Intervento del guardasigilli Andrea Orlando al convegno "La cooperazione giudiziaria nell'era delle minacce globali. La riforma del Libro XI del ...

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Intervento del guardasigilli Andrea Orlando al convegno
  “La cooperazione giudiziaria nell'era delle minacce globali.
    La riforma del Libro XI del codice di procedura penale”

                   Palazzo Madama, Sala Koch – 18 marzo 2016

Grazie, grazie davvero a tutti coloro che sono intervenuti.
Un particolare ringraziamento al Presidente Melillo, perché credo che nella
sua introduzione abbia dato un inquadramento molto chiaro del lavoro che
stiamo cercando di fare, del contenuto della proposta che attualmente è
all’esame della Commissione del Senato, che sta approfondendo questa
materia. La Commissione del Senato ha una propensione ad approfondire
fortissima, che non può che far bene alla qualità dei testi normativi, spero che
questo poi corrisponda ad una possibilità di farli vivere concretamente. Devo
dire che penso che noi affrontando questo tema affrontiamo un tema
assolutamente sottovalutato ma cruciale rispetto alla temuta dei sistemi
democratici e vorrei partire da una considerazione.
Quindici anni fa circa un grande filoso, forse il più grande filosofo europeo
vivente, Huger Habermass, forniva la descrizione dei processi di
globalizzazione: “Assieme alla diffusione su scala mondiale del commercio,
della produzione, dei mercati, dei beni, della finanza, di flussi di traffico e di
movimenti migratori, di danni ambientali, [incomprensibile], di mode e
programmi di notizie o di intrattenimento, includeva del tutto naturalmente
anche la delinquenza organizzata, la corruzione e il terrorismo.”
Ora, questi processi hanno un effetto immediato che è quello di
denazionalizzare quello che gli europei fino ad oggi avevano costruito su
scala nazionale, mettendo tra parentesi, di fronte all’opinione pubblica, quello
che è il paradigma politico più importante della modernità, cioè lo Stato. Da
questo punto di vista la reazione che spesso si ha di pensare che inasprendo
la normativa su questi singoli tempi si dia una risposta più forte, in verità
evidenzia ancora di più un paradosso: noi rispetto a questi temi oramai
sovranazionali, non abbiamo bisogno per avere norme più efficaci di avere
norme più dure, cosa che comunque è sempre possibile.
Abbiamo soprattutto bisogno di avere norme comuni, perchè in quanto
comuni sono norme efficaci. Se non siamo in grado di dare queste risposte, il
tema della percezione dell’insicurezza è destinato a diventare sempre più
grande. Non tanto perché appunto non ci siano nel codice norme
sufficientemente repressive, ma perché queste norme sono destinate a
rimanere lettera morta, proprio perchè c’è questo squilibrio, questa
asimmetria che si viene a determinare.
Vorrei ricordare come la dimensione ormai transfrontaliera è cresciuta
esponenzialmente. Il presidente Canzio ricordava come ci fa dire che il nostro
codice penale è assolutamente vecchio, anche se il più nuovo della nostra
produzione codicistica del nostro Paese, a fronte del fatto che ormai solo una
dimensione pressochè esclusivamente transfrontaliera hanno il terrorismo, la
tratta di esseri umani, il traffico di stupefacenti, il traffico di migranti, la
criminalità informatica, la pedopornografia, il riciclaggio, la contraffazione. E
da questo punto di vista credo sia utile richiamare un sociologo tedesco, Uri
Beck, che descrive il fenomeno delle minacce che vengono da una
dimensione globale, del rischio che fanno percepire all’opinione pubblica, in
questi termini: queste minacce sono “delocalizzate, incalcolabili e non
compensabili”. Delocalizzate, perché le cause e gli effetti non sono
delimitabili ad una singola area geografica; incalcolabili, nel senso che la
volontà di sapere cresce nella società più della possibilità di sapere e genera
così dubbi e paure che a loro volta rappresentano un fattore di rischio per gli
ordinamenti democratici; infine, non compensabili, nel senso che si profilano
come minacce in grado di provocare mutamenti irreversibili, il che
naturalmente accentua la necessità di misure di carattere preventivo.
Un simile scenario, da questo punto di vista, non pone che al centro il tema
della costruzione di un diritto penale sovranazionale. Ora, questa come via
principale. Ha ragione la professoressa Marchetti: “non c’è solo l’Europa”, ma
l’Europa è la dimensione su cui noi abbiamo puntato per rispondere alla crisi
degli Stati nazionali, poi certo ci sono anche le forme cooperazione
sovranazionale. Ma intanto, rispetto all’opinione pubblica, quella sarebbe la
risposta più forte.
A che punto siamo su questo fronte? Perché credo sia bene, in questo senso,
collocare il lavoro che stiamo facendo, dentro questo quadro di carattere
generale. Siamo ad un punto sostanzialmente morto, dobbiamo dirlo con
grande chiarezza, nel senso che, l’innovazione dell’architettura di una
dimensione penale europea comune è sostanzialmente ferma. Il pilastro
fondamentale che prevedeva il Trattato di Lisbona, cioè la costruzione della
Procura europea, è stato progressivamente svuotato dal confronto fra gli Stati
nazionali.
Ci troviamo oggi di fronte ad una impalcatura che prevede poteri limitatissimi
e più come frutto di un rapporto fra le giurisdizioni nazionali che come nascita
di un embrione di una giurisdizione sovranazionale che sia in grado anche di
tenere al suo interno l’esercizio dell’azione penale. Da questo punto di vista
credo sia giusta una considerazione, che faceva già all’inizio il presidente
Melillo introducendo: c’è un rischio molto forte che rispetto alle emergenze
che vengono oggi alle minacce alla sicurezza, si rischi di determinare una
cooperazione sempre più forte e auspicabile e necessaria sul fronte della
polizia e della intelligence ma non un parallelo coordinamento ed una
parallela capacità di fare lo stesso sul fronte dell’esercizio dell’azione penale,
soprattutto sotto il controllo di forme di giurisdizione.
E questo rischia paradossalmente di creare, in nome di una paura - perché
spesso questo è quello che ispira la posizione degli Stati nazionali - di avere
un soggetto dell’esercizio dell’azione penale, sovranazionale, di vedere in
qualche modo conculcate le garanzie che ogni singolo Paese si è costruito, in
verità rischia di costruire un paradosso, cioè una sorta di Stato di Polizia
inerziale, che si viene a determinare a livello europeo, non controllato da
un’attività di controllo giurisprudenziale, e quindi con una asimmetria che
rischia di caratterizzare la rete di quello che possiamo definire un embrione di
diritto penale europeo. Naturalmente dobbiamo fare tutto il possibile, e credo
che lo stiamo facendo, per mettere in questione questa impostazione. Lo
abbiamo fatto, finanche dando una valutazione negativa del testo che è
emerso dalla trattativa tra i Paesi del Consiglio europeo sulla Procura
europea, ma non possiamo limitarci a questo.
E per questo ho ritenuto che fosse importante utilizzare tutti gli strumenti che
sono a nostra disposizione e fare quello che fino a qui non abbiamo fatto:
dare attuazione, intanto, alle direttive. In questo senso, rivendico, e ringrazio
il presidente Canzio per averlo ricordato, che ci sia stata una accelerazione
molto importante da questo punto di vista, ma non voglio riprendere l’elenco
dei decreti attuativi che ha già fatto il presidente Melillo introducendo, perché
credo davvero che noi possiamo dire che in pochi mesi abbiamo fatto quello
che non era stato fatto in molti anni, perché le direttive spesso risalivano agli
anni 2000. Quindi, diciamo, che in alcuni casi erano lettera morta da
moltissimi anni.
Poi ci siamo posti il tema di cosa potevamo fare intervenendo sui nostri
strumenti e, quindi, sul fronte della nostra normativa interna e da qui la scelta
di mettere nel pacchetto dei nostri 12 punti di riforma della giustizia la riforma
del Libro XI. Devo dire che da questo punto di vista contavamo anche un po’
sul fatto che questo tema fosse stato sempre sottovalutato e questo ci ha
aiutato anche molto alla Camera, perché devo dire che la discussione, non
vorrei mancare di rispetto ai due rami del Parlamento, ma è stata molto
contenuta. Questa scommessa non ci è riuscita al Senato ma speriamo che
questo ci consegni un lavoro migliorato e rafforzato.
Quello che credo sia giusto dire è che cosa abbiamo voluto e che cosa
vogliamo fare. In primo luogo, come è stato ricordato, diamo una piena
attuazione al principio del mutuo riconoscimento degli Stati membri e questo
è un corollario naturale dell'attuazione delle direttive che abbiamo realizzato.
La conseguenza più rilevante è la possibilità che l'autorità giudiziaria italiana,
nei casi naturalmente previsti dalla legge, dia esecuzione alle decisioni
giudiziarie degli altri Stati dell'Unione, senza sindacare il merito della
decisione stessa.
In secondo luogo, rimediamo alla profonda consunzione delle vigenti forme
processuali dell'assistenza giudiziaria che ormai, come si ricordava, sono
praticamente inidonee a riflettere pienamente le istanze di semplificazione
della cooperazione internazionale.
In terzo luogo, procediamo a depoliticizzare il più possibile il sistema
dell'assistenza giudiziaria, lasciamo cioè al dialogo fra le autorità giudiziarie di
Paesi diversi la prerogativa di adottare autonomamente i singoli atti di
assistenza giudiziaria richiesti. Questo lo vorrei sottolineare perchè penso sia
un dato assolutamente non scontato, anche quando si fa un ritratto del
rapporto fra magistratura e politica in questa fase storica, come rapporto di
forte diffidenza, magari facendo riferimento al contrasto sulle ferie o alla
ridefinizione della responsabilità civile, inviterei a considerare anche
quest'altra faccia della medaglia: noi stiamo decidendo sostanzialmente che
le autorità giudiziarie del nostro Paese parlano a nome dello Stato
direttamente, facendo sì che il potere politico si ritragga completamente da
una dimensione che è destinata in futuro a diventare una dimensione
determinante delle funzioni repressive delle autorità nazionali. E questo è un
segnale che credo sia di forte valenza politica, che ha una portata anche più
generale: noi facciamo questa scelta perchè riteniamo che quelli più capaci di
realizzare le forme della cooperazione non siano le autorità politiche, ma le
autorità giudiziarie direttamente. E questa non è soltanto una scelta
funzionale: è anche una scelta che costituisce un investimento sul futuro,
perchè noi registriamo che tra i punti che maggiormente rendono difficili le
trattative fra i singoli Stati c'è la diffidenza fra le giurisdizioni.
La diffidenza fra le giurisdizioni impedisce spesso agli Stati di fare dei passi
che forse sul livello politico sarebbero anche possibili, ma spesso l'idea che
ciascuno sia custode dell'ordinamento più evoluto è alimentata anche dalle
autorità giudiziarie dei diversi Paesi. L'idea che invece si rafforzi un rapporto
diverso fra le giurisdizioni è anche una scelta che può aiutare a sbloccare una
situazione di incaglio che è quella di cui parlavo precedentemente.
Tralasciando una serie di questioni che sono state richiamate e che non sto a
riprendere, vorrei fare un'altra considerazione, sempre dentro il quadro delle
condizioni date che abbiamo deciso di utilizzare con la massima intensità
possibile per quella considerazione politica che facevo: non soltanto perchè
vogliamo avere una giurisdizione efficiente, ma perchè se noi non siamo in
grado di avere una giurisdizione efficiente, quindi una giurisdizione
sovranazionale, il rischio è semplicemente quello della reazione populistica
che oggi sta infiammando l'Europa.
Noi non dobbiamo costruire un diritto che sia un diritto penale che abbia una
valenza simbolica e di mera rassicurazione dell'opinione pubblica sul terreno
della propaganda; se vogliamo rispondere a quelle inquietudini, noi dobbiamo
costruire un diritto che sia in grado di essere efficace. E in questo senso
l'altro pilastro del nostro ragionamento riguarda Eurojust. Che non è quello
che vogliamo, ma sul quale abbiamo investito tutte le nostre forze. Credo che
sia stato un segnale importante anche collocare come riferimento della nostra
giurisdizione in Eurojust un magistrato che veniva dalla Procura Nazionale
Antimafia, che è diventata anche procura antiterrorismo, perchè quello è il
punto più evoluto del processo di cooperazione che deriva anche da
un'iniziativa che nel corso degli anni si è sviluppata e che ha ricordato
efficacemente il procuratore Roberti.
Vorrei infine segnalare un'iniziativa tutta italiana in sede di Consiglio
d'Europa, finalizzata ad adottare un piano d'azione basato sulle
raccomandazioni del libro bianco del Consigli d'Europa sulla criminalità
organizzata transnazionale. E questo documento è stato adottato dal
comitato dei ministri del Consiglio d'Europa il 3 marzo scorso e prevede delle
azioni concrete anche in materia di cooperazione giudiziaria che gli Stati del
Consiglio d'Europa sono chiamati a implementare dal 2016 al 2020.
Infine è in corso di approvazione finale il regolamento previsto dalla legge 30
giugno 2009, n. 85 di ratifica del Trattato di Prum, finalizzato a rafforzare la
cooperazione transfrontaliera ai fenomeni del terrorismo, dell'immigrazione
clandestina e della criminalità internazionale transnazionale.
Questo insieme di impegni che abbiamo assunto si deve tenere - questo è lo
sforzo che abbiamo cercato di fare - con un altro elemento: noi non vogliamo
che a livello europeo - questo è un rischio che in qualche modo richiamavo
precedentemente - si costruisca - e la spinta forte viene anche dalle opinioni
pubbliche nazionali - quello che Gunther Jacobs definisce un diritto penale
del nemico: cioè l'idea di costruire un diritto penale che in qualche modo sia
costruito per fronteggiare fenomeni che alterino l'unitarietà degli ordinamenti.
E questa non è una scelta che corrisponde soltanto all'impostazione della
cultura giuridica europea, della Carta dei diritti dell'uomo. E' una scelta che
credo sia anche l'unica possibile praticabile, perchè in verità, contrariamente
a quello che si racconta ma correttamente è stato richiamato negli interventi
precedenti, i pericoli non vengono necessariamente dall'esterno, non sono
necessariamente il frutto di questioni che si collocano in capo ad un nemico
lontano o un nemico individuabile. Il rischio nasce dalla pancia stessa delle
nostre società nelle quali si riflettono fenomeni che sono talvolta lontani, ma
che talvolta sono vicinissimi. E questa è una scelta anche in questo caso non
solo di corrispondenza a principi generali, ma una scelta di funzionalità.
Perchè quel diritto penale del nemico, cioè l'idea in qualche modo di costruire
una sagoma sulla quale poi far riferimento con una politica penale che ha
soprattutto una finalità di esorcismo delle paure, alla fine rischia di non essere
assolutamente funzionale e rischia paradossalmente di accrescere
ulteriormente le paure e le insicurezze della società.
In questo senso abbiamo scelto di rafforzare i rapporti con la Corte dei diritti
dell’uomo di Strasburgo, intanto perché è un contesto che va oltre l’Unione
Europea, questa è una cosa che noi spesso anche nel dibattito delle unioni
civili si è detto ce lo chiede l’Europa, ce lo chiede l’Unione Europea, non ce lo
chiede in verità un soggetto che coinvolge Paesi che non fanno parte
dell’Unione Europea e che si pone su crinale difficilissimo perché spesso
parla con Paesi che sono in forte conflitto, se salta questa rete del diritto che
si è costruita con grande ambizione nel passato le conseguenze non si
rifletteranno soltanto sul fronte del diritto, rischiano di riflettersi sul fronte del
rapporto tra processi di evoluzione di soggetti che oggi diciamo aspirano,
tentano o dicono di voler aderire ad un’impostazione di stato del diritto.
Quindi, credo che la rilevanza politica di Strasburgo oggi sia ancora maggiore
che in passato. Ma noi non abbiamo scelto questa interlocuzione, non
abbiamo scelto di costruire un rapporto più forte soltanto perché avevamo
molte grane di fronte alla Corte di Strasburgo, lo abbiamo fatto anche perché
riteniamo che la possibilità di evitare quell’impostazione che richiamavo e che
è molto immanente in questa fase storica, è possibile soltanto se si prende
come parametro la Carta europea dei diritti dell’uomo.
Rafforzamento della giurisdizione, cooperazione, dimensione sovranazionale
e però un giudice a Strasburgo di questo percorso. Perché le cose che
poneva l’avvocato Migliucci sono reali e le asimmetrie che si possono
determinare tra i diversi sistemi sono forti e spesso non prevedibili nel
momento in cui si costruiscono delle forme di cooperazione, si possono
verificare spesso soltanto in ex post in un momento in cui c’è un’attuazione
concreta e quindi l’idea di avere un soggetto a cui non facciamo riferimento
che in qualche modo è in grado di vigilare su il modo in cui evitare le
potenziali asimmetrie di cui parlavo ritengo che sia una scelta che dobbiamo
difendere e che dobbiamo rafforzare in un momento in cui, diciamolo con
molta franchezza, cresce un’insofferenza nei confronti delle Corti
sovranazionali.
Vorrei prendere a prestito, in conclusione, le parole di Luigi Ferrajoli, il cui
garantismo in materia penale credo non conosca incrinatura, per dire che il
compito della cultura giuridica e della giurisdizione è quello di ristabilire la
radicale asimmetria tra diritto e crimine, tra istituzione e terrorismo, tra
imputati e nemici. La ragione giuridica dello stato di diritto infatti non conosce
nemici e amici ma solo colpevoli e innocenti. Non ammette eccezioni alle
regole se non come fatto extra o anti giuridico dato che le regole, se sono
prese sul serio come regole e non come semplici tecniche, non possono
essere piegate ogni qual volta fa comodo. Ferrajoli si riferisce in primo luogo
ai compiti di operatori e studiosi del diritto, io vi aggiungo anche ai compiti
della politica che anzi ha la più grande responsabilità nel mantenere lo spazio
giuridico europeo libero dalla retorica e dalla logica del nemico ad ogni costo.
Sono convinto che l’impegno che stiamo mettendo sul fronte della
cooperazione fra le autorità giudiziarie e penali nazionali, sul fronte della
cooperazione di polizia che associa tutte le autorità competenti degli Stati
membri, sul fronte degli strumenti giuridico di costruzione dello spazio
europeo di libertà, sicurezza e giustizia, si ha un grande aiuto per scongiurare
quello che altrimenti sarebbe un drammatico regresso in termini di diritti e di
libertà. Dopo le torri gemelle, gli attentati di Londra e Madrid, dopo Parigi,
ancor più dopo Parigi, dopo diversi attacchi terroristici in diverse zone del
mondo, la politica di sicurezza europea si è rafforzata e si va facendo
finalmente strada ad un approccio integrato che tiene insieme attività di
intelligence, attività investigative, attività diplomatiche, strategie di contrasto
al reclutamento e alla radicalizzazione, ma insisto è importante che questo si
realizzi in modo sistematico e coordinato.
Vorrei anche fugare l’idea che possono generare le mie parole secondo le
quali, diciamo così, questa impostazione che stiamo cercando di dare è
un’impostazione buonista, è un’impostazione che in qualche modo (no, cito
come esempio la direttiva europea antiterrorismo) noi siamo il Paese che ha
reclamato il sistema più rafforzato di incriminazione delle condotte
propedeutiche al terrorismo, anzi Paesi che, diciamo, predicano una durezza
estrema ostacolano, in verità, l’adozione a livello europeo di una forma di
incriminazione che anticipando il momento dell’intervento della repressione
siano in grado in qualche modo di prevenire i fenomeni piuttosto che di
contrastarli soltanto quando si producono.
Ecco in questo senso c’è una coerenza intima credo tra le impostazioni che
cerchiamo di dare e anche la sfida che noi facciamo agli altri stati europei,
cioè anche quella di rinunciare ad un pezzo, un ulteriore pezzo di sovranità in
ragione di una costruzione che sia in grado effettivamente di parlare al
cervello delle opinioni pubbliche e di non assecondare invece la pancia delle
opinioni pubbliche, cosa che diciamo alla fine a conti fatti si limita a prendere
atto del pericolo e a generare insicurezza, piuttosto che dar una risposta
secondo razionalità a queste domande, a queste paure, a queste insicurezze
che credo sia la risposta che compete ad un continente come l’Europa.
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