Streaming e web tv: come e dove vedere l'opera nei giorni del #iorestoacasa
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Streaming e web tv: come e dove vedere l’opera nei giorni del #iorestoacasa Teatri e cinema italiani chiusi almeno fino a venerdì 3 aprile. Molti abitanti dell’Italia centro-settentrionale impossibilitati a muoversi dalle proprie città, se non per motivi di lavoro. L’emergenza Coronavirus continua nel Belpaese e, giustamente, sono stati presi provvedimenti restrittivi per cercare di evitare un ulteriore ampliamento del contagio. Certo, anche per un melomane, o un semplice appassionato di musica, la vita in questi giorni è ancora più dura: come rimediare all’astinenza teatrale? Come riempire il molto tempo libero a disposizione? No panic, è possibile appagare il proprio desiderio di opera e musica standosene comodamente seduti e al sicuro sul divano di casa (così ci si attiene pure alle sacrosante direttive emanate da Governo e Regioni). Esistono sempre i DVD, acquistabili facilmente con un click su svariati siti. Per chi ha l’abbonamento alla piattaforma Sky, sicuramente conoscerà Classica HD, in onda sul canale 136: in questi e nei giorni a venire vengono trasmessi, per esempio, Le trouvère di Verdi, edizione in francese de Il trovatore messa in scena da Bob Wilson al Teatro Farnese di Parma nell’autunno 2018; la Romantica di Bruckner diretta da Christian Thielemann; Mefistofele di Boito con, protagonisti, Calleja, Pape e la Opolais (Bayerische Staatsoper 2015) e Ariadne auf Naxos da Baden-Baden 2012, con un cast di specialisti capeggiato da Renée Fleming. Variegato è anche il servizio offertoci da “mamma Rai”; oltre ai ricchi archivi consultabili gratuitamente su RaiPlay (www.raiplay.it), visibile confortevolmente e in chiaro alla tv è Rai 5, canale 23, che pone una particolare attenzione al mondo della musica, dell’arte, della danza, del teatro e dei
documentari. In particolare, giovedì 5 marzo è iniziato un breve ciclo di tre serate in prima visione, dedicato alla versatilità del direttore Daniele Gatti: dopo la trasmissione della recita del 10 dicembre 2019 de Les vêpres siciliennes di Verdi, spettacolo inaugurale della stagione 2019/2020 del Teatro dell’Opera di Roma, i prossimi appuntamenti saranno la Nona di Mahler da Torino, debutto del maestro milanese sul podio dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai avvenuto nei primi giorni del 2020 (in tv il 12 marzo, ore 21:15), e il concerto con l’Orchestra e il Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia dedicato al Novecento russo di Stravinskij e Prokof’ev, andato in scena a Roma pochissime settimane fa (visibile su Rai 5 il prossimo 19 marzo). Un altro validissimo strumento, reperibile online e sempre gratis et amore Dei, è il portale web OperaVision (https://operavision.eu). Creato e amministrato da Opera Europa, il servizio ogni mese trasmette in streaming interessanti spettacoli da differenti teatri europei, registrazioni poi recuperabili in tutta tranquillità on demand. Tra le produzioni rintracciabili indichiamo, a titolo esemplificativo, una rarità come Violanta di Korngold con regia, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi, vista al Teatro Regio di Torino due mesi fa; la Tosca pucciniana nel discusso allestimento del 2019 di Barbara Wysocka per la Polish National Opera di Varsavia; Ermione in scena lo scorso novembre al Teatro San Carlo di Napoli, protagonisti Angela Meade, Teresa Iervolino e Antonino Siragusa. Tra i prossimi titoli in programma segnaliamo, per il mese corrente, la trilogia Mozart-Da Ponte da la Monnaie di Bruxelles con, sul podio, l’italiano Antonello Manacorda e la regia del duo Jean- Philippe Clarac & Olivier Deloeuil (19 marzo Così fan tutte, 21 marzo Le nozze di Figaro, 24 marzo Don Giovanni), l’11 marzo Don Giovanni in diretta dalla Finnish National Opera di Helsinki, diretto da Patrick Fournillier e messo in scena da Jussi Nikkilä. Citiamo, poi, la preziosa opportunità offertaci da alcuni
teatri, ovvero lo streaming e la web tv, menzionando qui quanto deciso da due realtà italiane. Tramite smartphone, computer e tv sarà possibile, a partire da martedì 10 marzo, accedere alla web tv del Teatro Massimo di Palermo, così da poter usufruire 24 ore su 24 di un ricco palinsesto di opere, concerti, spettacoli, visite guidate virtuali e nuove proposte; il programma delle trasmissioni verrà comunicato quotidianamente attraverso i canali social del Massimo e iscrivendosi alla sua newsletter. Ugualmente il Teatro Coccia di Novara organizza, dal 10 marzo al 3 aprile, una “rassegna virtuale” delle proprie produzioni proposte nelle ultime stagioni, alle quali si potrà assistere tramite i canali web e social del Teatro: YouTube Teatro Coccia, Facebook, Twitter e la home del sito del Coccia (www.fondazioneteatrococcia.it). Si inizia con Ernani di Verdi, titolo inaugurale della stagione 2019/20 diretto da Matteo Beltrami, disponibile dalle ore 18 di martedì 10. Riferiamo, infine, del progetto #unbeldivedremo, ideato dal regista Gianmaria Aliverta e dall’associazione culturale VoceAllOpera, uno spettacolo particolare che andrà in scena allo Spazio Teatrale 89, ovviamente nel pieno e totale rispetto della normativa vigente, un “concentrato d’opera” con protagonisti il mezzosoprano Elena Caccamo e il pianista Andrés Jesús Gallucci. Siete curiosi? Basta seguire le piattaforme social di VoceAllOpera. Le alternative concrete non mancano, in attesa della riapertura al pubblico dei nostri amati teatri. Certo, molti potrebbero obiettare che uno spettacolo è tutt’altra cosa: siamo d’accordo ma, soprattutto al momento, non possiamo fare altrimenti e, in un modo o nell’altro, bisogna pur ovviare a questa mancanza. Cerchiamo di essere responsabili e assennati, per il bene nostro e di chi ci circonda, e potremo presto tornare a godere di musica e bellezza dal vivo.
Rossini e Mozart, il mio pane quotidiano – Intervista a Matteo Macchioni Nativo di Sassuolo, Matteo Macchioni si accosta agli studi musicali sin dalla più tenera età, diplomandosi con lode in pianoforte nel 2007. Il 2010 può essere ritenuto il suo annus mirabilis: il giovane tenore partecipa, infatti, al talent show televisivo Amici di Maria De Filippi, gareggiando nella Squadra Blu; ma, soprattutto, viene scritturato da Daniel Oren per debuttare, nel giugno dello stesso anno, al Teatro Verdi di Salerno come Nemorino nell’Elisir d’amore di Donizetti. Da quel momento la sua carriera spicca il volo, e Macchioni affronta opere di Rossini, Mozart, Donizetti, Cimarosa, Puccini, Cilea, Britten. A oggi, si è esibito con successo su palcoscenici di prestigio e in festival di rilievo sia in Italia che all’estero, quali per esempio il Teatro alla Scala, il Carlo Felice di Genova, il Regio di Parma, il Maggio Musicale Fiorentino, il ROF di Pesaro, il Donizetti Festival di Bergamo, lo Stresa Festival, il Bregenzer Festspiele, il Tiroler Festspiele di Erl, il Theater Freiburg, l’Oper Leipzig, la Royal Danish Opera, la Welsh National Opera. In queste settimane l’artista emiliano è impegnato in un tour in Danimarca, dove veste i panni di Ferrando nel Così fan tutte di Mozart, in una produzione diretta da Paul Goodwin e con regia di Tim Albery. Come e quando ha capito che avrebbe voluto intraprendere la carriera teatrale? Non l’ho capito, è semplicemente successo: è stata la carriera teatrale a raggiungermi. Dal 2010, anno del mio primissimo debutto, ho cantato in Europa e in tanti altri paesi del
mondo, eseguendo centinaia di recite e concerti. Nel 2010 ha partecipato al celebre talent show televisivo Amici di Maria De Filippi: cosa ricorda di quell’esperienza? Cosa le ha lasciato? Ricordo con piacere quell’esperienza televisiva. Allora non ero un cantante, ma un giovane neolaureato in pianoforte con la nascente passione per il canto e uno strumento vocale assolutamente acerbo, da plasmare. Non sapevo ancora che avrei successivamente intrapreso la professione di cantante lirico. Le dà fastidio che, ancora oggi, qualcuno accosti il suo nome soprattutto a quello di Amici? “Il primo tenore di Amici”, “Da Amici al palcoscenico”… Non mi dà fastidio: Amici è stata un’esperienza che mi ha arricchito e mi ha dato l’occasione di capire quale fosse la mia vera vocazione. Il suo debutto in un’opera lirica è avvenuto per volere nientemeno di Daniel Oren: L’elisir d’amore al Verdi di Salerno. È stata la primissima esperienza su di un palco; sono riuscito a viverla con la giusta leggerezza. Il Maestro Oren in quell’occasione mi prese per mano e mi guidò al debutto, ben sapendo che il talento che portavo in dote aveva ampi margini di miglioramento e maturazione. Sono ricordi vivi e difficilmente dimenticabili. Un’altra tappa fondamentale della sua carriera è il debutto alla Scala di Milano dove, nel 2017, ha interpretato il ruolo di Isacco nella Gazza ladra di Rossini. Come ha vissuto quella prova? È stato emozionante debuttare alla Scala, teatro meraviglioso, pieno di professionisti. Il Maestro Chailly e il regista Salvatores mi hanno messo a mio agio e ho potuto così lavorare con il giusto mix di determinazione e tranquillità. Qual è il compositore con il quale si trova in maggiore
sintonia? Rossini e Mozart sono il mio pane quotidiano. In pochissimi anni ho cantato più di 60 recite del Barbiere di Siviglia e della Cenerentola in giro per il mondo. Fondamentale in questo senso è stato lo studio, nel 2014, all’Accademia Rossiniana di Pesaro, presieduta dal compianto Maestro Alberto Zedda. Certamente i ruoli di belcanto rossiniani e mozartiani sono parte importante del mio repertorio. Come si prepara quando deve affrontare una nuova partitura? Studio completamente le parti di tutti, suono l’intera opera al pianoforte, poi finalizzo la preparazione, la memoria, lo stile, affidandomi a professionisti di mia assoluta fiducia. Arrivo sempre alla prima prova musicale in teatro con il ruolo pronto a memoria e rodato; non amo l’approssimazione e non amo chi mi mette fretta. Se non ho il tempo per essere eccellente dico semplicemente no: la preparazione e l’eccellenza stanno al primo posto. Sempre. Un ruolo che le piacerebbe debuttare? Rinuccio dal pucciniano Gianni Schicchi e Fenton dal Falstaff di Giuseppe Verdi. Tra i tenori di ieri e di oggi, ha qualche modello di riferimento? Sinceramente amo ascoltare vari interpreti. Non ho un nome su tutti gli altri: ci sono stati tenori straordinari nel passato e ce ne sono tutt’ora. Sempre più giovani come lei stanno cercando di intraprendere la strada del cantante lirico: ha qualche consiglio per loro? Non mi sento abbastanza navigato per dare consigli. Credo, però, che studiare seriamente e, soprattutto, capire cosa si possa cantare e cosa è meglio evitare, sia un primo passo importante. Parliamo di attualità: in questi ultimi giorni il Coronavirus si sta diffondendo sempre più, e i teatri italiani sono chiusi
fino al 3 aprile per contrastare ulteriori contagi. Qual è il suo pensiero al riguardo? Restrizioni eccessive o dettate dal buon senso? Non mi permetterei di dare giudizi, ci sono le istituzioni per decidere e ci si deve attenere a ciò che viene prescritto o consigliato. Mi limito soltanto a dire che, se abdichiamo al nutrimento dell’anima che può dare l’arte, allora facciamo vincere la paura, ed è proprio ciò che eviterei assolutamente. Io sto lavorando, ho viaggiato e viaggerò nuovamente: non mi fermo, non mi chiudo. Ovviamente sto attento, sono una persona prudente e rispettosa delle regole, non vado all’arma bianca sprezzante dei pericoli, ma le fobie cerco di tenerle il più possibile lontane dalla mia persona e dalla mia anima. Ora si trova in Danimarca per Così fan tutte di Mozart. Com’è la realtà teatrale danese? Ha riscontrato molte differenze con i teatri italiani dove ha lavorato sino a oggi? In Danimarca sto lavorando benissimo, questa produzione sta andando davvero bene. Il teatro, peraltro grandissimo (la capienza è di più di 1700 spettatori), è praticamente sempre sold-out. L’orchestra suona meravigliosamente e l’ambiente di lavoro è collaborativo. Sono estremamente felice di portare la mia voce oltre i confini italiani. Non faccio confronti. Posso dire che l’unica differenza sostanziale sta nell’età del pubblico: mediamente, nel resto d’Europa è un pochino più bassa rispetto all’Italia. Dove potremo ascoltare Matteo Macchioni in futuro? Questo mese di marzo sono in tour con il Royal Danish Theatre in tutta la Danimarca con Così fan tutte. Immediatamente dopo volo a Mosca per un concerto con orchestra diretto dal Maestro Alessandro D’Agostini; poi, dopo un breve periodo di doverosa pausa, parto alla volta dell’Inghilterra, dove sarò protagonista di un lungo tour in tutto il Galles con la Welsh National Opera di Cardiff. Il ruolo è uno dei miei cavalli di battaglia, Almaviva dal Barbiere di Siviglia di Rossini.
Matteo Macchioni interpreta Ferrando nel Così fan tutte Matteo Macchioni è il Conte di Almaviva nel Barbiere di Siviglia Milano, Teatro alla Scala – Eliahu Inbal dirige Bruckner Un caloroso successo e una sala quasi esaurita hanno accolto il ritorno al Teatro alla Scala, dopo diciotto anni di
assenza, dell’israeliano Eliahu Inbal. 84 anni il prossimo 16 febbraio, formatosi a Gerusalemme, Parigi, Hilversum e Siena, affiancando fra gli altri Olivier Messiaen e Sergiu Celibidache, Inbal ha ricoperto nel tempo ruoli di prestigio, quali quello di Direttore principale dell’hr-Sinfonieorchester Frankfurt, dell’Orchestra del Teatro La Fenice di Venezia, dell’Orchestra Nazionale della Rai e della Tokyo Metropolitan Symphony Orchestra. Attualmente è Direttore principale di un altro importante complesso asiatico, la Taipei Symphony Orchestra. Nel corso della sua carriera improntata, specialmente, sul repertorio sinfonico, come evidenziato anche dalla sua sterminata discografia comprendente l’integrale delle sinfonie, tra gli altri, di Brahms, Ravel, Schumann, Stravinskij e Richard Strauss, il Maestro ha collaborato con compagini orchestrali di livello: a esempio, l’Orchestre National de France, la Royal Concertgebouw Orchestra, il Konzerthausorchester Berlin, la Philarmonia Orchestra, la London Philarmonic Orchestra, l’Orchestre de la Suisse Romande, la Saint Petersburg Philharmonic Orchestra. Ritenuto il decano della musica di Mahler, Bruckner e Šostakovič, Inbal torna sul podio della Filarmonica della Scala – dal quale mancava dal 2002 – proponendo la Sinfonia n. 5 in si bem. magg. di Anton Bruckner. Composta tra 1875 e 1877 e sottoposta, nel 1878, a una minuziosa rielaborazione, vero e proprio monumento sinfonico imperniato su di una certosina attenzione contrappuntistica e su di un dinamismo nei contrasti timbrici, la Quinta è permeata di un’aura di sobrio, severo e monumentale rigore classicista; un brano ostico e dalla strumentazione frastagliata, di non semplice esecuzione. Con una gestualità dinamica, chiara ed eloquente e un’ammirevole tecnica ferrea, propendendo per un’agogica dilatata e di ampio respiro e conferendo un notevole rilievo alle pause e ai silenzi, il direttore di Gerusalemme dà, della cosiddetta “Sinfonia dei pizzicati” (come venne definita dai primi critici) una lettura coesa e pulita, di solido mestiere e salda professionalità, priva di sbavature, compatta e ben
scandita nei quattro movimenti. Il suo è un Bruckner puntuale e asettico, dal suono corposo e granitico che, però, non risulta mai eccessivamente enfatico o rutilante, misurato nei volumi e a tratti avaro di sfumature. Il primo movimento, Adagio – Allegro, è aulico, di una solennità quasi liturgica, contraddistinto dall’alternanza di vigorosi turgori orchestrali e incisivi archi in pizzicato. Segue l’Adagio. Sehr langsam, dal preponderante tono religioso, un brano in re minore dalla melodia austera ed elegiaca, giocata sull’avvicendamento di fervide accensioni strumentali e oasi di assorta preghiera musicale. Il terzo movimento, Scherzo. Molto vivace (Schnell) è caratterizzato da un colore marcatamente popolareggiante e brioso; qui, Inbal stacca tempi maggiormente spediti, ma pur sempre controllati, ottenendo dalla Filarmonica scaligera sonorità più brillanti. Chiude la Finalsymphonie il gigantesco quarto e ultimo movimento tritematico, Finale. Adagio – Allegro moderato, audace sincretismo tra le forme della fuga e della sonata, dove il pio musicista nativo di Ansfelden dimostra uno sbalorditivo dominio del contrappunto: un autentico crescendo di complessità polifonica, contrassegnato in alcuni passaggi da un suono di gusto prepotentemente wagneriano che pare antesignano di alcune atmosfere del Parsifal, sfociante nell’abbagliante apoteosi conclusiva. [Rating:3.5/5] Teatro alla Scala – Stagione Sinfonica 2019/20 Anton Bruckner Sinfonia n. 5 in si bem. magg. Filarmonica della Scala Direttore Eliahu Inbal Milano, 14 febbraio 2020
Photo credit: Brescia e Amisano / Teatro alla Scala Zurigo, Opernhaus – Iphigénie en Tauride (con Cecilia Bartoli) Grande era l’attesa per questa produzione zurighese di Iphigénie en Tauride. Esclusa l’Alcina messa in scena da Christof Loy nel 2014, era da anni che Cecilia Bartoli non cantava, all’Opernhaus Zürich, in un nuovo allestimento; la
Tragédie-Opéra di Christoph Willibald Gluck è stata, inoltre, l’occasione per la diva romana di lavorare per la prima volta in uno spettacolo firmato dal sovrintendente del teatro svizzero, Andreas Homoki. Dopo il debutto salisburghese del 2015, con la regia alquanto discutibile (e sonoramente fischiata) a cura di Moshe Leiser e Patrice Caurier, il mezzosoprano torna a vestire i panni della sacerdotessa, delineando una Iphigénie dolente, estremamente straziata, aristocratica nel portamento e potentemente espressiva. L’artista si distingue per una voce ben appoggiata, di colore sopranile, luminosa in acuto e scura nel registro medio-grave. Una prova maiuscola, quella della Bartoli, in cui si apprezzano notevoli messe di voce, impalpabili pianissimi, una rifinita dizione francese, una recitazione accorata e un fraseggiare cesellato con minuzia, dovizioso di accenti. In questa visione la Bartoli è assecondata dalla direzione vibrante, dinamica e tesa di Gianluca Capuano, ormai una garanzia in questo repertorio e, dal 2016, spesso a fianco della cantante. Ottenendo sonorità sferzanti e crepitanti dall’Orchestra La Scintilla, il maestro milanese stacca tempi rapinosi e concitati nei momenti di maggior furore, suoni che vanno stemperandosi, alleggerendosi in pennellate terse e di ampio respiro nei frangenti più lirici. Strumento vocale espanso e di grana scura, emesso con morbidezza e gusto, il baritono francese Stéphane Degout è un Oreste elegante e dilaniato, veemente nella recitazione e nel porgere la parola. Physique du rôle atletico e slanciato, il Pylade del tenore canadese Frédéric Antoun emerge per una vocalità omogenea e di buon peso, ricca di armonici e dal suggestivo timbro brunito. Vocalmente voluminoso e debordante il Thoas del baritono canadese Jean-François Lapointe. Il soprano norvegese Birgitte Christensen, che dal 16 febbraio per quattro recite subentrerà alla Bartoli come Iphigénie, è una Diane musicale e tornita; squillante il mezzosoprano
francese Katia Ledoux (Femme Grecque). Andreas Homoki e il suo team firmano uno spettacolo visivamente cupo, spento e claustrofobico, giocato sulle sfumature del bianco, del nero e del grigio (una costante di altri allestimenti zurighesi di Homoki, basti pensare per esempio a Fidelio, La forza del destino, I puritani o Sweeney Todd, dove predominano soprattutto i colori neutri). A questo clima di opprimente tetraggine contribuiscono le luci asettiche di Franck Evin, i sobri, anonimi costumi atemporali e la scenografia fissa di Michael Levine, un enorme cubo scuro che va via via restringendosi sempre più verso la parete di fondo, circondato da una cornice al neon bianco. Scegliendo di eseguire l’opera senza intervalli, il regista tedesco dà della storia una lettura in chiave psicologica e psicanalitica; e così, durante il primo atto, vediamo evocate in scena le sanguinarie vicende degli Atridi, dal sacrificio di Iphigénie agli omicidi dei due genitori. Presenti spesso in palcoscenico sono, poi, Iphigénie e Oreste bambini (rispettivamente Noelia Finocchiaro e Immanuel Otelli), mentre nell’ultimo atto, privo di lieto fine come previsto da libretto, la dea Diane inspiegabilmente viene a coincidere con l’ombra di Clytemnestre. La movimentazione delle masse corali è molto agevole, curata risulta la recitazione dei singoli personaggi, ben caratterizzati nelle psicologie e negli affetti (con tanto di palese legame omosessuale tra i due amici Oreste e Pylade). Encomiabile la prestazione del Coro, guidato da Janko Kastelic, con una menzione di merito per la componente femminile. Teatro esaurito e 10 minuti di festanti applausi, con ovazioni per Bartoli, Capuano, Degout e Antoun. [Rating:4/5] Opernhaus Zürich – Stagione 2019/20 IPHIGÉNIE EN TAURIDE Tragédie-Opéra in quattro atti su libretto di Nicolas-François Guillard Musica di Christoph Willibald Gluck
Iphigénie Cecilia Bartoli Oreste Stéphane Degout Pylade Frédéric Antoun Thoas Jean-François Lapointe Diane Birgitte Christensen Femme Grecque Katia Ledoux Orchestra La Scintilla Chor der Oper Zürich Statistenverein am Opernhaus Zürich Direttore Gianluca Capuano Maestro del coro Janko Kastelic Regia Andreas Homoki Scene e costumi Michael Levine Luci Franck Evin Drammaturgia Beate Breidenbach Zurigo, 8 febbraio 2020 Photo credit: Monika Rittershaus
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Photo credit: Monika Rittershaus Photo credit: Monika Rittershaus Milano, Teatro alla Scala – Roméo et Juliette Il 2020 si apre, al Teatro alla Scala, nel nome di Charles Gounod e del repertorio francese. Come secondo titolo della stagione lirica viene, difatti, proposta l’opera in cinque atti Roméo et Juliette, andata in scena per la prima volta nell’aprile del 1867 a Parigi, considerata l’apice della maturità compositiva del musicista parigino nonché capostipite del genere del drame lyrique. Su libretto essenziale di Jules
Barbier e Michel Carré, abbastanza fedele al dramma shakespeariano dal quale è tratto, il lavoro gounodiano si distingue soprattutto per la tensione espressiva che caratterizza ogni singolo atto, nonché per la concentrazione sulla sfera interiore dei due sfortunati amanti e per la varietà degli stili, dal brillante al virtuosistico, all’elegiaco, al tragico. Lo spettacolo è quello presentato sulle tavole del Piermarini nel 2011, una produzione del Metropolitan di New York rielaborazione di quella messa in scena al Salzburger Festspiele nel 2008. Come desumibile dai bei costumi elaborati e variopinti di Catherine Zuber, e dalla monumentale scenografia di Michael Yeargan, dominata dall’imponente facciata di un palazzo con loggiato e terrazzo, la vicenda è trasposta in un Settecento dal sapore casanoviano, quasi onirico. La regia di Bartlett Sher, ripresa da Dan Rigazzi, insiste su di una riuscita caratterizzazione dei singoli personaggi, ben individuati nelle loro psicologie, su di una recitazione curata e sentita, e su di una buona movimentazione dei solisti e delle masse corali, con tanto di aggraziate coreografie nel primo atto e vivaci duelli nel terzo atto, guidati dal maestro d’armi H.B. Barry. Atmosferiche le luci di Jennifer Tipton riprese da Andrea Giretti, soprattutto quelle delle scene notturne. Debutta in un’opera al Piermarini Lorenzo Viotti, classe 1990, proiettato in una prestigiosa carriera internazionale che lo ha già visto sui podi, per esempio, di Parigi, Amsterdam, Zurigo, Dresda e Francoforte. Con gesto elegante, morbido ed equilibrato, dà vita a una lettura sfavillante attenta alle sfumature, ai preziosismi e a sbalzare i dettagli strumentali; una direzione dall’agogica estremamente mobile, che alterna momenti rapinosi ad altri maggiormente rilassati. Viotti ottiene, dall’Orchestra del Teatro alla Scala, un suono corposo e smaltato, a volte soverchiante rispetto al palcoscenico (in special modo nelle sferzanti percussioni), in grado però di alleggerirsi, ove richiesto, in lucenti sonorità
di seta. Nei panni degli sventurati protagonisti, troviamo due divi dello star system. Vittorio Grigolo è un Roméo dalla voce ampia, sana e robusta, emessa con omogeneità, salda e sfacciata nella salita all’acuto, dal suadente timbro schiettamente mediterraneo. Nella cavatina “L’amour! […] Ah! Lève-toi, soleil!” e in “Va! Repose en paix!” attenua con maestria la voluminosità dello strumento in delicati pianissimi e impalpabili mezzevoci. Con un’interpretazione empatica e, a tratti, sovraccarica e plateale, tipica comunque di Grigolo, il tenore dipinge un giovane Montecchi appassionato, ardente e irruente, grazie anche al fisico atletico e scattante che gli consente, nella celebre scena del balcone, di arrampicarsi con facilità lungo una lesena del prospetto della dimora dei Capuleti o sull’alto basamento di una colonna. Accanto a lui, torna alla Scala Diana Damrau, apparsa più prudente e cauta rispetto al solito. Il soprano tedesco emerge per una vocalità luminosa e tornita, di buon peso e dalla timbrica cremosa, complessivamente omogenea in tutta la gamma. Nell’attesa arietta “Je veux vivre” le messe di voce sono puntuali e sul fiato, i legati adamantini, i virtuosismi nell’insieme fluidi e puntuti; nell’aria “Viens, amour, ranime mon courage”, risolta con efficacia, pregnanza e pathos, si avverte qualche tensione nelle note più alte. Vero animale da palcoscenico, servendosi di un fraseggio espressivo e di un’intensa mimica facciale e del corpo, la Damrau giganteggia per la musicalità e per le sue spiccate doti attoriali, delineando una Juliette in progress, inizialmente fanciulla timida, ingenua e infantile e, via via, più matura, impetuosa e determinata. Indisposto Nicolas Testè, lo sostituisce il Frère Laurent di Dan Paul Dumitrescu, dalla voce pastosa e morbida nell’emissione. Mattia Olivieri è un Mercutio sonoro, vocalmente debordante e sontuoso, scenicamente sciolto e prestante, baldanzoso e poco sfumato nel fraseggiare. Protervo il Tybalt del tenore Ruzil Gatin, distintosi per una voce ben
in maschera cristallina e svettante. Sbarazzino il mezzosoprano Marina Viotti nel ruolo en travesti di Stéphano, dalla vocalità di colore sopranile. Piace la Gertrude ironica ma mai volgare di Sara Mingardo, in possesso di uno strumento di velluto brunito. Tutto sommato convincente il vecchio Capulet di Frédéric Caton, dalla vocalità di basso timbricamente chiara. Altero, raffinato e statuario il Pâris di Edwin Fardini; poco incisivo Jean-Vincent Blot (Le Duc de Vérone); preciso il Grégorio di Paul Grant; squillante il Benvolio di Paolo Antonio Nevi. Icastici ed efficaci, come sempre, gli interventi del Coro del Teatro alla Scala, preparato con ammirevole acribia da Bruno Casoni. Teatro esaurito e festante successo per tutti gli interpreti, con poco meno di dieci minuti di applausi, ovazioni per i due protagonisti e per Lorenzo Viotti. [Rating:4/5] Teatro alla Scala – Stagione d’opera e balletto 2019/20 ROMÉO ET JULIETTE Opera in cinque atti Libretto di Jules Barbier e Michel Carré Musica di Charles Gounod Capulet Frédéric Caton Roméo Vittorio Grigolo Frère Laurent Dan Paul Dumitrescu Tybalt Ruzil Gatin Pâris Edwin Fardini Mercutio Mattia Olivieri Benvolio Paolo Antonio Nevi Le Duc de Vérone Jean-Vincent Blot Grégorio Paul Grant Stéphano Marina Viotti Juliette Diana Damrau Gertrude Sara Mingardo Orchestra e Coro del Teatro alla Scala Direttore Lorenzo Viotti Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Bartlett Sher ripresa da Dan Rigazzi Scene Michael Yeargan Costumi Catherine Zuber Luci Jennifer Tipton riprese da Andrea Giretti Maestro d’armi B.H. Barry Produzione The Metropolitan Opera, New York Milano, 15 gennaio 2020 Photo credit: Brescia e Amisano/Teatro alla Scala Photo credit: Brescia e Amisano/Teatro alla Scala
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Rosina? È un bocciolo di rosa dai mille colori – Intervista ad Annalisa Stroppa Vocalità tornita e portamento aggraziato, il mezzosoprano Annalisa Stroppa è una delle voci italiane più interessanti dell’odierno panorama teatrale. Nata e formatasi a Brescia, affiancando gli studi musicali al Conservatorio “Luca Marenzio” a quelli umanistici (si è difatti laureata in Scienze dell’educazione presso l’Università degli studi di Bergamo), nel corso degli anni ha calcato i più prestigiosi palcoscenici, sia in Italia che all’estero: Teatro alla Scala, Regio di Torino, San Carlo di Napoli, Maggio Musicale Fiorentino, Arena di Verona, Wiener Staatsoper, Salzburger Festspiele, Bregenzer Festspiele, Liceu di Barcellona, Opéra national de Paris, Bayersiche Staatsoper, Colón di Buenos Aires. A oggi, ha già debuttato svariati titoli, come Norma, I Capuleti e i Montecchi, La Cenerentola, Così fan tutte, Le nozze di Figaro, Anna Bolena, I due Figaro, Carmen, Roméo et Juliette, Hänsel und Gretel, Madama Butterfly, Nabucco, Cavalleria rusticana. Il suo 2020 comincia al Teatro Carlo Felice di Genova, con alcune recite de Il barbiere di Siviglia di Rossini. Per l’occasione, la abbiamo intervistata. Dal 2012 a oggi, lei ha vestito i panni di Rosina molteplici volte, per esempio a Roma, Berlino, Montecarlo, Barcellona, Verona, Tel-Aviv, Losanna. Ritiene che questo sia uno dei suoi cavalli di battaglia? Sì, è il ruolo con cui ho debuttato in molti teatri, mi ha portato davvero tanta fortuna, e il Barbiere è l’opera che, a oggi, ho eseguito di più. Rosina è un personaggio che amo moltissimo. Dal punto di vista vocale è molto comodo per me; inoltre, mi piace per il suo carattere. Trovo sia molto attuale: una giovane alla ricerca delle propria identità, della propria libertà e, soprattutto, dell’amore. Mi diverto a
interpretare le varie sfaccettature del suo carattere: dolce e sognante con Lindoro, complice e determinata con Figaro, ribelle e furba con Bartolo. Quale aspetto, del carattere della scaltra fanciulla rossiniana, pensa sia più affine al proprio? Ogni volta che interpreto un personaggio, inevitabilmente porto qualcosa di me stessa. Quando sono sul palcoscenico mi calo a tal punto in quei panni da provarne realmente le stesse emozioni, non posso fare altrimenti. Penso sia l’unico modo per poter trasmettere al pubblico tutte le sensazioni che si vivono in scena! Rosina è una ragazza giovane, vitale e determinata, sveglia ed entusiasta della vita. Si innamora e crede fortemente nell’amore. È una donna di oggi, modernissima, ha una certa grazia e un certo puntiglio nell’ottenere ciò che vuole; inoltre è molto orgogliosa. Mi piace paragonarla a un meraviglioso bocciolo di rosa dai mille colori, pronto a fiorire regalandoci allegria e un profumo intenso e avvolgente. Vocalmente parlando, qual è la difficoltà maggiore? Prestare cura a ogni singolo suono, senza sconti, proprio come l’ha scritto il compositore. Rossini chiede all’interprete un’elevata maestria sia nelle colorature che nelle arcate di legato. Inoltre, bisogna saper porgere nel modo giusto il declamato di ogni recitativo, tutto ciò condito da una bella energia che la scrittura del Barbiere richiede assolutamente. La vocalità rossiniana è ancora legata all’ideale del belcanto che vede il primato della voce sulle altre componenti dell’opera. Attraverso il canto, oltre che tramite l’azione scenica, si delinea il personaggio e se ne accentuano le peculiarità. Lei ha cantato per la prima volta il ruolo all’Opera di Roma, nel 2012, diretta da Bruno Campanella. Che cosa ricorda di quel debutto? Una bellissima emozione, indimenticabile. Era il mio debutto sia come Rosina che all’Opera di Roma. Ero agli inizi della
carriera; ripenso al grande lavoro fatto con il Maestro Campanella, con il quale ho avuto l’onore di costruire questo ruolo, e mi commuovo ancora ricordando lo sguardo e l’emozione dei miei genitori, seduti per la prima volta all’Opera di Roma per condividere con me questo bel traguardo raggiunto assieme. A Genova si esibirà nel rodato allestimento di Filippo Crivelli, con scene del compianto Emanuele Luzzati. È emozionata? Emozionata e felice. L’interpretazione di un ruolo matura nel tempo, cambia a seconda delle idee interpretative del regista e anche in base all’evolversi delle nostre fisicità e vocalità. Rosina è uno dei personaggi che ho maggiormente cantato, lo sento sempre più “mio”; dal 2012 a oggi ho approfondito, attraverso molteplici allestimenti, le varie sfaccettature che il ruolo richiede, arricchendolo di sfumature sia vocali che interpretative. L’esperienza sul campo è sempre la strada preferibile per migliorarsi di volta in volta, per trovare accorgimenti nuovi: il palcoscenico è una vera e propria palestra. È bellissimo vedere come, anche all’interno di una stessa produzione, il ruolo maturi dalla prima prova sino all’ultima. Il Barbiere che mettiamo in scena qui a Genova è delizioso: l’allestimento di Filippo Crivelli è storico, uno spettacolo che lascia ampia libertà interpretativa e di movimento a noi cantanti, l’azione accompagna armoniosamente la musica e si sposa magnificamente con le incantevoli scene del genovese Emanuele Luzzati. Le sue scenografie hanno il potere di trasportarci lontano, di farci sentire immersi in un sogno; Strehler stesso descriveva questa sensazione di fronte alle creazioni di Luzzati. Qualche anno fa ho avuto la fortuna di interpretare Hänsel in Hänsel und Gretel sempre in un allestimento con sue scene: anche in questo caso mi sono sentita immersa in una fiaba. Rileggendo le parole del compianto Luzzati, che definiva Genova come la sua “Musa ispiratrice”, posso ben capirlo: ora sono a Genova e mi sento circondata da così tanta bellezza.
C’è un teatro dove le piacerebbe interpretare la sua Rosina? Non saprei scegliere, ogni teatro ha il suo fascino e la sua storia. Forse, in questo caso, direi proprio a Siviglia, nella terra dove è ambientata la vicenda. Ho avuto la fortuna di visitarla ed è una città favolosa, che possiede un’energia e una magia particolari e uniche: per chi non ci fosse ancora stato consiglio di vederla, sono sicura che se ne innamorerebbe. Com’è il suo rapporto con la musica e lo stile di Rossini? Mi metto umilmente a servizio della sua musica e della sua genialità, cercando di essergli il più possibile fedele. Rossini è sempre un balsamo per le corde vocali, aiuta a mantenerle agili e scattanti. Siamo pur sempre nel range del belcanto, che è il repertorio che affronto maggiormente in questo momento, insieme al melodramma francese dell’Ottocento. Ho chiuso il 2019 all’insegna di Rossini, interpretando ad Amburgo il ruolo di Cenerentola, e inauguro il 2020 sempre con Rossini, con la vivacità, il dinamismo e la comicità che lo contraddistinguono; la musica di Rossini porta gioia e buonumore. È davvero interessante come il “Cigno di Pesaro” abbia disegnato qualsiasi personaggio; costruisce un’architettura vocale e personale per ogni ruolo, cuce addosso a ognuno una veste che lo identifica: la bella innamorata e astuta Rosina, l’amoroso Lindoro, Il Bartolo brontolone, l’avido Don Basilio, e il furbo tuttofare Figaro…È divertimento allo stato puro, sia per noi interpreti che per il pubblico. Dopo Roméo et Juliette nel 2012 e Norma nel 2018, adesso ritorna a Genova con il Barbiere. Come si trova a cantare nella realtà del Teatro Carlo Felice? Benissimo. Mi sento molto amata, in teatro si lavora davvero bene, il clima è sereno e tutti sono disponibili. Ho esordito in un ruolo en travesti, poi sono tornata con l’intensa Adalgisa, affiancando l’immensa Mariella Devia, e ora eccomi qui nelle vesti allegre e accattivanti di Rosina. Tra l’altro,
devo dire che il Carlo Felice è un teatro dove si sta bene non solo a livello umano e professionale, ma ha anche un’acustica perfetta. Nella sua carriera ha già affrontato con successo opere di diversi compositori, quali Mozart, Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi, Bizet, Mercadante, Gounod, Haydn, spaziando nei secoli e nei repertori: in quale di questi si trova più a suo agio? Ci sono autori che plasmano i primi anni di carriera e che sono pilastri fondamentali che non si possono scavalcare: penso alle arie antiche, a Vivaldi, Haydn e Mozart, a tutto il repertorio del Settecento. Sarebbe altrimenti come costruire un bel palazzo ma senza fondamenta. Con il tempo, semplicemente, avviene una maturazione fisica e quindi, conseguentemente, anche vocale. Detto ciò, anche il tipo di repertorio che si affronta, pur con la medesima tecnica di base, richiede di utilizzare in maniera diversa il nostro strumento. Ogni autore ha uno stile tutto suo, l’importante è cantare con la propria voce e non forzare; è la voce stessa che ci suggerisce quali ruoli affrontare, l’importante è saperla ascoltare e non andare mai oltre. Per il momento preferisco concentrarmi sul mio terreno d’elezione, ovvero il belcanto e il repertorio francese dell’Ottocento. Non voglio bruciare le tappe, ma assaporare tutto il bel repertorio che la mia vocalità può affrontare al meglio in questo momento. C’è un titolo in particolare che le farebbe piacere debuttare? Forse non dovrei dirlo per scaramanzia, perché lo aspetto da tempo ma non si è ancora presentata l’occasione. Ne potrei citare diversi: se in questo momento ne dovessi scegliere solo uno, direi Charlotte del Werther di Massenet, lo trovo un ruolo meraviglioso. È interessante sia dal punto di vista vocale che interpretativo; mi piacerebbe dare voce a questa magnifica donna perché si tratta di un personaggio molto intenso ed emotivamente profondo: è una ragazza semplice, sensibile e con una spiccata emotività, lascia parlare il suo
cuore, soffre intensamente per amore: un vero capolavoro. Un ruolo che la affascina più di tutti ma che non potrà mai cantare, poiché distante dalla sua vocalità? Anche qui potrei elencarne svariati: quanta bella musica abbiamo, non basta un vita! Mi piacciono i personaggi intensi e appassionati, come Cio-Cio-San e Liù, come non amare Puccini. Oppure, perché no, Rusalka di Dvořák per poter interpretare la meravigliosa “Canzone alla luna”. Dove potremo ascoltare nuovamente Annalisa Stroppa in futuro? Dopo Rosina qui a Genova sarò Adalgisa in Norma al San Carlo di Napoli, per poi vestire i panni di Carmen in Spagna, a Palma de Mallorca. Da fine marzo agli inizi di aprile sarà, invece, la volta di Verona con un titolo meno conosciuto, Amleto di Franco Faccio; il Barbiere mi porterà successivamente a Monaco di Baviera, Budapest e Savonlinna, in Finlandia. A maggio sarò nuovamente Carmen a Wiesbaden e, dulcis in fundo, in agosto mi attende un bel concerto sinfonico sulle note di Rossini e Respighi al Bregenzer Festspiele, in Austria.
Photo credit: Victor Santiago Photo credit: Victor Santiago
Annalisa Stroppa durante le prove del Barbiere di Siviglia a Dresda, 2018
Annalisa Stroppa nel backstage del Barbiere di Siviglia interpretato a Berlino
Annalisa Stroppa è Rosina al Teatro Carlo Felice di Genova – Photo credit: Marcello Orselli Annalisa Stroppa è Rosina al Teatro Carlo Felice di Genova – Photo credit: Marcello Orselli Cecilia Bartoli – Farinelli (Decca CD) È ormai risaputo come Cecilia Bartoli sia un’artista eclettica e imprevedibile, mai scontata in quello che fa e, se vogliamo, volutamente ironica e autoironica. Lo ha dimostrato soprattutto negli ultimi anni, debuttando in ruoli come, per esempio, Norma o Maria di West Side Story che, sulla carta,
avranno fatto storcere il naso a molti ma, a conti fatti, sono risultati vincenti, oppure proponendo album musicali dai programmi desueti, quasi di nicchia, e dalle copertine scanzonate, per nulla ortodosse. La conferma viene da Farinelli, il suo ultimo CD distribuito in queste settimane dalla casa discografica Decca, sul cui frontespizio campeggia un primo piano a mezzobusto della cantante romana, ritratta a petto nudo e a braccia incrociate per coprire il seno, i capelli sciolti, gli occhi truccati, le unghie smaltate di nero e…una mascolina barba scura. Un’immagine transgender intenzionalmente provocatoria, icastica e graffiante, ma certo non così disturbante o da far gridare allo scandalo, in particolare per chi ha avuto la possibilità di ascoltare la Bartoli nell’Ariodante di Händel andato in scena a Salisburgo nel 2017 e nel Principato di Monaco qualche mese fa, dove inizialmente la protagonista si presenta con abiti e fattezze virili. Il disco è corredato di un libretto con due brevi saggi in inglese, francese e tedesco a firma di Markus Wyler e Alexandra Coghlan, di una tabella cronologica della vita di Farinelli, dei testi delle arie. Contiene inoltre un ricco apparato iconografico dove Cecilia Bartoli gioca con fluidità sull’ambiguità uomo-donna dei cantori evirati. L’incisione è un omaggio della durata di un’ora e un quarto alla figura iconica di Carlo Broschi detto Farinelli, uno dei castrati più celebri della storia del melodramma, vero e proprio divo dello star system teatrale del Settecento. In questo florilegio di undici brani, due dei quali mai incisi prima d’ora, tratti da composizioni di Porpora, Hasse, Broschi, Giacomelli, Caldara, un viaggio tra personaggi maschili e femminili, donna Cecilia è accompagnata ancora una volta da una compagine orchestrale di gran livello specializzata nell’esecuzione del repertorio antico, Il Giardino Armonico, guidata con brio, fermezza e precisione dal suo direttore, Giovanni Antonini. Rispondendo con sicurezza e
vivacità alle intenzioni e alle scelte di Antonini, l’ensemble predispone un prezioso tappeto sonoro, cangiante nelle cromie e dinamico nell’agogica. Apre la tracklist “Nell’attendere il mio bene” dal Polifemo di Nicola Porpora, brano dal piglio guerresco dove la Bartoli brilla per infiorettature e vocalizzi eterei, sciorinati con facilità, precisione ed estrema naturalezza. Sempre di Porpora ma di sapore arcadico e malinconico, dalla delicata musica pastellata, in “Vaghi amori, grazie amate” da La festa d’Imeneo si apprezzano ragguardevoli e flautate messe di voce. Cambio di registro con “Morte col fiero aspetto” dal Marc’Antonio e Cleopatra di Johann Adolph Hasse, improntato a ritmi orchestrali sostenuti, dominati da puntute colorature vocali emesse con fluidità. In “Lontan dal solo e caro […] Lusingato dalla speme” dal Polifemo, con intervento dell’oboe solista di Pier Luigi Fabretti, si ammirano la luminosità del timbro della cantante, a tratti sopranile nel colore, nonché la spiccata sensibilità musicale, mentre in “Chi non sente al mio dolore” da La Merope di Riccardo Broschi emergono i gravi scuri, quasi androgini, tipici della Bartoli, e note alte fulminanti nella loro sfacciata lucentezza. Dalla Semiramide Regina dell’Assiria di Porpora proviene l’aria “Come nave in ria tempesta”, contraddistinta da picchettati adamantini e vorticosi, emessi con sfrontatezza, e da agogiche rapinose; un fraseggio scavato, minuziosamente cesellato e intriso di pathos, e linee di canto più rilassate e ampie sono, invece, la cifra stilistica del successivo “Mancare o Dio mi sento” dall’Adriano in Siria di Geminiano Giacomelli. Un tono battagliero caratterizza “Sì, traditor tu sei” da La Merope di Broschi, in cui si ammirano la duttilità dello strumento vocale del mezzosoprano e la sua espressività pugnace e accesa; la nitidezza nell’emissione e nel porgere la parola contrassegna “Questi al cor fin’ora ignoti” da La morte d’Abel di Antonio Caldara. In “Signor, la tua speranza […] A Dio trono, impero a Dio” dal Marc’Antonio e Cleopatra affiorano, soprattutto, una musicalità raffinata, la notevole
dimestichezza nel passare velocemente da tempi dilatati ad altri spediti, una recitazione incisiva nel parlato, di forte carica espressiva. Chiude l’elenco dei brani una perla di struggente malinconia, “Alto Giove” dal Polifemo, dove emerge in toto il lato maggiormente lirico e intenso della Bartoli, grazie a trilli e filati adamantini, una buona tenuta dei fiati, un’interpretazione sofferta e introspettiva. Quest’ultimo è inciso assieme all’ensemble Les Musiciens du Prince-Monaco, nato nel 2016 proprio su iniziativa di Cecilia Bartoli, diretto con gusto da Gianluca Capuano. [Rating:4.5/5] FARINELLI Il Giardino Armonico Direttore Giovanni Antonini Mezzosoprano Cecilia Bartoli Decca Formato: cd Como, Teatro Sociale – Aida Correva l’ormai lontano 2001 quando, in occasione del centenario di morte di Giuseppe Verdi, si decise di mettere in scena, nel minuscolo Teatro di Busseto (sette metri di proscenio e una capienza di duecentocinquanta posti), una delle opere più monumentali del compositore, Aida. A volere fortemente tale celeberrimo titolo su libretto del lecchese Antonio Ghislanzoni, accettando la sfida di allestirlo nello spazio ridotto del teatrino-bomboniera curandone regia e scenografie, fu il compianto Franco Zeffirelli, fautore di un vero e proprio gioiellino, una “Aidina piccola piccola ma immensamente grande”, come l’ha definita il maestro stesso, riproposta quest’anno dal Teatro Regio di Parma in coproduzione con OperaLombardia.
Di solido impianto tradizionale lo spettacolo, oggi ripreso con dimestichezza da Stefano Trespidi, è un cammeo prezioso in cui emergono in toto le caratteristiche dell’arte zeffirelliana: una maniacale cura di ogni singolo particolare; un gusto estetizzante oleografico, spesso sfociante nel barocchismo; un saldo rigore formale; una grandeur quasi liturgica; la fedeltà filologica al testo e al dettato; il perseguimento del Bello assoluto, il tutto forgiato e unificato da un’imaginifica potenza creatrice. Nella fattispecie, l’Aida qui recensita, vista sulle tavole del Teatro Sociale di Como in un piovoso pomeriggio di inizio dicembre, è un profluvio di oro, bassorilievi, geroglifici, gigantesche statue di divinità nilotiche, incenso profumato, ieratici soldati dipinti di blu acceso; un antico Egitto solivo e al contempo notturno, sacrale e misterioso, voluttuoso e fantasioso, dalla dimensione maggiormente privata e intimistica. In tale struttura, dove la recitazione dei solisti e delle masse è improntata a una gestualità tutto sommato convenzionale, a tratti rituale, viene dato maggiore rilievo alle emozioni e agli affetti dei personaggi, filtrati come attraverso una lente d’ingrandimento: per esempio, a inizio del I atto Radamès e Amneris si baciano appassionatamente, provocando lo sgomento di Aida; oppure, durante il Finale secondo, la schiava etiope e il condottiero si scambiano uno sguardo intenso. E, vivaddio, Aida è truccata di nero, con buona pace dei benpensanti (veri o presunti tali) e del politicamente corretto che imperversa ai giorni nostri, fautori di un’inspiegabile battaglia contro il blackface. Fastosi ed eleganti i bei costumi di Anna Anni, ripresi da Lorena Marin ed estremamente curati (si vogliono citare almeno i due semplici abiti indossati dalla protagonista, giocati sulle cromie del rosso nei primi due atti e del blu negli ultimi due, che rimandano alla foggia degli indumenti femminili in cotone in uso in Africa orientale); solenni le coreografie di Luc Bouy nel I atto (vengono infatti tagliati tutti i ballabili del II atto), guidate dalla valida e aggraziata ballerina solista Giorgia Giancon nei panni di una
spirituale sacerdotessa del tempio di Vulcano; potentemente atmosferiche ed evocative le luci di Fiammetta Baldiserri, come sempre garanzia di qualità. Sul podio dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali, con gusto Francesco Cilluffo dà vita a una lettura vibrante e tesa, di sapore quasi novecentesco in alcuni passaggi (a titolo esemplificativo, si menzionino le taglienti percussioni nella gran scena del giudizio di Radamès), dosando sapientemente le parti di maggior trionfalismo, improntate a sonorità piene e rutilanti ma mai soverchianti o bandistiche, e soffici pennellate di suono nuancée e perlaceo, in particolare nell’incipit dell’atto III o nel Finale ultimo. Vocalità pastosa del colore del caramello ed emessa morbidamente, omogenea in tutti i registri e corposa in acuto, Maria Teresa Leva impersona una protagonista determinata, combattiva, passionale e, al contempo, affranta; nella scena “Ritorna vincitor!” e, ancor più, nella romanza “O cieli azzurri”, entrambe accolte da scroscianti applausi a scena aperta, il soprano dà prova di una salda tenuta dei fiati, esibendo con grazia e precisione messe di voce e filati di impalpabile, serica consistenza, di suggestiva bellezza. Grazie a uno strumento vocale rigoglioso e sonoro, timbricamente caldo, facile all’acuto ed emesso stentoreamente, e servendosi di un fraseggio enfatico, a tratti poco approfondito, il tenore Samuele Simoncini delinea un Radamès eroico, poderoso, scenicamente prestante, affrontando complessivamente con sicurezza la romanza “Celeste Aida”, anch’essa applaudita dal pubblico. L’Amneris di Cristina Melis si distingue per una voce mezzosopranile ambrata, vellutata nelle note basse, lucente in quelle alte, come ampiamente dimostrato soprattutto nel quarto atto, dove conclude l’impegnativa Scena del Giudizio con un la timbrato e sfolgorante. L’attrice è, poi, credibile, interpretando una donna risoluta e innamorata, non la solita virago alla quale siamo spesso abituati.
Il baritono coreano Leon Kim è un Amonasro solido, vocalmente tonante e vigoroso nella recitazione, avaro di sfumature nel porgere la parola. Statuario e maestoso il Ramfis del basso Fabrizio Beggi; composto il Re d’Egitto di Francesco Milanese; ben caratterizzato il messaggero di Alessandro Mundula; musicale la sacerdotessa di Teresa Di Bari. Centrati ed espressivi gli interventi del Coro OperaLombardia, guidato con padronanza da Diego Maccagnola. Teatro quasi esaurito e festante successo di pubblico, con ovazioni specialmente per Leva, Simoncini, Melis e Cilluffo. Un riuscito, gradito e doveroso omaggio alla memoria e all’arte del maestro Zeffirelli, scomparso lo scorso 15 giugno. [Rating:4/5] Teatro Sociale – Stagione 2019/20 AIDA Opera drammatica in quattro atti Libretto di Antonio Ghislanzoni Musica di Giuseppe Verdi Aida Maria Teresa Leva Radamès Samuele Simoncini Amneris Cristina Melis Amonasro Leon Kim Ramfis Fabrizio Beggi Il Re d’Egitto Francesco Milanese Una sacerdotessa Teresa Di Bari Un messaggero Alessandro Mundula Orchestra I Pomeriggi Musicali Coro OperaLombardia Direttore Francesco Cilluffo Maestro del coro Diego Maccagnola Regia e scene Franco Zeffirelli riprese da Stefano Trespidi Costumi Anna Anni ripresi da Lorena Marin Luci Fiammetta Baldiserri Coreografia Luc Bouy Assistente regia Giulia Bonuccelli
Assistente costumi Sara Tosoni Allestimento realizzato per il Teatro di Busseto in occasione del primo centenario della morte di Giuseppe Verdi, ripreso dal Teatro Regio di Parma in coproduzione con i Teatri di OperaLombardia Como, 1 dicembre 2019 Photo credit: Alessia Santambrogio Photo credit: Alessia Santambrogio
Photo credit: Alessia Santambrogio Photo credit: Alessia Santambrogio Photo credit: Alessia Santambrogio
Photo credit: Alessia Santambrogio
Photo credit: Alessia Santambrogio Photo credit: Alessia Santambrogio Bergamo, Donizetti Opera 2019 – Lucrezia Borgia Da qualche anno a questa parte sempre più teatri italiani hanno preso la buona abitudine di proporre, in cartellone, titoli basati su nuove edizioni critiche o versioni desuete, in un fertile lavoro filologico di riscoperta e valorizzazione dell’eredità operistica. Ben ha fatto, quindi, il Donizetti Opera a mettere in scena, in chiusura di festival, una
composizione celebre come Lucrezia Borgia nell’edizione critica a cura di Roger Parker e Rosie Ward in collaborazione con Casa Ricordi e con il contributo del Comune di Bergamo e della Fondazione Teatro Donizetti, optando per la variante del Théâtre Italien di Parigi del 31 ottobre 1840 (partendo comunque da quella solitamente eseguita, che debuttò al Teatro alla Scala il 26 dicembre 1833, in un riuscito ibrido tra le due). Opera seria in un prologo e due atti su libretto di Felice Romani dall’omonima tragedia di Victor Hugo, in essa Gaetano Donizetti dipinge una protagonista dall’accentuato aspetto larmoyant e patetico, una madre inquieta e preoccupata per il destino del figlio segreto Gennaro, per il quale nutre un sentimento casto e ostinato: una lettura, quindi, lontana da quella a tinte fosche della tradizione, che vede nella duchessa di Ferrara rampolla di papa Alessandro VI una assassina incestuosa e peccaminosa (sebbene nel finale si macchierà dell’involontario omicidio dell’amato discendente). Nella raccolta cornice del Teatro Sociale di Bergamo va in scena un nuovo allestimento in coproduzione con la Fondazione Teatri di Reggio Emilia, la Fondazione Teatri di Piacenza, la Fondazione Ravenna Manifestazioni e la Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste. Il giovane regista Andrea Bernard concepisce uno spettacolo potentemente umano e simbolico, ricco di spunti interessanti, concentrato principalmente su di una sfaccettatura del personaggio Lucrezia, il suo essere madre. Sin dall’ouverture compaiono, difatti, oggetti o gesti allusivi alla sua vocazione materna: la donna regge tra le braccia un bimbo in fasce e lo allatta al seno; il latte materno fungerà da antidoto contro il veleno assunto da Gennaro; nel secondo atto compariranno sul palcoscenico cinque candide culle in legno bianco. E, nello straziante finale, mentre intona lo struggente “Era desso il figlio mio”, la protagonista si ferirà ripetutamente con un pugnale proprio al petto, fonte di nutrimento e mezzo di contatto tra mamma e neonato nei primissimi mesi di vita, per sottolineare (con tanto di realistici fiotti di sangue che
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