Il diritto internazionale penale come vincolo per gli ordinamenti interni: il trasferimento dei procedimenti dall'ICTY ai tribunali bosniaci ed un ...

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Il diritto internazionale penale come vincolo
                per gli ordinamenti interni: il trasferimento
                dei procedimenti dall’ICTY ai tribunali bosniaci
                ed un nuovo modello di complementarietà
                di Luigi Prosperi

                Sommario: 1. Introduzione: il ruolo della complementarietà nella nascita del sistema di giustizia
                      internazionale; 2. La primazia del Tribunale per la ex Jugoslavia: gli interessi sottesi alla
                      punizione dei crimini a livello internazionale; 2.1. La crisi della legittimazione del Tri-
                      bunale internazionale; 3. La completion strategy dei Tribunali ad hoc e le conseguenze
                      sull’attuazione del principio di primazia; 4. Le decisioni del Referral Bench in ordine
                      al trasferimento dei procedimenti: la Bosnia Erzegovina e la “capacità” del suo siste-
                      ma giudiziario; 5. La cooperazione delle autorità della Bosnia Erzegovina: ruolo della
                      War Crimes Chamber della Corte di Stato e monitoraggio dei procedimenti trasferiti;
                      6. Conclusione: la lezione della completion strategy, modello di esecuzione del diritto
                      internazionale penale riproducibile dagli organi della Corte Penale Internazionale?

                1. Introduzione: il ruolo della complementarietà nella nascita del sistema
                    di giustizia internazionale

                    Le vicende della primazia dei tribunali ad hoc hanno rappresentato (e tuttora
                rappresentano) uno dei principali banchi di prova del sistema di giustizia internazio-
                nale. L’allocazione della giurisdizione tra corti internazionali e statali, i rapporti tra
                ordinamenti, l’eventuale facoltà di imporre alle autorità di uno Stato di perseguire
                (o consegnare ad organi che intendano farlo) coloro i quali siano accusati della
                commissione di crimini internazionali sono infatti alcune delle principali questioni
                che sarebbero stati chiamati a risolvere nel corso della loro attività.
                    Nell’odierno intervento ci occuperemo in particolare del Tribunale per la ex
                Jugoslavia, istituito in base ad una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Na-
                zioni Unite, come misura non implicante l’uso della forza e tesa al ristabilimento
                della pace nei territori una volta appartenenti alla Repubblica Socialista Federale
                di Jugoslavia. Di tale funzione pacificatoria era espressione la scelta in ordine alla
                primazia, che si traduceva non tanto nel potere degli organi del Tribunale interna-

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                  zionale di imporre alle autorità statali determinate attività o linee guida e principi
                  direttivi riferiti alle persecuzioni, quanto in una vera e propria sostituzione di quelle
                  nell’esercizio della competenza giurisdizionale. Pur preoccupandoci di indagare le
                  cause e le considerazioni che condussero alla decisione, attraverso l’analisi delle
                  vicende successive – e dell’entrata in funzione della Corte Penale Internazionale, la
                  cui giurisdizione si fonda sul diverso principio della complementarietà – cerchere-
                  mo di verificare se nell’ultimo decennio si sia dato vita ad un più complesso sistema
                  di giustizia internazionale, capace di integrare gli ordinamenti penali, internazionale
                  ed interno.
                      Con l’approvazione della c.d. completion strategy da parte del Consiglio di si-
                  curezza, infatti, non si sarebbe tanto imposto al Tribunale per la ex Jugoslavia di
                  completare il proprio mandato, quanto si sarebbe proposto un nuovo modello per
                  l’allocazione della competenza giurisdizionale. Si tratterà dunque di individuare ele-
                  menti che contribuiscano all’emersione di tale sistema di giustizia, nel cui ambito gli
                  organi della Corte Penale Internazionale e dei Tribunali ad hoc rivestano un ruolo
                  di guida, ma in cui la persecuzione dei crimini internazionali – e di conseguenza
                  l’esecuzione del diritto internazionale penale – sia rimessa in primo luogo alle corti
                  interne, in applicazione delle linee guida e degli standard da quelli individuati.
                      Affinché si possa pervenire ad una simile conclusione, occorrerà innanzitutto
                  indagare l’esistenza di obblighi internazionali che si impongano agli Stati. L’analisi
                  della prassi del Tribunale per la ex Jugoslavia sul concreto esplicarsi della primazia,
                  nonché quella che si concentri sulle prime decisioni degli organi della Corte Penale
                  Internazionale in ordine all’ammissibilità dei casi, necessariamente affiancherà lo
                  studio dei rispettivi Statuti e Regolamenti di Procedura e Prova. Anche laddove si
                  dovesse pervenire ad una risposta negativa in ordine all’esistenza di obblighi inter-
                  nazionali, tuttavia, attraverso l’esame – da un lato – delle strategie dei Procuratori,
                  degli emendamenti apportati al Regolamento di Procedura e di Prova (al fine di
                  consentire un (ri)trasferimento dei procedimenti alle giurisdizioni statali) e degli in-
                  terventi finalizzati all’attuazione della c.d. completion strategy da parte del Tribunale
                  per la ex Jugoslavia (su tutti, il decisivo contributo della Comunità internazionale
                  alla creazione di istituzioni affidabili nei Paesi della ex Jugoslavia, con particolare
                  riferimento alla Bosnia Erzegovina); e – dall’altro – dei più recenti rilievi circa la
                  funzione del Procuratore della Corte Penale Internazionale, e della riconducibilità
                  della giurisdizione di questa al principio della c.d. complementarietà proattiva; si
                  potrebbe in ogni caso ipotizzare (quantomeno) che la Comunità internazionale
                  dimostri l’aspirazione concreta all’individuazione e attivazione di una nuova forma
                  di complementarietà (c.d. proattiva) quale principio che regolamenti il rapporto tra
                  giurisdizioni, e più in generale tra ordinamenti penali, internazionale e statali. In ba-
                  se alla quale, da ultimo, si dovrebbe riconoscere la strumentalità all’effettiva applica-

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                zione di un complessivo sistema di giustizia internazionale dell’esecuzione indiretta
                del diritto internazionale penale, quella cioè che si basi innanzitutto sulle autorità
                statali, intese come organi della Comunità internazionale. Ciò che in dottrina è sta-
                to indicato come dédoublement fonctionnel1, e che si sostanzia nella qualificazione
                dell’esercizio della giurisdizione sui crimini internazionali, da parte dei tribunali sta-
                tali, come attività giurisdizionale esercitata in nome e per conto dell’intera comunità
                internazionale, piuttosto che una forma di esercizio del potere sovrano statale. In
                conclusione, i giudici statali, se e qualora esercitino la giurisdizione su quei crimini,
                agirebbero anche come organi giudiziari della comunità internazionale, e dunque
                dovrebbero pronunciarsi in maniera conforme agli standard posti dalle norme del
                diritto internazionale penale.

                2. La primazia del Tribunale per la ex Jugoslavia: gli interessi sottesi
                    alla punizione dei crimini a livello internazionale

                    Il Tribunale Internazionale per la persecuzione delle persone responsabili di
                gravi violazioni del diritto umanitario commesse nel territorio della ex Jugoslavia
                sin dal 1991, noto come Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia, venne
                istituito il 25 maggio 1993, mediante la risoluzione numero 8272 del Consiglio di
                Sicurezza (a cui veniva allegato lo Statuto del tribunale).
                    Con la quale, stabilito che la persistente violazione del diritto umanitario com-
                messa nel corso del conflitto interno (e la mancata conformazione delle parti in

                1 P. Gaeta, «International criminalization of prohibited conduct», in A. Cassese (a cura di), Interna-
                tional Criminal Justice (The Oxford Companion to), New York, 2009, pag. 65.
                L’Autrice evidenzia come alcuni tribunali statali sembrino totalmente consapevoli del fenomeno: cfr.
                il giudizio della Corte Suprema di Israele del 29 Maggio 1962 sul caso Eichmann, laddove la Corte
                stabilì che “[n]on solo tutti i crimini ascritti all’imputato hanno natura internazionale, ma i loro effetti
                (…) furono talmente terribili e diffusi da colpire gli stessi caposaldi della comunità internazionale. Lo
                Stato d’Israele perciò era legittimato, ai sensi del principio di giurisdizione universale e come guardiano
                del diritto internazionale e garante dell’esecuzione di questo, a processare il ricorrente (…)” (sentenza
                disponibile all’indirizzo http://www.nizkor.org).
                Nello stesso senso si veda la decisione del 31 ottobre 1985 sul caso Demajnjuk, laddove una Corte
                USA decise che “il presupposto è che i crimini [di cui Demajnjuk era accusato] sono offese contro il
                diritto delle nazioni o contro l’umanità stessa e che lo Stato agente è rappresentante di tutti gli altri. In
                tal senso (…) perseguirà l’interesse collettivo nel processare ed eventualmente punire l’autore di quei
                crimini” (776 F.2d 57, 1985, par. 21).
                L’espressione dédoublement fonctionnel venne per la prima volta utilizzata da George Scelle (Précis
                de Droit de Gens, I, Parigi, 1932, pag. 43).
                Nello stesso senso, cfr. A. Oriolo, La responsabilità penale internazionale degli individui: tra sovranità
                statale e giurisdizione universale, Napoli, 2008, pagg. 92-93.
                2 U.N. Doc. S/RES/827 del 25 maggio 1993.

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                  causa alle precedenti risoluzioni, con cui era stato imposto il cessate il fuoco3) rap-
                  presentava una minaccia alla pace e sicurezza internazionale, il Consiglio decideva
                  di istituire un tribunale internazionale ai sensi dell’art. 41 della Carta ONU, ossia
                  come misura non implicante l’uso della forza tesa al ristabilimento della pace.
                      Lo Statuto del Tribunale stabiliva innanzitutto la competenza (ratione personae,
                  locii, materiae e temporis) dell’organo giurisdizionale; quindi, all’articolo 9, pur
                  premettendo che avrebbe avuto giurisdizione concorrente rispetto a quella delle
                  corti statali (par. 1), specificava che l’organo internazionale era dotato di primazia
                  rispetto a queste ultime, e che dunque avrebbe potuto inoltrare alle autorità statali
                  – in qualsiasi momento del procedimento – una formale richiesta di deferimento
                  della causa (in conformità al Regolamento di Procedura e di Prova, che sarebbe
                  stato emanato dai giudici della corte l’11 febbraio 1994). Ulteriore esplicazione
                  della primazia: il successivo Articolo 10, in base al quale nessuno sarebbe potuto
                  essere giudicato per la commissione di crimini costituenti gravi violazioni del di-
                  ritto internazionale umanitario ai sensi dello Statuto stesso, qualora già sottoposto
                  ad un procedimento da parte del Tribunale internazionale (par. 1); al contrario,
                  quest’ultimo avrebbe potuto sottoporre ad un procedimento anche quelle persone
                  che fossero state perseguite a livello statale (par. 2): qualora le condotte fossero state
                  qualificate reati comuni (lettera a) ovvero quei processi non fossero stati condotti da
                  organo imparziale e indipendente, o avessero lo scopo di impedire che l’imputato
                  fosse riconosciuto penalmente responsabile in base al diritto internazionale, o infine
                  il procedimento fosse stato condotto senza la necessaria diligenza (lettera b).

                     Proprio gli effetti giuridici del principio della primazia, ossia il suo concreto at-
                  teggiarsi nei rapporti tra la corte internazionale e le sovranità statali, sarebbero stati
                  oggetto di alcune tra le prime obiezioni mosse dalle difese degli imputati comparsi
                  a L’Aja.

                  3 La risoluzione 827 era in effetti il risultato di una escalation di decisioni – la prima delle quali datata
                  25 settembre 1991 (risoluzione numero 713) – culminata il 22 febbraio precedente con l’adozione della
                  risoluzione numero 808 (richiesta di cessare immediatamente qualsiasi violazione del diritto interna-
                  zionale umanitario nel contesto della guerra civile che era scoppiata a seguito della dissoluzione della
                  Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia). Tenendo in considerazione la conclusione in tal senso
                  del Rapporto della Commissione di Esperti (nominata con la risoluzione 780 del 1992), il Consiglio
                  di sicurezza decideva di istituire un tribunale internazionale che perseguisse gli autori delle gravissime
                  violazioni del diritto internazionale umanitario commesse a partire dal 1991 su quel territorio e rimet-
                  teva al Segretario Generale ONU il compito di presentare (se possibile) entro 60 giorni un rapporto su
                  tutti gli aspetti della questione e di proporre opzioni per l’effettiva e rapida implementazione di quella
                  decisione. Una volta ricevuto il rapporto (UN Security Council, Report of the Secretary-General Pur-
                  suant to Paragraph 2 of Security Council Resolution 808 (1993), 3 maggio 1993, S/25704, disponibile
                  all’indirizzo http://www.unhcr.org/refworld/docid/3ae6af0110.html – ultimo accesso 28 giugno 2012),
                  nel giro di pochissimi giorni emetteva la risoluzione 827, cui era allegato lo Statuto del Tribunale.

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                    In assenza di norme di riferimento, nei primi mesi di attività al Procuratore ap-
                parve opportuno varare in piena autonomia una strategia piramidale, in base a cui
                ci si sarebbe concentrati prima sui “pesci piccoli”4, salendo quindi i gradoni fino al
                vertice (della struttura politica e militare degli enti coinvolti). Scelta che d’altronde
                potrebbe oggi considerarsi obbligata, dal momento che nei primi anni di attività
                gli organi del Tribunale si sarebbero scontrati con forti resistenze da parte degli
                Stati della ex Jugoslavia all’esecuzione di mandati d’arresto e richieste di consegna
                degli accusati, specialmente laddove questi rivestissero importanti cariche politiche
                o militari. L’obbligo di cooperare di cui all’art. 29 dello Statuto non era stato in-
                fatti accompagnato dal conferimento in capo ad organi internazionali (che fossero
                l’Ufficio del Procuratore, una Camera del Tribunale stesso o il suo Presidente) di
                alcun tipo di potere sanzionatorio o coercitivo, dando adito a discussioni circa la sua
                effettiva portata e l’eventuale natura giuridica di obbligo internazionale.

                    In tale ottica, il maggior problema era rappresentato dalla mancata o inadeguata
                cooperazione da parte degli Stati coinvolti: i quali, dal canto loro, sarebbero stati
                coinvolti nel conflitto fino al termine del 1995 (gli Accordi di Pace furono sotto-
                scritti il 21 novembre 1995 nella base Wright-Patterson di Dayton, Ohio (USA) e
                perfezionati a Parigi il 14 dicembre); e non avrebbero in ogni caso abdicato alla fun-
                zione giurisdizionale, essendo il potere punitivo una delle massime espressioni della
                sovranità – e in quei frangenti, all’occorrenza, una potente arma politica. Si ricorda
                in dottrina come una delle cause della scelta in ordine al riferimento alla primazia
                come principio regolatore dei rapporti tra tribunale internazionale e quelli statali
                sarebbe stata l’assenza di istituzioni che garantissero la persecuzione dei crimini, o
                per mancanza di volontà o per obiettiva incapacità5. A titolo di esempio, si eviden-
                zia come in Bosnia gli individui accusati della commissione dei crimini di guerra e
                contro il diritto internazionale umanitario venissero processati da giudici militari o
                civili, e in seconda battuta la Camera dei Diritti Umani della Bosnia Erzegovina6
                avesse il potere di verificare se quei procedimenti fossero stati condotti in maniera
                equa. Si verificavano quindi casi come quello di Sretko Damjanovic, che la Corte

                4 Espressione utilizzata da A. Cassese («The ICTY: A Living and Vital Reality», in Journal of Interna-
                tional Criminal Law, 2004, pagg. 585 e segg.) e P.M. Wald («ICTY Judicial proceedings: An Appraisal
                From Within», in Journal of International Criminal Law, 2004, pagg. 466 e segg.).
                5 F. Donlon, «Completion or Creation: Is the Closure of International Courts Promoting the Creation

                of Domestic Courts to Enforce International Criminal Law?», intervento inoltrato in qualità di delegato
                alla 22esima Conferenza Internazionale della International Society for the Reform of Criminal Law
                (ISRCL), svoltasi a Dublino, dall’11 al 15 Luglio 2008 – e liberamente consultabile all’indirizzo http://
                www.isrcl.org/Papers/2008/Donlon.pdf (ultimo accesso: 28 giugno 2012).
                6 Il cui mandato, funzionamento e composizione sono regolamentati dal VI Allegato al General Fra-

                mework Agreement for Peace in Bosnia and Herzegovina di Dayton.

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                  Distrettuale Militare di Sarajevo nel 1993 aveva dichiarato responsabile della com-
                  missione di crimini contro l’umanità e genocidio e condannato alla pena capitale,
                  al termine di un processo che secondo la Camera dei Diritti Umani (intervenuta
                  peraltro nel 1997, a quattro anni di distanza) avrebbe evidenziato tutte le carenze
                  di quel sistema, sia perché la decisione era stata emessa da un organo sottoposto a
                  pressioni derivanti dal conflitto in corso, sia perché il fatto che i giudici potessero
                  essere rimossi su proposta del Ministero della Difesa ne minava l’indipendenza e
                  – in conclusione – poneva seri dubbi sulla qualifica di “tribunale” di quell’organo.
                  Ordinato perciò un nuovo processo, la sentenza veniva infine annullata7.

                      La situazione della Bosnia Erzegovina appare del tutto particolare, come testi-
                  monia il fatto che persino la Costituzione del nuovo Stato fosse contenuta in un
                  Allegato (il IV) all’Accordo di Dayton, e dunque etero-negoziata e in qualche modo
                  imposta dalla Comunità internazionale, così come la nuova struttura amministrativa
                  del Paese (diviso in due entità, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Repub-
                  blica Srpska, 10 cantoni e il distretto autonomo di Briko). Quanto alla Repubblica
                  di Serbia e alla Croazia, va detto che nei primi anni di funzionamento del Tribunale
                  internazionale le rispettive autorità mostrarono forti resistenze alle richieste di colla-
                  borazione inoltrate dai suoi organi: a titolo esemplificativo si può citare la mancata
                  esecuzione dei mandati d’arresto dei c.d. ‘tre di Vukovar’8, ma soprattutto di quelli
                  a carico di Radovan Karadzic9 e Ratko Mladic10.

                  7 Cfr. rispettivamente Sretko Damjanovic v. The Federation of Bosnia and Herzegovina (CH/96/30),
                  Human Rights Chamber of Bosnia and Herzegovina, Decision on Admissibility, (April 11, 1997); e
                  Sretko Damjanovic v. The Federation of Bosnia and Herzegovina (CH/96/30), Human Rights Chamber
                  of Bosnia and Herzegovina, Decision on Merits of the Case, (September 5, 1997).
                  8 Vedi The Prosecutor v. Mile Mrksic et alii, IT-95-13/1. Il caso riguardava tre cittadini serbi: il colon-

                  nello Mile Mrksic, il capitano Miroslav Radic e il maggiore Veselin Sljivancanin, accusati dal Tribunale
                  di aver ordinato, al termine dell’assedio di Vukovar (cittadina della Slavonia, situata nella Croazia orien-
                  tale, contesa da Croati e Serbi – avendo questi ultimi proclamato la costituzione della Repubblica di
                  Krajina dopo l’emissione della dichiarazione d’indipendenza da parte della Croazia), la sottoposizione a
                  torture e l’uccisione di civili e appartenenti all’esercito croato (l’incriminazione sarebbe stata in seguito
                  soggetta a modifiche: in particolare l’ordine di uccidere 206 feriti, ricoverati in una struttura ospedaliera
                  locale, sarebbe stato imputato al generale Vojislav Seselj). Dopo 8 anni di latitanza, solo nel 2003 i tre
                  ufficiali sarebbero stati arrestati e consegnati al Tribunale internazionale.
                  9 Radovan Karadzic, ex Presidente della Repubblica Srpska (dal 13 maggio 1992), incriminato sin dal

                  24 luglio 1995 per la commissione di crimini di genocidio, di guerra e contro l’umanità (per aver tra
                  l’altro ordinato il massacro di Srebrenica), e contestualmente fatto oggetto di mandato di cattura inter-
                  nazionale, sarebbe stato arrestato soltanto il 21 luglio 2008, a Belgrado, dalla polizia locale.
                  10 Il colonnello Ratko Mladic, comandante del distretto di Sarajevo dal 10 maggio 1992, e Capo di

                  Stato Maggiore dell’esercito serbo-bosniaco a partire dal 12 maggio (carica che avrebbe mantenuto
                  fino al 1996), si distinse (e venne poi incriminato, il 24 luglio 1995 – assieme al suddetto Karadzic) sia
                  per la partecipazione allo stesso massacro di Srebrenica che per una serie di crimini contro l’umanità

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                    Tutto quanto sin qui ricordato ci permette di meglio comprendere come mai in
                quello stesso periodo (precisamente il 18 febbraio 1996), la Comunità internazio-
                nale sottoscrisse le c.d. “Rules of the Road” (da qui in avanti RoR) – nome della
                procedura accettata dai Capi di Governo dei Paesi della ex Jugoslavia, contenuta
                nell’Accordo di Roma, e che aveva lo scopo di garantire che il ritorno dei rifugiati e
                degli sfollati nel territorio della Bosnia Erzegovina non sarebbe stato occasione per
                l’avvio di procedimenti penali e la sottoposizione ad arresti e detenzioni arbitrarie11.
                L’art. 5, par. 2 di tale convenzione prevedeva che le persone che non fossero già sta-
                te oggetto di un’imputazione formale da parte del Tribunale Internazionale avreb-
                bero potuto essere arrestate e detenute per gravi violazioni del diritto internazionale
                umanitario soltanto ove l’ordinanza, il mandato di arresto o l’imputazione emessi
                dalle autorità inquirenti della Bosnia Erzegovina fossero state valutate dal Tribu-
                nale internazionale e ritenute conformi allo standard internazionale di protezione
                dei diritti umani. In particolare, all’Ufficio del Procuratore Capo era attribuito il
                compito di decidere se vi fossero prove sufficienti a ritenere che il sospettato potesse
                aver commesso crimini internazionali12. Così rinsaldando la primazia del Tribunale
                internazionale, trasformato in organo di indirizzo e controllo delle indagini su tutti
                i crimini internazionali su cui gli fosse stata attribuita competenza dallo Statuto,
                a scapito della stessa legittimazione degli organi giurisdizionali statali (costretti a
                chiedere una sorta di autorizzazione a procedere e vincolati al riconoscimento della
                validità dell’imputazione) e del riconoscimento di una qualche capacità professio-
                nale in capo agli operatori del diritto locali13.

                2.1 La crisi della legittimazione del Tribunale internazionale
                    Attenti osservatori avrebbero evidenziato, rispetto alla cornice normativa sin qui
                presentata, che attraverso le loro decisioni gli Stati avevano accettato di essere rap-
                presentati dal Consiglio di sicurezza14: prima mediante cessione del potere punitivo
                statale, operata con la ratifica dello Statuto ONU, e in seguito anche attraverso la

                e di genocidio (realizzati tra le altre cose attraverso stupri sistematici e istituzione di campi di concen-
                tramento), sarebbe invece stato arrestato il 26 maggio 2011 – e il penultimo imputato consegnato al
                Tribunale de L’Aja.
                11 Sottoscritto (a Roma, per l’appunto) dai presidenti in carica Izetbegovic (Bosnia Erzegovina),

                Tudjman (Croazia) e Milosevic (Repubblica Serba) il 18 febbraio 1996.
                12 Cfr. ICTY Office of the Prosecutor, Procedures and Guidelines for Parties for the Submission of

                Cases to the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia Under the Agreed Measures
                of February 18.
                13 In tal senso A. Chehtman, «Developing Bosnia and Herzegovina’s Capacity to Process War Crimes

                Cases. Critical Notes on a ‘Success Story’», in Journal of International Criminal Justice, 2011, pag. 556.
                14 J. Alvarez, «Nuremberg revisited: the Tadic Case», in European Journal of International Law, 1996,

                pagg. 253-254.

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                  sottoscrizione di accordi quali quello testé citato. Si tratterebbe allora di stabilire
                  se a seguito dell’istituzione del Tribunale e della volontaria, ulteriore cessione di
                  sovranità quegli Stati – e in particolare la Bosnia Erzegovina, il più attivo di loro
                  – non abbiano riconosciuto come prevalente l’interesse della Comunità internazio-
                  nale alla persecuzione degli autori dei crimini internazionali, o abbiano comunque
                  volontariamente limitato la propria sovranità; e quali conseguenze possa spiegare,
                  al contrario, un’eventuale resistenza da parte delle autorità statali, che si esprima
                  attraverso il tentativo di proteggere quegli individui.

                      In una delle sue prime decisioni15, rigettate le obiezioni in ordine alla presunta
                  illegittimità dell’istituzione del Tribunale, la Camera d’Appello avrebbe risposto
                  che soltanto gli Stati hanno il potere di agire a tutela della propria sovranità16; e che
                  anche qualora all’individuo si volesse riconoscere un diritto a sollevare la questione,
                  poiché strumentale a quello di appello, gli artt. 9 e 10 dello Statuto del Tribunale,
                  e gli artt. 8-13 del Regolamento di Procedura e di Prova avrebbero costituito fon-
                  damento giuridico della limitazione della sovranità statale. Queste norme tuttavia
                  non sarebbero invocabili di per sé, non avendo l’effetto immediato di restringere
                  la giurisdizione dei tribunali statali: nel caso specifico, l’organo internazionale
                  avrebbe respinto l’obiezione del convenuto sulla base del rilievo che la Germania
                  si era dotata di legge di adattamento allo Statuto del Tribunale, n. 18 del 10 aprile
                  1995 (sulla cui base il 18 aprile la Suprema Corte della Baviera avrebbe autorizzato
                  il trasferimento). Quanto alla Bosnia, non soltanto si sarebbe conformata all’ob-
                  bligo di deferimento, ma come abbiamo visto avrebbe pienamente attuato anche
                  il programma delle RoR. In conclusione, dunque, secondo tale approccio sarebbe
                  l’adattamento a rendere effettiva la primazia: spettando soltanto agli Stati, e doven-
                  dosi esprimere in una loro chiara manifestazione di volontà, il potere di cedere parti
                  della propria sovranità17.
                      D’altro canto, veniva evidenziato che il principio secondo cui “i diritti uma-
                  ni avrebbero la funzione di contrastare gli abusi di potere” dovrebbe applicarsi
                  anche “alle espressioni di potere della Comunità internazionale, non potendo il
                  fine dell’intervento di questa giustificare deviazioni dallo standard minimo univer-

                  15 The Prosecutor v. Dusko Tadic, Decision on the Defence Motion for Interlocutory Appeal on Juris-
                  diction, Appeals Chamber, (IT-94-1), 2 ottobre 1995.
                  16 Nello specifico, l’accusato si doleva della presunta illegalità del proprio trasferimento, operato dalle

                  autorità giudiziarie della Germania in pendenza di un procedimento nei suoi confronti. Sosteneva infatti
                  che l’individuo debba essere riconosciuto come titolare di un diritto al giudice naturale, autonomo
                  rispetto al potere punitivo dello Stato (e da questo non negoziabile).
                  17 F. Lattanzi, «La primazia del Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia sulle giurisdizioni

                  interne», in Rivista di diritto internazionale, 1996, pagg. 610-611.

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                salmente accettato dagli Stati ad essa appartenenti (…)”. Di modo che anche in
                questi casi “si tratta di operare un bilanciamento di interessi, prodromico al quale
                sarà la compilazione o quantomeno il riconoscimento di un nucleo fondamentale
                di diritti, inalienabili e invocabili da qualsiasi individuo, dinanzi ad un tribunale
                interno o internazionale, contro qualsiasi organo detenga il potere di violarli, ossia
                la giurisdizione sull’individuo stesso”18. Nello specifico, poiché il Tribunale penale
                internazionale per la ex Jugoslavia è un organo giurisdizionale creato da un organo
                politico come il Consiglio di Sicurezza, e dunque sulla base di una decisione di
                pochi Stati (sotto la spinta di talune organizzazioni internazionali – si pensi al ruolo
                della NATO nella vicenda19), si porrebbe un problema di legittimazione politica e
                sociale, prima ancora che di efficacia dell’azione della corte, rendendosi necessario
                un approfondimento in ordine al tipo di rapporto che questa instaurerebbe con
                i soggetti coinvolti dalle proprie attività: Stati e individui – su due piani separati,
                come separati sono gli interessi di cui possano essere portatori.
                    Si ritiene in tal senso condivisibile il pensiero di chi afferma che ad oggi “l’in-
                ternazionalizzazione riguarda (…) soltanto il piano politico, nell’ambito del quale
                si è tradotta in integrazione degli ordinamenti interno e internazionale, o nella c.d.
                tutela multilivello dei diritti”. Al contrario, l’effettivo contenuto e rilievo dei diritti
                da tutelare rappresenterebbe il parametro su cui valutare non soltanto la loro le-
                gittimazione, ma anche la più generale capacità della Comunità internazionale di
                costruire un sistema di giustizia internazionale universalmente applicabile20.

                    Al fine di rappresentare tutti gli interessi in gioco, ben presto gli organi della
                corte si sarebbero resi conto di come attraverso i procedimenti penali internazionali
                si possano instaurare relazioni trilaterali: tra la giurisdizione (e la Comunità) inter-
                nazionale, gli accusati e gli Stati di cittadinanza (o comunque coinvolti).
                    Dinanzi al rifiuto opposto dalla Croazia ad una richiesta di produrre documenti
                ritenuti necessari nell’ambito di un procedimento contro un individuo (e che le au-
                torità statali ritenevano al contrario essenziali per la sicurezza dello Stato, e pertanto

                18 Così G. Robertson, Crimes against Humanity: the Struggle for Global Justice, Penguin Books, 2000,
                p. 338.
                19 Il portavoce della Nato Jamie Shea, il 17 maggio 1999, interrogato sulla possibilità che il tribunale

                conducesse un’inchiesta sui crimini di guerra della Nato, avrebbe risposto che “senza i paesi della Nato
                non vi sarebbe la Corte Internazionale di Giustizia, né avremmo alcun Tribunale Penale Internazionale
                per la ex Jugoslavia, poiché i paesi della Nato sono in prima linea tra quelli che hanno creato questi
                tribunali, che finanziano questi tribunali e che ne sostengono le attività giorno per giorno”, lasciando
                intendere che l’eventualità fosse quantomeno peregrina, per ragioni che andavano ben al di là delle
                norme convenzionali o generali applicabili (Robertson, cit., pag. 338).
                20 E. Pariotti, «Globalizzazione, diritti umani e giustizia internazionale. Sul ruolo della giurisdizione

                internazionale», in Jura Gentium, 2005, n. I.

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                  non divulgabili), si pronunciava la Camera d’appello del Tribunale internazionale21.
                  Pur ribadendosi che la cooperazione interstatale in materia penale sarebbe per sua
                  natura “orizzontale” (fondandosi sull’eguaglianza sovrana tra gli Stati), il Tribunale
                  sottolineava la sua posizione di primazia sulle corti interne e il potere di emettere
                  decisioni vincolanti, cui gli Stati sarebbero obbligati ad adeguarsi in base all’art. 29
                  (relazione verticale con gli Stati). Con un limite: quei poteri avrebbero per oggetto
                  la fase giurisdizionale (ossia l’accertamento della violazione – c.d. finding), mentre
                  la fase esecutiva sarebbe rimessa agli stessi Stati o, se del caso, al Consiglio di si-
                  curezza ONU. Il tribunale, dal canto suo, riconosceva infatti di non essere dotato
                  “di alcun potere esecutivo o sanzionatorio nei confronti degli Stati”, spettando “in
                  primo luogo al suo organo di riferimento, il Consiglio di Sicurezza, imporre sanzioni
                  nei confronti di uno Stato recalcitrante, se del caso, ai sensi del Capitolo VII della
                  Carta delle Nazioni Unite”22.

                      Accanto a quella della propria legittimazione, il Tribunale si trovò quindi ad
                  affrontare una (conseguente quanto inevitabile) crisi di efficacia. Alla fine degli anni

                  21 Essendo stata previsto un potere di ricorso statale dall’art. 108bis (inserito nella versione approvata
                  a seguito dell’undicesima revisione del Regolamento di Procedura e di Prova, adottata al termine della
                  tredicesima sessione, il 25 luglio 1997 – IT/32/Rev. 11). In base a questa norma, infatti, lo Stato inte-
                  ressato avrebbe avuto facoltà di inoltrare alla Camera d’appello, entro 15 giorni dalla sua emissione,
                  la richiesta di revisione di una decisione interlocutoria di una Camera, qualora quest’ultima sollevasse
                  questioni di interesse generale circa i poteri del Tribunale.
                  Sull’argomento si sarebbe espresso lo stesso Procuratore Capo: cfr. L. Arbour, «The Crucial Years», in
                  Journal of International Criminal Justice, 2004, pag. 401.
                  22 The Prosecutor v. Tihomir Blaskic, Judgement on the Request of the Republic of Croatia for Review

                  of the Decision of Trial Chamber II of 18 July 1997, (IT-95-14-AR108bis), 29 ottobre 1997 (riprodotta
                  in Rivista di diritto internazionale, 1999, pagg. 194 e segg.), par. 33.
                  In realtà, rispetto alla mancata cooperazione si rinvengono in quegli anni soltanto due precedenti di
                  rilievo: da un lato la richiesta di deferimento al Consiglio di sicurezza, da parte del Procuratore Gene-
                  rale Louise Arbour, della mancata cooperazione della Croazia ai sensi dell’art. 7bis del Regolamento di
                  procedura e prova (in cui si lamentavano le carenze della legge costituzionale croata del 19 aprile 1996)
                  – a cui tuttavia non sarebbe stato dato seguito; e la lettera in cui il Presidente del Tribunale McDonald
                  lamentava la mancata esecuzione di ordini di arresto da parte della Repubblica Serba (datata 8 settem-
                  bre 1998) e, contestualmente, della mancata adozione di normativa di adattamento – che invece avrebbe
                  convinto il Consiglio di sicurezza ad emanare la risoluzione n. 1207, il 17 settembre. Risoluzione con la
                  quale il Consiglio, agendo in base al Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, avrebbe domandato
                  alla Repubblica Federale di Jugoslavia di adottare tutte le misure necessarie per attuare lo Statuto del
                  Tribunale nel proprio ordinamento, e condannato il rifiuto di eseguire i mandati d’arresto già emessi,
                  imponendone l’immediata ed incondizionata attuazione. Più in generale, si richiedeva inoltre la piena
                  cooperazione delle autorità nazionali con il Procuratore Capo. In conclusione, tuttavia, il Consiglio
                  evitava di adottare qualsiasi misura coercitiva nei confronti della Repubblica Federale di Jugoslavia (ne
                  dà conto, tra gli altri, M. Arcari, «Tribunali penali ad hoc, Corte penale internazionale e Consiglio di
                  sicurezza delle Nazioni Unite», in G. Calvetti, T. Scovazzi, Dal Tribunale per la ex-Jugoslavia alla Corte
                  penale internazionale, Milano, 2004, pagg. 11-12).

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                Novanta, i suoi organi furono costretti a prendere atto dell’incapacità di rispondere
                alla richiesta di giustizia internazionale: da un lato, quella di cui si erano fatti carico
                attraverso lo Statuto (e la scelta a favore della primazia, non mitigata dall’indicazio-
                ne al Procuratore di alcun parametro mediante cui selezionare le indagini da avviare
                o condurre sino alla fase dibattimentale23); dall’altro, quella più specifica e derivante
                dal farraginoso meccanismo di cui all’art. 5 delle RoR24.

                3. La completion strategy dei Tribunali ad hoc e le conseguenze sull’attuazione
                    del principio di primazia

                   Sin dal 1997 al Procuratore Capo era stato attribuito, ai sensi della Regola 11bis
                del Regolamento di Procedura e di Prova25, il potere di inoltrare alla Camera com-
                petente una richiesta di sospensione del procedimento, in caso di avvio di indagini
                da parte di autorità nazionali che lasciasse intendere l’esistenza della volontà di

                23 Cfr. F. Donlon, «Completion or Creation: Is the Closure of International Courts Promoting the
                Creation of Domestic Courts to Enforce International Criminal Law?», cit., pag. 8, dove si ricorda che
                alla fine del 2003, il Tribunale internazionale impiegava 28 giudici e circa 1100 unità come personale
                amministrativo, e che i costi di gestione avevano superato il miliardo di dollari.
                Più in dettaglio, al 31 agosto 1999 ben 25 imputazioni (nei confronti di 66 individui) rimanevano in
                attesa di esecuzione; 25 erano stati gli arresti effettuati; 31 persone risultavano in stato di custodia; 7
                le condanne pronunciate (tre i decessi, e un solo procedimento chiuso con archiviazione – contro cui
                era stato proposto appello dal Procuratore, in pendenza del quale la persona era stata rilasciata), 10 gli
                accusati sotto processo o in attesa di giudizio (così nel Report of the Expert Group to Conduct a Review
                of the Effective Operation and Functioning of the International Tribunal for the Former Yugoslavia
                (ICTY) and the International Criminal Tribunal for Rwanda (ICTR), 22 novembre 1999, U.N. Doc
                A/54/634, parr. 11-18 – consultabile all’indirizzo http://www.undemocracy.com/A-54-634.pdf, ultima
                visita 28 giugno 2012). Nello stesso rapporto, tra i fattori che influenzavano l’efficacia dell’azione del
                Tribunale veniva sottolineata la mancata cooperazione da parte di Repubblica Srpska e Repubblica
                Federale Jugoslava (parr. 91 e segg.).
                24 Al momento della chiusura della RoR Unit presso l’Ufficio del Procuratore (ossia l’ufficio incaricato

                di eseguire la valutazione di cui all’art. 5 dell’Accordo di Roma e stabilire quali tribunali statali, e per
                quale imputazione, dovessero occuparsi dei casi), il I ottobre 2004, si calcola che oltre 2300 richieste
                di verifica delle imputazioni fossero ancora inevase, mentre soltanto il 24% di quelle portate a termine
                sarebbe risultato nella conferma delle imputazioni, ritenute sufficienti le prove addotte (dati del 10
                novembre 2004, riportati nel Rapporto intitolato War Crimes Trials Before the Domestic Courts of
                Bosnia and Herzegovina. Progress and Obstacles, Marzo 2005, Human Rights Department, OSCE,
                pagg. 47 e segg. – disponibile all’indirizzo http://wcjp.unicri.it/proceedings/docs/OSCEBiH_War%20
                crimes%20trials%20in%20BiH_2005_eng.pdf).
                25 Versione approvata a seguito della dodicesima revisione del Regolamento di Procedura e di Prova,

                adottata al termine della quattordicesima sessione, il 12 novembre 1997 – IT/32/Rev. 12, consultabile
                all’indirizzo http://www.icty.org/x/file/Legal%20Library/Rules_procedure_evidence/IT032_rev12_
                en.pdf (ultimo accesso 28 giugno 2012).

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                        perseguire l’accusato sul piano interno. La Camera, ascoltato quest’ultimo,
                  avrebbe quindi deciso se emettere l’ordinanza e trasferire l’arrestato e le prove rac-
                  colte, senza tuttavia che questa decisione spiegasse effetti irrevocabili. Ai sensi della
                  lettera d), infatti, in ogni momento avrebbe potuto annullare la decisione e chiedere
                  il nuovo trasferimento del procedimento al Tribunale internazionale.
                      Nello stesso solco di questo emendamento sembrerebbe porsi il cambiamento
                  nella strategia del Procuratore Capo: il fatto di decidere di concentrarsi soltanto
                  sulle persone con il più alto grado di responsabilità (a partire almeno dal 1998)
                  testimonia infatti la consapevolezza degli organi internazionali di dover modificare
                  il proprio approccio26. Lo stesso Consiglio di sicurezza avrebbe confermato la cor-
                  rettezza della nuova strategia nella risoluzione 1329 del 200027.
                      Soprattutto, le considerazioni sull’inefficacia dell’azione del Tribunale inter-
                  nazionale – e la sempre più difficile sostenibilità delle spese – avrebbero convinto
                  l’ONU ad attivarsi nei confronti degli organi della corte: l’Assemblea Generale
                  avrebbe richiesto rapporti sia al Segretario Generale che ad un Gruppo di Esperti28.
                  Questi ultimi, tra le altre cose, sostenevano – pur premettendo che tutte le decisioni
                  sono importanti nell’ottica dell’evoluzione di un corpo di norme riconducibili ad
                  un ordinamento internazionale penale, e che le vittime hanno tutte lo stesso diritto
                  alla giustizia – che il fatto che venissero processati soltanto individui che avessero
                  ricoperto cariche medio-basse e come tali potesse essere loro imputato un minore
                  grado di colpevolezza rispetto ai crimini, andasse nella direzione opposta a quella
                  che sembrerebbe indicare come scopo del Tribunale internazionale, al momento
                  della sua istituzione da parte del Consiglio di Sicurezza, il ristabilimento della pace
                  tramite la giustizia29. In aggiunta, e come conseguenza di questo rilievo, si suggeriva
                  di trasferire i procedimenti riguardanti gli accusati con minor grado di responsabi-
                  lità alle giurisdizioni statali (sfruttando la Regola 11bis, che come sappiamo a quel
                  momento era già stata approvata)30.
                      Ancor più dettagliato sarebbe risultato il rapporto del neoeletto Presidente
                  del Tribunale per la ex Jugoslavia, il giudice Claude Jorda, inoltrato al Segretario

                  26 Ricorda le vicende lo stesso Procuratore Louise Arbour («The Crucial Years», cit., pagg. 396 e segg.).
                  27 Resolution 1329/2000, adottata il 30 novembre 2000, S/RES/1329 (2000) – consultabile all’indirizzo
                  http://www.undemocracy.com/S-RES-1329(2000).pdf (ultimo accesso 28 giugno 2012).
                  28 L’intero iter veniva citato dal Rapporto conclusivo del Gruppo di esperti (Report of the Expert

                  Group to Conduct a Review of the Effective Operation and Functioning of the International Tribunal
                  for the Former Yugoslavia (ICTY) and the International Criminal Tribunal for Rwanda (ICTR), cit.,
                  par. 2.
                  29 Idem, parr. 95-96.
                  30 Idem, par. 101.

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                Generale (e da questo al Presidente del Consiglio di Sicurezza) nel giugno 200231.
                In qualità di rappresentante dell’organo, il Presidente Jorda suggeriva innanzitutto
                di creare le condizioni affinché i casi riguardanti individui che avessero ricoperto
                ruoli di medio-basso livello nella gerarchia, e che dunque avessero un grado di
                responsabilità minore nella commissione dei crimini, potessero essere trasferiti alle
                giurisdizioni statali competenti: innanzitutto attraverso una riformulazione della
                Regola 11bis. Quanto alle delicate questioni che i trasferimenti avrebbero solleva-
                to, il Presidente si preoccupava di sottolineare come nell’ambito dei procedimenti
                interni andassero garantiti gli standard minimi accolti dal diritto internazionale
                penale, sia rispetto al diritto sostanziale che a quello processuale. La maggior par-
                te dei rilievi sarebbero stati accolti: il 30 dicembre 2002 veniva infatti adottata la
                nuova formulazione della Regola 11bis32, la cui prima novità consisteva nella stessa
                rubrica della norma (“Riferimento dell’imputazione ad altro tribunale”). Non più
                al solo Procuratore, ma anche alla Camera del Tribunale veniva affidato il potere di
                ordinare (motu proprio) il trasferimento del procedimento, a seguito della conferma
                dell’imputazione, allo Stato di arresto o di commissione del crimine. In aggiunta,
                alla lettera c) si introduceva un ulteriore parametro della valutazione: la gravità dei
                crimini e il grado di responsabilità dell’accusato. Confermato il potere di annullare
                l’ordinanza di trasferimento (purché prima che la corte statale si pronunciasse), si
                specificava che le norme suddette si sarebbero potute applicare anche a individui
                non ancora sotto il controllo del Tribunale internazionale (caso in cui quest’ultimo
                avrebbe dovuto indicare lo Stato di riferimento nel mandato di arresto).

                    A chiusura (o meglio, a compimento) di questo percorso di riforma sarebbe
                intervenuto direttamente il Consiglio di sicurezza, attraverso due risoluzioni sulla
                completion strategy dei tribunali ad hoc.
                    Con la prima, la numero 1503 del 2003, si faceva innanzitutto propria la dichia-
                razione del Presidente del Consiglio del 23 luglio 200233, che aveva ipotizzato una
                strategia per condurre a termine il lavoro delle due giurisdizioni entro il 2010; ciò
                sarebbe stato possibile solo concentrandosi sugli individui che avessero rivestito le

                31 Report on the Judicial Status of the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia and
                the Prospects for Referring Certain Cases to National Courts, UN Doc. S/2002/678, giugno 2002,
                consultabile all’indirizzo http://www.undemocracy.com/S-2002-678.pdf (ultima visita 28 giugno 2012).
                32 Versione approvata a seguito della ventiseiesima revisione del Regolamento di Procedura e di Prova,

                adottata al termine della ventisettesima sessione, il 30 dicembre 2002 – IT/32/Rev. 26, consultabile
                all’indirizzo http://www.icty.org/x/file/Legal%20Library/Rules_procedure_evidence/IT032_rev26_
                en.pdf (ultimo accesso 28 giugno 2012).
                33 Statement by the President of the Security Council, 23 luglio 2002, S/PRST/2002/21, consul-

                tabile all’indirizzo http://www.securitycouncilreport.org/atf/cf/%7B65BFCF9B-6D27-4E9C-8CD3-
                CF6E4FF96FF9%7D/Tribunals%20SPRST%202002%2021.pdf (ultimo accesso 28 giugno 2012).

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                  cariche più alte e che dunque potessero essere ritenuti quelli maggiormente respon-
                  sabili della commissione dei crimini di loro competenza.
                       Ribadendo la primazia dei Tribunali internazionali, si sollecitava al contrario
                  il trasferimento alle giurisdizioni statali dei casi riguardanti coloro che rivestissero
                  cariche di medio-basso livello; dal canto loro, gli Stati sarebbero in ogni caso sotto-
                  posti, oltre che a quello di cooperare, ad un obbligo di perseguire questi individui.
                  In generale, si riteneva necessario il rafforzamento delle strutture giudiziarie statali;
                  nello specifico, si suggeriva l’istituzione, sotto gli auspici dell’Alto Rappresentante,
                  di una Camera speciale all’interno della Corte di Stato della Bosnia Erzegovina (c.d.
                  War Crimes Chamber), competente a giudicare i crimini di guerra e a ricevere i casi
                  trasferiti (rispetto all’efficacia dei trasferimenti, l’istituzione di tale organo sarebbe
                  stata considerata vero e proprio prerequisito)34.
                       Con la seconda, la numero 1534 del 2004, il Consiglio, in base ai poteri con-
                  feritigli dal Capitolo VII della Carta ONU: ribadiva la necessità di perseguire gli
                  individui che fossero stati oggetto di imputazioni da parte del Tribunale per la ex
                  Jugoslavia, e invitava tutti gli Stati a cooperare (specialmente eseguendo gli arresti
                  richiesti); incaricava il Procuratore Capo dei due tribunali ad hoc di effettuare una
                  valutazione in ordine a quali procedimenti andassero trasferiti alle giurisdizioni
                  statali; sottolineava come nel confermare ogni nuova imputazione i Tribunali inter-
                  nazionali fossero tenuti da lì in poi a concentrarsi soltanto sulle persone che rivestis-
                  sero le più alte cariche e a cui fosse imputabile un maggior grado di responsabilità;
                  istituiva un meccanismo di monitoraggio dei progressi fatti in tal senso (affidando
                  al Presidente della corte e al Procuratore Capo il compito di inoltrare rapporti pe-
                  riodici all’organo delle Nazioni Unite, a cadenza semestrale, a partire dal 31 maggio
                  2004); invitava gli Stati a rafforzare i propri sistemi giudiziari, e nello specifico ac-
                  coglieva con favore gli sforzi profusi dall’Alto Rappresentante per istituire la War
                  Crimes Chamber in seno alla Corte di Stato della Bosnia Erzegovina, con sede a
                  Sarajevo, invitando la Comunità internazionale a supportare anche economicamente
                  tale organo35.
                       Sulla base delle risoluzioni, due sarebbero stati i principali interventi effettuati
                  sulla cornice normativa di riferimento.

                  34 Resolution 1503/2003, adottata il 28 agosto 2003, S/RES/1503 (2003) – consultabile   all’indirizzo
                  http://www.icty.org/x/file/Legal%20Library/Statute/statute_1503_2003_en.pdf (ultimo     accesso 28
                  giugno 2012).
                  35 Resolution 1534/2004, adottata il 26 marzo 2004, S/RES/1534 (2004) – consultabile    all’indirizzo
                  http://www.icty.org/x/file/Legal%20Library/Statute/statute_1534_2004_en.pdf (ultimo     accesso 28
                  giugno 2012).

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Il diritto internazionale penale come vincolo per gli ordinamenti interni                249

                    Il 6 aprile 2004 veniva adottato un emendamento alla Regola 28, lettera A del
                Regolamento di Procedura e di Prova36 (disposizione avente ad oggetto la revisione
                delle imputazioni): ricevuta l’imputazione dal Procuratore Capo, il Presidente del
                Tribunale avrebbe dovuto riferire la verifica ad un Bureau (composto da lui stesso,
                il VicePresidente della corte e i Presidenti delle tre Camere di prima istanza); a
                questo spettava di decidere, in maniera inappellabile, se quella rispettasse il criterio
                della seniority, se fosse cioè diretta nei confronti di individui che rivestissero le più
                alte cariche e dunque fossero imputabili della responsabilità di più alto grado per
                la commissione dei crimini di competenza del Tribunale. Solo ove l’imputazione
                fosse stata ritenuta conforme a tale requisito, si sarebbe potuto procedere all’esame
                sul merito delle accuse (e dunque si sarebbe riferito l’atto, ai sensi della normale
                procedura prevista dalla Regola 47, ad un giudice membro di una Camera di prima
                istanza, designato dallo stesso Bureau).
                    Il 22 febbraio 2005 sarebbe entrata in vigore la nuova versione (ad oggi defini-
                tiva) della Regola 11bis37: la competenza a decidere sul trasferimento del caso, da
                esercitare prima dell’inizio della fase processuale vera e propria e dopo la conferma
                dell’imputazione, viene infine attribuita in via esclusiva ad una camera di tre giudici,
                scelti dal Presidente tra i membri delle Camere (c.d. Referral Bench). All’esito della
                valutazione, il caso si potrà riferire alle autorità dello Stato di commissione del cri-
                mine, di quello di arresto, o a qualsiasi altro Stato che abbia giurisdizione sui fatti in
                causa e mostri volontà e capacità di esercitarla (criterio di giurisdizione universale)
                (lettera A). Il Referral Bench si può attivare motu proprio o su istanza del Procura-
                tore Capo (lettera B) e nel decidere dovrà tenere conto della gravità dei crimini e del
                livello di responsabilità degli accusati (lettera C, che cita espressamente la Risolu-
                zione 1534 come fondamento giuridico). Nel trasferire gli individui, potrà ordinare
                misure protettive a favore di testimoni e vittime, e riferire alle autorità inquirenti sta-
                tali tutte le informazioni e le prove raccolte; in aggiunta, il Procuratore potrà inviare
                osservatori per monitorare il procedimento interno (lettera D). Confermato il potere
                di revocare – prima dell’emissione di una decisione da parte del giudice statale (sia
                essa di condanna o di proscioglimento) – l’ordine di trasferimento, richiedendo di
                nuovo il deferimento del caso ai sensi della Regola 10 (lettera F), si è introdotto

                36 Versione approvata il 14 aprile 2004, trentesima revisione del Regolamento di Procedura e di Prova,
                adottata al termine della sessione plenaria straordinaria del 6 aprile 2004 – IT/32/Rev. 30, consultabile
                all’indirizzo http://www.icty.org/x/file/Legal%20Library/Rules_procedure_evidence/IT032_rev30_
                en.pdf (ultimo accesso 28 giugno 2012).
                37 Versione approvata a seguito della trentaquattresima revisione del Regolamento di Procedura e di

                Prova, adottata al termine della trentunesima sessione, il 22 febbraio 2005 – IT/32/Rev. 34, consultabile
                all’indirizzo http://www.icty.org/x/file/Legal%20Library/Rules_procedure_evidence/IT032_rev34_
                en.pdf (ultimo accesso 28 giugno 2012).

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                  infine un autonomo diritto di appello nei confronti dell’ordine del Referral Bench,
                  da esercitare entro 15 giorni dalla sua emissione, da parte dell’accusato o del Procu-
                  ratore Capo (lettera I). Proprio quest’ultima disposizione lascia qualche perplessità,
                  facilmente comprensibile ove si consideri che laddove venga riconosciuto un diritto
                  di ricorso, in genere si sta riconoscendo l’esistenza di un legittimo interesse del sog-
                  getto a cui quello sia attribuito. Nel caso del Procuratore, si fa fatica a comprendere
                  come il suo interesse possa porsi in contrasto con quello del Tribunale (essendo in
                  teoria l’uno e l’altro interessati al trasferimento dei procedimenti).

                      Il problema più delicato, tra quelli sollevati dalla complessiva completion stra-
                  tegy, riguarda il ruolo di Procuratore Capo e giudici della corte nel concreto espli-
                  carsi del procedimento di trasferimento (e seguente monitoraggio) dei casi.
                      Già nel suo primo rapporto al Consiglio di sicurezza38 – inoltrato ai sensi del
                  par. 6 della Risoluzione 1534 –, il Presidente del Tribunale per la ex Jugoslavia,
                  giudice Theodor Meron, avrebbe sottolineato l’importanza delle riforme poc’anzi
                  descritte, soffermandosi da un lato sull’apertura ai trasferimenti a Stati diversi da
                  quello di commissione dei crimini e di cattura degli accusati (così garantendo una
                  sorta di scappatoia al Tribunale, da sempre costretto a fare i conti con la scarsa
                  cooperazione dei Paesi della ex Jugoslavia), dall’altro sul requisito della “capacità”
                  delle giurisdizioni di riferimento di sottoporre gli individui a processi rispettosi degli
                  standard internazionali di tutela dei diritti umani (norme sostanziali, processuali e
                  sulla detenzione). In particolare, si sarebbe detto fiducioso rispetto alla nascita della
                  War Crimes Chamber all’interno della Corte di Stato della Bosnia Erzegovina, la
                  cui entrata in funzione era prevista per i primissimi mesi del 2005 (mentre mostrava
                  più cautela rispetto alla effettività della cooperazione – e in generale all’affidabili-
                  tà – degli organi di Croazia e Repubblica di Serbia e Montenegro). In generale, il
                  Presidente Meron evidenziava il ruolo centrale dei tribunali statali in funzione dei
                  nuovi criteri di allocazione della competenza.
                      Sulla carta, le riforme sembrerebbero dunque andare nella medesima direzione:
                  quella della responsabilizzazione delle giurisdizioni statali, da attuarsi mediante
                  rafforzamento della cooperazione in materia legislativa e propriamente giudiziaria
                  (prima che esecutiva). Rispetto al fondamento giuridico, sarebbe invece rimasto
                  inascoltato l’invito dei giudici del Tribunale internazionale (riferito anche dal Pre-
                  sidente Jorda, nel rapporto già citato39), che nella seduta plenaria del 23 aprile 2002

                  38 Address of Judge Theodor Meron, President of the International Criminal Tribunal for the Former
                  Yugoslavia, to the United Nations Security Council, 29 giugno 2004, JL/P.I.S./862e – consultabile
                  all’indirizzo http://www.icty.org/sid/8405/en (ultima visita 28 giugno 2012).
                  39 Report on the Judicial Status of the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia and

                  the Prospects for Referring Certain Cases to National Courts, cit., par. 37.

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Il diritto internazionale penale come vincolo per gli ordinamenti interni            251

                avevano suggerito un emendamento allo Statuto, da adottarsi da parte del Consiglio
                di sicurezza, in base al quale imporre un’obbligazione internazionale di perseguire
                i crimini internazionali a livello statale, dal momento che né l’art. 29, né l’art. 9
                avrebbero potuto essere interpretati in tal senso (limitandosi a prevedere un potere
                di avocazione dei procedimenti da parte dell’organo internazionale).
                    In un certo senso, in funzione della massimizzazione dei costi e dell’efficacia
                degli organi internazionali, sarebbe stata sacrificata la rigida primazia del Tribunale
                per la ex Jugoslavia – o quanto meno la primazia così come era stata intesa nei primi
                dieci anni di attività – e una parte dell’autonomia del Procuratore Capo. Sarebbe
                stato rilevato40 come tali risultati fossero stati perseguiti mediante Risoluzioni del
                Consiglio di sicurezza ed emendamenti (per così dire “esecutivi” di quelle) al Re-
                golamento di Procedura e di Prova (competenza degli stessi giudici del Tribunale
                internazionale): l’organo giurisdizionale si sarebbe di fatto autoriformato, su spinta
                del Consiglio di sicurezza (e dunque in piena legittimità); nell’ambito di questo
                percorso, attraverso i successivi emendamenti delle Regole 11bis e 28, lettera A,
                il Procuratore Capo sarebbe stato di fatto privato del potere di decidere chi sot-
                toporre a procedimento, con l’effetto di minare l’indipendenza dell’organo (che
                sarebbe di fatto sottoposto alle indicazioni dei giudici): motivo per cui i giudici del
                Tribunale per il Ruanda non sarebbero addivenuti all’approvazione della seconda
                disposizione citata41.

                    Il percorso sin qui illustrato non può tuttavia correttamente essere indagato (e
                interpretato), a modesto parere dello scrivente, senza mettere in relazione la vicen-
                da dei tribunali ad hoc con l’approvazione, il 17 luglio del 1998, dello Statuto di
                Roma (in vigore dal I luglio 2002). L’istituzione della Corte penale internazionale,
                organo giurisdizionale a vocazione universale, si sarebbe infatti realizzata mediante
                ratifica di un accordo internazionale: la legittimazione provenendo dunque, per la
                prima volta, da una manifestazione di volontà di ogni singolo Stato. In aggiunta, la
                scelta in ordine alla negoziazione di un simile strumento avrebbe condotto gli Stati
                ad optare per il criterio della complementarietà nell’allocazione della competenza
                giurisdizionale tra la Corte e i tribunali statali.
                    Sembra difficile ipotizzare che il Consiglio di sicurezza e gli stessi giudici del
                Tribunale per la ex Jugoslavia, nell’adottare la completion strategy, non abbiano
                tenuto conto dei più recenti sviluppi della giustizia internazionale, scegliendo la
                strada che – oltre a massimizzare l’efficacia dell’azione dell’organo di riferimento –

                40 O. Bekou, «Rule 11bis: An Examination of the Process of Referrals to National Courts in ICTY
                Jurisprudence», in Fordham Journal of International Law, 2010, pagg. 732-33.
                41 Così D.A. Mundis, «The Judicial Effects of the “Completion Strategies” on the Ad Hoc International

                Tribunals», in American Journal of International Law, 2005, pag. 148.

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