sempre ed è donato a tutte le persone a partire dal Battesimo. Nemmeno nel Vangelo di Giovanni compare il termine ecclesia, ma solo nella sua terza lettera. È interessato alla dimensione intima della Chiesa, la koinonìa (comunione) tra Gesù e i discepoli e interna a questi ultimi. La Chiesa è la schiera dei credenti in Cristo, non dà importanza all’aspetto istituzionale, ma presenta un’ecclesiologia universalista. Nell’Apocalisse, Gesù ricorda tutto l’amore che ha avuto per la Chiesa. Essa vince il male con la propria testimonianza. L’ultimo libro della Bibbia finisce con l’immagine della Chiesa celeste. San Paolo è il primo ad utilizzare la parola ecclesia per indicare la comunità locale. Invece nelle lettere deuteropaoline (composte successivamente alla sua
vita, ma attribuite a lui) il termine viene usato per indicare quella universale. Per l’apostolo la Chiesa è corpo mistico di Cristo come è evidente soprattutto nella frase contenuta nella lettera ai Corinzi “Ora voi siete corpo di Cristo e le sue membra, ciascuno per la sua parte.” (1Cr 12,27). Nei secoli la Chiesa ha vissuto varie trasformazioni che hanno rispecchiato il particolare periodo storico attraversato. Nella patristica (filosofia cristiana dei primi secoli) è vista come: “mistero”, “Corpo di Cristo”, “comunione dei Santi”, “tempio di Dio”. Nello specifico i padri dei primi tre secoli utilizzano l’immagine della barca, per i latini Pietro ne è al timone. Prima del IV secolo è vista come mistero, successivamente come Impero. Questo è dovuto agli importanti fatti storici che hanno caratterizzato questo secolo: l’Editto di Milano dell’Imperatore Costantino del 313 sulla libertà di culto e l’Editto di Tessalonica dell’Imperatore Teodosio con il quale il cristianesimo diventa la religione ufficiale dell’Impero. La Chiesa, quindi, perde la sua dimensione escatologica, ma ha uno sguardo fisso sul presente. La Chiesa, precedentemente all’anno 1000, era detta “Corpo di Cristo” e l’Eucaristia “Corpo mistico di Cristo”. Dopo il 1000 d.C. avviene un capovolgimento per cui l’Eucaristia viene indicata come “Corpo di Cristo” e la Chiesa come “Corpo mistico di Cristo”, cambiamento fatto per difendere la presenza reale di Gesù nell’Eucaristia. Nel 1054 si colloca lo scisma tra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente che presentano ecclesiologie differenti in quanto in Oriente prevale un’ecclesiologia di comunione fra le Chiese, invece, in Occidente si subisce l’influsso della Riforma gregoriana (XI secolo) e successivamente dell’eresia luterana (XVI secolo). Il notissimo ritratto di papa Giulio II della Rovere, realizzato da Raffaello Sanzio a Roma (particolare), si trova alla National Gallery di Londra.
Papa Gregorio VII vuole una Chiesa libera dal male, scomunica Enrico IV per il suo rifiuto di rinunciare a nominare i vescovi, il quale, per ottenere la revoca della scomunica, si umilia attendendo tre giorni e tre notti in ginocchio sulla neve davanti al portale d’ingresso del castello di Matilde di Canossa prima di essere ammesso al cospetto del Pontefice, nell’episodio storico noto come l’Umiliazione di Canossa. Redige il Dictatus Papae, raccolta assiomatica di ventisette affermazioni sui poteri dei pontefici, sono elencati, quindi, i princìpi della Riforma gregoriana che dà il via ad un’ecclesiologia dove il Papa è centrale come il ruolo di Roma. Chiesa intesa come societas perfecta. Prima della riforma tutti i vescovi erano considerati il vicario di Cristo, tutte le Chiese fondate da un apostolo oppure che avevano ricevuto una lettera da un apostolo erano considerate una sede apostolica. I capisaldi dell’eresia luterana, oltre l’aspetto politico della sottomissione ai Conti Elettori tedeschi e la lotta alla vendita delle indulgenze, sono: sola scriptura e sola fide, indicando con il primo l’esclusività della Parola a discapito della Tradizione, invece, con il secondo l’egemonia della fede contro le opere. In termini liturgici Lutero attua tre delle due caratteristiche che oggi la Chiesa attua: in primis non vi è più la transustanziazione – dunque manca il Santissimo, poi per conseguenza il “prete” non deve dare più le spalle ai fedeli, che divengono centrali nella conferenza e abolisce la lingua universale del latino a favore di quella vernacolare. Per Martin Lutero la Chiesa non è un impero, infatti, il potere spirituale è separato da quello temporale, non è volontà divina che i vescovi abbiano il potere. Predica, inoltre, l’importanza del sacerdozio universale dei fedeli per cui non solo il Papa, ma tutti possono leggere ed interpretare la Bibbia. Per rispondere all’eresia protestante è stato istituito nel 1545 il Concilio di Trento che mette al centro il Vangelo, i Sacramenti (la Riforma accetta, invece, solo il Battesimo e l’Eucaristia) e la gerarchia. Si ribadisce che la Chiesa è una società perfetta e si insiste sulla potestà pontificia. Successivamente nell’illuminismo (XVIII secolo) si sottolinea la centralità del diritto nella Chiesa facendole perdere l’aspetto soprannaturale ed sarà solo sotto il beato Pio IX nel 1868 che sarà convocato il Concilio Vaticano I che fu il primo Concilio che intende affrontare in maniera sistematica il tema della Chiesa.
Il concilio di Trento o concilio Tridentino fu il XIX concilio ecumenico della Chiesa cattolica, convocato per reagire alla diffusione dell’eresia protestante in Europa. L’opera svolta dalla Chiesa per porre argine al dilagare della diffusione della dottrina di Martin Lutero produsse la controriforma. Viene emanata la Costituzione apostolica Pastor Aeternus (costituita da un prologo e da quattro capitoli) che, già nello schema preparatorio, presenta un aspetto mistico in quanto si abbandona la categoria della società perfetta e, al contrario, si sottolinea la categoria del Corpo mistico di Cristo essendo la Chiesa una società soprannaturale e spirituale. Nel documento definitivo è centrale l’aspetto dell’infallibilità pontificia quindi il potere papale è di diritto divino, potere pieno senza mediazioni sulla materia di fede, dei costumi e sulla materia ecclesiale. L’infallibilità non ha bisogno del consenso della Chiesa essendo un carisma proprio del pontefice. Il papa è superiore al concilio. Nel 1959 Giovanni XXIII convoca il Concilio Vaticano II, esprimendo nell’annuncio la sua idea di Chiesa in dialogo con il mondo e non in opposizione con i suoi aspetti moderni. Dunque essendo il mondo del maligno (luciferino) che propone
mode terrene e la Chiesa si oppone ad esse grazie alla Verità di Cristo scritta nel Magistero, si evince già l’errore dottrinale: la Chiesa si adegua al mondo. Viene, poi, continuato e portato a termine nel 1965 da San Paolo VI. Il Concilio ha emanato numerosi documenti, alcuni dei quali trattano nello specifico il tema della Chiesa. Il primo fra tutti è la Costituzione dogmatica Lumen Gentium (costituita da otto capitoli) che si mostra rivoluzionaria nel presentare la Chiesa non tanto in forma gerarchica, ma come popolo di Dio, superando, quindi, la sua concezione clericale. Antepone la stessa trattazione sul popolo di Dio a quella sulla costituzione gerarchica, tanto che si parla di “rivoluzione copernicana”. Viene ribadita la Chiesa come “Corpo mistico di Cristo”, al cui interno ci sono diversi compiti e diversi doni ed è lo Spirito a renderla un Corpo solo (orizzonte pneumatologico). Viene recuperato anche l’orizzonte agapico perché i diversi carismi non sono questione di potere, ma di amore. La Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica, con sussistenza si vuole indicare la piena identità, ma non si tratta di una realtà escludente, infatti, il documento ha un profilo inclusivista secondo il quale Cristo ha salvato tutti (cristocentrismo). Nella Chiesa cattolica c’è la pienezza dei mezzi di salvezza, nelle altre confessioni ce ne sono comunque alcuni. La Costituzione pastorale Gaudium et Spes (costituita da proemio, prima e seconda parte e conclusione) afferma che la Chiesa deve dialogare con il mondo, cogliere i segni dei tempi e la grazia presente. Con il dialogo “adempie la sua missione” perché non deve solo trasmettere la verità, ma anche imparare dal mondo (non possedendo più un’unica Verità, quella Cristica). Questa esposizione dei fatti storici principali riguardanti la Chiesa la mostra come una realtà in continuo rinnovamento, ma che nella sua essenza rimane sempre la stessa e per captare questa sua essenza ci si può affidare alle note (proprietà essenziali) con cui è stata definita dal simbolo niceno-costantinopolitano risalente al Concilio di Nicea (325). La Chiesa è Una perché questa è l’intenzione di Cristo, l’unità richiama l’unicità (alle nuove tesi) ed entrambe si trovano all’interno della molteplicità che non è nemica dell’unità. La divisione non è da intendere come molteplicità, ma come peccato (qui il paradosso discusso da molteplici teologici). La Chiesa è santa in quanto è composta da santità e peccato, ma Cristo è venuto per la salvezza di tutti. È indistruttibile perché anche se perseguitata non può essere annientata. È indefettibile perché anche se al suo interno ci sono peccatori è accompagnata fino alla fine dei tempi da Cristo. È infallibile perché anche se può sbagliare non può essere preda della potenza del male. La Chiesa è cattolica che significa universale perché riflette la volontà salvifica di Dio che si è fatto carne per tutti gli uomini. La Chiesa è apostolica nel senso di inviata da Dio per mezzo di Cristo. L’apostolicità per sua natura è profetica quindi genera continuamente la parola di Dio in mezzo all’umanità. Un cambiamento,
questo, che genera ancora importanti discussioni nel mondo cattolico. Per approfondimenti: _Wiedenhofer S., La Chiesa. Lineamenti fondamentali di ecclesiologia, San Paolo. © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata Un vademecum per l’uomo sognatore, guerriero, gentiluomo Un vademecum per l’uomo sognatore, guerriero, gentiluomodi Giuseppe Baiocchi del 04-09-2020 Uno dei personaggi celebri che cercarono di rovesciare nel 1944 Adolf Hitler (1889 – 1945), così affermava poco prima della sua esecuzione: «Colui che conserva nel suo petto puro ed immacolato la fede di un fanciullo e osa vivere contro la derisione del mondo – come sognava da bambino – fino all’ultimo giorno: questo è un uomo»! Quell’uomo era Henning Hermann Robert Karl von Tresckow (1901 – 44), martire della Germania moderna e forse questa frase, più di ogni altra, identifica il nuovo saggio edito dalla casa editrice tedesca Wolff Verlag. Leggendo l’opera di don Philipp Maria Karasch (1984) e del professore Daniel Plassnig (1990) non si può non rimanere impressionati dalla singolarità della loro fatica letteraria, che prende il titolo tedesco di Träumer Kämpfer Gentleman: una guida per la moralità dell’uomo di oggi, all’insegna dei valori tradizionali dell’Europa.
In una realtà sociale, dove dominano modelli di moralità contrari alla nostra storia e esempi degenerativi sui comportamenti e sulla presentabilità delle persone, sicuramente questo prezioso scritto, formalmente un vademecum per l’uomo contemporaneo, dimostra di scavare davvero in fondo al nostro animo. Le epoche passate, con tutte le loro vicissitudini e i diversi sistemi sociali, avevano una cosa in comune: la conoscenza di dove si trovava l’uomo e cosa ci si poteva aspettare da lui. È stato procreatore e produttore, guerriero e inventore, avventuriero e poeta. Ha sempre avuto qualcosa da offrire. Ma poi, il suo stesso successo sembrò distruggerlo: la tecnologia lo ha privato del lavoro, l’intera produzione alimentare è stata industrializzata, e anche le guerre diventarono in gran parte anonime. L’uomo può vegetare in casa, perdendo metà della sua vita in mondi digitali illusori. Egli non è più legato ad un ciclo biologico – né in guerra, né nel guadagnarsi da vivere, né nella procreazione. Tutto è a sua disposizione sempre e ovunque. Così, le sue pulsioni mentali e fisiche sembrano essere diventate paralizzate, adipose e desolate. Come spiegare altrimenti che l’uomo sfugge in larga misura al ruolo che Dio gli ha destinato? Molti padri lasciano i propri figli da soli (se di figli ancora ne vengono fatti), la frammentazione sociale viene silenziosamente accettata, il patrimonio culturale viene distrutto e non si trova nessuno che lo difenda. La lista potrebbe continuare all’infinito. D’altro canto, come il saggio ci invita a riflettere, la virilità nel culto del corpo è caricaturale su ogni manifesto pubblicitario, oppure si creano talvolta piccoli rifugi che prendono la forma di centri estetici o di templi del fitness, dove l’uomo può chiudersi in se stesso e abbandonarsi a un culto superficiale della mascolinità. Spuntano anche innumerevoli riviste per il “Signore del Creato”, il quale però si presenta come guscio vuoto, pallido nell’aspetto, che parallelamente mostra anche la volontà di riscoprire la consapevolezza del pericolo per la propria identità.
Sotto tutte le ceneri delle certezze bruciate, vi è un desiderio segreto installato nei cuori di molti uomini che risplende per quel qualcosa di Grande che vogliono servire, che vogliono scoprire e conquistare – per il quale vogliono morire. La repressione ed il tabù delle caratteristiche e delle virtù maschili sono penetrati persino nel sacro regno della vita ecclesiale. Anche se si dovrebbe assumere il contrario, considerando che l’ordinazione sacerdotale è riservata agli uomini, questi ultimi spesso si sentono fuori posto nella Chiesa, in quanto sembra che quest’ultima venga appannata da una patina di femminismo confuso e vuoto. Anche se ciò non parla in favore dell’uomo, al quale l’inganno del sentimentalismo superficiale impedisce di vedere la pretesa di Gesù sui suoi discepoli, l’obiettivo contrariamente deve essere quello di dimostrare che egli stesso ha bisogno della Chiesa, come quest’ultima ha bisogno di lui. Che egli troverà la propria vocazione solo attraverso un cristianesimo vero e sentito, che richiede sacrificio e dono di sé. Da questo sentimento nasce il “vademecum per l’uomo”, al quale si antepone la triade del sognatore, del guerriero e del gentiluomo. Così che ogni lettore incline si ritrovi già nel titolo e intraprenda il viaggio esplorativo di una virilità raffinata. Negli Stati Uniti d’America, ci sono innumerevoli opere contemporanee sul mercato del libro cristiano che si presentano in modo accattivante. Nei paesi di lingua tedesca e in Italia, tuttavia, l’editoria in questo contesto si distingue per la sua scarsa produzione. Nella misura in cui in Europa, prevale una diversa sensibilità linguistica, gli autori hanno deciso di raccontarsi e raccontare la loro idea maschile, che in realtà risulta poi essere quella dei nostri nonni e con uno sguardo più generalizzato, risulta essere quello della nostra storia. Alcune lobby, come sappiamo, stanno cercando di eliminare la storia: è sotto gli occhi di tutti.
Ed è proprio per questo che questo piccolo tomo, che tratta di virtù e atteggiamenti diversi che dovrebbero contraddistinguere un uomo, acquisisce ancor di più maggior valore. Ad ogni tematica trattata, con intelligenza, si prende un “personaggio” ad esempio che, nel concreto e come figura storica, da buon cattolico, può servire da mentore e da esempio per noi lettori scoraggiati. Ma questa Europa, oggi tecnocratica, nella quale non conta più l’appartenenza culturale di ogni popolo, ma unicamente viene osservato il mero dato finanziario per essere comunità, non si basa ancora sulla grecità, sulla cristianità, sulla filosofia tedesca del 900 e sulla storia delle grandi famiglie europee che l’hanno – de facto – plasmata? E non sono forse gli uomini citati in Träumer Kämpfer Gentleman ad essere tasselli di quella terra che calpestiamo e di quell’aria che respiriamo? Uno dei punti fermi del saggio sembra essere la citazione di Ernst Jünger (1895 – 1998): «il coraggio è il vento che spinge verso lidi lontani, la chiave di tutti i tesori, il martello che forgia grandi imperi, lo scudo senza il quale non esiste cultura. Il coraggio è l’impegno della propria persona ad affrontare la conseguenza più dura, il salto dell’idea contro la materia, indipendentemente da ciò che ne può scaturire. Coraggio significa lasciarsi crocifiggere come individuo per la propria causa; coraggio significa confessare, nell’ultimo spasmo dei nervi, con il respiro spento, il pensiero per il quale si è resistito e si è caduti. Al diavolo un tempo che vuole portarci via il nostro coraggio e i nostri uomini»! Sul tema della paternità, ad esempio, troviamo il Lord Cancelliere Thomas More (1478 – 1535) o Claus Philipp Maria Schenk conte von Stauffenberg (1907 – 44), i quali divengono sinonimo di orgoglio cristiano; il padre della Chiesa Aurelio Agostino d’Ippona (354 d.C. – 430 d.C.) ci fa riflette sulla vera amicizia e lo scrittore John Ronald Reuel Tolkien (1892 – 1973) viene citato come esempio di cavalleria. Alcuni fra gli altri temi trattano l’amore per la Patria, l’identità, la bellezza, il corpo e lo sport, il perdono, il desiderio.
Ogni capitolo inizia con un brevissimo profilo biografico del personaggio, seguito dall’argomento vero e proprio e si conclude con domande di riflessione o suggerimenti per l’attuazione di quanto letto. Gli autori austriaci, nella scelta dei personaggi, si sono soffermati su modelli di riferimento di lingua tedesca, sicuramente come atto d’amore e dolore che lo stesso odio tedesco ha avuto su se stesso. Ma anche l’attuale Italia trova alleati nativi in Filippo Romolo Neri (1515 – 95) e Pier Giorgio Frassati (1901 – 25). Ovviamente nessuno è specialista quando si tratta di tracciare modelli per il prossimo, tuttavia, gli autori sembrano comprendere quale è il loro personale obiettivo: un libro per se stessi e per tutti coloro che vorranno assaporarne l’incipit. Tuttavia, una delle riflessioni più toccanti del testo si installa propriamente sullo smarrimento dei valori giovanili, senza più cardini e punti di riferimento. L’affidarsi spesso a “consiglieri” sbagliati, spesso agli stessi media, sta facendo crollare la morale e l’etica dei giovani: gli autori sperano con questo piccolo saggio, di aver fatto un servizio a se stessi e agli altri. In realtà, tale vademecum, fornisce al lettore anche spunti per approfondimenti e indici di lettura su altri testi e saggi: affinché ci sia qualcosa anche per il sognatore, poiché non sono incluse solo opere filosofiche, teologiche o pratiche, ma anche una piccola selezione di narrativa. Il tutto si completa con una breve sezione di preghiera. L’opera è certamente arricchita da Sua Eccellenza Reverendissima Athanasius Schneider (1961), vescovo di Astana in Kazakistan, il quale ha contribuito alla prefazione: «Come Dio ha iscritto l’esser madre, la maternità, nella natura della donna, così ha iscritto l’essere padre, la paternità, nella natura dell’uomo. Ogni
uomo dovrebbe quindi, con l’aiuto di Dio, elaborare sempre più chiaramente nella sua vita le caratteristiche del Padre; e queste sono soprattutto: prendersi cura degli altri, proteggere, difendersi, sacrificarsi per gli altri. Anche se non tutti gli uomini in questa vita sono un padre biologico, cioè un padre di famiglia, ogni uomo dovrebbe vivere le qualità paterne. Solo allora dà alla sua virilità una vera dignità e solo allora diventa felice, anche se con fatica e non senza una croce, ma felice». L’augurio certamente è quello di una rinascita spirituale, prima che fisica, che porti conforto sia all’Heimat degli autori e in seconda istanza anche a questa travagliata Europa: che sia di nuovo benedetta da uomini forti e disposti a fare sacrifici. Per approfondimenti: _Karasch-Plassnig, Träumer Kämpfer Gentleman, Wolff Verlag, Berlino, 2020. © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata Il rito romano straordinario come argine alla secolarizzazione Il rito romano straordinario come argine alla secolarizzazionedi Giuseppe Baiocchi del 01-09-2020 Per chiarire il rapporto tra il Mutu Proprio “Sommorum Pontificum” di Benedictus PP. XVI (1927) e il processo di secolarizzazione della società contemporanea, bisogna necessariamente analizzare quest’ultimo termine. Non a caso lo stesso Ioannes Paulus II (1920 – 2005), in un suo discorso del febbraio 2002, affermava come: «purtroppo la metà dello scorso millennio, avuto inizio dal Settecento in poi, si è particolarmente sviluppato un processo di secolarizzazione che ha preteso di escludere Dio e il cristianesimo da tutte le espressioni della vita umana. Il punto di arrivo di tale processo è stato il laicismo, il secolarismo agnostico e ateo, cioè l’esclusione assoluta e totale di Dio, della legge morale naturale, da tutti gli ambiti della vita umana. Si è relegata la religione cristiana entro i confini della vita privata di ciascuno».
Xilografia Flammarion, un’opera enigmatica di un artista sconosciuto. La prima apparizione documentata è all’interno di L’atmosphère: météorologie populaire di Camille Flammarion (Parigi 1888, pagina 163, un lavoro sulla meteorologia per un pubblico generale), raffigurante un uomo che scruta attraverso la cortina dell’atmosfera terrestre che avvolge l’universo esterno (del 1888). Da tali parole emerge come la secolarizzazione sia un processo storico che ha inizio alla metà dello scorso millennio con l’umanesimo rinascimentale, che si articola nel Settecento con l’illuminismo e avrà il suo punto di arrivo nel laicismo e nel già citato – appunto – secolarismo agnostico e ateo che caratterizzano prima il marxismo e poi la società post-moderna. La meta, l’obiettivo è l’esclusione di Dio e del cristianesimo dalla sfera pubblica e la riduzione della religione a fenomeno puramente individuale. Si tratta di un fenomeno più volte denunciato, sia da Giovanni Paolo II, sia da Benedetto XVI. Il primo Pontefice citato, considera il secolarismo come l’esito radicale necessario della secolarizzazione e con ciò cade la distinzione tra una secolarizzazione “buona” ed una porzione di secolarismo vista come “perversione dell’idea di secolarizzazione”. Difatti tra secolarizzazione e secolarismo non esiste una logica e coerente continuità. C’è chi crede che per evitare il secolarismo anti-cristiano, la Chiesa dovrebbe fare propria e “battezzare” la secolarizzazione: quasi una inevitabilità data dal processo storico. Se, diversamente, si rifiuta questa visione immanente e storicistica e si stabilisce un criterio che ci permetta di valutare gli eventi della storia alla luce di princìpi organici e trascendenti, non possiamo considerare in sé “positivo e buono” nessun fatto storico solo perché avvenuto. Come gli atti umani, i fatti storici – prodotti razionali e liberi dell’uomo – devono essere giudicati o in positivo o in negativo. La società secolarizzata non può definirsi in sé neutra, ma va giudicata proprio perché siamo davanti non ad un processo inevitabile, ma ad un frutto di scelte
culturali e morali dell’uomo. L’accettazione della secolarizzazione come un fatto storico inevitabile, porta inevitabilmente verso una filosofia e una teologia della secolarizzazione. La filosofia della secolarizzazione già implicita nell’umanesimo pagano, si forma nei circoli illuministici, viene portata nel XX secolo ad una sua coerenza logica da Gramsci nei suoi “Quaderni del Carcere” e penetra nella seconda metà del XX secolo nella teologia, prima protestante, poi cattolica con Dietrich Bonhoeffer (1906 – 45). Quest’ultimo, celebre pastore luterano, concepisce la storia del cristianesimo in chiave evolutiva, come un passaggio dall’età dell’infanzia, all’età adulta. Secondo Bonhoeffer l’adulto sarebbe quello che abbraccia il mondo e nel mondo si immerge e si immedesima, trovando a questa realizzazione la sua maturità: la sua celebre “maturità del mondo”, nella quale avviene l’espulsione del sacro da ogni ambito sociale e con l’estirpazione delle radici cattoliche dalla società. Nel Seicento, un giurista Huig de Groot (1583 – 1645) aveva auspicato la nascita di un diritto liberato dalla metafisica. Fu proprio il batavo a coniare la formula etsi deus non daretur: un diritto naturale, come se Dio non esistesse. Bonhoeffer sapientemente, riprende questa formula e la applica alla teologia. Dissidente del partito nazionalsocialista tedesco, in carcere scriverà: «Non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo etsi deus non daretur e appunto questo riconosciamo davanti a Dio. Dio stesso ci obbliga a questo riconoscimento, così il nostro diventare adulti, ci conduce a riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione davanti a Dio. Egli ci dà la conoscenza, che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona, il Dio che ci fa vivere nel mondo senza ipotesi di lavoro, è il Dio davanti al quale permanentemente stiamo». Dietrich Bonhoeffer (1906 – 1945) è stato un pastore luterano, teologo, dissidente anti-nazista e fondatore della Confessing Church. I suoi scritti sul ruolo del
cristianesimo nel mondo secolare sono diventati ampiamente influenti e il suo libro The Cost of Disipleship è stato descritto come un classico moderno. Da questa allocuzione, sappiamo come l’oggi Papa Emerito Joseph Ratzinger, prima di divenire Benedetto XVI, in un suo dialogo con Marcello Pera (1943) contrappose un’altra formula: etsi deus daretur e tale formula contiene chiaramente un’opposta visione alla secolarizzazione, poiché è la proposta fatta a chi non crede, di accettare una società cristiana, in cui il cristianesimo riacquisti il suo spazio pubblico. I cattolici, in tale prospettiva, devono evangelizzare il mondo e non farsi secolarizzare da esso. Certamente è dato notorio come le tesi del luterano tedesco penetrarono nella teologia cattolica, come ha dimostrato Cornelio Fabro (1911 – 95), in particolar modo nel teologo Karl Rahner (1904 – 84). Nel quattordicesimo volume dei suoi scritti teologici Sulla teologia del culto divino, padre Rahner scriveva che «la liturgia per il principio lex credendi, lex orandi, avrebbe dovuto esprimere questo nuovo rapporto con il mondo, farsi essa stessa liturgia del mondo». Fu così che don Fabro affermò propriamente come la radice della secolarizzazione consiste nel far sprofondare inarrestabilmente l’uomo nel mondo, e nel riconoscersi proprio nell’homo mundanus, ovvero l’essere dell’uomo come essere in e per il mondo. L’illusione è quella di fondare un ordine mondano, all’infuori del cristianesimo, dove questo si invererebbe. Esiste tuttavia un significato positivo di mondo. Oggi ci dimentichiamo troppo facilmente l’esistenza di un mondo inteso invece nel senso delle tre concupiscenze e del rifiuto di Dio, un mondo che tende a divenire dell’apostasia. C’è un mondo che è costituito da uomini che devono essere salvati dalla redenzione. Ce ne parlava San Giovanni, di un mondo terreno in cui il suo Re, non era Dio, ma il demonio. Tale mondo si fonda sulle tendenze disordinate dell’animo umano, così come amava affermare l’intellettuale brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908 – 95). Tale concezione, oggi ancora evocata dalla politica, porta il nome di nuovo umanesimo. Tale termine raccoglie certamente gli altri già citati: secolarizzazione, secolarismo, laicismo. Non più Dio al centro dell’uomo, ma l’uomo stesso e la sua volontà di potenza. L’umanesimo, difatti, assegna all’uomo due fini: uno spirituale – da raggiungere in paradiso, di cui si occuperebbe la Chiesa –, e un fine terreno in cui la Chiesa dovrebbe rimanere estranea. Si separa così l’ordine naturale da quello spirituale, pretendendo di realizzare un ordine umano al di fuori della Chiesa. Lo sguardo dal cielo, si sposta sulla terra. Nei suoi scritti il cardinale Giuseppe Siri (1906 – 89) affermava come «una redenzione puramente terrestre non ha significato per l’uomo, essa può finire al contrario col rendere il nostro mondo invivibile, un segno di inferno nella vita degli uomini. La Chiesa non è un potere mondano, né può divenirlo. Le parole di Cristo al tentatore hanno segnato l’indole della Chiesa. La Chiesa – corpo
mistico di Cristo – ha certamente un fine soprannaturale, ma oltre ad essere una società invisibile è anche una società visibile che opera nel mondo, è un’istituzione pubblica, dotata di una sua struttura giuridica e i suoi membri hanno come fine il cielo, ma sono uomini composti di anima e di corpo che vivono nel mondo, lottano contro il mondo, devono affermare nel globo le proprie idee e i propri valori». Giuseppe Siri (Genova, 20 maggio 1906 – Genova, 2 maggio 1989) è stato un cardinale e arcivescovo cattolico italiano. Convinto difensore della tradizione liturgica e dottrinale della Chiesa e avversario delle ideologie totalitarie del XX secolo, che riteneva incompatibili con la fede cattolica, Giuseppe Siri salì rapidamente i gradi della gerarchia ecclesiastica fino a diventare vescovo ausiliare a 38 anni, arcivescovo di Genova a 40 e cardinale a 47. Governò l’arcidiocesi ligure dal 1946 al 1987, e, con i suoi 41 anni di durata, il suo episcopato fu probabilmente il più lungo della chiesa genovese. Partecipò a quattro conclavi, durante i quali venne sempre indicato fra i papabili. Siri fu anche, fra le varie cariche ricoperte, presidente della Conferenza Episcopale Italiana dal 1959 al 1965. Il suo carattere deciso, poco incline ai compromessi, e la tenace difesa delle proprie convinzioni divisero spesso l’opinione pubblica, suscitando grandi consensi e forti opposizioni. A Genova, città cui fu profondamente legato, fondò e sostenne numerose organizzazioni assistenziali, pastorali e culturali. Scrittore molto prolifico, la sua vastissima produzione si articola in centinaia di titoli, suddivisi fra lettere pastorali, libri, discorsi, omelie, articoli e relazioni. In tal senso la Chiesa non può assolutamente essere una madre part-time, ma
deve svolgere la sua funzione a tempo pieno. Non a caso l’autorità della Chiesa non ha una fonte umana, ma si esercita su tutto il mondo e questa autorità sulle “cose” temporali è esercitata dalla Chiesa per difendere la propria libertà, ma per difendere anche la libertà dei propri figli, poiché ordinando gli uomini alla vita eterna la Chiesa non assicura loro solo la felicità eterna in cielo, ma offre loro anche il miglior modo di vivere nella sua terra. Il Vangelo non è una dottrina politica e sociale, ma solo nel rispetto del Vangelo l’ordine politico e sociale è fecondo e l’uomo è felice. La tesi neo-modernista che si andava affermando negli anni Settanta era quella che occorreva purificare invece la Chiesa dalla sua “compromissione” con il potere: da una parte immergerla nel mondo, ma dall’altra liberarla “dalle incrostazioni”. La Chiesa sarebbe dovuta uscire dall’epoca costantiniana per sciogliere ogni legame con le strutture antiche del potere, farsi povera ed evangelica in ascolto del mondo. L’avvento dell’era della secolarizzazione è ancora oggi presentato negli ambienti progressisti come «fine dell’epoca costantiniana». Per tale epoca si intende ovviamente quella inaugurata dall’Imperatore romano Flavio Valerio Aurelio Costantino (272 d.C. – 337 d.C.) il quale non solo restituì la libertà alla Chiesa con il celebre editto di Milano (313 d.C.), ma avviò con la Chiesa una politica di collaborazione, poi proseguita dai suoi successori. Uno dei padri della Nouvelle Théologie, il domenicano Marie-Dominique Chenu (1895 – 1990) in una celebre conferenza tenuta nel 1961, rifiutava a piene mani la politica di Costantino, ma pretendeva di emancipare la Chiesa da quelli che definiva come i tre fattori decisivi della sua intromissione con il potere: il primato del diritto romano, quello del logos greco-romano e quello del latino come lingua liturgica. Non bisognava più porsi il problema di evangelizzare il mondo, ma contrariamente accettarlo così come si presentava e collocarsi al proprio interno. In pieno Concilio Vaticano II, nel 1963, continuava nella sua opera La Chiesa e il mondo l’affermazione della sua idea-progetto che insisteva sulla fuoriuscita dalla cristianità per liberarsi dall’influenza costantiniana che gravava ancora sulla Chiesa: «usciamo dalla preistoria, il mondo esiste. Tale realtà, rispetto al Vaticano I, è la grande originalità del Concilio». L’undici ottobre del 1962, giorno della solenne inaugurazione del Concilio Vaticano II, un discepolo e confratello di Chenu, tale padre Yves Marie-Joseph Congar (1904 – 95) nel suo diario, pubblicato una decina di anni fa, deplorava il fatto che la Chiesa non aveva mai avuto in programma l’uscita dall’era costantiniana. Per Congar simbolo dell’era costantiniana era lo sventurato Pio IX che con il procedere della storia «non aveva compreso nulla» e inorridito da una possibile notizia di beatificazione di Papa Mastai-Ferretti, il sacerdote francese scrisse: «più ci penso, più trovo che Pio IX sia stato un uomo meschino e rovinoso. Quando gli eventi lo invitavano ad abbandonare l’orribile menzogna della
donazione di Costantino e ad assumere l’atteggiamento evangelico non ha avvertito questa chiamata e ha sprofondato la Chiesa nella rivendicazione del potere temporale. Nulla avverrà di decisivo finché la Chiesa romana non avrà completamente abbandonato le sue pretese feudali e temporali ed è necessario che tutto questo sia distrutto e lo sarà». Vale la pena sottolineare che Chenu presenta come coincidenti due prerogative che per il Papato sono assolutamente distinte: da una parte l’autorità indiretta della Chiesa su tutte le cose temporali che implicano questioni di fede e di morale e dall’altra la podestà terrena, rivendicata da Pio IX – mai sulla base della donazione di Costantino – del possedere quei domini temporali che garantivano la libertà di espressione e di culto dei cattolici in piena autonomia e senza ingerenze straniere. Questo diritto irrinunciabile della Chiesa, sempre negato dai suoi nemici nel corso della storia, si manifesta oggi nella presenza simbolica, ma reale, dello Stato della Città del Vaticano. Da sinistra a destra, tre dei principali pensatori della Nouvelle Théologie: Karl Rahner (1904 – 84), Marie-Dominique Chenu (1895 – 1990), Yves Marie-Joseph Congar (1904 – 95). La perdita delle teorie concettuali cattoliche avvenuta negli anni Sessanta e Settanta, come la rinuncia alla Dottrina Sociale della Chiesa, significò de facto una subordinazione indiretta al socialismo francese di matrice marxista. Dunque al tramonto dell’epoca costantiniana, seguì l’alba dell’era anti-cristiana. Il silenzio del Concilio Vaticano II sul comunismo, non interruppe la persecuzione comunista del cattolicesimo e favorì contrariamente la migrazione dei cattolici verso il comunismo a tutti i livelli. Negli anni Settanta, mentre si intensificava la persecuzione anti-cattolica, i brigadisti “cattolici” come Renato Curcio (1941) – formatosi culturalmente in una facoltà cattolica a Trento –, imbracciavano le armi
in favore del comunismo e nasceva in America Latina la Teologia della Liberazione. La riforma liturgica del 1969 fu attuata in questo clima. La conclusione dell’epoca costantiniana, esigeva la fine della liturgia, che di quell’era della Chiesa era stata espressione. Ma quale era il principio di quella liturgia che si voleva sopprimere? La stessa che come ribadì Benedetto XVI, «resta liturgia della Chiesa». La visione cristiana del mondo afferma che Dio è creatore e Signore del cielo e della terra: il riconoscimento e l’amore che a lui si deve, tende al suo dominio, ad ogni cosa che egli ha creato e che mantiene in vita e nella creazione e nel dominio del Signore avvengono tutte le cose private e pubbliche, materiali, spirituali e sociali. Dunque da ogni cosa si deve elevare il riconoscimento, ossia il culto a Dio. Proprio quest’ultimo è la relazione dell’uomo con Dio. Aristotele ha definito l’uomo un «essere sociale», ma il filosofo che non possedeva l’idea della creazione, ha ridotto la socialità degli uomini al loro rapporto con i propri simili. In realtà ciò che fa di un uomo un essere estroflesso, dipendente, è la sua relazione con Dio Creatore. Tale rapporto si può esprimere unicamente con la preghiera, che fa dell’uomo non un «animale sociale», ma un «homo religiosus». Poiché Dio non è homo-homini-lupus (uomo, nemico dell’uomo), ma homo-homini- Deus (si è fatto uomo egli stesso, è Dio per l’uomo), e per salvare l’umanità – colpita dal peccato originale – ha fondato la Chiesa, la preghiera per eccellenza dell’uomo, l’unica che lo redime, è quella che lui fa all’interno della Chiesa, attorno all’Altare. La liturgia è la preghiera pubblica della Chiesa, l’atto non privato del singolo uomo, ma della comunità dei battezzati riuniti intorno al Santo Sacrificio dell’Altare. Questa liturgia non è solo la trasmissione della parola di Dio, l’uomo e la sua santificazione attraverso i sacramenti, ma essa è anche un insieme di forme sensibili che elevano l’uomo verso Dio e che lo aiutano a glorificarlo e a rendergli il culto dovuto. La concezione secolarista pretende l’emancipazione del Creato da Dio stesso, relegare la sovranità di Cristo, di eliminarne l’autorità e l’influenza della Chiesa dalla società. Il secolarismo afferma il primato del profano sul Sacro, anzi l’espulsione stessa del sacro da ogni ambito della società: la perdita e la rinuncia di ogni legame trascendente e quindi dell’essenza stessa della religione, poiché quest’ultima ri-lega l’uomo a Dio. La condizione dunque della realtà ad un orizzonte terrestre e mondano e l’essenza di questo secolarismo è propriamente quel relativismo culturale che è a sua volta la maschera delle tendenze sregolate dell’uomo. La maschera intellettuale della ricerca del proprio piacere, dell’appagamento dei propri bisogni, del culto del proprio Io, all’interno di una gnosi creata appositamente che non dialoga con la realtà organica, proprio perché questa diviene separata da Dio, non coordinata a Lui. Al contrario “sacro” è ciò che è ordinato a Dio e in questo senso è separato dal profano. La civitas Dei, radicalmente separata dalla civitas diaboli, è la sociètà di
cui Gesù Cristo è il Capo. La perfezione della sacralità sta nella persona stessa di Gesù Cristo, perché in Gesù Cristo, Dio si dà massimamente ad una natura umana unita inscindibilmente a Lui in unità di persona. «In Lui – afferma San Paolo – abita corporalmente, tutta la grandezza della Trinità». E dunque nulla vi è di più antitètico alla secolarizzazione della Liturgia espressa dal sacrificio della Messa: quel sacrificio in cui trovano compimento quei misteri quali la passione, la resurrezione e l’ascensione di Gesù Cristo. I protestanti hanno negato che la Santa Messa sia vero sacrificio, perché in essa non c’è immolazione del corpo di Cristo, che ora è glorioso e impassibile, ma il Concilio di Trento e la dottrina della Chiesa rispondono che il sacrificio non comporta necessariamente una immolazione reale e cruenta. Nella Santa Messa vi è una immolazione incruenta o sacramentale che rappresenta l’immolazione cruenta della Croce e ne applica i frutti. Il sacrificio della Messa non è dunque un memoriale o una semplice oblazione, ma è un vero sacrificio offerto da Cristo medesimo, sacerdote e vittima. Non a caso Réginald Garrigou-Lagrange (1877 – 1964) ci ricordava come San Giovanni nell’Apocalisse contempla l’Angelo che incensa con un turibolo d’oro l’Altare si cui sta l’agnello immolato. La celebrazione liturgica ha ricordato Giovanni Paolo II, nella lettera alla Congregazione per il culto divino del 21-09-2001 «è un atto della virtù di religione che coerentemente con la sua natura deve caratterizzarsi per un profondo senso del sacro. In essa l’uomo e la comunità devono essere consapevoli di trovarsi in modo speciale dinanzi a colui che è tre volte Santo e trascendente. Di conseguenza l’atteggiamento richiesto non può che essere permeato dalla riverenza e dal senso dello stupore che scaturisce dal sapersi alla presenza della Maestà di Dio. Non voleva forse esprimere questo Dio nel comandare a Mosè di togliersi i sandali davanti al rogo ardente»? Certamente si può affermare come nulla meglio della Santa Messa Tradizionale esprime ciò che la celebrazione è nella sua intima essenza: il Santo sacrificio. Se c’è un luogo in cui il mondo secolarizzato non è penetrato, questo luogo e questo momento si ritrova nel rito romano straordinario. Dopo le parole introibo ad Altare Dei, la marea schiumosa della secolarizzazione che tutto sembra inquinare, si arresta davanti alle porte del santuario. Questa marea non penetra davanti al recinto immacolato in cui viene offerta e immolata a Dio, una vittima pura e senza macchia.
Il punto più sacro della Messa è il canone romano, la formula consacratoria composta – come ricorda il Concilio di Trento – in parte dalle parole stesse del Signore, in parte da ciò che è stato tramandato dagli apostoli e in parte da ciò che è stato stabilito dai Pontefici. Le parole immutabili del Canone, sono pronunciate nella Liturgia Tridentina a bassa voce, proprio per sottolineare la sacralità. Il silenzio esprime la distanza infinita, tra il Dio ineffabile che non può essere conosciuto nella sua essenza e l’umile creatura che senza di lui cadrebbe nel nulla. Ma questo Dio adorato nella sua Maestà divina non è lontano, anzi infinitamente vicino, perché si è donato in Cristo ed è presente sull’Altare: in corpo, sangue, anima e divinità e solo nella assoluta trascendenza divina si esprime la radicale ed estrema vicinanza di Dio all’uomo. Così il linguaggio del silenzio, si accompagna alle parole liturgiche per rendere somma gloria a Dio in questo rito. Nel suo saggio Introduzione allo Spirito della liturgia l’allora cardinale Ratzinger si espresse così: «il silenzio si oppone al frastuono, alla confusione, che Regna nella civitas diaboli e permette che più perfettamente si renda a Dio creatore la riverenza che spetta a Sua Maestà». La Riforma Liturgica del 1969 venne considerata come espressione della svolta antropologica degli anni Sessanta e Settanta. Una grande novità che pretendeva colmare l’infinita distanza tra Dio e l’uomo, spogliando leggermente – qualora ciò fosse possibile – Dio della sua gloria ed elevando molto, se fosse possibile, l’uomo verso Dio, nell’illusione di abbreviarne la distanza. Si può certamente discutere se la riforma di Paolo VI abbia apportato quella continuità o quella rottura con la tradizione precedente della Chiesa, ma il solo fatto che se ne discuta è sufficiente per denotarla quanto meno come una riforma ambigua. Difatti se la Riforma liturgica avesse avuto un rapporto di inequivocabile continuità, tale dibattito non si sarebbe aperto. Il rito romano antico non permette equivoci di alcuna sorta e in esso vi è un senso ineguagliabile della trascendenza divina. Esso evidentemente non è l’unico rito
possibile, ma è un rito che esprime con perfetta chiarezza l’ecclesiologia cattolica: quell’unica ecclesiologia, anche con differenti riti che la esprimono. Ed allora come non poter ricordare il Mutu Proprio del 2007 di Benedetto XVI e definito come Summorum Pontificum, il quale concede una categorica, quanto fondamentale chiave interpretativa secondo cui «il rito antico non è stato e non avrebbe potuto essere abrogato». Le conseguenze di queste affermazioni sono più vaste di quanto si possa a prima vista immaginare, perché in primo luogo cadono le speranze o i timori di chi aveva evocato l’ipotesi di una «riforma della riforma», intesa come ibridazione tra le due tipologie della Santa Messa: la nuova e l’antica. Di riforma è certamente possibile parlare per il nuovo rito, ma non per l’antico che non potendo essere abrogato non può essere strutturalmente modificato. Oggi, l’aumento importante dei coetus fidelium in tutta Europa – nonostante alcune difficoltà -, deve fornire un dato oggettivo di come il rito romano straordinario promosso dal Pontefice tedesco abbia ripreso piena forza non solo per il suo impianto teologico, ma anche dalla sua storia pressoché millenaria. La storia delle nazioni europee – ha affermato Giovanni Paolo II – procede di pari passo a quella della sua evangelizzazione. L’Europa medievale si è costruita attorno al Vangelo, ossia attraverso la trasmissione di una fede annunciata dai successori degli apostoli, secondo la consegna data da nostro Signore: andate e battezzate tutte le genti. Non a caso il vecchio continente a partire dal IV secolo inizia a formarsi intorno ad una traditio, ovvero ad una consegna e trasmissione di Verità. La dimensione rituale e in un certo senso una dimensione costitutiva della nascita e dello sviluppo della società europea e cristiana dei primi secoli. Perché la parola traditio nel suo senso originale si riferisce alla trasmissione dei singula fidei, ovvero quelle formule verbali confermate dalla autorità ecclesiastica destinate alla pubblica professione della fede e fin dal quarto secolo il simbolo è rappresentato come la quinta essenza del Vangelo nelle cerimonie della traditio simboli e della redditio simboli che precedono il battesimo. La traditio e la redditio del simbolo, significano che il catecumeno riceve la fede della Chiesa e si impegna a vivere e a confessarla pubblicamente davanti alla comunità cristiana. Ma la traditio se si esprime nella consegna di verità destinate a formare il Depositum Fidei e anche ricerca dei modi in cui queste verità vengono trasmesse. Ogni verità si traduce in una liturgia secondo la nota formula di Sant’Ireneo, poiché «si custodiva fedelmente la tradizione venuta dagli apostoli» e l’Europa medievale in questo senso nasce intorno ad una tradizione liturgica, attorno ad un rito. Tale considerazione ci viene confermata anche dallo storico inglese Christopher Henry Dawson (1889 – 1970), il quale osserva come «dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.) l’ordine sacro della liturgia rimase intatto nel caos, mentre tutto crollava mutando». Dunque la liturgia costituì il principale legante interiore della società e nello stesso tempo fu sede della tradizione e della fede, poiché in essa le due realtà si incontravano conciliandosi.
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