L'ITALIA DEI NUOVI SAPORI LA RIVOLUZIONE DELL'ETNOTAVOLA
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
L’ITALIA DEI NUOVI SAPORI LA RIVOLUZIONE DELL’ETNOTAVOLA* Lui non lo sa, ma Omar Daas, arabitaliano di Bologna, è ormai un simbolo. E lo è da quando a dicembre scorso ha aperto Il Palazzone, trattoria di specialità emiliane a Zola Predosa, appena fuori città. Così l’Italia è entrata nell’ultimissima fase del boom delle cucine etniche. Si, perché Omar, che ha due suoi soci, è anche proprietario di Maqluba, il ristorante palestinese della città delle torri. Dal baba ghanooj alla gramigna, dai tortellini al warak enib: Omar si barcamena tra due mondi culinari. Ma la sua è una storia esemplare per un altro motivo: per la prima volta degli immigrati si trasformano in ristoratori di cucina italiana grazie ai proventi della grande voglia italiana di etnico a tavola. Il Palazzone e Maqluba sono due lati di una stessa paradossale medaglia, due delle cento, mille facce dell’Italia culinaria postmoderna. Palato nazionale allo sfascio? Dalle Alpi al Lilibeo, la penisola è ormai puntellata da 2000, forse 2500, ristoranti etnici. Le statistiche non sono precise perché i locali aprono e chiudono a ritmo impressionante. Resta il dato che un’armata di cucinieri cinesi, giapponesi, maghrebini, sudamericani, indiani, non di rado improvvisati, ha invaso la penisola. Il palato nazionale medio, un tempo tra i più conservatori del mondo, si è sgretolato sotto i colpi di sushi e cous cous, salse agrodolci e curry, totopos e jalapeños. I locali etnici sono ormai scenografia della vita quotidiana italiana come le pizzerie e le trattorie. E continuano a crescere e moltiplicarsi: le stime parlano di una media di 50 nuovi locali al mese. Ma non è solo questo. Baklava, spriss, feta, hummus, kebbeh, chapati: ingredienti e piatti esotici sono entrati nel lessico delle famiglie nelle quali non di rado si sorseggia shay bil nanà, il tè alla menta marocchino. E sono entrati anche nei menu delle scuole, come da tempo a Cesena, e perfino in quelli degli ospedali. Già tre anni fa il nosocomio di Legnago introdusse cous cous, datteri e falafel. Nelle scuole, poi, l’etnico alimentare è destinato a dilagare e non solo nelle mense ufficiali. Quest’anno negli asili di Milano un bambino su quattro è figlio di immigrati o di coppie miste. E’ impensabile che la merendina della mamma non abbia un qualche sapore esotico e che gli amichetti non la vedano, ne sentano l’odore o l’assaggino.
Cose, anzi, sapori inauditi. Pellegrino Artusi, salute a noi, si starà rivoltando nella tomba. E non solo per i tempi in cui visse lui, nume tutelare della moderna cucina italiana. Appena dieci anni fa questo boom era impensabile. Stranieri o turisti che tornano in Italia dopo una lunga assenza stentano a credere ai loro occhi. “La santità della cucina italiana è stata scardinata”, ha scritto Robert Curtis sul sito italiano dell’Agricultural Trade Office USA.“Cosa è successo?”, si chiede shoccata Kate McGhie, critica enogastronomica del quotidiano australiano Herald Sun, che pure viene in Italia annualmente. Già, cosa è successo? Brivido golosetnico postmoderno “L’aumento dei flussi migratori verso le metropoli e la globalizzazione dei mercati sono certamente tra le cause principali di questa esplosione”, dice da Torino Valentino Castellani, aka Chef Kumalé. Sembra un nome esotico, ma è solo piemontese: Cum a l’è?, Com’è? in italiano. Castellani, che non è un cuoco, è egli stesso un segno dei tempi. Già conduttore della trasmissione radiofonica Cous Cous Clan, Kumalé si dichiara esperto di world food. Potrebbe dirlo in italiano, cibo del mondo, ma per il golosetnico postmoderno l’inglese fa status symbol. Un po’ come il francese nelle cucine di un tempo. E allora il frasario di Kumalé è farcito di melting pot, around the world, food context e talk food. Un altro paradosso perché, all’estero, cuochi e critici studiano per usare italianismi nel loro linguaggio culinario. L’esplosiva avanzata delle cucine etniche non è una moda passeggera. E’ figlia della presenza straniera in Italia, proporzionalmente alla quale continuerà a crescere. Per Caritas e Fondazione Migrantes gli immigrati erano 1,6 milioni lo scorso anno, saranno 2,4 milioni in questo e 4 nel prossimo. Ma forse sono molti di più. Senza di loro, già dal 2020, l’INPS non avrà fondi sufficienti per pagare le pensioni: non è un segreto che Antonio Fazio, il Governatore di Bankitalia, li ritenga indispensabili all’economia. In altre parole è l’interesse nazionale ad alimentare la poliedrica etnogastronomia. All’orizzonte, insomma, ci aspettano sempre più zighní, tandoori, tortillas e salsas, teriyaky e spaghetti cinesi. Etnico=esotico=marginale A causa dell’eccezione francese (vedi box 1) in Italia l’aggettivo etnico, in contesto culinario ha un significato particolare. Vuol dire straniero, ma soprattutto esotico e, a volte, marginale. Ed è questo etnico che sboccia lentamente in Italia tra gli anni Settanta e Ottanta. A seminarlo sono i cinesi che nel frattempo sono diventati migliaia. Vengono dalla provincia meridionale di Zhejiang e molti aprono ristoranti nelle grandi città o vi lavorano. E’ un copione classico: per un immigrato, in qualunque parte del mondo, la ristorazione è l’impresa economica con meno barriere di ingresso. I golosetnici italiani, allora ancora in fasce, trovano eccitante cimentarsi con le bacchette, salvo poi a capitolare subito e a chiedere forchetta e coltello. Magari a un cameriere italiano vestito da cinese, come quelli del Mandarin di Roma fino a poco tempo fa. I sapori cinesi dei primordi erano annacquatissimi e l’igiene lasciava a desiderare. Ma i clienti ci andavano lo stesso, per la novità e non per il sottile. Per gli improvvisati
ristoratori reperire gli ingredienti era un problema perché in Italia non se ne trovavano. Alcuni li compravano a Londra ma la maggior parte faceva la spesa da Tang Freres a Parigi, ancora oggi il più grande supermercato di prodotti asiatici d’Europa. Presto però le cose cambiano, l’etnotavola italiana decolla negli Anni Novanta e si moltiplicano gli importatori diretti. I cinesi assumono il quasi monopolio delle forniture a tutte le cucine etniche. “Mi fornisco da Global Trading a Parma”, dice Kidane Gaber, proprietario di Adal, ristorante africano di Bologna. E aggiunge: “Hanno tutte le spezie africane e se ne chiedo di nuove me le trovano loro”. Altri fornitissimi depositi però si trovano in Piemonte, a Roma e in provincia di Milano, compresa la grande Trading Zhu di Baranzate di Bollate. Viaggio, acchiappanza e piccante “La gente va al ristorante etnico e lo vive come un esperienza di viaggio”, dice Castellani. Ed è così soprattutto per i giovani e lo dicono le ricerche. Un sondaggio di ACNielsen su 6000 famiglie ha confermato quanto sia radicata l’alimentazione etnica: ad oltre un terzo del campione tandoori, garam masala, buffalo wings tex-mex, tacos, tortillas e involtini primavera erano più che familiari. Raggiunta la sazietà, insomma, il palato nazionale va alla ricerca di emozioni papillari forti e nuovi sapori. E a tirare la volata esotica sono il nord e il centro, sempre stando alle ricerche. Nel settentrione il ristorante etnico è di gran lunga il luogo preferito di convivialità, secondo un altro campione intervistato da Dimagrire. E’ anche vero, di converso, che la pizzeria non perde colpi. I ricercatori di Riza Psicosomatica, per esempio, hanno stabilito che è in prevalenza davanti a una buona pizza che le coppie italiane fanno la pace. Ma subito dopo viene il locale etnico. “La mia impressione però è che il ristorante etnico in Italia sia più un luogo dove iniziare una storia piuttosto che ricomporla”, dice Rosa Maria Travaglini, psicologa argentina e critica gastronomica, osservando gli avventori di Passaggio in India a Torino . “Una cenetta etnica è certamente il prologo di una serata d’amore”, conferma Marisa Avalis che vive a cavallo tra Torino e l’Asia, dove rappresenta prestigiose imprese italiane alimentari. A favorire l’eros, secondo l’Avalis, sarebbero i sapori piccanti e speziati dei piatti etnici. “Non c’entrano gli ingredienti afrodisiaci, è la sfida del piccante ad avvicinare i partner, a farli complici in un’avventura del gusto”. Proprio l’apertura al piccante, alle harissa maghrebine, al sambal indiano, al tabasco o al rabbioso wasabi giapponese è la rottura più netta con le tendenze gustative del Novecento [vedi Box 2].Qualcosa del genere, ma in scala minore, era successa già con l’avvento dell’agrodolce dei primi ristoranti cinesi [vedi Box 3]. Mala tempura currunt Non tutti, ovviamente, sono entusiasti delle cucine etniche. Anzi. Secondo stime recenti ad almeno un italiano su tre viene la nausea solo a sentir parlare di cucina etnica. A parte il patriottismo, ci sono diffidenze ataviche legate alla presunta sporcizia dei locali, alla scarsa qualità degli ingredienti e all’impreparazione degli operatori. E, in realtà, l’Italia è ben lontana dagli standard europei. A Roma e Milano - che comunque hanno ancora
meno della metà degli 800 ristoranti etnici di Parigi – la qualità sta certamente crescendo, come pure a Torino, dove il cinese La via della Seta, per esempio, è di buona qualità. Ma rimane è uno dei pochissimi, in un panorama cittadino che pure conta 130 ristoranti del sol levante. E’ nelle città minori tuttavia dove il piatto etnico piange miseramente. E’ il caso di Brescia dove le cucine indiane o messicane, pechinesi, cantonesi o egiziane ricordano “quello che capitò alla cucina italiana in America per buona parte del secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle”, scrive Gianfranco Bertoli su Il Giornale di Brescia: “Salvo rare, rarissime eccezioni, la cucina etnica è realizzata nel migliore dei casi da operatori di buona volontà, sprovvisti delle materie prime fondamentali per realizzare i loro piatti e che nel loro paese probabilmente avrebbero faticato a gestire una trattoria”. E’ un fenomeno che coinvolge tempura e feijoada, empanadas e blini, ma è ai ristoranti cinesi che va il primato della scarsa qualità e dell’approssimazione, anche perché sono i più numerosi. In tutto il mondo sono loro i maestri del doppio, triplo e anche quadruplo gusto con ristoranti sino-tailandesi, sino-malesi-vietnamiti perfino sino-indiani. In Italia hanno diffuso il fenomeno unico al mondo delle centinaia di pizzerie cinapoletane, gastronomia cinese e partenopea sotto lo stesso tetto. E’ in locali come Cinapoli a Roma, sulla via Trionfale, che si trovano anche le famose “porcellane da pizzeria cinese” che Alberto Arbasino canta in Rap2, spaccato lirico dell’Italia odierna . “I cinesi rilevano i locali italiani fallimentari “, dice Chef Kumalé. “Fare pizze è un lavoro duro e loro lo fanno”, aggiunge la Avalis. I risultati sono in genere penosi. Cosa fare per farli migliorare? “Non se ne parla proprio”, taglia corto Kumalé. “Stanno facendo soldi, spesso con mano d’opera in nero, e a nessuno di loro interessa migliorare”. {vedi Box 3) L’esotico domato Le zone d’ombra del ristorante etnico (vedi box) sono preoccupanti ma fisiologiche. E poi la rivoluzione è da un pezzo uscita dalle sue mura. Anche i grandi cuochi italiani si sono aperti all’esotico. Gianfranco Vissani compra il forno tandoori e non disdegna la tecnica della tempura. Davide Scabin va in Tailandia per studiarne i sapori e usa ingredienti misteriosi nel suo menu speciale per gastronauti. E i due non sono che le punte di un iceberg. Negli ultimi anni i menu dei ristoranti italiani si sono colorati di verdure, spezie e frutte esotiche e orientali. Anche la più svogliata occhiata alle guide sul mercato lo conferma. Pietro Leeman al Joia di Milano, per esempio, usa da sempre zenzero, salsa di soia, tè verde, latte di cocco, spezie e olio di sesamo. D’accordo, Joia è un caso speciale, essendo un ristorante vegetariano con una cucina d’autore. Ma a La Credenza di San Maurizio Canavese, che pure si prefigge di fare cucina del territorio, nel menu fa bella mostra un Tonno in crosta di coriandolo e pepe di Sichuan in salsa ristretta al Porto. “Usiamo spezie e tecniche di tutto il mondo ma su una base di ingredienti locali”, così Giovanni Grasso, il titolare, spiega il suo manifesto di fusion. Grasso, 40 anni, è stato un pioniere del matrimonio spezie esotiche e cucina italiana. “Da dieci anni vado in Asia, a Singapore, Jakarta, Nuova Delhi, a cucinare nei ristoranti degli alberghi Hyatt e Shangri-La”. Un tempo il lemongrass, il coriandolo e la limetta se li doveva portare di contrabbando nella valigia, perché in Italia non si trovavano. “Ancora
oggi però per lo zafferano siriano devo chiedere ad amici che vanno da quelle parti di comprarmene 3 o 4 chili”. In pieno zapping culinario E’ vero che i camerieri de La Credenza, secondo Grasso, “devono spiegare precisamente ai clienti il contenuto dei piatti per evitare loro delusioni” e che “la fusion deve essere moderata altrimenti salta anche l’abbinamento con i vini”. Ma queste precauzioni sono prezzi minimi da pagare: i cuochi “esploratori” non sono mai stati così compresi dal pubblico come oggi. E non c’è da meravigliarsi. Le nuove generazioni sono cresciute con l’esotico addomesticato dal freezer di casa a partire dalla paella surgelata di Buitoni nelle tre versioni di ghiotta, valenciana e marinara. E sono cresciute con almeno cinque varietà di riso esotico sui banchi del supermercato all’angolo di casa: dal thaibonnet, al basmati, dal patna al selvatico canadese, che apparve in Italia con l’esilarante aggettivo di “selvaggio” per un errore di traduzione di wild. E poi ci sono i saperi e sapori di gastronomia esotica che si possono attingere dai media e dall’internet in particolare: da ammas.com, publiweb.com/area/mondoasia, da arab.it/cucina a cookaround.com/cucina/ india, per rimanere solo ai siti in italiano. Dieci minuti di surfing tra i loro link e chiunque può farsi una cultura di base sulle cucine etniche. Per non parlare delle scuole di cucina, dove i piatti etnici vengono ormai insegnati insieme a quelli tradizionali. Anna Gambaro e Paola Sgadari all’Arte del Convivio di Milano tengono corsi di cucina al vapore nei quali i ravioli cinesi appaiono a fianco del branzino con pomodori secchi e pinoli. Siamo in pieno zapping culinario: la repubblica del telecomando salta nevroticamente tra le cucine come tra i canali televisivi. Torino: sapori di un nuovo territorio E’ cambiato l’immaginario gastronomico italiano. Fino a qualche tempo fa i cibi strani e stranieri si vedevano nelle diapositive di chi tornava da viaggi avventurosi o in musei e mostre. Magari come “reperti archeologici” per il futuro nei 1000 extra/ordinary provocatori oggetti della Fabrica di Toscani e Benetton a Catena di Villorba. Oggi, invece, si trovano regolarmente nelle centinaia di negozi etnici di tutta Italia e soprattutto al mercato torinese di Porta Palazzo. Qui, nei giorni prefestivi, ci vanno a fare la spesa centomila persone che vengono a contatto con mille ingredienti nuovi: igname e manioca africani, lemongrass tailandese e cous cous, risi asiatici e affumicati esteuropei. Ivoire Maquis, Oriental Market, Sindbad Kebab: Piccola Islam, Chinatown e Afrolanda, Porta Palazzo è il cuore di una Torino nella quale ormai convivono143 etnie diverse, con marocchini, peruviani, rumeni e cinesi in testa. Ma è anche una dimensione emergente dell’Italia golosetnica, il punto di incontro di sapori di un territorio che muta e non è più solo dimensione geografica. Il Parmigiano oggi ha anche un po’ del sapore delle migliaia di indiani sik di Novellara che mantengono in efficienza l’industria casearia della Bassa. Le uve del Veneto acquistano anche il sapore degli ormai indispensabili potatori albanesi come la mozzarella di bufala della Campania ha quello dei ragazzi nigeriani ormai casari provetti. E tra i nuovi sapori del territorio c’è anche quello della carne halal: a Porta Palazzo le macellerie che ne vendono sono almeno una decina ma a livello nazionale hanno superato l’incredibile soglia delle 500 unità. (vedi Box 4)
Tutto nuovo, niente di nuovo Altro che Italia. “Infatti, poi, non sappiamo / né ciò che siamo, né dove siamo, / né dove andiamo...", ancora da Rap2 di Arbasino. Sembra quasi di parlare di un altro paese. E invece a ben vedere non è così. L’Italia dell’antichità era già aperta a ingredienti e consuetudini di tutto il mondo allora conosciuto. Dedalo, il geniale cuoco di Trimalchione, nel Satyricon petroniano, cucina con spezie dei quattro angoli del grande impero romano. Lo storico Massimo Montanari ha portato alla luce un testo del Duecento che parla di un ricco di Canosa alla cui tavola, non solo ci sono le specialità pugliesi, calabresi, siciliane, campane, ma anche “si affollano cibi della Siria e della Palestina, dell’Egitto e di Tripoli, di Babilonia, Costantinopoli e Alessandria”. D’altronde, nel Seicento, Bartolomeo Stefani nella sua Arte di ben cucinare sconfessa i provinciali del tempo “a cui troppo piace il pane della città natìa”. L’allora cuoco dei Gonzaga esorta apertamente a cercare le cose buone in qualunque direzione. Insomma, la voglia di esotico non è solo un vizietto di questa epoca. E non tutti i nuovi sapori di oggi sono poi tanto nuovi. Zenzero e galanga, per esempio, arrivarono in Italia già ai tempi dei crociati. E le spezie? L’82 per cento delle ricette di Cristofaro Messisbugo ne conteneva generose quantità tra cui cannella, cumino, chiodi di garofano e noce moscata. E che dire del cous cous che oggi è la porta attraverso cui i neofiti si avvicinano alle cucine altre? Era già comune a Napoli alla fine del Quattrocento con il nome di semmolella, nel Cinquecento lo chiamavamo sucussú e nel Settecento gli ebrei d’Italia – e non solo loro - lo mangiavano come cuscusú. * Parte di un reportage pubblicato sul mensile Gambero Rosso (2003).
Puoi anche leggere