Il welfare aziendale in Italia - Call for Paper AIS-ELO 2014 di Andrea Ciarini e Silvia Lucciarini
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Call for Paper AIS-ELO 2014 Il welfare aziendale in Italia di Andrea Ciarini e Silvia Lucciarini Sapienza Università di Roma, Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche (versione preliminare:si prega di non citare)
1. Il contesto: tra welfare e relazioni industriali In Italia l’attenzione degli studi sul welfare alle tematiche riguardanti la contrattazione e le relazioni industriali è costantemente cresciuta negli ultimi anni. Ne è testimone il numero crescente di studi e ricerche sul welfare contrattuale e aziendale (Gori 2012; Pavolini, Mirabile e Ascoli 2013; Treu 2013). Sullo sviluppo di questi istituti, contrattati dentro e fuori le aziende, incidono diversi fattori, molti dei quali legati non a un avanzamento delle condizioni entro cui vengono praticate la rappresentanza collettiva e l’offerta di protezione sociale. E’ anzi ragione del restringimento del perimetro del welfare pubblico e della destrutturazione della contrattazione collettiva che welfare e relazioni industriali trovano nuove ragioni di integrazione e funzionalità reciproche (Regalia 2012). Si pensi al crescente sviluppo del welfare contrattato a livello territoriale o di categoria per ambiti di intervento tradizionali come la previdenza e l’assistenza sanitaria integrativa, ma anche nuovi come la negoziazione riguardante i servizi di cura e conciliazione, spesso con il contributo di singole amministrazioni locali e all’interno di uno scambio tra incrementi di produttività e moderazione salariale, mediato (e facilitato) dall’accesso a prestazioni integrative di welfare territoriale (Ascoli, Mirabile, Pavolini 2013). Naturalmente tutto questo si svolge in presenza di soluzioni di rappresentanza e tutela da un lato più decentrate, dall’altro anche più segmentate, tra aziende di grandi o piccole dimensioni, tra singole aree territoriali, tra lavoratori occupati stabilmente e lavoratori più ai margini del mercato del lavoro, precari o impiegati con contratti sganciati dalla contrattazione collettiva. Di questa grande variabilità occorre tenere conto quando si guarda ai rapporti emergenti tra welfare e relazioni industriali, in special modo in riferimento al tema del welfare contrattuale e aziendale, cui va molta della nostra attenzione. Siamo di fronte a campi che tendono a integrarsi vicendevolmente, all’interno però di un quadro soggetto al prodursi di vecchi e nuovi dualismi. Questo vale soprattutto per l’Italia così come per quei paesi Europei (in particolare quelli continentali) che storicamente hanno incardinato i dispositivi di protezione sociale e lo stesso sistema di rappresentanza in un quadro di forti differenziaioni su base categoriale e professionale (Paci 1989; Esping-Andersen 1990). D’altra parte come molte analisi hanno bene messo in evidenza (Palier e Thelen 2010; Emmenger et. al., 2012; Palier, 2013), i passaggi che hanno scandito in questi paesi le più recenti riforme del welfare e nel campo della rappresentanza non sono stati immuni dal prodursi di vecchi e nuovi dualismi tra insider e outsider; cioè tra componenti core del mercato del lavoro, più tutelate nel welfare e più coperte dalla contrattazione e componenti più marginali, spesso impiegate nei settori a bassi salari, ma non necessariamente a scarso contenuto di conoscenza (questo vale soprattutto per l’Italia), più esposte alla intermittenza lavorativa e con difficoltà ad essere riconosciute e tutelate tanto dal sistema di welfare quanto dalla contrattazione integrativa (Gualmini e Rizza 2011; Emmenger et. al., 2012; Palier 2013). Quanto e cosa di tutto questo rientri nell’ambito del welfare aziendale e contrattato può essere così riassunto. L’esito delle trasformazioni in corso stanno dentro una prospettiva, da un lato di supplenza della contrattazione dei processi di riorganizzazione/razionalizzazione del welfare pubblico, dall’altro di ripresa e rafforzamento delle tendenze dualistiche nel mercato del lavoro e all’interno dei sistemi di rappresentanza. A corollario di questa doppia spinta va sottolineato il perdurare di mediazioni istituzionali in cui le parti sociali continuano a svolgere una funzione di controllo e indirizzo, anche quando si tratta di contrattare in funzione difensiva la diffusione di prestazioni sociali integrative a livello di categoria, d’azienda o sul territorio. Da questo punto di vista se le organizzazioni sindacali sono chiamate a estendere la loro partecipazione al welfare, questo avviene indubbiamente a compensazione della perdita di peso della contrattazione collettiva e in maniera speculare del welfare pubblico, con tutto il portato di nuovi dualismi che ne deriva, come hanno sottolineato Pavolini, Mirabile, Ascoli (2013): tra occupati a tempo indeterminato e occupati a termine, tra essi e lavoratori precari esclusi anche da qualsiasi misura di welfare contrattuale, tra dipendenti privati e dipendenti pubblici, tra lavoratori delle grandi e delle piccole aziende, tra aziende del Nord e Centro-Nord e aziende del
Mezzogiorno; e però anche con l’aggiunta di pratiche contrattuali incrementali per estendere i benefici sociali e altresì la copertura di rappresentanza anche a chi rimane fuori dalle reti di protezione sociale o si trova in posizione più debole nel mercato del lavoro (Burroni e Pedaci 2014). 2. Il welfare contrattuale e aziendale in Italia Ci sembra che il discorso sul welfare contrattuale e aziendale debba essere posto in questi termini, ben sapendo che sugli esiti di queste trasformazioni impattano diversi fattori, istituzionali prima di tutto, culturali (si pensi ad esempio al diverso orientamento in Italia delle due maggiori confederazioni sindacali Cisl e Cgil in materia di bilateralità e welfare contrattuale), strutturali, ovvero riguardanti il mercato del lavoro e gli assetti produttivi, infine ma non meno importante legislativi. In effetti, la legislazione di sostegno a pratiche di questo genere, in special modo il testo unico delle imposte (Mallone 2013; Treu 2013), ha molto contribuito in Italia alla diffusione del welfare contrattuale, rendendo conveniente per le imprese, attraverso sgravi e agevolazioni fiscali, l’offerta di servizi integrativi rispetto al semplice aumento contrattuale. Certo, soprattutto nelle piccole imprese, siamo in pieno dentro un scambio tra “diritti al lavoro” e “diritti nel lavoro” (Leonardi e Arlotti 2012) che riduce il potere delle organizzazioni sindacali. Va inoltre detto che non in tutte le imprese e aree territoriali queste pratiche tendono a diffondersi, producendo ulteriori disuguaglianze. Detto questo, seppure di contrattazione concessiva per lo più si tratta, essa è mediata e regolata con il contributo delle parti sociali. E questa è una novità rispetto al panorama tradizionale del welfare contrattuale per come era andato diffondendosi inizialmente (tra gli anni Sessanta e Settanta) sotto forma di iniziative unilaterali delle imprese. Rispetto a questa prima fase (vedi meglio paragrafo seguente) il welfare aziendale è a pieno titolo entrato nella contrattazione. D’altra parte è tutto il sistema dei dispositivi contrattuali che ha conosciuto negli ultimi anni un forte sviluppo. Si pensi alla crescente importanza assunta dagli organismi bilaterali, sempre più al centro della contrattazione e della stessa legislazione negli anni più recenti. Rispetto al tradizionale sviluppo delle reazioni tra le parti sociali e le istituzioni, la bilateralità rimanda a un ambito di contrattazione che senza dubbio fuoriesce dal modello di relazioni industriali consolidatosi in Italia nel periodo fordista. Esso è stato d’altra parte a lungo considerato periferico, proprio per l’essere tradizionalmente radicato in settori produttivi più marginali, caratterizzati da frammentazione territoriale e produttiva, elevata presenza di rapporti di lavoro atipici o irregolari, debolezza delle organizzazioni sindacali sui luoghi di lavoro (Bellardi 1989; Leonardi 2005; Leonardi e Ciarini 2013), ma soprattutto strutturale difficoltà a garantire l’applicazione completa dei contratti collettivi: agricoltura, edilizia, artigianato. Da qui l’utilizzo della contrattazione, soprattutto decentrata, per provvedere alla piena esigibilità dei contratti sul piano delle protezioni sociali connesse al lavoro. Ora, se la nascita della bilateralità ha riguardato inizialmente aree ad elevata frammentazione occupazionale e produttiva con il tempo si è progressivamente estesa fino a interessare un po’ tutti i settori. Per molti ambiti prima demandati al welfare pubblico o anche semplicemente scoperti, dalla formazione professionale continua, ad alcune prestazioni integrative a carattere sanitario e socio-assistenziale, fino alla previdenza integrativa e alle riforme che più di recente hanno riguardato il riordino degli ammortizzatori sociali, è attraverso lo sviluppo della bilateralità che si è proceduto a estendere la rete delle protezioni in favore dei lavoratori meno tutelati dai dispositivi ordinari. Si pensi ai lavoratori delle piccole imprese e altresì a molti accordi per l’istituzione di enti bilaterali in comparti emergenti come il lavoro in somministrazione. Parimenti sugli enti bilaterali sono intervenuti accordi riguardanti anche i lavoratori dei settori centrali del mercato del lavoro, certamente più tutelati sul piano contrattuale e del welfare e tuttavia non meno interessati dai processi di riduzione e razionalizzazione della spesa sociale. In questo doppio movimento tra l’espansione della contrattazione integrativa e decentrata e la limitazione delle reti di welfare pubblico, restiamo di fronte a una grande varietà di accordi, intese, istituzioni e di prestazioni. Per dare una idea di essa possiamo trarre spunto da una articolazione proposta di recente da Regalia (2012). Una prima categoria riguarda accordi di contrattazione
promossi per estendere i benefici della protezione sociale ai lavoratori che già godono del welfare assicurativo obbligatorio. Rientrano in questo ambito gli accordi che hanno istituito i Fondi interprofessionali per la formazione dei lavoratori (almeno nella loro versione originale prevista dalla legge 388 del 20001), quelli sulla previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa e tutte quelle misure di welfare contrattato, compresa l’istituzione di nuovi enti bilaterali in settori (per esempio l’industria metalmeccanica) un tempo sprovvisti di questi organismi perché già coperti dai dispositivi ordinari del welfare assicurativo. Un secondo gruppo riguarda quelle pratiche di welfare contrattato promosse per estendere le tutele a quei lavoratori tradizionalmente esclusi o solo parzialmente inclusi nel sistema delle assicurazioni sociali obbligatorie. Tipico esempio di queste pratiche sono gli enti bilaterali per come si sono sviluppati nei settori della piccola impresa. Dal punto di vista dei settori emergenti, troviamo in questo stesso tipo gli accordi sui lavoratori in somministrazione, attraverso i quali si è arrivati alla costituzione di un nuovo sistema di welfare contrattato fondato per l’appunto sulla bilateralità (vedi anche Burroni e Carrieri 2011; Burroni e Pedaci 2014). Molti altri accordi di categoria potrebbero essere citati in questo tipo, soprattutto di recente approvazione e per comparti generalmente periferici nel mercato del lavoro, più di altri sottoposti a bassi salari o intermittenza lavorativa, come il lavoro domestico e la cura delle persone, i servizi di pulizia e gli studi professionali. In tutti questi casi i contratti collettivi hanno da qualche anno iniziato a disciplinare un sistema di enti bilaterali attivo per lo più sul fronte del sostegno del reddito, della previdenza complementare e dell’assistenza sanitaria integrativa, più una serie di attività (questo in particolare per quanto riguarda gli studi professionali) relativa alla gestione del mercato del lavoro e all’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Accanto a questi due tipi, vi sono le misure di welfare integrativo che tendono a svolgersi più a livello di impresa. Si tratta di dispositivi generalmente presenti nelle imprese di medio-grandi dimensioni e per lo più rivolti a lavoratori dipendenti già coperti dal welfare assicurativo. Rientrano in questo ambito le prestazioni di welfare aziendale a ampio spettro di interventi: salute, assistenza, conciliazione vita-lavoro e aiuto nel disbrigo delle faccende domestiche, formazione, sostegno del reddito, credito. Si tratta di prestazioni già presenti in Italia e però negli ultimi anni in espansione (anche per l’impulso dato da una legislazione di vantaggio) o per scelte unilaterali delle aziende o nel quadro di accordi tra imprese e parti sociali, e spesso anche istituzioni locali, con l’intermezzo di organizzazioni terze (broker o società di consulenza) nella funzione di facilitatori o produttori di questi stessi programmi. Queste pratiche di welfare aziendale hanno a lungo riguardato i lavoratori core delle aziende di più grandi dimensioni. Non mancano tuttavia casi di estensione dei benefici verso i lavoratori meno tutelati sul piano dei diritti contrattuali, ad esempio lavoratori a termine. Una ultima fattispecie riguarda un ambito che negli anni si è molto sviluppato: la contrattazione sociale, su cui peraltro si hanno disposizione ormai molti dati - si vedano in particolare i vari rapporti dell’Ires-Cgil (AAVV 2010; 2011; 2012). La particolarità di questi accordi è il fatto di rivolgersi spesso a una platea molto estesa di beneficiari, non semplicemente i lavoratori (coperti o meno dal welfare assicurativo) ma più in generale la generalità dei cittadini. Non a caso più che le categorie in senso lato, sono impegnate in questa contrattazione soprattutto le organizzazioni dei pensionati e i livelli territoriali delle confederazioni. Non mancano anche accordi aziendali in cui con l’intervento delle amministrazioni la contrattazione fuoriesce sul terreno della concertazione, al fine di estendere la copertura delle prestazioni (si pensi agli accordi sui nidi d’infanzia o la conciliazione vita-lavoro in alcune aree del paese, in particolare quelle vocazione produttiva diffusa). Così come non è da sottovalutare il fatto che, pur partendo dai bisogni dei cittadini, ci si 1 Come è noto con la legge 2/2009 relativa alle misure anticrisi è stato disposto che i fondi interprofessionali possano destinare interventi e risorse (sebbene di carattere temporaneo ed eccezionale, come è scritto nel testo legislativo) a sostegno del reddito dei lavoratori, anche di quelli inquadrati in rapporti di lavoro di apprendistato o a progetto. Rispetto alle funzioni originarie dei Fondi interprofessionali si tratta certamente di un cambiamento di rotta significativo, in più direzioni: il sostegno al reddito e l’inclusione nel gruppo dei beneficiari dei lavoratori cosiddetti non standard.
rivolga a una sempre più stringente integrazione con le politiche attive del lavoro e per l’inclusione sociale, in particolare per i soggetti più colpiti dalla crisi e tra questi molti lavoratori di aziende in crisi, disoccupati, persone a rischio povertà o vulnerabilità. Rispetto a questa articolazione di modelli di welfare contrattuale e aziendale, in questo lavoro si è scelto di operare in direzione di un approfondimento delle pratiche che si svolgono all’interno delle aziende, benché sempre più spesso in relazione anche a pratiche di concertazione territoriale e con il coinvolgimento di provider esterni alle imprese. Si tratta, da un lato di uno degli ambiti forse più tradizionali di welfare contrattato e per molti aspetti anche più standardizzato, nel senso di pratiche che tendono in qualche modo a ripetersi da azienda a azienda, anche in considerazione dei vantaggi fiscali e contributivi che la legislazione consente. Pur tuttavia su questi processi non si ha ancora una base empirica ricca, a parte i molti studi di caso aziendali e territoriali di cui fino a ora si è dato ampio conto per descrivere il welfare aziendale. Di questo tratteremo nel prosieguo del lavoro. Prima però di entrare nel dettaglio dell’analisi empirica è opportuno collocare questo tema del welfare aziendale nel quadro della sua evoluzione recente e passata. 3. Welfare aziendale e dimensione territoriale La diffusione del welfare aziendale in Italia può essere divisa in tre periodi. Il periodo di primo radicamento, dagli anni ’60 ai ’70, è una fase in cui predominano iniziative unilaterali delle imprese. Si tratta nello specifico di pratiche unilaterali e spesso paternalistiche, benché tese in alcuni casi esemplari - si pensi alla Olivetti (Ciuffetti 2012) - a fidelizzare ma soprattutto a migliorare il rapporto tra lavoratore e azienda e estendere i benefici sociali, ben oltre i confini dell’ordinamento lavorista costruito nel primo dopoguerra. Dal punto di vista sindacale si assiste da un lato alla diffusione del fenomeno, dall’altro a una frammentazione derivata anche dalle diverse vision sindacali. Queste azioni differenziate da parte dei sindacati italiani hanno l’effetto di produrre una diffusione a macchia di leopardo delle iniziative di welfare aziendale, nel corso dei decenni ’80 e ’90, caratterizzati da una frammentazione delle iniziative aziendali (secondo periodo di sviluppo del welfare aziendale), alle quali si aggiungono le pratiche di carattere unilaterale. Sono anni in cui iniziano a radicarsi le differenze tra aziende: le singole imprese infatti costituiscono l’unità di misura attorno alla quale si costruisce l’offerta di servizi e interventi. Una spinta importante al fenomeno viene anche dalle riforme maturate e sancite nel corso degli anni Novanta. Le riforme previdenziali e della sanità mettono per la prima volta da decenni un freno alle dinamiche espansive della spesa e dei diritti/prestazioni nelle rispettive aree di policy, mantenendo tuttavia forte l'eredità corporativa del sistema di tutele italiano di stampo occupazionale. Queste riforme - unite all'espansione della finanziarizzazione dei sistemi economici - hanno anche l'esito di spingere verso la diffusione di fondi integrativi sanitari attraverso le casse professionali e allo sviluppo diffuso della previdenza integrativa da parte della contrattazione collettiva, che daranno per certi aspetti l'abbrivio al sistema di networking e convenzionamento tipiche dell'offerta di welfare aziendale attuale. Sul finire degli anni Novanta emerge sempre con più forza la saldatura tra azienda e territorio nella ideazione, costruzione e implementazione di piani di welfare aziendale (terza fase, della territorializzazione del welfare aziendale). Sono anni che segnano un passo più maturo del fenomeno, caratterizzato in un primo momento da una relazione con l'Ente Pubblico locale e - a partire dalla seconda metà dei Duemila - con una più vasta arena di attori territoriali. Questo passaggio risente certamente della retorica - sia europea che nazionale - sulla sussidiarietà (in entrambe le sue forme, orizzontale e verticale) e di quella sulla individualizzazione, intesa sia come diversificazione dei profili di rischio e di bisogno - in profondo mutamento rispetto alle tipiche condizioni di disagio maturate nei sistemi fordisti - sia come capacità del provider di proporre misure e interventi ad hoc. Questa terza fase del welfare aziendale - che si apre a partire dalla fine degli anni Novanta e si sviluppa sino ad oggi - ha dalla sua la legittimazione crescente dei processi di decentramento e
territorializzazione del welfare (Ferrera 2005; Kazepov 2009; Keating 2009; Kazepov e Barberis 2013), e una logica di rete che tende a travalicare il sistema delle imprese. Da un punto di vista interno alle aziende queste dinamiche di attivazione territoriale costituiscono una delle modalità attraverso cui sviluppare offerte di servizi in grado di incidere sull’aumento della produttività, soprattutto del personale più qualificato. Il welfare aziendale è da questo punto di vista parte di una strategia più complessiva di riorganizzazione e adattamento di fronte a tensioni competitive che hanno un riflesso non solo sui fattori produttivi in senso stretto, ma anche sulle scelte interne circa la possibilità/opportunità di dotarsi di strumenti di welfare autonomi rispetto a quelli ordinari previsti dal sistema di protezione sociale nazionale. Su questi fenomeni, i meccanismi istituzionali, in particolare quelli locali, riguardanti cioè la natura e la qualità delle interazioni tra gli attori, non solo imprese, partecipi di questi processi, hanno come ovvio un effetto determinante. Non meno importante è tuttavia inquadrare questa tematica - soprattutto se si guarda alle piccole imprese - alla luce dei condizionamenti che vengono dalla domanda di lavoro, per sua larga parte concentrata in settori a basso tasso di valore aggiunto e bassa produttività, e di contro una quota minoritaria di grandi imprese, a più alta produttività e qualificazione del lavoro (si veda da ultimo Reyneri e Pintaldi 2013). La struttura produttiva appena tratteggiata, ma ampiamente dibattuta in letteratura, appare rilevante per almeno due ordini di motivi in relazione al welfare aziendale: da un lato, gli sforzi per studiare e capire questa realtà sono tanto più impegnativi quanto più si considera la frammentazione dimensionale e territoriale; dall’altro, questa specificità italiana va analizzata avendo ben presenti le differenze tra piccole, medie e grandi imprese, sia in termini di opportunità che di vincoli al welfare aziendale. 4. L’incontro tra domanda e offerta di welfare aziendale: alcune evidenze empiriche A fronte della spiccata frammentazione e variabilità delle misure di welfare aziendale e della scarsità e parcellizzazione delle fonti informative a riguardo (Ascoli, Mirabile e Pavolini 2013), in questa parte entreremo più nel dettaglio delle misure che vanno adottando le imprese. La base empirica su cui è stata condotta l’analisi deriva da due indagini svolte da Astraricerche. Una prima - che ha avuto luogo nel Maggio 2011- si è basata su 883 interviste on line condotte su un campione di dipendenti di imprese non operanti nell'agricoltura. La seconda rilevazione è stata invece rivolta alle imprese e si è svolta tra il 10 giugno e il 14 luglio 2011. Sono state interpellate 344 imprese selezionate in modo da rispecchiare la distribuzione nazionale delle aziende per ripartizione territoriale, numero di dipendenti e macrosettore di attività. Anche questa rilevazione è stata condotta attraverso questionario on line (CAWI). In questa disamina sulle prime evidenze empiriche, abbiamo scelto di analizzare la banca dati lungo tre principali dimensioni: 1. tipologia di servizi offerti; 2. omogeneità/difformità tra l’offerta e la domanda di servizi; 3. atteggiamenti nel confronti del welfare aziendale. Questa tripartizione permette di evidenziare alcuni degli aspetti prevalenti circa l'offerta e la domanda di welfare aziendale, come anche elementi di livello macro e meso che risultano essere determinanti nella costruzione di modelli di welfare aziendale. Riguardo a questi ultimi è emerso quanto la variabile dimensionale e quella geografica siano aspetti strutturali che determinano precipui sistemi di welfare aziendali, mostrando una sorta di loro territorializzazione. Un primo elemento di riflessione è la varietà delle facilitazioni e dei servizi (non solo strettamente di welfare) nelle imprese indagate (vedi fig. 1). In valori assoluti, le misure più diffuse sono i buoni pasto da consumare all'esterno o all'interno dell'azienda, presenti nel 63% delle aziende contattate, e
la flessibilità dell’orario lavorativo2, offerto nel 57% dei casi (Figura 1). Seguono i servizi aziendali di facilitazione nella gestione dei tempi di vita e lavoro come l’offerta di assistenza burocratico- legale (18%), o la possibilità del telelavoro (18%). Per quanto riguarda le prestazioni di welfare in senso lato va detto che siamo di fronte a un panorama ancora poco sviluppato. Ad eccezione dell’assicurazione medica (31% del campione di imprese) è limitata l’offerta aziendale di servizi di welfare. E’ da sottolineare inoltre la scarsa diffusione - rispetto ad altre facilitazioni più “leggere” come quelle ricordate sopra - dei servizi legati al long-term care e non autosufficienza (solo il 4,5% del campione). Più alta è l’incidenza delle convenzioni per gli asili nido (12%) e la dotazione di nidi aziendali (7%). Considerati congiuntamente coprono il 19,3% del campione. Si tratta di una percentuale distante rispetto ad altri servizi più diffusi, in ragione soprattutto dei costi elevati per la loro attivazione. Bisogna riconoscere però che il ricorso a questi servizi è tendenzialmente in crescita, come altri studi già hanno confermato (vedi in particolare Pavolini e Carrera 2013). Sulla scorta di quanto appena detto è interessante rimarcare una diversità tutta interna a quelli che potremmo definire i servizi aziendali a copertura dei nuovi profili di rischio sociale: invecchiamento della popolazione, non autosufficienza, conciliazione vita-lavoro. La crescita di servizi o facilitazioni in questa direzione sta indubbiamente a testimoniare di un allargamento delle funzioni classiche riconosciute al welfare nelle imprese, in special modo per quello che riguarda la conciliazione vita-lavoro, la flessibilità degli orari di lavoro, la cura dei minori. E’ tuttavia principalmente nelle grandi aziende che questo collegamento si realizza di più. Diversamente per le piccole imprese il panorama degli interventi se da un lato è più limitato, dall’altro appare fortemente incentrato su fattispecie di interventi strettamente legati alla gestione dei cicli produttivi. Su questo entreremo più nel dettaglio di seguito. Fig. 1. I servizi offerti dalle imprese, Val. %, Anno 2011 Fonte: Ns Elaborazione dati Astraricerche A livello regionale, la distribuzione dei servizi presenta alcune specificità su cui è interessante focalizzare l’attenzione3. Per quanto riguarda la dotazione dei servizi di welfare si conferma in tutte 2 Per flessibilità dell’orario di lavoro si intende la possibilità di posticipare o anticipare di un’ora l’entrata o l’uscita. 3 I dati secondari forniti da Astraricerche fanno riferimento ad una suddivisione in ripartizioni del territorio nazionale in parte differente da quella usualmente utilizzata dall’Istat. Il Nord-Ovest comprende: Piemonte, Lombardia, Valle D’Aosta, Liguria; il Nord-Est: Trentino Alto Adige, Veneto e Friuli Venezia Giulia; il Centro Alto: Toscana e Emilia Romagna; il Centro Basso: Umbria, Marche e Lazio; il Mezzogiorno: Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna.
le regioni la centralità che sembrano assolvere le prestazioni di conciliazione vita-lavoro, specie nel Centro-Nord e nel Nord-Ovest (Fig. 2). Le regioni meridionali sono di contro quelle che hanno una minore dotazione di prestazioni di questo tipo e in generale mostrano un minore sviluppo del welfare aziendale. Dal punto di vista dei servizi di cura, la performance migliore la registra il Nord-Ovest, che cumula una maggiore dimensione aziendale (in media) e una maggiore occupazione femminile (Istat 2011, 2012). Le aziende che superano i 250 addetti del Nord Ovest, in particolare le multinazionali dell'industria, hanno sviluppato soprattutto l'assistenza sanitaria, con una particolare rilevanza anche nei confronti della non autosufficienza, attraverso una rete di soggetti convenzionati e grazie a un sistema di broker sul territorio. Diversamente nelle regioni del Nord-Est e del Centro-Nord vi è una incidenza più ampia dei servizi relativi alla flessibilizzazione dell’orario di lavoro. Fig. 2. I servizi di welfare aziendale offerti dalle imprese indagate. Valori percentuali sul totale delle imprese, Val. per ripartizione geografica, Anno 2011 Fonte: Ns Elaborazione dati Astraricerche Questi dati ci consentono di fare ulteriori considerazioni rispetto alle differenze che corrono tra piccole e grandi imprese. Queste differenze sono in parte determinate dall’insieme di vincoli e opportunità, in particolare rispetto al problema delle dimensioni di scala. Le imprese, soprattutto quelle di più grandi dimensioni, possono mettere in campo più facilmente flexible benefit in proprio, ovvero schemi di retribuzione che integrano il salario del dipendente con servizi per sé e per la sua famiglia, che altrimenti si sarebbero dovuti reperire all'esterno (vedi Treu 2013). Questa scelta può rappresentare da un certo punto di vista una situazione win win: le imprese hanno un esonero dei
contributi previdenziali rispetto a quella parte di remunerazione convertita in benefit, e il dipendente aumenta il suo potere d'acquisto rispetto ad un ipotetico aumento del salario nominale. E’ ovvio che la possibilità di operare economie di scala, potendo contare su un numero di addetti elevato e su strutture fisse in grado di ospitare spazi dedicati o servizi integrativi, piuttosto che l’opportunità di ottenere condizioni di vantaggio rispetto ad assicurazioni sanitarie o previdenziali complementari sia di più facile implementazione per le grandi aziende. Per i territori a economia diffusa, quelli della tipica media impresa italiana, un‘alternativa risiede nella costruzione di piani di welfare interaziendali (Ferrera e Maino 2013), che vedono coinvolti l'attore pubblico insieme all'impresa e al sindacato, al fine di realizzare quelle economie di scala che le dimensioni ridotte delle aziende non permettono di implementare singolarmente. L’analisi che qui presentiamo ha dei limiti determinati dall’accorpamento della classe 16-250 addetti, scelta effettuata in origine da Astraricerche, per cui la nostra lettura non può arrivare a un livello di un dettaglio più fine, in particolare per quello che riguarda le medie imprese. Lo stesso possiamo dire del ruolo ma soprattutto delle diverse forme di mediazione istituzionale imputabili alle organizzazioni sindacali. I servizi riportati nella banca dati vengono da accordi contrattati con le parti sociali. Poco ci dicono però delle modalità e delle procedere istituzionali attraverso le quali sono stati prodotti, anche con l’intervento di singole amministrazioni territoriali. Detto questo si possono evidenziare alcune tendenze, riguardanti soprattutto le differenze tra piccole e grandi aziende. Iniziamo con il dire che il welfare aziendale è un fenomeno diffuso soprattutto nelle grandi imprese, per tutte le tipologie di servizi, da quelli più “leggeri” a quelli più complessi e anche più costosi. In questo quadro emerge tuttavia una specificità, tipica delle piccole imprese, sulla quale vale la pena attirare l’attenzione. Rispetto al panorama complessivo degli interventi sono soprattutto le esigenze legate alla flessibilità negli orari di lavoro e alla conciliazione a riguardare la maggior parte degli accordi aziendali (vedi fig. 3). Tutto questo se da un lato denota una più ristretta presenza di strumenti di welfare aziendale, dall’altro però li circoscrive ad aspetti connaturati alla struttura della produzione, più esposta ai margini di flessibilità richiesti dai cicli produttivi (soprattutto rispetto all’orario) come anche in altri lavori è già stato messo in evidenza (Pavolini, Mirabile, Ascoli 2013). Fig. 3 Tipo di servizi offerti, Val. %, Anno 2011
Fonte: Ns Elaborazione dati Astraricerche Oltre a questi aspetti più strettamente descrittivi, una delle evidenze empiriche più interessanti riguarda l’analisi comparativa tra i servizi offerti dall’impresa e quelli desiderati dai dipendenti. Esiste un profondo disallineamento tra queste due posizioni (figura 4). Senza considerare l’alta preferenza per strumenti tradizionali come i ticket restaurant, è da rimarcare la corrispondenza di gradimento tra imprese e dipendenti per quello che riguarda la flessibilità nell’orario di lavoro. La rispondenza tra domanda e offerta si ferma però qui. Per altri servizi il gap che si apre è significativamente ampio. Basti pensare che i dipendenti che vorrebbero usufruire del telelavoro sono più del 50% dei rispondenti, mentre ad offrirlo sono meno del 20% delle aziende interpellate. Per non parlare dei servizi di cura: a domandarli sono quasi un dipendente su due, mentre a offrirli meno di un datore di lavoro su dieci. Stessa sorte per gli asili nido, la formazione per i familiari (in particolar modo i figli) e i servizi di mobilità. In precedenza si era messa in evidenza la tendenza dei servizi di welfare aziendale a coprire soprattutto l’area dei nuovi rischi sociali, con particolare riferimento alla conciliazione vita-lavoro e cura. Si tratta di una dinamica comune anche ad altri paesi europei come hanno sottolineato Pavolini, Colombo e Neri (2013). Questa crescita rimane tuttavia al di sotto delle aspettative e delle domande dei lavoratori. In questa discrasia tra domanda e offerta si coglie uno dei punti qualificanti ma anche le criticità principali che insistono sulla risposta ai bisogni sociali emergenti. Se essi tendono a entrare dentro il perimetro della contrattazione e nel nostro caso all’interno delle aziende, con pacchetti di interventi ad hoc, questo sviluppo rimane comunque al di sotto delle necessità avvertite.
Fig. 4 Servizi offerti dalle aziende e servizi domandati dai dipendenti, Val. %, Anno 2011 Fonte: Ns Elaborazione dati Astraricerche L’indagine empirica ha affrontato anche i temi relativi agli atteggiamenti dei dipendenti nei confronti del welfare aziendale e alle strategie aziendali. Queste dimensioni sono particolarmente significative per esplorare la propensione alla diffusione da parte delle aziende e dei dipendenti al welfare aziendale. Il dato più rilevante è quello relativo alla bassa domanda e desiderabilità di strumenti di welfare aziendale nelle regioni del Mezzogiorno che con diverse gradazioni raggiungono però un generale consenso nelle altre ripartizioni (vedi. fig. 5). Fig. 5 Livello di desiderabilità del welfare aziendale secondo i dipendenti, Val.%, Anno 2011 Fonte: Ns Elaborazione dati Astraricerche Questa bassa desiderabilità del welfare aziendale nel Mezzogiorno trova probabilmente una prima spiegazione nella bassa dotazione di prestazioni su tutte le gamme di servizi, basilari e più complessi. Il Mezzogiorno si discosta in maniera molto significativa dalle altre ripartizioni territoriali non solo in termini di offerta di welfare aziendale, ma anche rispetto all'utilità e al senso che le aziende gli attribuiscono. Le aziende del Sud, indipendentemente dalle dimensioni,
affermano infatti di considerare il welfare aziendale come mezzo privilegiato per contrastare la conflittualità nelle imprese e diminuire l'assenteismo (vedi fig. 6). Se dal punto di vista gestionale e organizzativo il welfare aziendale viene ritenuto uno strumento di calmieramento del conflitto e di distribuzione di privilegi, dal punto di vista dei lavoratori la desiderabilità rimane bassa, preferendo probabilmente forme di monetizzazione tout court. D’altra parte la presenza di reti di welfare locale più rarefatte, povere di soluzioni formali e più in generale - per quello che riguarda la cura e l’assistenza - o delegata alle famiglie o ad altre forme di assistenza informale, non agevola lo sviluppo dei servizi accreditati. Diversamente nelle regioni del Centro e del Nord, le percentuali più alte di risposte “positive”, si devono probabilmente non solo a una maggiore densità e presenza dei servizi interni, ma anche alle più fitte connessioni con le reti di welfare locale esterne al perimetro dell’azienda. Fig. 5 Il punto di vista delle aziende: Welfare aziendale come mezzo per contenere i conflitti, Val. %. Anno 2011 Fonte: Ns Elaborazione dati Astraricerche Una delle funzioni principali che le aziende del Mezzogiorno riconoscono al welfare aziendale, è quella di premiare alcune fasce apicali di dipendenti e di dirigenti. Il welfare aziendale diventa lo strumento attraverso il quale vengono riconosciuti i privilegi al gruppo dirigente aziendale. Possiamo dire da questo punto di vista che nel caso del Sud vi è una sorta di combinato disposto di prevenzione dei conflitti ma anche di riproduzione delle gerarchie interne, a vantaggio per lo più delle fasce apicali (vedi fig. 7). Fig. 7 Il punto di vista delle aziende: Welfare aziendale come premio per fasce apicali di dipendenti, VAl. %, Anno 2011 Fonte: Ns Elaborazione dati Astraricerche
E’ interessante notare come quest’ultimo tipo di dinamica si ritrovi subito dopo nelle aziende della ripartizione Nord-Ovest. La più alta incidenza delle imprese di maggiori dimensioni è un elemento da tenere in considerazione. Essa da la misura di un diverso utilizzo di questi strumenti non solo tra Nord e Sud ma anche tra piccole e grandi imprese. Se in queste ultime il welfare aziendale concorre a rimarcare le differenze tra gruppi core e gruppi più periferici all’interno dell’impresa, nelle prime l'erogazione di benefit appare piuttosto un mezzo per riconoscere premialità conseguenti alla gestione dei cicli produttivi ma soprattutto al mantenimento delle risorse umane più qualificate all’interno dell’azienda (vedi fig. 8). In particolare questo emerge per le piccole aziende del Nord- Est. Questa premialità del welfare aziendale è a ben vedere l’elemento caratterizzante del welfare aziendale nelle piccole imprese (vedi fig. 9), soprattutto considerando il tipo di servizi e agevolazioni che tendono a essere messe a disposizione dei dipendenti. Non tanto piani integrativi di welfare, né pacchetti di prestazioni volti a legittimare la gerarchia aziendale, bensì servizi, agevolazioni che hanno l’obiettivo di gestire al meglio l’allocazione delle risorse umane rispetto all’andamento dei cicli produttivi. Fig. 8 Il punto di vista delle aziende. Welfare aziendale come strumento per mantenere le risorse umane critiche ritenute indispensabili, Val. %, Anno 2011 Fonte: Ns Elaborazione dati Astraricerche Fig. 9 Il punto di vista delle aziende. Welfare aziendale come mezzo per trattenere risorse critiche ritenute indispensabili Fonte: Ns Elaborazione dati Astraricerche
5. Limiti e prospettive del welfare aziendale L’analisi che abbiamo condotto ci consente di tornare alcune su alcune delle questioni che sono state poste in avvio di questo lavoro, circa le funzioni che gli strumenti di welfare aziendale assolvono rispetto alla grande varietà di istituti contrattati fuori e dentro le aziende che si stanno diffondendo. Al pari di altri istituti promossi dalla contrattazione collettiva (ad esempio gli enti bilaterali) o delle prestazioni sociali contrattate ma soprattutto concertate a livello territoriale, anche il welfare aziendale è in crescita, in particolare sul fronte della conciliazione vita-lavoro e della cura dei minori. Dalla possibilità di combinare con più flessibilità gli orari di lavoro, ai nidi aziendali e in convenzione, fino a facilitazioni nel disbrigo di faccende domestiche e amministrative/legali, siamo certamente di fronte a un tentativo di allargare il ventaglio delle prestazioni offerte dalle aziende. Siamo tuttavia ben lungi dal corrispondere alle aspettative dei dipendenti come chiaramente emerge dai dati a nostra disposizione. Eccezion fatta per la flessibilità rispetto agli orari di lavoro (e senza considerare facilitazioni più tradizionali ma anche più comuni come i buoni pasto) il gap tra domanda e offerta è significativamente ampio. Basti pensare che i dipendenti che domandano il telelavoro sono più del 50%, mentre ad offrirlo sono meno del 20% delle aziende. Stessa cosa per i servizi all’infanzia e per la non autosufficienza (questi ultimi scarsamente presenti): a domandare questi ultimi sono quasi un dipendente su due, mentre a offrirli meno di un datore di lavoro su dieci. In questa discrasia tra domanda e offerta emerge una delle criticità principali del welfare aziendale. Ma sono anche altri gli aspetti critici di questo sviluppo. Al di là della sua dotazione complessiva il welfare aziendale appare caratterizzato da dualismi tali da non rendere omogeneo il quadro delle prestazioni anche nei modi di concepirne le funzioni strategiche e i nessi che ne possono derivare dalla integrazione con altri tipi di dispostivi contrattati fuori delle aziende. Siamo da questo punto di vista a pieno titolo dentro una prospettiva di ripresa delle tendenze dualistiche nel mercato del lavoro che ha effetti diretti sulle forme e sulle modalità di integrazione tra welfare e relazioni industriali. Tanto più in un paese come l’Italia storicamente attraversato da molteplici fratture su base categoriale e professionale, tra aree geografiche, tra lavoratori tradizionalmente più garantiti e outsider, soprattutto giovani, su cui negli ultimi anni si sono scaricati gli effetti più negativi dell’aumento di flessibilità nel mercato del lavoro, senza una riforma organica degli ammortizzatori sociali, né dispositivi dedicati di sostegno del reddito per chi rimane fuori delle tutele ordinarie o è escluso dal mercato del lavoro. Pur tuttavia è in questo quadro che l’ampia varietà dei dispositivi contrattuali e aziendali tendono oggi a integrare, in alcuni casi riempire, gli spazi vuoti lasciati dall’intervento pubblico, pur al netto dei dualismi che essi stessi determinano. Il primo di questi dualismi che emerge dall’analisi riguarda il sistema di servizi nelle grandi e nelle piccole imprese. Se nelle prime, in particolare quelle localizzate nel Nord-Ovest, il welfare aziendale tende a comporsi di un ventaglio relativamente più ampio di interventi, compresa una presenza non trascurabile di dispositivi aziendali per la non autosufficienza, nelle piccole esso assume connotazioni strutturalmente diverse. In questo caso il sistema che emerge si connota per la prevalenza di forme integrative di premialità che appaiono funzionali prima di tutto alla gestione dei cicli (e dei picchi) produttivi (da qui l’alta incidenza delle agevolazioni sull’orario di lavoro) e al conseguentemente mantenimento delle risorse umane più strategiche. Non appare certo un caso che questo emerga in particolare per le regioni del Nord-Est, in cui più forte e radicata è la presenza di sistemi di piccola impresa, tradizionalmente esposti a forti picchi di flessibilità nella gestione dei cicli produttivi. In questa stretta sinergia tra welfare aziendale e ciclo produttivo, le componenti della domanda di lavoro non sono estranee. Certo l’impulso dato dalla legislazione è un fatto che incide sulla profittabilità o meno di certi dispositivi aziendali. Pur tuttavia la loro configurazione e soprattutto le funzioni che gli vengono demandate non agiscono indipendentemente dai condizionamenti riconducibili alle strutture produttive, così come alle influenze dei contesti istituzionali, in particolare locali, compresi quelli che possono venire dalla concertazione sociale. C’è semmai un rapporto di reciproco rimando tra queste determinanti, con effetti a nostro parere
decisivi rispetto alla scelta dei servizi e delle agevolazioni introdotte. E’ in un quadro di questo genere che va colto del resto quello scambio tra produttività e moderazione salariale, mediata però da servizi integrativi e agevolazioni, specialmente per quello che riguarda la flessibilità negli orari e la conciliazione vita-lavoro, che tende a riguardare soprattutto i territori a economia diffusa. Recuperi di produttività, flessibilità nell’organizzazione e nei tempi di lavoro ma anche moderazione salariale e premialità nei confronti delle risorse umane strategiche ai fini della produzione, fanno da cornice al tipo di welfare aziendale che tende a emergere nei sistemi di piccola impresa. Molto diverso è di contro il sistema di welfare aziendale delle grandi imprese. In primo luogo per via di pacchetti di servizi assai più strutturati. E questo era lecito da aspettarsi. In secondo luogo per la presenza, già in partenza, di economie di scala che solo le grandi dimensioni sembrano consentire di raggiungere quando si tratta garantire condizioni di vantaggio, per esempio nella stipula di assicurazioni sanitarie, o servizi integrativi per il tramite di broker o agenzie specializzate esterne. Il dato più interessante è tuttavia un altro. E cioè il fatto che questa più ampia dotazione di prestazioni è mediata da un orientamento gerarchico, finalizzato soprattutto a riconoscere differenze tra dipendenti apicali, a cui vanno i maggiori vantaggi delle provvidenze integrative, e gruppi collocati più in basso nelle strategie aziendali. Da questo punto di vista se le piccole imprese sfruttano il welfare aziendale secondo un approccio premiale, in larga parte tarato sulla gestione dei cicli produttivi, nelle grandi emerge un orientamento più strettamente corporativo e premiale semmai delle fasce alte della gerarchia aziendale. Questo tratto corporativo ma con sue proprie specificità ha una attinenza rispetto ad una ulteriore differenziazione territoriale che riguarda nello specifico le regioni meridionali. Il welfare aziendale nelle regioni del Sud è molto meno presente rispetto a tutti gli altri raggruppamenti territoriali. Ma è anche meno richiesto dai dipendenti delle aziende. Il Mezzogiorno si discosta significativamente dalle altre ripartizioni territoriali non solo in termini di offerta, ma anche rispetto all'utilità percepita dai dipendenti e al senso che le aziende gli attribuiscono. Indipendentemente dalle dimensioni, le aziende del Sud sembrano considerare anzitutto il welfare aziendale come mezzo privilegiato per contrastare la conflittualità nelle imprese e diminuire l'assenteismo, con in più però la distribuzione di benefit a tutto vantaggio dei lavoratori apicali e della dirigenza. Non è forse un caso che la sua desiderabilità in generale appaia bassa, preferendo dove possibile la monetizzazione delle integrazioni. La dotazione di strutture di servizi esterni alle imprese meno strutturate, compresa anche la scarsa presenza di soggetti esterni nelle funzioni di broker per l’accesso alle prestazioni accreditate dai plafond aziendali è certamente un elemento da non trascurare in questo senso. Vi è però da considerare anche una differenza in termini di capacity building delle istituzioni locali alla stregua di facilitatori e produttori di servizi in partnership con i provider territoriali. La prospettiva di un aumento delle disuguaglianze territoriali tra Nord e Sud è un effetto tangibile dei processi che vanno interessando il welfare aziendale e a ben vedere anche quello contrattato al di fuori delle aziende nella costruzione di piani locali di welfare integrativi. D’altra parte la possibile diffusione di incastri distorti o strumentali tra welfare pubblico e welfare aziendale può incrementare questa distanza, tutta a svantaggio dei territori meno organizzati, con il rischio di cumulare due svantaggi: uno derivato dalla scarsa presenza del welfare esterno alle aziende, pubblico e pubblico-privato, l’altro da meccanismi isomorfici che riproducono modelli strumentali di welfare aziendale. Da questo punto di vista anche le logiche di imitazione tra aziende non sempre inducono effetti positivi. Possono indurre anche effetti negativi, poiché l'uso strumentale del welfare aziendale come erogazione di privilegi ad personam, ha insito il rischio di promuovere logiche clientelari dentro l'azienda stessa, con l'esito di indebolire la valenza collettiva, seppure selettiva,di questi strumenti. Sulla base di quanto detto ci possiamo domandare in conclusione se e quali siano le variabili indipendenti che incidono sulla diffusione del welfare aziendale. Una variabile determinante, legata alla struttura produttiva, appare senza dubbio la dimensione aziendale. Tra grandi e piccole imprese sono diversi non solo i pacchetti di servizi ma più in generale le condizioni e gli strumenti, così
come le procedure attraverso cui si provvede alla dotazione del welfare aziendale. Accanto a questo, tuttavia, non meno decisiva appare la collocazione territoriale. A ben guardare sono infatti tre i profili di welfare aziendale a emergere: quello tipico della piccola impresa dei territori a economia diffusa, votato alla flessibilità e ad agevolazioni sugli orari di lavoro ma anche alla conciliazione vita-lavoro (vista tuttavia come mezzo attraverso cui incidere sulla produttività del lavoro, in particolare delle risorse umane più strategiche); quello della grande impresa del Nord- Ovest, di cui abbiamo già detto e che qui possiamo sintetizzare in un modello di welfare aziendale più dotato di prestazioni da un lato, ma anche più gerarchico e corporativo dall’altro; infine il welfare aziendale del Mezzogiorno. Nella misura in cui è presente (e lo è molto di meno rispetto agli altri raggruppamenti territoriali) questo tipo di welfare aziendale si caratterizza per un sorta di combinato disposto tra esigenze legate alla gestione della conflittualità interna e una distribuzione gerarchica e particolaristica dei benefit a vantaggio del vertice aziendale. Rimane in parte inevasa, come già rimarcato, una questione su cui ulteriori approfondimenti futuri potranno offrire spunti interessanti, ovvero quanto e come il welfare aziendale è mediato dalle parti sociali. E in che misura queste pratiche siano non solo esportabili ma anche generalizzabili, nel senso di avere una rappresentatività superiore a quella ipotizzabile sulla base di singoli studi di caso, territoriali o aziendali. Riferimenti bibliografici AAVV 2010, Primo rapporto sulla contrattazione sociale territoriale, Rapporto AAVV 2011, Secondo rapporto sulla contrattazione sociale territoriale, Rapporto AAVV 2012, Terzo rapporto sulla contrattazione sociale territoriale, Rapporto Bellardi L., 1989, Istituzioni bilaterali e contrattazione collettiva. Il settore edile (1945-1988), Franco Angeli, Milano Burroni L., Carrieri M., 2011, Bargaining for social rights. (BARSORI) country report Italy Burroni L., Pedaci M., 2014, Collective Bargaining, Atypical Employment and Welfare Provisions: The Case of Temporary Agency Work in Italy, Stato e Mercato, Forthcoming Carrieri M. Treu T., a cura di, Verso nuove relazioni industriali, Il Mulino, Bologna, 2013 Ciarini A., 2008, Sindacato (and) welfare, La Rivista delle Politiche Sociali, n. pp. 233-257 Ciuffetti A., 2012, L’azione sociale d’impresa nella storia dell’Italia contemporanea, La Rivista delle Politiche Sociali, n. 3 Emmenegger P., Häusermann S., Palier B., Seeleib-Kaise M., 2012, The Age of Dualization: The Changing Face of Inequality in Deindustrializing Societies, Oxford University Press, Oxford Esping-Anderse G., 1990, The three worlds of welfare capitalism, Oxford, Oxford University Prress Ferrera M., 2005, The boundaries of welfare. European Integration and the New Spatial Politics of Social Protection, Oxford, Oxford University Press Ferrera M. e Maino F., 2013, Primo Rapporto Sul Secondo Welfare In Italia Ferrera M. e Maino F., 2012, Quali prospettive per il Secondo Welfare? in M. Bray e M. Granata (a cura di), L’economia sociale: una risposta alla crisi, Roma, Solaris, pp. 125-134 Gori, C., 2012, L’alternative al pubblico?, Franco Angeli, Milano Gualmini E., Rizza R., 2011, Attivazione, occupabilità e nuovi orientamenti nelle politiche del lavoro.: il caso italiano e tedesco a confronto, Stato e Mercato, n. 2, pp. 195-221 Kazepov, Y., 2009, La Dimensione Territoriale Delle Politiche Sociali In Italia, Roma, Carocci Kazepov Y., Barberis E., 2013, a cura di, Welfare frammentato, Roma, Carocci Keating, M. 1997, The Invention of Regions: Political Restructuring and Territorial Government in Western Europe. Environment and Planning, vol. 15, n. 4, pp. 383-398 Keating, M. 2009. Social Citizenship, Solidarity and Welfare in Regionalized and Plurinational States, Citizenship Studies , vol. 13, n. 5, pp. 501- 513.
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