Helga Schneider: la storia mancata di una madre e di una figlia

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Helga Schneider: la storia mancata di
          una madre e di una figlia
                                                   di

                                           Chiara Stella*

    Abstract: The story of Helga Schneider, an open-minded German woman born in Silesia in
    1937, is one of the most original points of view about the tragedy of the Shoah. In fact, it is
    not just the storytelling of a woman who survived the deportation, but a unique perspective
    from a “child of the Shoah”. Even if she did not experience or directly see the horror of
    concentration camps, Helga Schneider became in some way an “indirect daughter” mostly for
    her mother’s role, who in Birkenau was appreciated and esteemed as one of the most efficient
    guardians of the camp, like a modern career woman. It was 6th October 1998, when, in a hotel
    room in Vienna, Helga was preparing to visit her mother, who was very ill. It was twenty-
    seven years since they had last met. What kind of feelings can a daughter have for a mother
    who refused her duty as a parent to join Heinrich Himmler’s organization? The ambiguity
    between resentment against that “willing executioner” and love, felt for the woman who was,
    after all, always her mother, represents – still today – one of the most precious elements of her
    experience.

                    Bene, bisogna dire la verità, dapprincipio Momik pensava che Bella
                    intendesse parlare davvero di un mostro immaginario o di un dinosauro
                    gigantesco che esisteva una volta e tutti ne avevano paura. Ma non aveva
                    avuto tanto coraggio di chiederle chi e che cosa […]. Bella gli aveva risposto
                    con un tono aspro, che ci son certe cose che grazie a Dio un ragazzo di nove
                    anni ancora non è obbligato a saperle, e con mano nervosa gli aveva aperto
                    come al solito il bottone del colletto della camicia, e gli aveva detto che si
                    sentiva soffocare al solo vederlo in quel modo, ma Momik aveva deciso di
                    insistere, e le aveva chiesto che razza di bestia fosse la Belva nazista […]. E
                    Bella aveva tirato una lunga boccata di fumo dalla sua sigaretta, e poi l’aveva
                    spiaccicata forte forte nel posacenere, e l’aveva guardato, e poi aveva storto le
                    labbra, e non voleva dir nulla, però le era sfuggito di bocca, e aveva detto che

*
  Chiara Stella si è laureata nel giugno 2012 in Scienze filosofiche presso la Facoltà di Lettere e
Filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, con una tesi in Storia del pensiero etico-religioso
intitolata “Perdere Dio per ritrovarlo in se stessi. Uno sguardo interiore sulla Shoah”. I suoi interessi
di ricerca si concentrano su alcuni temi decisivi del dibattito filosofico moderno e contemporaneo,
quali i diritti umani, il problema del male, il rapporto tra etica e religione e i legami tra letteratura,
storia e filosofia. I suoi studi si dedicano inoltre ai temi del razzismo e della violenza contro l’altro,
con particolare attenzione al ruolo rivestito dalle ideologie politiche e religiose nei fenomeni di
intolleranza verso il “diverso”.

© DEP                                                                             ISSN 1824 - 4483
Chiara Stella                                                                        DEP n. 21 / 2013

                   la Belva nazista in fondo poteva venir fuori da qualunque bestiaccia, se solo
                   l’avessero allevata in modo adatto e col mangiare adatto1.

    La voce a cui appartengono queste parole è quella del protagonista e narratore
di un romanzo di David Grossman, Vedi alla voce amore. Il piccolo Momik, figlio
di deportati, sente continuamente parlare della Shoah in modo allusivo e oscuro e,
proprio interrogandosi sul mistero dei numeri tatuati sulla pelle dei genitori, inizia
a credere che la “Belva nazista” sia realmente un animale misterioso e senza
dubbio feroce e terribile almeno quanto i mostri di cui si narra nelle favole. Per
avvicinarsi alla verità, Momik dovrà crescere, diventare scrittore e seguire le tracce
del nonno in Polonia, là dove la storia divenne Sacra “con tutta la violenza, la
terribilità, talvolta la maledizione del Sacro, quando esso non è il semplice e
spontaneo rispetto per tutto ciò che vive, bensì l’irrompere di una forza
devastante”. Ma le “belve naziste” di cui parla il giovane – ossia i guardiani di
Auschwitz, i diligenti esecutori di ordini disumani, coloro che “non sapevano
perché volevano non sapere”2 – erano davvero soltanto “creature terribili”? Che
cosa accade quando virtù umane quali la fedeltà, la disciplina e l’obbedienza non
vengono più finalizzate al bene e alla giustizia, bensì subordinate alle idee e alla
volontà di un partito o di un capo carismatico? Domande come queste mi hanno
portata a scoprire e a conoscere – attraverso i fili che legano l’immensa letteratura
sulla Shoah – l’originale voce di Helga Schneider, una delle testimoni più notevoli
del Novecento, che scorse con i suoi stessi occhi la fine di quel Terzo Reich che si
annunciava come “millenario”.
    Di origini tedesche, la Schneider, che vive in Italia dal 1963, ha pubblicato
molte delle sue opere proprio in lingua italiana. Tuttavia, il racconto della sua
esperienza si rivela qui significativo e fondamentale per il fatto che, oggi, esiste
ancora pochissima letteratura critica riguardo alla sua vicenda. Sia nella produzione
in lingua italiana, che in quella tedesca, risultano infatti ancora troppo modesti
l’interesse e l’attenzione verso questa scrittrice, che meriterebbe, invece, un ruolo
di primario rilievo nel panorama letterario, storico e filosofico della nostra epoca.
    Quali sono, dunque, le tracce più importanti lasciate dalla sua storia?
    Innanzitutto, come il piccolo Momik, anche la Schneider sente parlare dei
campi di concentramento già durante la sua infanzia, a soli quattro anni. Una notte
dell’inverno 1945, dopo che Helga e il fratellino Peter vennero portati, insieme ad
altri “piccoli ospiti del Führer”, nel bunker della Cancelleria, la piccola avverte le
chiacchiere di due madri, che parlano poco lontano a bassa voce, quasi in un
sussurro:
    “Mio marito costruisce rifugi. Ma prima della guerra si occupava di cose molti più
    interessanti”. “Costruire rifugi mi sembra un ottimo mestiere di questi tempi, – osserva la Von
    Ahorn con una buona dose di cinismo”. “Bèh… è vero”. Nuova pausa. “Mio marito invece è
    un dirigente al campo di Dachau” – dichiara poi la Von Ahorn dandosi un certo tono.
    “Davvero? Ci sono anche ebrei in quel posto?”. “No, quelli li mettono in campi speciali”.

1
  David Grossman, 'Ayen’ Erekh: Ahavà, Picador USA Edition, New York 1986; trad. it. di Gaio
Sciloni, Id., Vedi alla voce amore, Mondadori, Milano 1988, pp. 18-19.
2
  Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1958, p. 161.

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      “Ah, speciali… Immagino. Ma speciali in che senso?”. “Campi di sterminio” – bisbiglia
      l’altra. “Intende che là… voglio dire… che là gli ebrei vengono…” “Fino all’ultimo.
      D’altronde, mi dica lei, cos’altro si dovrebbe fare con quella gente? Si doveva pur venire a
      capo di questa incresciosa questione, non le pare?” “Sì sì, ha ragione. Questi ebrei si annidano
      nel pelo degli animali di razza”. La Von Ahorn fa un risolino sarcastico: “Ben detto, ha reso
      perfettamente l’idea”. Poi la Brunning domanda, cauta: “Senta, Frau Von Ahorn, vorrei che
      mi dicesse una cosa. Sa, mio marito di certi argomenti con me non vuole parlare. Vorrei
      sapere con quale metodo… con quale metodo li si…” “Col gas… Poi li bruciano nei
      crematori”. “Dice sul serio?” […]. “Non li si poteva mica eliminare a uno a uno, magari con
      un colpo di fucile alla nuca” – dichiara l’altra –. In questo modo non si sarebbe finito
      nemmeno fra dieci anni. Si rende conto, no?”3.

    Il punto di vista della Schneider è quindi fondamentale perché si presenta, per la
prima volta, come interno alla stessa popolazione tedesca. La sua riflessione, lucida
e imparziale, ricorda al lettore che tutti quanti, indistintamente, erano a conoscenza
di quanto stesse accadendo agli ebrei. Le quotidiane manifestazioni di
antisemitismo e i feroci atteggiamenti di rifiuto verso la popolazione e la cultura
ebraiche – su cui spesso ritornano i racconti dei sopravvissuti ebrei ai campi –
ritrovano così una dimostrazione evidente persino da parte di una donna di origini
tedesche che pure aveva sempre amato Berlino e la sua gente. L’odio verso gli
ebrei, ricorda infatti la Schneider, non era una componente, per così dire,
“accessoria” del verbo nazista, bensì si costituiva come il vero e proprio
fondamento mistico della sua ideologia e questo la maggioranza dei tedeschi lo
sapeva. A ragione, Primo Levi insisteva molto sull’importanza, per ogni essere
umano, di conservare la propria capacità critica. Si tratta, insomma, di essere
diffidenti contro coloro che, anche oggi, cercano di persuaderci, a tutti i costi, con
strumenti diversi dalla ragione.
    Secondariamente, l’esperienza di questa donna diviene essenziale per
comprendere quella stessa banalità del male di cui parlava Hannah Arendt. I
volenterosi carnefici di Hitler erano realmente dei mostri? Oppure, come David
Grossman fa dire al piccolo Momik, “la Belva nazista in fondo poteva venir fuori
da qualunque bestiaccia, se solo l’avessero allevata in modo adatto e col mangiare
adatto”? Ebbene, questa donna, nell’ambito di una vasta operazione di propaganda
– volta a dimostrare che il Reich si occupava sempre e amorevolmente “dei suoi
figli ariani” – incontrò, all’interno di quel cubo di cemento armato posto a ben otto
metri di profondità sotto il giardino della Cancelleria, colui che veniva presentato
come “il grande Führer della Germania”, il capo di uno degli Stati più importanti
del mondo:
      Il mio ricordo del Führer è limpido, indelebile. Un uomo che dimostrava molti più anni dei
      cinquantasei che aveva allora, dalla testa tremolante e dal fisico distrutto. Così diverso da
      come lo descrisse Joseph Goebbels il 20 dicembre 1944 sul suo diario: “Sono molto felice che
      il Führer si senta in così formidabili condizioni fisiche e psichiche”. […] Così si ritorna al
      dormitorio. Dopo un lungo silenzio in cui ognuno cerca di affrancarsi dalla tensione, comincia
      un chiacchierio confuso; tutti vogliono esprimere le sensazioni provate durante l’incontro con
      Adolf Hitler. Nessuno però osa esternare di aver visto una specie di fantasma che sembra
      sopravvivere a fatica alla sua stessa ombra4.

3
    Helga Schneider, Io, piccola ospite del Führer, Einaudi, Torino 2006, pp. 86-87.
4
    Ivi, p. 120.

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    Hitler, Höss o Stangl si consideravano degli uomini d’onore, dei politici leali,
persino dei “bravi padri di famiglia”, come si definì Eichmann al processo. Erano
individui “banali”, non soltanto perché la stretta di mano del Führer, come racconta
la piccola Helga, era “calda e sudaticcia”5, ma anche perché questi volenterosi
esecutori di azioni disumane non si sentivano orribili “belve” e, tantomeno,
venivano considerati tali. Adolf Eichmann, immediatamente prima della condanna
a morte, dichiarò: “Io non sono il mostro che si è voluto fare di me. Io sono vittima
di un equivoco”6. È questo un semplice esempio di “malafede”, connaturata al
criminale nazista, o viceversa, come affermano la Arendt e la Schneider, si
dovrebbe pensare a una stupefacente disposizione alla menzogna, che era
l’atmosfera generale, e generalmente accettata, del Terzo Reich?
    Il pensiero della Schneider conserva infine un rilievo essenziale per il rapporto
che la scrittrice instaura con la figura della madre. Nel racconto di questa “storia
mancata”, la scrittura di Helga si fonde con gli spazi più inconciliabili e oscuri
della sua interiorità, turbata e divisa da una contraddizione straordinaria: da un lato,
la condanna etica delle azioni di quella donna – che fu una stimata e fedele
guardiana nel campo di concentramento di Birkenau – e dall’altro, l’affetto per
colei che resta pur sempre sua madre.
    Quando la porta si aprì, vidi una donna che mi somigliava in modo impressionante.
    L’abbracciai piangendo, sopraffatta da un’incredula felicità e pronta a comprendere, a
    perdonare, a mettere una pietra sul passato. Lei iniziò subito a parlare, a parlare di sé.
    Raccontava. Molti anni addietro l’avevano arrestata nel campo di concentramento di
    Birkenau. Vestiva un’impeccabile uniforme “che le stava così bene”. Non erano ancora
    passati venti minuti che già apriva un maledetto armadio per mostrarmi, nostalgica, quella
    stessa uniforme. “Perché non te la provi? Mi piacerebbe vedertela addosso”. Non la provai,
    ero confusa e turbata. Ma ciò che disse subito dopo fu anche più grave dell’aver rinnegato il
    proprio ruolo di madre. “Sono stata condannata dal Tribunale di Norimberga a sei anni di
    carcere come criminale di guerra, ma ormai non ha più nessuna importanza. Col nazismo ero
    qualcuno, dopo non sono stata più niente”7.

    In un continuo dialogo interiore, Helga si chiede dunque se sia possibile
armonizzare questi aut-aut che sembrano apparentemente inconciliabili –
l’estraneità nei confronti di questa donna e al contempo il richiamo “originario”
verso di lei. “Sei stata davvero un’irriducibile nazista, madre, o hai detto tutte
quelle cose orrende per aiutarmi a odiarti?”8.
    Questo saggio è offerto come contributo alla necessaria riflessione su alcune
questioni che, ancora oggi, rendono la Shoah sempre latente e dunque onnipresente
nella percezione della storia; a questo fine, la conoscenza e la comprensione della
vita e del pensiero di Helga Schneider risultano essenziali e imprescindibili.

5
  Ivi, p. 117.
6
   Hannah Arendt, Eichmann in Jerusalem, Viking Penguin, New York 1963; trad. it. di Piero
Bernardini, Id., La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964, p. 255.
7
  Helga Schneider, Il rogo di Berlino, Adelphi, Milano 1995, pp. 9-10.
8
  Eadem, Lasciami andare madre, Adelphi, Milano 2001, p. 129.

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Chiara Stella                                                                           DEP n. 21 / 2013

    Gli occhi di una bambina di fronte all’agonia del Reich

    Voglio andare sui trampoli e rimestare nei pentoloni dove bolle la marmellata. Voglio un
    cielo azzurro, non attraversato dagli uccelli neri. Voglio respirare un’aria che non sappia di
    cadaveri e notti che non esplodono sopra la mia testa. Voglio un Dio che fermi la guerra!
    (Helga Schneider, Il rogo di Berlino.)

    La forza delle testimonianze della Shoah non si esaurisce in una semplice
narrazione di fatti realmente accaduti. A questo scopo basterebbe il semplice
riferimento alle prove documentarie, che limitandosi a una ricostruzione storica e
cronologica degli eventi, lasciano da parte il valore al contempo particolare e
universale di un’esperienza vissuta.
    Diversamente dal semplice resoconto storico, la voce della testimonianza allude
a qualcosa di ulteriore, a ciò che potremmo definire come mondi altri. Le parole di
colui che racconta, restituendo realtà al passato e contestualizzandolo, gli
permettono di divenire “uno di noi”, annullando così implicitamente quei fattori di
invisibilità, separazione e indifferenza che contribuirono alla Shoah. A incarnare
più di ogni altro questa autentica mediazione di storia e vita – tra ciò che viene
descritto nei libri e l’umanizzazione di quegli stessi eventi – è la vicenda di una
donna tedesca, tuttora vivente, che ha visto con i suoi stessi occhi gli ultimi sospiri
agonizzanti del Terzo Reich: si tratta di Helga Schneider.
    Nata in Slesia il 17 novembre del 1937, Helga trascorse i primi anni della sua
vita a Berlino, allora autentica roccaforte di Hitler e dei suoi collaboratori. Da
subito, la famiglia di Helga si rivelò poco attenta e premurosa per una bambina di
quell’età. Il padre di origini austriache – che appariva spesso “chiuso, lontano”
tanto da metterle “soggezione”9 – fu costretto a partire per il fronte, dopo che
l’Austria era stata annessa alla Germania nel 1938. Helga racconta che la guerra
rappresentò per lui un obbligo pesante da assolvere, dato il suo totale disinteresse
per la causa “del Führer e del Vaterland”. Ma fu in particolare la madre di Helga a
incarnare qualcosa di sconcertante, non il tradizionale punto di riferimento
dell’infanzia di una bambina, ma quasi una “radice” di vita gravosa da conservare.
Il ritratto di questa donna – che Helga rivedrà solo molti anni dopo e il cui nome di
nascita non è mai citato nei suoi libri – è forse più espressivo di qualsiasi tentativo
di descrizione:
    Mia madre era una signora bionda che gridava “Sieg Heil” quando Adolf Hitler si esibiva nei
    suoi comizi. Talvolta portava anche me, e un giorno mi smarrì tra la folla, ritrovandomi solo
    quando la piazza si fu svuotata. Mia nonna me lo raccontava molto spesso, caricando le parole
    di tutto l’odio che nutriva per quella nuora. Dopo la nascita di mio fratello Peter, mia madre
    scoprì di aver sbagliato carriera. Ben presto si convinse che servire la causa del Führer fosse
    più onorevole dell’allevare i propri figli; così ci abbandonò entrambi in un appartamento di
    Berlin-Niederschönhausen e si arruolò nelle SS10.

   Ebbene nel 1941 la piccola Helga, di soli quattro anni, insieme al fratello Peter,
che aveva poco più di un anno e mezzo, vennero affidati alla zia, fino a che la
nonna paterna si precipitò dalla Polonia per dedicarsi ai due bambini. La donna,
9
  Eadem, Il rogo di Berlino, cit., p. 14; l’autrice risiede a Bologna dal 1963 e ha pubblicato tutti i suoi
libri in italiano.
10
   Ivi, p. 11.

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che arrivò “col suo odore di pollaio e di biscotti ai semi di anice”11, aveva le idee
chiare sul futuro dei nipoti, tanto che si stabilì subito con loro nell’appartamento di
Niederschönhausen in attesa di nuovi sviluppi. La nonna, fermamente contraria al
nazismo e dunque anche alle “fisime da SS”12 della nuora, “cancellò ogni traccia di
mia madre – scrive Helga – come se la casa fosse stata infestata dalla peste. Ma
trovò il modo di rinnovarne ogni giorno il ricordo parlandone in termini irripetibili,
aggiungendo nuovo odio a vecchi rancori. Quella nuora, in realtà, non le era mai
piaciuta”13.
   La Schneider racconta così la sua esperienza cercando di far rivivere nel
presente il suo sguardo da bambina. La figura della nonna, affettuosamente severa,
tanto pratica quanto poetica allo stesso tempo – che “mi puniva senza indugi ogni
qualvolta dicevo le bugie”14 – ritorna alla sua mente negli stessi tratti semplici e
puri del mondo incantato dell’infanzia. Fu proprio lei a far conoscere per la prima
volta il significato della parola “amore” ai due bambini:
     A Niederschönhausen c’era un cortile acciottolato che si chiamava Böllerhof. La nonna ci
     accompagnava là a giocare. Tutti i bambini la adoravano perché era allegra. Possedeva una
     fervida fantasia e un certo fare fanciullesco. Si inventava sempre nuovi giochi, riuscendo a
     farci dimenticare la guerra almeno per un pò. Cantava in lingua polacca, e anche se non
     capivamo nulla continuavamo ad ascoltarla estasiati. In quel cortile spoglio cantava e ballava
     muovendosi con garbo, con una spontaneità innocente e popolana; tutti le volevano bene e io
     talvolta ne ero gelosa. Ma spesso, nel bel mezzo della sua esibizione, urlavano le sirene ed
     eravamo costretti a correre in cantina; così l’incantesimo si spezzava di colpo15.

    Uno dei dolori più grandi nella vita di Helga fu causato proprio dalla partenza
della nonna. Il padre della piccola infatti, tornato a Berlino per una breve licenza
all’inizio dell’estate del 1942, conobbe una giovane donna di nome Ursula, con cui
decise ben presto di risposarsi. Fu allora che la nonna dovette ritornare in Polonia.
Quando capì che non c’era più niente da fare, la donna “riempì la borsa da viaggio,
impugnò l’ombrello del nonno come una baionetta e ripartì, non senza aver giurato
che non avrebbe mai più voluto rivedere il figlio e tanto meno la nuora. Povera
nonna, aveva tanto sperato di poter essere lei ad allevarci. E forse le sarebbe
riuscito meglio di quanto riuscì poi alla nostra matrigna!”16.
    La nuova vita con questa “perfetta estranea” fu subito difficile. La donna
mostrava di accettare solo il piccolo Peter e inoltre, annota la Schneider,
     … alcuni atteggiamenti di Ursula mi sconcertavano. Se succedeva che sbagliassi, talvolta
     balbettavo: “Io pensavo che …”, ma lei mi interrompeva gridando. “Tu non devi pensare, tu
     devi solo ubbidire!’”. Mi raggelava. Ubbidire senza pensare: non potevo accettare un simile
     ordine da nessuno! Inoltre, non tollerava di essere contraddetta. E quando insistevo, mi
     puniva. La cieca sottomissione tedesca per lei era un valore assoluto17.

11
   Ivi, p. 12.
12
   Eadem, Lasciami andare madre, cit., p. 85.
13
   Eadem, Il rogo di Berlino, cit., p. 12.
14
   Ibidem.
15
   Ivi, p. 13.
16
   Ivi, p. 15.
17
   Ivi, p. 18.

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    Con il tempo il rapporto con la matrigna andò peggiorando sempre di più. La
percezione che la donna aveva della piccola Helga si era ridotta sin dall’inizio a
quella di un “corpo” estraneo alla famiglia, diverso, tanto che un giorno, mentre
stavano camminando insieme, “Ursula mi inferse un altro duro colpo. Per strada
avevamo incontrato alcune sue amiche che lavoravano in un ospedale militare, e lei
presentò tranquillamente Peter come suo figlio e me come la figliastra. Ciò mi
convinse definitivamente che […] io ero semplicemente un’appendice, e per di più
sgradita. Il messaggio era chiaro, l’avevo capito da tempo. Mi sentivo sola e
indesiderata, e avrei voluto morire”18. Poco dopo, con futili pretesti – come la
presunta irrequietezza della bambina e la convinzione che il suo comportamento
fosse legato in qualche modo a una “rara malattia” – la matrigna decise di far
internare la piccola Helga in un istituto, che avrebbe dovuto occuparsi della cura
dei cosiddetti “bambini problematici”.
    Ancora prima del 1939, il ministero degli Interni del Terzo Reich aveva dato
avvio alla realizzazione di strutture particolari, che miravano non tanto alla cura o
all’assistenza di pazienti con difficoltà – come la propaganda voleva far credere –
quanto alla vera e propria creazione del perfetto ariano. Questi istituti erano stati
ideati sia per quel vasto progetto di eutanasia che in pochi anni causò
l’eliminazione di più di diecimila persone – tra questi c’erano schizofrenici ed
epilettici, vagabondi senza fissa dimora, fanciulli con handicap, pazienti con
malattie psichiche o fisiche –, sia in vista della “correzione” di quei bambini
tedeschi che non erano desiderati dalle famiglie e ritenuti dunque “indegni” di
appartenere alla razza ariana in quanto subnormali, irrequieti, ciechi, sordomuti e
così via. “Quel luogo – ricorda la Schneider – si rivelò un inferno; tutto era
insopportabile. Era semplicemente un lager”19.
    L’ossessione che molti tedeschi avevano per il diverso non colpiva solamente
gli ebrei, gli omosessuali e gli zingari, ma anche tutti coloro che all’interno della
stessa razza tedesca venivano considerati come “Fremdkörper, un corpo estraneo
alla Germania”20. Come gli ebrei venivano identificati con i più svariati problemi o
disfunzioni sociali in uno stato di cecità e indifferenza totale, allo stesso modo il
presunto comportamento del bambino tedesco “problematico” veniva ridotto
“all’idea che questi fosse tutto ciò che non andava, e lo fosse intenzionalmente”21.
Ancora una volta, i maltrattamenti e le punizioni erano dunque giustificati facendo
leva sulla presunta “anormalità” delle vittime, in modo che l’assolutizzazione della
differenza, come scriveva Adorno, implicasse immediatamente la sua eliminazione.
     Si avvertiva un’atmosfera da ghetto. Per prima cosa mi raparono a zero, sostenendo che era
     per evitare i pidocchi. Poi mi fecero indossare una specie di divisa a piccole righe nere, simile
     a quella dei galeotti. Il vitto era scarso e di pessima qualità, il personale prepotente e
     gelidamente formale […]. Mi davano delle pillole che mi stordivano. Il regolamento era

18
   Ivi, p. 23.
19
    Ivi, p. 35. Su questo tema, cfr. Nicholas Stargardt, La guerra dei bambini. Infanzia e vita
quotidiana durante il nazismo, Modandori, Milano 2006, pp. 68-93.
20
    Daniel Jonah Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto,
Mondadori, Milano 1997, p. 61.
21
   Ibidem.

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     severissimo, e a ogni piccola infrazione ci punivano col digiuno, con le percosse o con la
     camera buia. Ma ciò che trovai davvero aberrante fu la cosiddetta “ora di socializzazione” a
     cui dovevamo sottometterci ogni giorno. Essa consisteva nello stipare in uno spazio ristretto
     le più diverse patologie lasciando che si scontrassero spontaneamente. Quando scoppiavano
     dei tafferugli, l’unica sorvegliante faceva finta di non vedere e non interveniva; in quell’ora
     vigeva la legge del più forte22.

   Ormai disperata e impotente di fronte alle continue crudeltà e alle percosse del
personale, la piccola Helga decise allora di utilizzare l’unica arma di cui una
bambina poteva disporre: lo sciopero della fame.
     Passavo le mie giornate in un torpore mortale e nei pochi momenti lucidi pensavo a mio padre
     e alla nonna. Ma una mattina vidi la matrigna davanti al mio letto. Aveva due occhi cattivi e
     mi disse: “Mi hanno chiamata per riportarti a casa, ti hanno giudicata un caso senza
     speranza!”. Rimasi in silenzio, anche perché ero molto debole. “Fare lo sciopero della fame”,
     disse la matrigna con disprezzo “che idea perfida! Dimostri sempre più di essere la degna
     figlia di tua madre!”23.

    Proprio questo suo sentirsi diversa pur essendo nata e cresciuta tra i “perfetti
ariani” – quella stessa diversità che la Germania nazista indicava come la propria
“zavorra di esistenze inutili” o come la cerchia dei “pesi morti del Reich”24 –
rappresenta uno dei punti più originali dell’esperienza della Schneider. Questo
isolamento e la profonda sensazione di solitudine che avevano accompagnato la
sua infanzia emergono in un intenso passo de Il rogo di Berlino, dove Helga
racconta che un giorno, per nascondersi dalla matrigna, aveva trovato rifugio in un
luogo tranquillo “circondato da alberi altissimi, e [dove] l’intreccio dei rami e
foglie mi nascondeva il cielo”:
     Cominciai a piangere con singhiozzi forti e dolenti. Piansi a lungo, e più il pianto mi scuoteva
     più si infiammava in me una stizza ribelle: perché nemmeno Dio mi amava? La nonna mi
     aveva insegnato a pregare, ma ormai era tutto inutile: Dio non mi stava a sentire! Continuava
     a punirmi. Prima mi aveva tolto mio padre, poi mia madre; infine anche la nonna. Perché non
     eravamo rimasti con la nonna? Lei ci amava, era equa e giusta. Perché dovevo stare con la
     matrigna? Lei non mi voleva bene! Mi faceva sentire indesiderata e mi rendeva insicura,
     ribelle e vendicativa. Cominciai a scalciare contro il tronco di un albero, ma in realtà
     scalciavo contro Dio. Quel Dio che non c’era! “Se ci sei”, pensai rabbiosa “dammi un segno,
     Dio!”. Mentre continuavo a infierire contro l’albero con furia cieca, vidi un gatto spuntare da
     sotto un cespuglio. Era grigio con striature bianche e aveva gli occhi gialli. Mi fissava attento.
     Alla fine si avvicinò e si strusciò contro le mie gambe con una dolcezza quieta e familiare.
     Quel contatto così solidale mi commosse fino a singhiozzare, ma questa volta di gratitudine.
     Mi illusi che fosse un segno di Dio, che Dio mi volesse consolare rassicurandomi sulla sua
     presenza25.

   A scuola, racconta la Schneider, non si parlava mai di Dio, ma piuttosto della
Provvidenza che aveva mandato Adolf Hitler per salvare la Germania e renderla di
nuovo potente agli occhi del mondo. Di Dio non si parlava nemmeno nella famiglia
della matrigna, malgrado fosse protestante. Al contrario la famiglia del padre di
Helga era di religione cattolica ed era stata appunto la nonna – così ferma e gentile
22
   Helga Schneider, Il rogo di Berlino, cit., pp. 35-36.
23
   Ivi, p. 38.
24
   Eadem, Il piccolo Adolf non aveva le ciglia, Einaudi, Torino 2007, pp. 66-67.
25
   Eadem, Il rogo di Berlino, cit., p. 24.

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allo stesso tempo – che aveva parlato a Helga e Peter di Dio. La sera i due bambini
pregavano spesso insieme alla nonna. Proprio lei continuava a ripetere che Dio
amava tutti gli uomini e che per questo non li avrebbe mai abbandonati. Tuttavia,
quando la nonna fece ritorno in Polonia e Helga dovette rimanere con quella
matrigna che non la faceva sentire né amata né desiderata, “mi accorsi di essere
sola e abbandonata da tutti, anche da Dio”.
    La ribellione della piccola Helga, che scalcia con forza contro l’indifferenza e il
silenzio del suo Dio, può essere illuminante e decisiva per capire una questione
fondamentale: “ma possiamo dire che Dio ha reso o non ha reso giustizia, che ha
esaudito o non ha esaudito le millenarie richieste di quelli che, confidando nella sua
parola, hanno gridato a lui giorno e notte, se non sappiamo che cosa Dio ha
promesso di darci?”26.
    La potente espressività del linguaggio semplice e puro di una bambina
sottolinea invero che la sostanza della promessa fatta da Dio non riguarda anzitutto
l’anima e lo spirito, come spesso si è portati a credere, bensì qualcosa di più
concreto, ciò che le stesse Scritture definiscono come la carne e la terra della
nostra esistenza: gli affetti familiari, l’amicizia dell’altro, la serenità quotidiana e
dunque tutti quei benefici che, pur nel loro carattere contingente e temporale,
permettono all’uomo di essere realmente felice. Ad Abramo il Signore promette
una posterità numerosa come le stelle (Gn 15, 5), ricca di “grandi beni” (Gn 15, 14)
e una vecchiaia felice (Gn 15, 15). Anche a Giacobbe Dio promette terra e
straordinaria fecondità (Gn 28, 13-14).
     Il fatto centrale su cui si fonda tutta la storia della rivelazione è la liberazione dalle sofferenze
     della schiavitù in Egitto, per entrare nella terra promessa, una terra dove “scorrono latte e
     miele” (Es 3, 8). Là “benedirà il tuo pane e la tua acqua, e allontanerà da te la malattia.
     Nessuna donna, nel tuo paese, abortirà e nessuna sarà sterile” (Es 23, 25-26). Questi annunci
     si leggono continuamente nella Torah, la legge data da Dio per mezzo di Mosè: “Osserva le
     sue leggi e i suoi comandamenti che oggi ti prescrivo, al fine di avere, tu e i tuoi figli, felicità
     e lunga vita sulla terra che Jahwè tuo Dio ti da per sempre”(Dt 4, 40)27.

    Come afferma Sergio Quinzio, sarebbe riduttivo dire che Dio innalza il popolo
dei suoi fedeli alle uniche verità spirituali, di cui i beni temporali sarebbero soltanto
“un simbolo”. In realtà lo stesso libro di Giobbe rappresenta l’evidente
dimostrazione della concretezza che dovrebbe caratterizzare la promessa fatta da
Dio; in quel libro “tutto il discorso è costruito sullo scandalo di una sofferenza, e di
una sofferenza che consiste anzitutto nella perdita dei beni, dei figli, della salute:
della shalom, la ‘pienezza di vita’, la sicura ‘pace’ in cui il fedele Giobbe viveva
prima che la disgrazia lo colpisse”28. Non a caso, dopo essersi inchinato al mistero
divino, Giobbe riceverà in più larga misura tutto ciò di cui aveva goduto nel tempo
felice: pecore, cammelli, buoi e asine; e Dio gli restituisce anche, cosa per noi
sconcertante, lo stesso numero di figli che aveva un tempo, e che erano morti.
    Solo in questo caso, quando si prende coscienza dell’oggetto della mancata
promessa di Dio – un oggetto dunque concreto e temporale – si può allora tentare
26
   Sergio Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992, pp. 15-16.
27
   Ivi, p. 17.
28
   Ibidem.

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di giudicare il suo operato, se egli abbia reso giustizia oppure no. Così la vicenda
della piccola Helga, proprio attraverso le semplici ma inaspettate domande che i
bambini sanno porre, consente di comprendere il senso autentico della protesta del
credente contro Dio, quel Dio che a volte sembra aver dimenticato la felicità e la
serenità che pure aveva promesso a tutti gli uomini.
     Se i poveri, gli umili, gli afflitti, gli affamati e gli assetati di giustizia, i misericordiosi, i
     perseguitati devono rallegrarsi, è perché stanno per essere consolati, stanno per ricevere la
     terra in eredità (Mt 5, 4), stanno per essere saziati in quel “regno dei cieli” che nei Vangeli è
     espressione intercambiabile con “regno di Dio”, ebraicamente evitata per pronunciare il
     Nome. Ma proprio dall’espressione “regno dei cieli”, e da pochissime altre affermazioni
     evangeliche che, in orizzonte ellenistico, potevano essere interpretate in modo analogo, sono
     sorti inveterati fraintendimenti. In realtà le “beatitudini” annunciate da Gesù ricalcano
     formule dei Salmi e di altre Scritture ebraiche (per esempio: “chi spera in Jahwè possederà la
     terra”, “gli umili possederanno la terra”, Sal 36, 9 e 11)29.

   Questo senso di sfiducia nei confronti degli uomini e di quel Dio che non le ha
reso “pronta giustizia”30 accompagnerà Helga per tutta la sua infanzia: “ero rimasta
così traumatizzata dall’istituto, che la vita con la matrigna mi sembrò un paradiso.
Feci di tutto per farmi accettare: ero gentile e remissiva, mi sforzavo di ubbidire
senza pensare, senza discutere, ma ancora una volta fu tutto inutile; lei non mi
voleva”31. Passato l’inverno del 1942, la bambina venne di nuovo allontanata.
Questa volta si trattava di un collegio rieducativo per bambini caratteriali che,
fortunatamente, si rivelò molto diverso dal primo; l’istituto si trovava in un estremo
sobborgo di Berlino, a Oranienburg-Eden. Ecco cosa ne ricorda la scrittrice:
     Ricordo il collegio di Eden con una sorta di calda gratitudine. Tranne che per le quotidiane
     sedute con la dottoressa Löbig [la psicologa del collegio], che si svolgevano in una mansarda
     dall’arredamento allegro, non ebbi mai l’impressione di trovarmi in una casa di correzione. Ci
     trattavano con fermezza affettuosa, e i nostri difetti si correggevano spontaneamente grazie
     all’inserimento in una comunità al cui progetto pedagogico tutti collaboravano. La
     responsabilizzazione, talvolta, può fare miracoli. Acquisivamo fiducia in noi stessi e
     smussavamo da soli gli angoli più spigolosi del nostro carattere. Avevamo un rapporto franco
     e leale con la direttrice, che era una convinta antinazista e non ne faceva mistero. Disprezzava
     Hitler per il suo fanatismo, il suo odio razziale, il suo folle antisemitismo32.

   Nell’autunno del 1944, Helga dovette però ritornare nuovamente a Berlino, a
causa dell’imperversare della guerra. L’isola felice di Eden – dove ciascuno
collaborava alla sopravvivenza di tutti senza che obbedire significasse
necessariamente non pensare – rappresentò per Helga uno dei periodi più felici
della sua vita. Rientrata a malincuore nella capitale, gli occhi della bambina
dovettero assistere subito a questo scenario: distruzione, fame, disperazione,
bombardamenti di giorno e di notte. “Quando urlano le sirene si corre in cantina;
una volta cessato l’allarme, si ritorna nelle case. È un continuo andare su e giù per
29
   Ivi, p. 22.
30
   Luca, 18, 8.
31
   Helga Schneider, Il rogo di Berlino, cit., p. 39.
32
   Ivi, p. 43.

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le scale, e all’affanno si aggiungono il costante terrore e lo sfinimento per la
fame”33.
    La splendida Berlino, roccaforte di quel Reich che si annunciava millenario, si
ridusse in poco tempo a una città fantasma. La popolazione, costretta “a
considerare l’igiene personale un lusso e un pasto caldo un concetto astratto”, era
quasi del tutto priva di luce elettrica, gas e acqua. “Alla stazione della S-Bahn –
annota la Schneider – dagli altoparlanti Goebbels farneticava di vittoria e
liberazione, mentre la gente, ferma a grappoli, ascoltava in silenzio senza
commentare. I volti erano tesi e tradivano uno scetticismo ormai stanco”34.
    La prima volta che vide la cantina della casa di famiglia, buia e piena di gente,
Helga ritrovò la matrigna e anche il nonno acquisito, uomo dagli occhi chiari e
buoni che anche in passato aveva dimostrato grande affetto nei suoi confronti. Quel
rifugio sotterraneo, che a causa dei bombardamenti si trasformò ben presto in una
vera e propria abitazione stabile, divenne uno strano ricettacolo di anime
diversissime tra loro:
     Dopo una magra cena la matrigna mi sistemò sulla parte superiore di un rudimentale letto a
     castello suggerendomi di dormire. Mi aveva chiesto poche cose del collegio, mi aveva detto
     poche cose della loro vita. Poco dopo si affacciò il nonno acquisito per darmi la buonanotte.
     “Mi piacerebbe che mi chiamassi Opa”, disse, gentile “io sono qui nel caso tu avessi bisogno
     di qualcosa. Cerca di riposare”. Ma io ero troppo scossa. Mi sentivo spaesata e infelice.
     Continuavo a guardarmi intorno, a guardare cose e persone, povere cose e povere persone in
     una tetra cantina illuminata da una sola lampada a petrolio che proiettava lugubri ombre sul
     muro. Una vecchia stava pregando avvolta in un assurdo vestito di taffetà nero. “La vuole
     smettere?” ruggì, cattivo, un uomo anziano, lanciando alla donna esasperati sguardi di
     rimprovero. Ma la vecchia rispose, tranquilla: “Farebbe bene anche a lei, Herr Hammer, a
     mettersi in comunicazione col Signore”. L’altro rispose sprezzante. “Un Dio che permette
     questa guerra non merita nessuna preghiera!”35.

    La lunga assenza di Helga dalla casa di famiglia aveva reso difficile anche il
rapporto con il fratellino della piccola, Peter. Influenzato dalla cieca sottomissione
tedesca della matrigna, il bambino si distaccò sempre di più dalla sorella, “come se
gli eventi, gravi e minacciosi, lo avessero prosciugato”36. La mancanza di calore e
la perdita di ogni istintivo affetto si intensificò in maniera ancora più marcata dopo
ciò che accadde una mattina del 1944:
     Allora abbandono una gelida sala per trasferirmi in una gelida cucina, dove Peter si sta
     esibendo davanti alla matrigna in uno dei suoi soliti spettacoli, che consistono nell’imitare in
     tono di buffa litania i discorsi di Goebbels, come se fossero filastrocche imparate in cortile:
     “… gliela faremo vedere a quegli istigatori imperialisti, a quella sottospecie umana dei
     bolscevichi… al nemico la sconfitta definitiva… occhi per occhio, dente per dente… la
     vittoria finale… Kameraden!”. Gli piace accompagnare la recita con gesti affettati, come
     usano fare certi politici megalomani, e rendere la voce bassa e subdolamente faziosa;
     naturalmente non manca l’urlo finale “Heil Hitler!”. Quanto è diverso dai bambini che ho
     conosciuto nel collegio di Eden! Terminato lo spettacolo la matrigna applaude divertita […],
     si compiace di Peter perché è riuscita a plasmarlo come avrebbe voluto fosse un figlio suo;

33
   Ivi, p. 57.
34
   Ivi, p. 39.
35
   Ivi, pp. 55-56.
36
   Ivi, p. 62.

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     probabilmente lui è il figlio che avrebbe desiderato, mentre io sono sicuramente la figlia che
     non avrebbe mai voluto avere. Ma io non posso perdonarle quello che ha fatto a mio fratello!
     Lo ha ammaestrato inculcandogli l’idea di una presunta razza superiore, di cui l’angioletto
     Peter si crede l’esemplare perfetto37.

   Il carattere peculiare dell’esperienza di questa bambina si manifesta così anche
nel suo costituirsi come punto di vista “interno” alla stessa popolazione tedesca.
Erano davvero stati quasi tutti ciechi, sordi e muti, come scrive Levi, di fronte alla
furia di Hitler e alla Shoah? Davvero tutti sapevano, ma si erano dimostrati “una
massa di ‘invalidi’ intorno a un nocciolo di feroci”38? Anche in questo caso si tratta
di capire, o meglio di capirli, “non il manipolo dei grandi colpevoli, ma loro, il
popolo. Quelli che avevo visti da vicino, quelli tra cui erano stati reclutati i militi
delle SS, e anche quegli altri, quelli che avevano creduto, che non credendo
avevano taciuto, che non avevano avuto il gracile coraggio di guardarci negli occhi,
di gettarci un pezzo di pane, di mormorare una parola umana”39. Ebbene la
Schneider, che ebbe la capacità di non conformarsi e di restare una “voce fuori dal
coro” sin da piccola, si esprime con queste parole:
     La nostra infanzia è stata infestata da una feroce propaganda antiebraica e quotidianamente
     abbiamo assistito al manifestarsi dell’antisemitismo. Fin da piccoli abbiamo visto le vetrine
     infrante dei negozi degli ebrei e le saracinesche imbrattate con la parola Jude. La gente la
     pronuncia con prudenza, con diffidenza, con imbarazzo o con timore, come se si riferisse a
     una malattia contagiosa; talvolta con un cieco disprezzo, frutto naturale di una propaganda
     secondo la quale “l’avvelenatore di tutti i popoli è il giudaismo internazionale”. Tutti
     sappiamo che gli ebrei debbono portare la stella giudaica appuntata sul petto, che Hitler ha
     fatto bruciare le sinagoghe, che agli ebrei è stato vietato farsi crescere la barba. Tutti
     indistintamente sanno che la Gestapo cerca ovunque gli ebrei per arrestarli e deportarli nei
     campi di concentramento e tutti sono stati ampiamente avvertiti che nascondere ebrei
     comporta la fucilazione, mentre denunciarli assicura dei vantaggi. La gente rinnega i parenti
     ebrei e tronca amicizie un tempo saldissime con persone anche solo lontanamente sospettate
     di essere di origine ebraica. Si sente persino parlare di figli che rinnegano i genitori o, peggio,
     che li denunciano alle autorità e, al contrario, di gente che ha rischiato la vita per proteggere o
     nascondere degli ebrei. Perché mio fratello non apre gli occhi?40.

    In questa quasi totale indifferenza della popolazione tedesca, restarono poche
tracce di civiltà e di solidarietà nei confronti degli oppressi. Eppure, Adolf Hitler
non era né un folle, né un ingannatore, né tanto meno “un bohémien vanitoso che
viene dalla strada”, come lo definì il presidente Hindenburg nel 1931. “Che alcuni
lo temano – aggiunse – ecco una cosa che veramente va al di là della mia
comprensione”41.
    Per un verso, soprattutto in Germania, era possibile che i tedeschi non fossero a
conoscenza di tutti i particolari che riguardavano i campi di concentramento;
l’ordine dei gerarchi di mantenere del tutto segrete le caratteristiche del sistema
terroristico – rendendo così l’angoscia della gente indeterminata e ancora più
37
   Ivi, p. 63.
38
   Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 138.
39
   Ibidem.
40
   Helga Schneider, Il rogo di Berlino, cit., p. 65.
41
    Stralcio di un discorso pronunciato dal Presidente del Reich, Hindenburg, in occasione di una
riunione con il generale Schleicher e il vescovo di Münster il 4 febbraio 1931.

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profonda – si rivelò molte volte efficace. Perfino molti funzionari della Gestapo
ignoravano cosa avvenisse all’interno dei Lager e la maggior parte degli stessi
prigionieri aveva un’idea assai imprecisa del funzionamento del loro campo e dei
metodi che vi venivano impiegati. Le notizie che trapelavano dai giornali erano
inoltre scarse e molte volte infondate, vista l’opera di censura e di falsificazione
operata dallo Stato autoritario42.
    D’altro canto, tuttavia, nella civile Europa quasi tutti sapevano, più o meno
diffusamente, anche soltanto dell’esistenza dei campi. Erano pochi coloro che non
avessero un conoscente o un parente in un Lager e inoltre i tedeschi avevano
assistito direttamente allo svilupparsi della barbarie antisemitica, come testimonia
la stessa Schneider riferendosi alla sua infanzia. Molti tedeschi avevano saputo
qualcosa dalle radio straniere e molti altri ancora, forse, avevano incontrato schiere
miserabili di detenuti che camminavano dalle stazioni ferroviarie verso i campi
sotto la dura sorveglianza di qualche SS. Quindi, a dispetto delle varie possibilità
d’informazione, gli uomini di allora, come nota Levi, “non sapevano perché non
volevano sapere, anzi, perché volevano non sapere”43. In questo modo, l’individuo
avrebbe potuto conquistare e difendere la sua ignoranza, in modo che proprio
quest’ultima gli permettesse di giustificarsi sufficientemente della sua adesione al
nazismo. “Chiudendosi la bocca, gli occhi e le orecchie, egli si costruiva l’illusione
di non essere a conoscenza, e quindi di non essere complice di quanto avveniva
davanti alla sua porta”44.
    Infatti nella prima metà del secolo appena passato è così avvenuto
incredibilmente qualcosa di paradossale, che un intero popolo civile abbia cioè
obbedito e osannato fino alla catastrofe un piccolo “istrione la cui figura oggi
muove al riso”45. È avvenuto davanti “ai miei occhi”, osserva la Schneider; quindi,
come scrive Levi, può accadere di nuovo. È forse poco probabile che si verifichino
daccapo e simultaneamente tutti i fattori che avevano scatenato la brutalità nazista.
Tuttavia, la violenza è ogni giorno “sotto i nostri occhi: serpeggia, in episodi
saltuari e privati o come illegalità di stato, in entrambi quelli che si sogliono
chiamare il primo e il secondo mondo, vale a dire nelle democrazie parlamentari e
42
   Sara Fantini, Notizie dalla Shoah. La stampa italiana nel 1945 (compendio), Proedi, Milano 2006,
p. 7. Solo qualche testata della stampa italiana riportava, già agli inizi del 1944, alcune informazioni
chiare riguardo a ciò che stava accadendo agli ebrei. Il 4 maggio l’Avanti! riporta la seguente notizia:
“I campi prima riservati ai prigionieri di guerra, durante i mesi dell’occupazione sono stati trasformati
dalla ferocia dei tedeschi e dalla rabbia fascista insieme congiunte in centri di deportazione per
detenuti politici, per gli elementi comunque pericolosi; soprattutto sono stati riempiti da centinaia di
italiani perseguitati braccati razziati perché israeliti”. O ancora, il 30 maggio dello stesso anno, dal
“Corriere dell’Emilia”: “Le rivelazioni dei delitti di guerra tedeschi continuano. La più grave è quella
comunicata dall’agenzia di informazioni polacca del Comitato di Lublino (governo polacco di
Polonia) secondo la quale circa 1.300.000 persone sono state assassinate dai tedeschi nel campo di
concentramento di Chelmno (distretto di Kolo)”.
43
   Primo Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 161. Su questo specifico problema si veda almeno Peter
Fritzsche, Vita e morte nel Terzo Reich, Laterza, Roma-Bari 2010 e Eric Johnson-Karl-Heinz
Reuband, La Germania sapeva. Terrore, genocidio, vita quotidiana: una storia orale, Mondadori,
Milano 2008.
44
   Ivi, p. 162.
45
   Idem, I sommersi e i salvati, cit., p. 164.

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nei paesi dell’area comunista”46. Proprio per questo la conoscenza e la memoria
dovrebbero rappresentare i valori fondamentali del nostro tempo. Esse incarnano
pur sempre una straordinaria garanzia di libertà per quegli uomini che, in ogni
epoca e in ogni luogo, abbiano il coraggio di ribellarsi a tutto ciò che dall’esterno
danneggia la loro volontà e i loro diritti.
    “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”47. Sapere e far sapere.
Questo era l’unico modo di prendere le distanze dal nazismo. Non a caso tutte le
dittature hanno cercato e cercano tuttora di alterare la memoria storica, di
distruggerla o anche di cancellarla del tutto.
     Nel mio scaffale – ricorda Levi –, accanto a Dante e Boccaccio, tengo il Mein Kampf, la “Mia
     battaglia” scritta da Adolf Hitler molti anni prima di arrivare al potere. Quell’uomo funesto
     non era un traditore. Era un fanatico coerente, dalle idee estremamente chiare: non le cambiò
     né le nascose mai. Chi aveva votato per lui aveva certamente votato per le sue idee. Nulla
     manca in quel libro: il sangue e il suolo, lo spazio vitale, l’ebreo come eterno nemico, i
     tedeschi che impersonano “la più alta umanità sulla terra”, gli altri paesi considerati
     apertamente come strumenti per il dominio tedesco. Non sono “belle parole”; forse Hitler ne
     disse anche altre, ma queste non le smentì mai48.

    Neppure è facile sostenere che l’antisemitismo fosse sconosciuto o impopolare
in Germania e nel resto d’Europa. “È dunque carico di conseguenze il fatto che –
come afferma Raul Hilberg – nel momento in cui Hitler giunse al potere,
l’immagine esistesse già, che i tratti del modello fossero già fissati. Quando Hitler
parlava degli ebrei, parlava ai tedeschi un linguaggio familiare”49.
    La stessa Schneider allude chiaramente al fatto che l’odio verso gli ebrei si
fosse costituito sin dall’inizio come il fondamento del verbo nazista; esso era anzi
“di natura mistica – come lo definisce Levi –, gli ebrei non potevano essere ‘il
popolo eletto da Dio’ dal momento che tali erano i tedeschi”50. L’odio per gli ebrei
non era marginale al nazismo: ne era il centro ideologico e questo la maggioranza
dei tedeschi lo sapeva:
     A Eden – scrive Helga – ho sentito dire cose orrende del Führer; la direttrice non aveva peli
     sulla lingua. Sosteneva che Hitler stava trascinando la Germania verso la catastrofe, che era
     un pazzo megalomane e un terribile razzista; che odiava i negri, i ballerini, i poeti, i preti e
     che faceva bruciare i libri degli scrittori ostili al nazismo. La direttrice diceva che Hitler
     perseguitava gli ebrei persino fuori dalla Germania, facendoli arrestare dalla Gestapo insieme
     ai loro bambini per deportarli nei campi di concentramento. Era successo anche a sua sorella.
     La donna, già vedova, era stata arrestata insieme alle sue due figlie, gemelle di nemmeno tre
     anni, e deportata in un campo di concentramento in Polonia, con l’accusa di aver inquinato la
     razza ariana sposando un ebreo51.

46
   Ivi, p. 164.
47
   Primo Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 175.
48
   Idem, I sommersi e i salvati, cit., pp. 146-147.
49
   Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei in Europa, vol. I, trad. it. di Frediano Sessi e Giuliana
Guastalla, Einaudi, Torino 1995, p. 13.
50
   Primo Levi, I sommersi e i salvati, cit., pp. 146-147.
51
   Helga Schneider, Il rogo di Berlino, cit., p. 60.

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Chiara Stella                                                                           DEP n. 21 / 2013

   Meditare sulla forza dei dittatori di plasmare le menti è un dovere di tutti.
Ciascuno deve sapere o ricordare che Hitler e Mussolini, quando parlavano in
pubblico, venivano creduti, ammirati, applauditi, adorati addirittura come degli dei.
     Erano “capi carismatici”, possedevano un segreto potere di seduzione che non procedeva
     dalla credibilità o dalla giustezza delle cose che dicevano, ma dal modo suggestivo con cui le
     dicevano, dalla loro eloquenza, dalla loro arte istrionica, forse istintiva, forse pazientemente
     esercitata e appresa. Le idee che proclamavano non erano sempre le stesse, e in generale erano
     aberranti, o sciocche, o crudeli; eppure vennero osannati, e seguiti fino alla morte da milioni
     di fedeli52.

   Questi fedeli, e fra questi anche i diligenti esecutori di ordini disumani, non
erano aguzzini nati, non erano, insomma, dei mostri: erano uomini qualunque.
Persino il Führer, secondo la Schneider, lo era. Fu proprio nel dicembre del 1944
che la piccola Helga lo incontrò: “un volto dal colorito grigiastro, che somiglia
davvero poco a quello dei tanti ritratti appesi nel bunker”53. La bambina vide così
in prima persona quello che la potentissima propaganda tedesca ritraeva come “il
grande Führer del Reich, il capo delle forze armate tedesche, il capo di tutti noi!”54:
Adolf Hitler.
   Mentre il rigido inverno di quell’anno stava mettendo a dura prova l’intera
popolazione berlinese, ormai prostrata dalla guerra, Helga e il piccolo Peter
vennero inseriti dalla sorella della matrigna, zia Hilde – che lavorava a stretto
contatto con Goebbels presso il ministero della Propaganda – nella cerchia di
coloro che allora venivano definiti come piccoli ospiti del Führer. Si trattava
dell’ennesima iniziativa di propaganda, per la quale un piccolo gruppo di bambini
tedeschi in qualche modo “privilegiati” veniva scelto per trascorrere ventiquattr’ore
nel bunker della Cancelleria del Reich. Si trattava di mostrare al mondo intero che
la Germania si occupava amorevolmente dei suoi “figli”, quegli stessi figli che un
giorno avrebbero incarnato “la missione”55 del popolo tedesco sulla Terra:
     Un pomeriggio piovoso, appena tornati dal rifugio dopo un attacco aereo pesantissimo, Peter
     mi trascina nella gelida sala da pranzo per farmi una comunicazione importante: “Lo sai che
     andremo nel bunker della Cancelleria?” Sta lì, gambe divaricate, pugni sui fianchi e sguardo
     elettrizzato, in attesa della mia reazione. “Chi è che andrebbe nel bunker?” domando con
     scarso interesse. “Tu e io!” […]. Mio fratello mi fissa incredulo, e il suo viso si sta sempre più
     rabbuiando. Non riesce proprio a concepire che qualcuno possa non condividere la sua
     passione per il Führer. “Non ci vengo!” grido, indignata per la sua prepotenza. “Non ci vengo
     perché il Führer è cattivo! Non voglio vedere il Führer perché manda i bambini nei campi di
     concentramento e fa bruciare i libri degli scrittori!”. Peter mi lancia uno sguardo sconcertato
     come se gli avessi fatto a pezzi un idolo e protesta, furioso: “Nei campi di concentramento ci
     vanno solo i bambini ebrei, ma noi non siamo bambini ebrei!”. E si mette a tirare calci a un
     buffet coi cristalli già frantumati. “La direttrice ha detto che nessun bambino deve andare in
     campo di concentramento!” esclamo, infiammata di sdegno. “La direttrice ha detto che
     nessuna persona deve andarci!”[…]. Peter mi guarda con aria frastornata perché non afferra il
     punto della questione. Allora scrolla le spalle e dichiara: “Va bene, allora andrò io nel bunker
     insieme a Mutti e mangeremo anche le tue salsicce!”. E comincia a saltare sulle molle di una

52
   Primo Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 175.
53
   Helga Schneider, Il rogo di Berlino, cit., p. 81.
54
   Ivi, p. 82.
55
   Giorgio Galli (a cura di), Il Mein Kampf di Adolf Hitler, Kaos Edizioni, Milano 2006, p. 322.

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