I REATI NEI SOCIAL NETWORK - Breve guida da seguire, su cosa NON fare (o scrivere) su Facebook, Instagram, etc A cura di AVV. RICCARDO LANZO ...
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
I REATI NEI SOCIAL NETWORK Breve guida da seguire, su cosa NON fare (o scrivere) su Facebook, Instagram, etc A cura di AVV. RICCARDO LANZO - PARTNER IUS 40 STUDI LEGALI riccardo.lanzo@ius40.it Trovami su fb e instagram: riccardo lanzo
INTRODUZIONE Con i social network si condividono foto, video, commenti, audio, si fa amicizia, si creano gruppi, si pubblicizzano aziende, associazioni, prodotti, si inviano messaggi, si gioca … insomma, ci si diverte e si lavora, spaziando in un universo nuovo, reso possibile dalla tecnologia di oggi. Ma I social possono anche diventare motivo di controversia, davanti alla quale forse non siamo ancora del tutto preparati, né come giuristi, per affrontarli nelle aule di giustizia, e neppure come cittadini, quando ne abbiamo a che fare nella nostra vita quotidiana.
I social nel diritto ⏤ Diffamazione ⏤ Esclusione della responsabilità di Facebook ⏤ Esclusione della responsabilità degli amministratori di un gruppo di Facebook ⏤ Creazione di un falso profilo o sostituzione di persona ⏤ Il diritto all’immagine, alla riservatezza e alla privacy ⏤ Il diritto d’autore ⏤ Molestie ⏤ Il cyberbullismo ⏤ Ingresso abusivo al profilo di Facebook ⏤ Pedopornografia
IL Post Di ⏤ Io ve lo dico da anni che sono due idioti palloni gonfiati irrispettosi della vita delle persone e degli Daniela animali. Per far parlare di loro non sanno più cosa Martani inventarsi. Fare una festa a casa era troppo normale altrimenti chi glieli mette i like
La richiesta di archiviazione del P.M. sui social accade che un numero illimitato di persone, appartenenti a tutte le classi sociali e livelli culturali, avverta la necessità immediata di sfogare la propria rabbia e frustrazione, scrivendo fuori da qualsiasi controllo qualunque cosa, anche con termini scurrili e denigratori che in astratto possono integrare il reato di diffamazione, ma che in concreto sono privi di offensività
La diffamazione sui Social ⏤ la diffamazione tramite internet costituisce certamente un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595 c.p., comma 3, in quanto commessa con altro (rispetto alla stampa) mezzo di pubblicità. ⏤ La pena è da 6 mesi a 3 anni di reclusione o della multa non inferiore a 516 euro
Hai letto bene… DA 6 MESI A 3 ANNI DI CARCERE SE INSULTI, OFFENDI, DILEGGI, ARRECHI OFFESA AL DECORO DI UN’ALTRA PERSONA
Vuoi qualche esempio? ⏤ È diffamazione utilizzare espressioni che si concretizzino in gratuiti attacchi alla persona e in arbitrarie aggressioni al patrimonio morale della stessa. Applicando tale principio di diritto, la Corte di Cassazione, con sentenza 20 aprile 2020, n. 12460, ha confermato la condanna inflitta ad una blogger per aver apostrofato una giornalista, rivolgendosi alla stessa con l’appellativo di “sgallettata”.
La diffamazione su FB ⏤ La divulgazione di un messaggio tramite Facebook, ha, per la natura di questo mezzo, potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, che, del resto, si avvalgono del social network proprio allo scopo di instaurare e coltivare relazioni interpersonali allargate ad un gruppo di frequentatori non determinato; pertanto se il contenuto della comunicazione in siffatto modo trasmessa è di carattere denigratorio, la stessa è idonea ad integrare il delitto di diffamazione.
Gli amministratori dei gruppi sui social sono responsabili? ⏤ «Il moderatore o amministratore del sito internet non incorre in penale responsabilità ex art. 595 c.p. in relazione al messaggio di contenuto diffamatorio pubblicato da un utente sul relativo blog, qualora non sia provato che il medesimo abbia consapevolmente esaminato il messaggio anonimo e ne abbia volutamente consentito la pubblicazione» ⏤ (App. Trento, 24/6/2016).
Creazione di un falso profilo o sostituzione di persona ⏤ I social network sono strumenti di proiezione sociale dell’immagine, che ciascuna persona costruisce di sé. E’ in questa prospettiva che si inserisce la lesione del diritto all’immagine, come nel caso di creazione di un falso profilo usando immagini o nomi altrui. ⏤ Si ritiene che tale fattispecie integri il reato di sostituzione di persona, ai sensi dell’art. 494 del codice penale.
Creazione di un falso profilo o sostituzione di persona L'art. 494 cod. pen. punisce chiunque, al fine di procurare a sè o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all'altrui persona, o attribuendo a sè o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici.
⏤ Integra il reato di sostituzione di persona (art. 494 cod. pen.), la condotta di colui che crei ed utilizzi un "account" di posta elettronica, attribuendosi falsamente le generalità di un diverso soggetto, inducendo in errore gli utenti della rete 'internet' nei confronti dei quali le false generalità siano declinate e con il fine di arrecare danno al soggetto le cui generalità siano state abusivamente spese, subdolamente incluso in una corrispondenza idonea a lederne l'immagine e la dignità (nella specie a seguito dell'iniziativa dell'imputato, la persona offesa si ritrovò a ricevere telefonate da uomini che le chiedevano incontri a scopo sessuale)»
Il diritto all’immagine, alla riservatezza e alla privacy ⏤ Il nostro ordinamento tutela il diritto all’immagine e, come noto, le norme di riferimento sono l’art. 10 del c.c. che espressamente prevede che: ⏤ «qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia esposta, o pubblicata fuori dai casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento del danno
⏤ l’art. 96 della legge sul diritto d’autore (L. n. 633/41) secondo cui ⏤ «il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa»
⏤ L’art. 97 del codice civile: ⏤ non occorre il consenso della persona ritratta quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali o quando la riproduzione è collegata ad avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico svoltisi in pubblico. Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l'esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all'onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritrattata»
⏤ «Il diritto all’identità personale protegge il diritto di ciascuno a non vedersi all’esterno alterato, travisato, offuscato, contrastato con il proprio patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionale ecc., quale si era estrinsecata o appariva in base a circostanze concrete ed univoche, destinato ad estrinsecarsi nell’ambiente sociale» ⏤ (v. Cass., 22.06.1985, n. 3759).
⏤ Il diritto all’immagine è, pertanto, un diritto assoluto della persona che non può essere utilizzato da terzi senza il consenso dell’interessato. ⏤ Il consenso può essere prestato senza l’obbligo di forme specifiche e può essere desunto anche implicitamente, purché sia inequivocabilmente interpretabile in tal senso (v. Cass., I, 16.05.2006, n. 11491
⏤ «Ai fini della pubblicazione di un ritratto fotografico di una persona è necessario, a norma dell’art. 96, l. n. 633/41, il suo consenso, seppure manifestato tacitamente, il quale può, come ogni altra forma di consenso, essere condizionato da limiti soggettivi (in relazione ai soggetti in favore dei quali è prestato) od oggettivi (in riferimento alle modalità di divulgazione). Ne consegue che il consenso alla pubblicazione del proprio ritratto fotografico su una o su determinate riviste non consente la pubblicazione medesima su riviste diverse da quelle autorizzate» ⏤ (v. Cass., I, 1.09.2008, n. 21995).
⏤ E’ invero pacifico che le fotografie possono contenere immagini e informazioni qualificate alla stregua di dati personali
Si possono pubblicare foto dei minori anche se sei un genitore? ⏤ Il Tribunale di Mantova ordinava alla madre, che aveva pubblicato le immagini dei figli, di non inserire foto sui social network e di rimuovere immediatamente tutte quelle inserite anche sulla base di considerazioni più ampie a tutela dei minori in rapporto allo specifico strumento usato, ⏤ «ritenuto, peraltro, che l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate ed avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che “taggano” le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati, come ripetutamente evidenziato dagli organi di polizia; considerato che il pregiudizio per il minore è dunque insito nella diffusione della sua immagine sui social network sicché l’ordine di inibitoria e di rimozione va impartito immediatamente» ⏤ (Trib. Mantova, 19/9/2017).
Il diritto d’autore ⏤ Facebook può assumere numerose implicazioni anche con la disciplina posta a tutela del diritto d’autore. Invero, il nostro ordinamento tutela le creazioni intellettuali, fotografie, opere letterarie, cinematografiche, disegni, opere musicali, ossia ogni espressione della creatività dell’autore per il solo fatto della creazione a prescindere dal compimento di formalità particolari
⏤ Secondo l’art. 2575 c.c. e art. 1 della legge sul diritto d’autore infatti sono oggetto del diritto d’autore: ⏤ «le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alle scienze, alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro e alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione»
⏤ L’art. 106 della legge sul diritto d’autore espressamente prevede che l’omissione del deposito dell’opera non pregiudichi l’acquisizione e l’esercizio dei diritti connessi. Inoltre, l’art. 8 della medesima legge recita: ⏤ «è reputato autore dell’opera, salvo prova contraria, chi è in essa indicato come tale (… ) ovvero è annunciato come tale nella recitazione, esecuzione, rappresentazione o radio diffusione dell’opera stessa».
⏤ La legge riconosce altresì all’autore alcuni diritti, di natura patrimoniale, connessi alle possibilità di sfruttamento economico dell’opera creata, tra cui, per citarne alcuni, il diritto di pubblicazione, di riproduzione, di esecuzione e recitazione in pubblico e, ai sensi dell’art. 25 della legge sul diritto d’autore: ⏤ «I diritti di utilizzazione economica dell'opera durano tutta la vita dell'autore e sino al termine del settantesimo anno solare dopo la sua morte»
⏤ L’autore ha anche la titolarità di diritti morali sull’opera, regolati dagli articoli da 21 a 24 della Legge sul diritto d’autore, tra cui il diritto di rivendicare la paternità dell’opera: ⏤ «Art. 21. Indipendentemente dai diritti esclusivi di utilizzazione economica dell'opera, previsti nelle disposizioni della sezione precedente, ed anche dopo la cessione dei diritti stessi, l'autore conserva il diritto di rivendicare la paternità dell'opera e di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed a ogni atto a danno dell'opera stessa, che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione»
STALKING SUI SOCIAL ⏤ «Integrano l'elemento materiale del delitto di atti persecutori le condotte riconducibili alle categorie del c.d. stalking vigilante (controllo sulla vita quotidiana della vittima), del c.d. stalking comunicativo (consistente in contatti per via epistolare o telefonica, Sms, scritte su muri ed altri messaggi in luoghi frequentati dalla persona offesa) e del c.d. cyberstalking, costituito dall'uso di tutte quelle tecniche di intrusione molesta nella vita della vittima rese possibili dalle moderne tecnologie informatiche e, segnatamente, dai social network (nella fattispecie, il giudice per le indagini preliminari ha osservato che le reiterate condotte di appostamento, le continue telefonate e le minacce realizzate dai due stalkers avevano stravolto la vita di due ragazze sedicenni, aggredite da persecuzioni infamanti in ogni loro contesto sociale - famiglia, scuola, amici - cagionandone così un grave stato di ansia e preoccupazione)»
STALKING SUI SOCIAL ⏤ (Trib. Termini Imerese Ordinanza, 09/02/2011). ⏤ Integra l'elemento materiale del delitto di atti persecutori il reiterato invio alla persona offesa di "sms" e di messaggi di posta elettronica o postati sui cosiddetti "social network" (ad esempio "facebook"), nonché la divulgazione attraverso questi ultimi di filmati ritraenti rapporti sessuali intrattenuti dall'autore del reato con la medesima. In tal senso, Cassazione penale, Sez. VI, nella sentenza del 16/07/2010, n. 32404.
Il cyberbullismo ⏤ è stata approvata la legge 29 maggio 2017, n. 71, concernente “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”. ⏤ E’ di tutta evidenza che il fenomeno del cyberbullismo possa trovare manifestazione anche attraverso i social network e quindi pure tramite Facebook. ⏤ Al riguardo, si ricorda la legge menzionata che, nell’articolo 1, dispone che l’obiettivo posto è di contrastare il fenomeno del cyberbullismo in tutte le sue manifestazioni, con azioni a carattere preventivo e con una strategia di attenzione, tutela ed educazione nei confronti dei minori coinvolti, sia nella posizione di vittime sia in quella di responsabili di illeciti, assicurando l'attuazione degli interventi senza distinzione di età nell'ambito delle istituzioni scolastiche
⏤ Per «cyberbullismo» si intende qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d'identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonchè la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo. ⏤ E’ di tutta evidenza che tale condotta criminosa possa essere perpetrata altresì tramite Facebook
⏤ E «Qualora, entro le ventiquattro ore successive al ricevimento dell'istanza di cui al comma 1, il soggetto responsabile non abbia comunicato di avere assunto l'incarico di provvedere all'oscuramento, alla rimozione o al blocco richiesto, ed entro quarantotto ore non vi abbia provveduto, o comunque nel caso in cui non sia possibile identificare il titolare del trattamento o il gestore del sito internet o del social media, l'interessato puo' rivolgere analoga richiesta, mediante segnalazione o reclamo, al Garante per la protezione dei dati personali, il quale, entro quarantotto ore dal ricevimento della richiesta, provvede ai sensi degli articoli 143 e 144 del citato decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196».
⏤ E’ sempre la normativa a definire il «gestore del sito internet» come il prestatore di servizi della società dell'informazione, diverso da quelli di cui agli articoli 14, 15 e 16 del decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70, che, sulla rete internet, cura la gestione dei contenuti di un sito in cui si possono riscontrare le condotte di cui al comma 2. ⏤ L’articolo 2 di tale norma dispone che «Ciascun minore ultraquattordicenne, nonchè ciascun genitore o soggetto esercente la responsabilità del minore che abbia subito taluno degli atti di cui all'articolo 1, comma 2, della presente legge, può inoltrare al titolare del trattamento o al gestore del sito internet o del social media un'istanza per l'oscuramento, la rimozione o il blocco di qualsiasi altro dato personale del minore, diffuso nella rete internet, previa conservazione dei dati originali, anche qualora le condotte di cui all'articolo 1, comma 2, della presente legge, da identificare espressamente tramite relativo URL (Uniform resource locator), non integrino le fattispecie previste dall'articolo 167 del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, ovvero da altre norme incriminatrici».
Ingresso abusivo al profilo di FB ⏤ Chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza (3) ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, è punito con la reclusione fino a tre anni. ⏤ La pena è della reclusione da uno a cinque anni: 1) se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, o da chi esercita anche abusivamente la professione di investigatore privato, o con abuso della qualità di operatore del sistema; ⏤ 2) se il colpevole per commettere il fatto usa violenza sulle cose o alle persone, ovvero se è palesemente armato;
Ingresso abusivo al profilo di FB ⏤ 3) se dal fatto deriva la distruzione o il danneggiamento del sistema o l'interruzione totale o parziale del suo funzionamento, ovvero la distruzione o il danneggiamento dei dati, delle informazioni o dei programmi in esso contenuti. ⏤ Qualora i fatti di cui ai commi primo e secondo riguardino sistemi informatici o telematici di interesse militare o relativi all'ordine pubblico o alla sicurezza pubblica o alla sanità o alla protezione civile o comunque di interesse pubblico, la pena è, rispettivamente, della reclusione da uno a cinque anni e da tre a otto anni. Nel caso previsto dal primo comma il delitto è punibile a querela della persona offesa; negli altri casi si procede d'ufficio»
⏤ Assume rilievo quanto asserito dalla giurisprudenza in materia di accesso abusivo a caselle di posta elettronica. Fra le più recenti, la Cassazione penale, Sezione quinta, nella sentenza 6 giugno – 17 novembre 2017, n. 52572, la quale rileva che «integra il reato di cui all'art. 615 ter c.p., la condotta di colui che accede abusivamente all'altrui casella di posta elettronica, trattandosi di una spazio di memoria, protetto da una password personalizzata, di un sistema informatico destinato alla memorizzazione di messaggi, o di informazioni di altra natura, nell'esclusiva disponibilità del suo titolare, identificato da un account registrato presso il provider del servizio (cfr. Cass., sez. 5, 28.10.2015, n. 13057, rv. 266182)
⏤ Nel caso in esame la ricorrente era a conoscenza della password di accesso al sistema informatico, però, operando palesemente in contrasto con la volontà del titolare della casella elettronica, aveva effettuato "il cambio della password con impostazione di una nuova domanda di recupero ed inserimento di una frase ingiuriosa.
⏤ «Ne consegue – proseguiva la Suprema Corte - che correttamente la corte territoriale, nell'evidenziare, inoltre, come gli accessi abusivi abbiano anche temporaneamente escluso l' A. dal fruizione del servizio di posta elettronica, ha concluso nel senso di ritenere "pienamente provato il superamento da parte dell'imputata dei limiti intrinseci connessi con la conoscenza della password" (…) Come affermato, infatti, dall'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, integra la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto, prevista dall'art. 615 ter c.p., la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni e di limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l'accesso (cfr., ex plurimis, Cassazione penale, sez. un., 27/10/2011, n. 4694, rv 251270). E certo non può ritenersi rispettosa delle regole dettate dal titolare della casella elettronica per consentirne l'accesso, la condotta di chi utilizza la password, fosse anche ottenuta con il consenso del titolare, per modificarla indebitamente, impedendo a quest'ultimo di accedervi»
⏤ Tribunale di Lecce Sez. II, 03/05/2017, «la fattispecie di reato p. e p. dall'art. 615-ter c.p., concernente l'accesso abusivo ad un sistema informatico, si configura quando l'agente "pur essendo abilitato", acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l'accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l'ingresso nel sistema».
⏤ Conformemente, Cassazione penale, Sez. V, nella sentenza del 5/12/2016, n. 11994, per cui «In tema di delitti contro la inviolabilità del domicilio, integra la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto, prevista dall'art. 615-ter c.p., la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l'accesso, ovvero ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle per le quali l'accesso è consentito. Non hanno rilievo, invece, per la configurazione del reato, gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l'ingresso al sistema» (conforme, ad esempio, fra le recenti, Cass. pen. Sez. V, 26/10/2016, n. 14546; Cass. pen. Sez. V, 13/06/2016, n. 33311; Cass. pen. Sez. V, 13/01/2016, n. 6906).
⏤ Tribunale di Cagliari nella sentenza 17 maggio 2016, in punto competenza, che «In materia penale, ai fini della determinazione della competenza territoriale, nel reato di accesso abusivo ad un sistema informatico il momento consumativo va individuato nel luogo in cui si trova l'utente che, tramite elaboratore elettronico o altro dispositivo per il trattamento automatico dei dati, digitando la "parola chiave" o altrimenti eseguendo la procedura di autenticazione, supera le misure di sicurezza apposte dal titolare per selezionare gli accessi e per tutelare la banca-dati memorizzata all'interno del sistema centrale ovvero vi si mantiene eccedendo i limiti dell'autorizzazione ricevuta». ⏤ L’accesso abusivo ad un profilo di Facebook può quindi essere assimilato all’accesso abusivo ad un account di posta elettronica e integrare l’art. 615 ter c.p.
Pedopornografia ⏤ E’ stato ritenuto che, ai fini dell'integrazione del reato di pornografia minorile di cui all'art. 600 ter del codice penale, è necessario che la condotta del soggetto agente abbia una consistenza tale da implicare il concreto pericolo di diffusione del materiale pornografico prodotto, sì che esulano dall'area applicativa della norma solo quelle ipotesi in cui la produzione pornografica sia destinata a restare nella sfera strettamente privata dell'autore. ⏤ “Postare” immagini di pornografia minorile su Facebook integra il reato di cui all’art. 600 ter c.p.
⏤ Cassazione penale sezione III, nella sentenza del 12 marzo 2015, n. 16340: ⏤ «Tale delitto di pornografia minorile costituisce reato di pericolo concreto, "mediante il quale l'ordinamento appresta una tutela penale anticipata della libertà sessuale del minore, reprimendo quei comportamenti prodromici che, anche se non necessariamente a fine di lucro, ne mettono a repentaglio il libero sviluppo personale con la mercificazione del suo corpo e l'immissione nel circuito perverso della pedofilia", come insegnano le Sezioni Unite nella sentenza 31 maggio 2000 n. 13 citata anche nel ricorso; pertanto, insegnano ancora le Sezioni Unite, sussiste, salva l'ipotizzabilità di altri reati, quando ricorre "una consistenza tale da implicare concreto pericolo di diffusione del materiale prodotto".
⏤ Detto pericolo deve essere accertato di volta in volta dal giudice, sulla base di vari elementi sintomatici, tra i quali le Sezioni Unite annoverano anche l'esistenza di una struttura organizzativa, seppure eventualmente rudimentale, "atta a corrispondere alle esigenze di mercato dei pedofili" e "la disponibilità materiale di strumenti tecnici di riproduzione e/o trasmissione, anche telematica, idonei a diffondere il materiale pornografico in cerchie più o meno vaste di destinatari". Insegnamento che si è consolidato nella giurisprudenza successiva di questa Sezione, la quale ha sempre colto come parametro della sussistenza del reato la consistenza del pericolo concreto di diffusione materiale (Cass. sez. 3^, 21 gennaio 2005 n. 5774; Cass. sez. 3^, 1 dicembre 2009 n. 49604), tale da non limitare la fruizione del prodotto pornografico in una sfera strettamente privata (Cass. sez. 3^, 20 novembre 2007 - 14 gennaio 2008 n. 1814), e supportata dall'inserimento della condotta in un contesto come minimo embrionale da cui derivi una destinazione almeno potenziale del materiale ad una fruizione successiva di terzi (Cass. sez. 3^, 11 marzo 2010 n. 17178; v pure Cass. sez. 3^, 5 giugno 2007 n. 27252, correttamente citata anche nel ricorso).
⏤ Non si può non rilevare, peraltro, che l'intervento dirimente delle Sezioni Unite da cui si origina la giurisprudenza di legittimità che allo stato governa l'interpretazione dell'art. 600 ter c.p., comma 1, si colloca ormai in una data che può definirsi risalente, essendosi negli ultimi quindici anni espanso ad un livello all'epoca non percepibile e non prevedibile da chi non fosse particolarmente inserito nel settore il fenomeno dei cosiddetti social networks, ovvero la intensa potenza comunicativa anche tra privati nella rete, pervenuta ad una sorta di ubiquità in re ipsa di quanto prende le mosse dall'utente di un tale apparato. Laddove, pertanto, le Sezioni Unite chiedevano al giudice di merito di accertare di volta in volta la potenzialità concreta di diffusione pure mediante uno strumento telematico, l'odierno notorio insegna che l'inserimento di materiale entro un social network come Facebook più non necessita, in realtà, alcuno specifico accertamento sulla potenzialità diffusiva. E parimenti anche il riferimento a organizzazioni "rudimentali" o "embrionali" risulta ormai superato, ovvero anacronistico, tenuto conto della disponibilità quanto mai agevole che le strutture di comunicazione telematica sociale offrono oggi a chiunque se ne voglia avvalere, senza alcuna necessità di adoperarsi per porre in essere propri personali apparati.
⏤ La "piazza telematica" è aperta a tutti e la sua idoneità a diffondere quanto tutti vi versano, incluso il materiale pornografico, ha raggiunto un livello notoriamente così elevato da esonerare la necessità di valutazione del concreto pericolo, nel momento in cui il materiale, appunto, è inserito entro un frequentatissimo social network, come è avvenuto nel caso di specie, in cui l'imputato lo ha veicolato su Facebook e precisamente sul profilo di un'altra minore che, di per sè, aveva già circa centocinquanta contatti. Il convogliamento di materiale, in questi casi, sulla bacheca di un account si traduce in una metastasi diffusiva con la massima facilità. La "cerchia sterminata di pedofili" - come si esprimeva con suggestiva efficacia e oggettivo ribrezzo l'arresto sopra citato delle Sezioni Unite -, quindi, ormai non è più agevolmente e specificamente estrapolabile da una platea così estesa, miscelata e in ultima analisi onnicomprensiva come quella di un social network quale Facebook, per cui l'inserimento del materiale nel relativo meccanismo diffusorio è già di per sè potenzialmente idoneo, ovvero integra il pericolo concreto di diffusione anche tra i pedofili.
La corte territoriale, peraltro, ha riconosciuto che la giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte, non ritenendo ovviamente sufficiente la presenza del materiale sul computer personale dell'agente, esige il pericolo concreto di diffusione del materiale pedopornografico a una pluralità di soggetti, richiamando anche il tradizionale contesto organizzativo "almeno embrionale"; e, di conseguenza, giunge correttamente e logicamente a identificare il quid pluris necessario a integrare il reato proprio nell'avere "l'imputato effettivamente inviato le foto pornografiche relative alla minore su una bacheca di un profilo facebook, con il pericolo di una concreta, non controllabile, ulteriore diffusione
⏤ Non si vede, d'altronde, quale contraddittorietà abbia introdotto il giudice d'appello nella sua motivazione affermando subito dopo che "la ratio della norma incriminatrice è certamente quella di combattere il mercato della pedofilia", considerato che, per quanto si è sopra rilevato come notorio, il mercato della pedofilia può attuarsi anche attraverso social networks come quello utilizzato dall'imputato. E che poi questo avesse intenzione non di condividere con il mondo dei pedofili quel materiale, bensì di soddisfare i propri impulsi sessuali (come nella pagina precedente la corte territoriale afferma) non ha evidentemente alcun rilievo, poichè in effetti l'imputato si è avvalso della tutt'altro che rudimentale organizzazione Facebook, la quale è intrinsecamente finalizzata ad ogni diffusione; e tale natura di Facebook - che allo stato effettivamente non riesce ad arginare la circolazione di questo tipo di materiale - è talmente notoria che la sua utilizzazione rappresentata dal versarvi materiale pornografico integra, quanto meno come dolo eventuale, proprio una consapevole volontà di divulgazione (cfr. Cass. sez. 3^, 11 dicembre 2012-31 luglio 2013 n. 33157; Cass. sez. 3^, 25 ottobre 2012 n. 44914; Cass. sez. 3^, 10 novembre 2011 n. 44065; Cass. sez. 3^, 12 gennaio 2010 n. 11082; e cfr. altresì Cass. sez. F, 7 agosto 2014 n. 46305)»
⏤ In tale prospettiva si è posta anche la Cassazione penale, Sezione III, nella sentenza del 10 marzo 2016, n. 19112, secondo cui ⏤ «mentre il delitto di cui all'art. 600 - quater c.p., presuppone una detenzione "fine a se stessa" del materiale pedopornografico, essendo richiesta la consapevolezza (dolo generico) con riferimento alla condotta di "procurarsi" o "detenere" il predetto materiale realizzato utilizzato minorenni, la fattispecie dell'art. 600 - ter c.p., comma 1, n. 1, oggetto di contestazione, punisce la "produzione" di tale materiale a prescindere dalla finalità commerciale (v. art. 600 - ter c.p., comma 2) e presuppone ovviamente una detenzione "qualificata" del materiale prodotto, in quanto non destinata "ex se" al mero soddisfacimento delle pulsioni sessuali dell'agente, ma preordinata al perseguimento di una finalità ulteriore che può essere anche quella di un utilizzo del materiale per finalità illecite, qual è sicuramente quella di detenerlo per ricattare il minore che ne è involontario protagonista, prospettandogli l'alternativa tra soggiacere ai desideri sessuali del reo o vedersi pubblicate su internet le immagini pornografiche che lo ritraggono; la detenzione, quindi, nel caso in esame, non poteva qualificarsi come "fine a se stessa" ma finalizzata al perseguimento di ulteriori obiettivi e, dunque, in tale detenzione, era insito - e peraltro esternato anche ex professo dallo stesso ricorrente - il pericolo di diffusione che è richiesto dalla fattispecie incriminatrice per la configurabilità dell'illecito penale de quo.
⏤ La "cerchia sterminata di pedofili" - come si esprimeva con suggestiva efficacia e oggettivo ribrezzo l'arresto sopra citato delle Sezioni Unite -, quindi, ormai non è più agevolmente e specificamente estrapolabile da una platea così estesa, miscelata e in ultima analisi onnicomprensiva come quella di un social network, per cui l'inserimento del materiale nel relativo meccanismo diffusorio è già di per sè potenzialmente idoneo, ovvero integra il pericolo concreto di diffusione anche tra i pedofili. ⏤ La Corte territoriale, peraltro, ha riconosciuto che la giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte, non ritenendo ovviamente sufficiente la presenza del materiale sul computer personale dell'agente, esige il pericolo concreto di diffusione del materiale pedopornografico a una pluralità di soggetti, richiamando anche il tradizionale contesto organizzativo "almeno embrionale"; e, di conseguenza, giunge correttamente e logicamente a identificare il quid pluris necessario a integrare il reato proprio nell'essere destinato il materiale pedopornografico alla successiva fruizione di un numero imprecisato di terzi, il che equivale a dire - in altri termini - palesare il pericolo di una concreta, non controllabile, ulteriore diffusione.
Non si vede, d'altronde, nemmeno quale vizio motivazionale abbia mai potuto inficiare la sentenza d'appello laddove, correttamente, afferma che la ratio della norma incriminatrice è certamente volta a reprimere le più gravi condotte di aggressione ad una serena evoluzione della identità sessuale del minore, considerato che, per quanto si è sopra rilevato come notorio, il mercato della pedofilia può attuarsi anche attraverso social networks come quello utilizzato dall'imputato. E che poi questo avesse intenzione non di condividere con il mondo dei pedofili quel materiale, bensì di soddisfare i propri impulsi sessuali (come sostenuto anche in ricorso) non ha evidentemente alcun rilievo, poichè in effetti l'imputato si è avvalso della tutt'altro che rudimentale organizzazione Facebook, la quale è intrinsecamente finalizzata ad ogni diffusione; e tale natura di Facebook - che allo stato effettivamente non riesce ad arginare la circolazione di questo tipo di materiale - è talmente notoria che la sua utilizzazione rappresentata dal versarvi materiale pornografico integra, quanto meno come dolo eventuale, proprio una consapevole volontà di divulgazione (cfr. Cass. sez. 3, 11 dicembre 2012-31 luglio 2013 n. 33157; Cass. sez. 3, 25 ottobre 2012 n. 44914; Cass. sez. 3, 10 novembre 2011 n. 44065; Cass. sez. 3, 12 gennaio 2010 n. 11082; e cfr. altresì Cass. sez. F, 7 agosto 2014 n. 46305)» ⏤ (Cass. Pen., Sez. III, 10/3/2016, n. 19112)
⏤ Interessante altresì il caso, più risalente nel tempo, che aveva riconosciuto la sussistenza del reato di cui all’art. 600 ter c.p. nel caso di una ragazzina che aveva ricevuto una richiesta di amicizia sul social network "Facebook" dalla sedicente M.J. Questa, dopo avere prospettato alla minore l'ingresso nel mondo dell'alta moda e offerto in regalo denaro e capi di abbigliamento, se avesse accettato di fare la modella, l'aveva contattata tramite webcam e le aveva richiesto di spogliarsi e di toccarsi le parti intime; laragazzina, a quel punto aveva interrotto il contatto e aveva informato la madre dell'accaduto
⏤ Corte di Cassazione Sezione terza penale nella sentenza 21759 del 28.05.2014, che: ⏤ «la condotta dell'agente - consistita nel contattare mediante il social network "Facebook" con la richiesta di amicizia da parte di una sedicente M.J. la dodicenne L.E., prospettandole l'ingresso nel mondo dell'alta moda e offrendole denaro e capi di abbigliamento se avesse accettato di fare la modella, e nel chiederle tramite webcam di spogliarsi e toccarsi le parti intime - in quanto palesemente rivolta a ottenere dalla minore un'esibizione lasciva dell'organo genitale, costituisce attività idonea alla produzione di materiale pedopornografico potenzialmente destinato alla fruizione di terzi e inequivocabilmente diretta a questo scopo, - non conseguito esclusivamente per l'interruzione del contatto da parte della destinataria, che del fatto aveva informato la madre, e quindi configura nella forma del tentativo il delitto previsto dall'art. 600 ter c.p.» ⏤ (Cass. Pen. Sez. III, 28.05.2014, n. 21759).
Puoi anche leggere