VCSVISUAL CULTURE STUDIES - Rivista semestrale di cultura visuale - MIMESIS

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VISUAL CULTURE STUDIES
Rivista semestrale di cultura visuale

#2 (giugno 2021)
The Visual Culture of SARS-CoV-2
a cura di Tarcisio Lancioni e Federica Villa

                                      MIMESIS
VCS
Direttore
Ruggero Eugeni

Vice-Direttori
Valentino Catricalà, Andrea Rabbito

Direttore responsabile
Elena Gritti

Comitato scientifico
Giulia Carluccio
Lucia Corrain
Tarcisio Lancioni
Giacomo Manzoli
Carmelo Marabello
Angela Mengoni
Andrea Pinotti
Antonio Somaini
Vincenzo Trione
Federico Vercellone
Vito Zagarrio

Comitato redazionale
Alfonso Amendola
Simone Arcagni
Anna Bisogno
Enrico Carocci
Adriano D’Aloia
Fabio La Mantia
Francesco Parisi

Tutti i saggi scientifici vengono sottoposti a
double-blind peer review.
I saggi della sezione Adiecta non sono sotto-
posti a double-blind peer review in quanto
contributi che riguardano l’art. 9, comma 5
del “Regolamento per la classificazione delle
riviste nelle aree non bibliometriche”.

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Indice

5		Tarcisio Lancioni, Federica Villa
		  Introduzione. The Visual Culture of SARS-CoV-2

15		Camilla Pietrabissa
		The eternal event. Urban void and image temporality from the Re-
     naissance to 2020

35		Massimo Leone
		   Masks, sunglasses, and gloves: COVID-19 visual semantics.

61		Gabriele Marino
		Metafora della guerra e guerra alla metafora. Una polemica di pro-
     spettiva

77		Alice Cati
		Piccole finestre sul nonumano. Immagini per l’educazione ambien-
     tale nell’era della pandemia

97		Deborah Toschi
		Bodies and maps, display the habitat of the contagion

115		Valeria Burgio
		The efficacy of scientific diagrams during the Covid-19 pandemic:
      processes of visual translation and dynamics of online diffusion

143		Dario Rodighiero, Eveline Wandl-Vogt, Elian Carsenat
		Making visible the invisible work of scientists during the COVID-19
      pandemic
167		Stefano Jacoviello
		La musica che ci riguarda. Virtual ensemble, pratiche social e memoria
      del suono

197		Ermelinda M. Campani
		The virus and the film narrative

221		Andrea-Bianka Znorovszky
		The CoronaVirgin: Marian iconography between street art, social me-
      dia, and lieux de mémoire

245		Camilla Balbi
		Jenny Holzer’s 2020: New York, activism, and collective mourning.
      Again

267		Cristina Voto
		Tornare a guardarci negli occhi. Spazialità, interfacce e cronotopi al di
      là del cubo bianco

		Adiecta

293		Vito Zagarrio
		Locked down. L’estetica della pandemia

311		Anna Casalino
		La ballerina e lo skateboarder: una nuova storia d’amore al museo

321		Marzia Dattini
		Il margine dell’invisibile. Libertà e dispotismo nelle immagini secondo
      Marie-Josè Mondzain
Introduzione
The Visual Culture of SARS-CoV-2
Tarcisio Lancioni, Federica Villa

    Nel corso dell’ultimo anno, la pandemia di SARS-CoV-2 (COVID 19) ha
segnato il modo di vivere di pressoché ogni comunità del pianeta, met-
tendo a repentaglio la vita degli individui, condizionandone le prospettive
e i progetti, e trasformando le forme significanti attraverso cui, nelle diver-
se culture, si organizzano le relazioni sociali (Lorusso, Marrone, Jacoviello
2020): la gestione dello spazio, la prossemica, il modo di presentare se stes-
si, segnato dalla necessità (o dal rifiuto) di indossare maschere protettive
(Leone 2020), come dalla diversa centralità assunta dalle interfacce digitali
in molte pratiche lavorative.
    Insieme a tutto ciò, la pandemia sta lasciando una traccia profonda an-
che nella cultura visiva di questo nostro tempo, avendo come correlato la
produzione di una grande massa di immagini chiamate a rappresentare i
cambiamenti sociali di cui sopra, in qualità di documenti testimoniali, di
mezzi per raccontare o scongiurare la paura, di strumenti per comprende-
re e comunicare la diffusione progressiva del virus, di argomenti di suppor-
to per il confronto politico e sociale.
    Come ogni grande crisi, dunque, anche la pandemia porta con sé un
patrimonio di immagini che concorrono a cambiare o a modulare i modi
in cui viene guardato il mondo, facendone riconsiderare le pertinenze e le
rilevanze. A differenza però di altre immagini “storiche” in cui si condensa
una memoria collettiva (per esempio quelle relative all’11 settembre stu-
diate da Mitchell 2011 o Dinoi 2008), le immagini della pandemia appaiono
immensamente più numerose e varie; esse rendono inoltre conto di una
pratica diffusa di elaborazione e produzione delle immagini stesse, tanto
da apparire come uno dei caratteri del fenomeno pandemico. Ne deriva
una sorta di “iconodemia” che monopolizza non solo l’universo media-
tico, con immagini di cronaca e scientifiche, ma anche quello dei social
    media, quello dell’arte e addirittura il panorama urbano, attraverso street
    art e manifesti; una iconodemia che è stata e viene documentata da pro-
    getti diversi, tra cui ci limitiamo a citare, a solo titolo di esempio, il Covid-19
    Visual project (https://covid19visualproject.org/it/chapter/una-societa-feri-
    ta/5), quello promosso da W.J.T. Mitchell su Critical Inquiry (https://critinq.
    wordpress.com), o quelli sviluppati per documentare la tematizzazione
    della pandemia nella street art (https://news.artnet.com/art-world/corona-
    virus-street-art-1814961).
        D’altra parte, come quasi sempre nell’iconosfera, tutte queste imma-
    gini nascono in dialogo con altre immagini, già sedimentate, in forma
    di citazione, rielaborazione, confronto; esse creano nuove reti di signi-
    ficati e tessono rapporti fra la pandemia covid e altri fenomeni socia-
    li del presente e del passato: a partire da altre epidemie, storicamente
    documentate, o solo temute e immaginate, che hanno lasciato le loro
    tracce nell’arte, nelle illustrazioni d’epoca (si veda il grande revival delle
    immagini della pandemia cosiddetta “spagnola”), nel cinema di finzione
    (Lancioni 2020), aprendo lo spazio per una riflessione sulle forme di una
    vera e proprio iconografia epidemica.
        Gli articoli presentati in questo numero, offrono uno sguardo interdisci-
    plinare sulla grande varietà di queste immagini, attraverso cui proviamo a
    “farci una visione”, se non proprio una ragione, della pandemia; esse ren-
    dono conto in tal modo del lavoro inventivo necessario per rendere visi-
    bile qualcosa che per sua natura non lo è: non solo il microscopico virus,
    ma la stessa condizione pandemica. Un lavoro di elaborazione visiva che
    ha seguito due strategie diverse. Da un lato, troviamo il tentativo di fare
    i conti direttamente con una apparenza identitaria del virus, facendone,
    per così dire, un ritratto, un identikit, sia sfruttando specifiche tecnologie
    della visione, come la microfotografia, studiata da Ruggero Eugeni (2021)
    proprio in relazione alla visualizzazione scientifica del Covid, sia attraverso
    processi di “invenzione” grafica, come quella del “cerchio coronato” diffu-
    so nella street art, nella comunicazione pubblicitaria, nei social media. Un
    ritratto che certo non ci permette di riconoscere il virus ma ci aiuta a “dare
    un volto” a questo agente, questo Attante, che sembra muoversi con una
    volontà propria, aggredendo, nascondendosi, espandendosi, manipolan-
    doci. Dall’altro lato, troviamo una strategia indiretta, che permette di visua-
    lizzare non tanto il virus quanto i suoi effetti, a partire dalle tracce lasciate
    dalle sue “azioni” e dai suoi movimenti, in un processo di visualizzazione

6    Visual Cultural Studies 2 – 2021
dell’invisibile che accomuna quello già mirabilmente illustrato da Guy de
Maupassant nel suo Le Horla e le più sofisticate strategie di rilevazione
scientifica (Galison 1997): è il vasto dominio delle mappe e delle infogra-
fiche, ma anche delle fotografie che “mostrano” la pandemia attraverso
spazi deserti, code distanziate, volti mascherati. “Figure” attraverso cui ab-
biamo imparato a conoscere la forza dirompente di SARS-CoV-2.
   Nel suo complesso, questa varietà di immagini mostra, su un piano te-
orico, quanto sia illusorio, o fuorviante, pensare all’immagine come a un
dominio omogeneo, accomunato da un unico “linguaggio”, magari da op-
porre al linguaggio verbale, poiché, come gli articoli raccolti evidenziano,
sono tanti i modi attraverso cui le immagini “dicono”, tante le forme semi-
otiche che permettono ad esse di “significare”.
   Nell’organizzare i saggi che compongono questo dossier di Visual Cul-
ture Studies, abbiamo deciso di introdurre una partizione tra gli interventi
focalizzati sulle dinamiche più propriamente mediali della rappresentazio-
ne del virus e della condizione pandemica, e quelli maggiormente attenti
alle espressioni artistiche. Partiamo dunque dagli aspetti mediali (peraltro
già affrontati anche in chiave di visual culture da alcuni interventi, quali per
esempio De Gaetano, Maiello, 2020; Giaccardi et al., 2020; Keidl, Melamed,
Hediger, Somaini 2020; Sala, Scaglioni, 2020; vari interventi in Puglisi, Rab-
bito, Catricalà, Maccallini 2020).
   Uno dei tipi di immagine più ricorrenti attraverso cui abbiamo impara-
to a conoscere il virus è quello degli spazi “vuoti”, de-umanizzati, da esso
determinati, in particolare degli spazi pubblici, delle piazze, che eravamo
invece abituati a vedere affollati, vissuti. Camilla Pietrabissa, nel saggio che
apre il dossier, orienta il suo interesse proprio verso queste immagini, ana-
lizzando in particolare la serie fotografica elaborata da Graziano Panfili a
partire da riprese di live cam che registrano, appunto, spazi urbani deserti.
Nel saggio, queste immagini vengono messe a confronto con altri modelli
iconografici della città “vuota”, quali quello della “città ideale” rinascimen-
tale e quello proposto dalla pittura metafisica di De Chirico. La loro mes-
sa in relazione permette all’autrice di evidenziare, sulla scorta dei lavori di
Louis Marin e di Hubert Damisch, le valenze utopiche e politiche di cui tali
immagini possono caricarsi, sia perché lo spazio pubblico reso “vuoto” at-
trae irresistibilmente un discorso sulle forme possibili del suo riempimen-
to sociale, come argomentava già Hobbes nella sua polemica con Robert
Boyd sull’esistenza del vuoto (Shapin, Schaffer 1985); sia perché, nel caso
specifico di Panfili, a mostrarci questo vuoto è lo sguardo de-umanizzato

                                                                     Introduzione   7
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