COSCIENZA E LIBERO ARBITRIO NELLE NEUROSCIENZE: UN DIBATTITO FILOSOFICO E SCIENTIFICO

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COSCIENZA E LIBERO ARBITRIO NELLE
                              NEUROSCIENZE:
       UN DIBATTITO FILOSOFICO E SCIENTIFICO

INTRODUZIONE
L’ultimo decennio del secolo scorso, gli anni ’90, è stato definito “il decennio del
cervello” (Boella, 2008), a dimostrazione di quanto sia progressivamente sempre più
crescente l’interesse da parte della comunità scientifica per i risultati che gli scienziati
stanno conseguendo in campo neuroscientifico; sostiene Noë (2010) che “Viviamo in
un’epoca di crescente entusiasmo per il cervello. Soltanto la preoccupazione di
trovare un gene per qualunque cosa compete oggi con il diffuso ottimismo che
circonda le neuroscienze…Si crede comunemente che persino la coscienza…sarà
presto fatta oggetto di una spiegazione neurale.” (p.XIII). L’onda dell’entusiasmo per
le scoperte sul funzionamento del cervello umano ha generato il proliferare di “spazi”
dedicati alla cultura neuroscientifica: siti, riviste, blog, nonché periodici on line e
sezioni scientifiche appositamente rivolte alla neuroscienza, oltre a sempre più
accurati ed aggiornati manuali e libri di testo per le facoltà di Psicologia, Medicina e
Biologia. Anche nel nostro Paese, una settimana nel mese di marzo viene dedicata “al
cervello”, e prende il nome di “settimana del cervello”.
Tutto questo non poteva non avere un impatto proporzionale sull’opinione pubblica,
ma non solo: le scoperte neuroscientifiche sono frutto di un progetto di indagine che è
primariamente un impegno umanitario del ricercatore, il quale “vive” nel mondo-
della-vita insieme ad altre soggettività, anche e soprattutto quelle non “esperte del
settore”, verso le quali ha responsabilità etiche e pratiche (Maturana e Varela, 1985;
Bosio, in Armezzani et al., 2008); sostiene Bosio (2008) che nel mondo della vita “si

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vive prima di comprendere” (ibidem), così ogni lavoro, ogni ricerca, ogni progetto
dello scienziato è prima di tutto il progetto di una persona, mossa da valori ed ideali e
in relazione vivente col mondo e con gli altri-da-sé che tali lavori leggeranno.
Noë fa notare come spesso tale evidenza originaria e basilare sia misconosciuta dalla
stessa comunità scientifica, tanto che egli chiama il seguente il “paradosso della
scienza”: “La conoscenza scientifica guarda all’oggetto delle proprie indagini in
modo freddo, spassionato, razionale. La scienza assume un atteggiamento distaccato
verso le cose. In quest’ottica, però, è di fatto impossibile prendere in considerazione
la mente degli altri.” (Noë, 2010, p.41).
La nascita della neuroetica intorno al 2002 (Boella, 2008) come “L’emergere di…
nuovo ambito di discussione e riflessione interdisciplinare…” (p.IX) risponde proprio
al bisogno di collocare interdisciplinarmente il luogo di un maturo dibattito che gli
“addetti ai lavori” in materia neuroscientifica devono condurre per trovare il modo di
mantenere un equilibrio riflessivo, come lo definisce Flanagan (Cappuccio, 2006), tra
le assunzioni metafisiche del senso comune e le scoperte empiriche che giungono
direttamente dal campo delle scienze; lo scopo è quello di migliorare la comprensione
del fenomeno mentale. “…gli stili di pensiero scientifico e umanistico richiedono una
compenetrazione reciproca…La scienza naturale non è sui generis. Non è neutrale
rispetto ai valori e non è discontinua rispetto ai più generali interessi umani. Né la
filosofia è una ridda di opinioni. Filosofia e scienza condividono piuttosto uno scopo
comune: il comprendere. Scienza e filosofia devono lavorare insieme per far
progredire la nostra comprensione delle cose.” (Noë, 2010, p.XVII). “La scienza ha
una responsabilità politica e morale, oggi più che mai….La scienza sta affinando la
sua sensibilità per la persona nella sua totalità, con una storia e caratteristiche
individuali uniche, uno stile, delle scelte, un progetto di vita.. Questa nuova
sensibilità invita a prestare attenzione ad alcuni rilevanti aspetti della ricerca
scientifica più recente.” (Boella, 2008, p.XI). E, a proposito del “criterio dell’umano”
di cui parla Minkowski e che contraddistingue anche il modus operandi dello
scienziato, la filosofa scrive: “…il fondamento comune di umanità, da cui tutti

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deriviamo, ha radice nella vita…” (p.XII). Scienza e filosofia devono contribuire
con una“…continuità sussistente tra quella spinta del pensiero filosofico
contemporaneo e l’orizzonte attuale della scienza.” (ibidem, p. XVII). “La neuroetica
rappresenta un terreno nuovo di scambio e di discussione tra scienza e filosofia, che
verte sui problemi legati alla ricerca sperimentale e alla pratica clinica, ma soprattutto
sulle applicazioni degli studi sul cervello e delle tecniche di imaging che interessano
la vita delle persone.” (Boella, 2008, p.18).
“Proprio perché avviene su un nuovo terreno, questo dialogo implicherà un incontro e
uno scambio di esperienze e di posizioni la cui fecondità deriverà probabilmente dalla
capacità di trovare non sintesi, bensì passaggi tra metodi, pratiche e risultati della
ricerca sperimentale e competenza filosofica relativa alla chiarificazione concettuale,
al rapporto fra i molteplici aspetti dell’esperienza umana e all’esercizio di una
costante interrogazione sulla condizione umana al cospetto delle trasformazioni
indotte dalla scienza e dalla tecnologia.” (p.19).
Parla di compenetrazione reciproca anche Cappuccio (2006), uno dei più esimi
esperti italiani della Neurofenomenologia, l’approccio transdisciplinare che Varela ha
inaugurato nel 1996 e che si propone di offrire una prospettiva empirica e scientifica
che tenga conto del versante neuronale e di quello fenomenologico per una migliore
comprensione dell’esperienza umana. La coscienza, il misterioso fenomeno che
affascina gli scienziati della mente contemporanei, si presenta come la “sfida” più
allettante e allo stesso tempo ostica per un approccio innovativo allo studio
dell’esperienza umana (ibidem). Tuttavia, chi si convince che solo uno dei due poli –
quello neurobiologico o quello fenomenologico – possa illuminare il ricercatore
impegnato nella scoperta dei misteriosi meccanismi che danno origine alla coscienza
animale si trova nel torto; è in particolare una concezione della scienza nota come
Fisicalismo, il quale è propriamente un punto di vista sul mondo, un approccio
ontologico ed epistemologico che racchiude entro le categorie della fisica classica
tutti i fenomeni umani, che commette l’errore del riduzionismo biologico della
coscienza al cervello. In realtà, noi non siamo il nostro cervello (Noë, 2010); o,

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anche, il cervello non spiega chi siamo (Legrenzi e Umiltà, 2009). “Il riconoscimento
di una base biologica alla nostra capacità di provare compassione non deve essere
contrapposto, bensì integrato nel profilo spirituale di questa meravigliosa emozione
umana…Oggi ci troviamo di fronte al compito di tenere insieme la spiegazione
neurofisiologica del comportamento e le prerogative fondamentali della nostra
umanità: la responsabilità degli atti, la libertà delle scelte, i valori…”, scrive Boella
(2008, p.XIII). De Caro (in De Caro et al., 2010) scrive: “E, in effetti, nemmeno i più
accesi fautori di questa concezione sostengono che potremo mai mostrare in dettaglio
come il complesso dei concetti con cui parliamo degli esseri viventi (e a fortiori dei
soggetti umani) possa essere ridotto ai concetti che si riferiscono alle proprietà
subatomiche dei loro corpi.” (p.131).
Per tornare alla neuroetica, essa nasce quindi come espansione della bioetica ad
abbracciare i quesiti e le ricadute pratiche e soprattutto etiche che sorgono in
conseguenza del progredire delle neuroscienze cognitive verso una spiegazione – che
non è una comprensione (Galimberti, 1979, 2009) – del funzionamento del cervello. “
Ciò non significa che i dati sperimentali sul funzionamento cerebrale esauriscano o
spieghino la ricchezza dell’esperienza umana.” (Boella, 2008, p.XVII). Questa
distinzione è fondamentale giacchè le neuroscienze adottano un paradigma
meccanicistico e deterministico, volto alla spiegazione in termini causali di ciò che
avviene nel cervello a livello neurobiologico, mentre la comprensione è ciò che
concerne il dominio, la sfera personale e umana del soggetto di esperienza: in pratica,
il suo vissuto (Galimberti, 1979, 2009; Noë, 2010). Molti neuroscienziati oggi
pensano che le scoperte delle neuroscienze possano essere minacciose per le nostre
assunzioni metafisiche intuitive sui fenomeni psichici (Roskies, 2006; Bok, 2007). In
realtà, si tratta di trovare quell’equilibrio riflessivo accennato in precedenza perché
scienza e filosofia, ma anche il senso comune, si incontrino in maniera adeguata ai
fini di un accrescimento della comprensione intellettuale sui fenomeni in questione.
“Proprio perché avviene su un nuovo terreno, questo dialogo implicherà un incontro e
uno scambio di esperienze e di posizioni la cui fecondità deriverà probabilmente dalla

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capacità di trovare non sintesi, bensì passaggi tra metodi, pratiche e risultati della
ricerca sperimentale e competenza filosofica relativa alla chiarificazione concettuale,
al rapporto fra i molteplici aspetti dell’esperienza umana e all’esercizio di una
costante interrogazione sulla condizione umana al cospetto delle trasformazioni
indotte dalla scienza e dalla tecnologia.” (Boella, 2008, p.19).

IL PROBLEMA DEL LIBERO ARBITRIO
Tra i quesiti di cui si occupa la neuroetica, si possono annoverare quelli relativi al
“potenziamento cognitivo” sul cervello esercitato dai farmaci psicoattivi (Oliverio,
2008; 2009); quelli concernenti le ricadute in ambito pratico, etico e legale degli studi
di neuroimmagine riguardo alla delicata diagnosi degli stati vegetativi permanenti
(Noë, 2010); quelli che trattano dei giudizi in ambito forense di comportamenti che
consistono in reati dal punto di vista legale (Bianchi, 2008; Juth e Lorentzon, 2010);
quelli relativi all’intelligenza emotiva e sociale, nonché tutto il corollario legato al
dibattito sui “neuroni specchio” (Oliverio, 2008). “La neuroetica rappresenta un
terreno nuovo di scambio e di discussione tra scienza e filosofia, che verte sui
problemi legati alla ricerca sperimentale e alla pratica clinica, ma soprattutto sulle
applicazioni degli studi sul cervello e delle tecniche di imaging che interessano la vita
delle persone.” (Boella, 2008, p.18).
Ma è in particolare il dibattito sul libero arbitrio che coinvolge maggiormente i
neuroscienziati contemporanei. Tale aspetto della nostra umanità rappresenta
intuitivamente un caposaldo del nostro agire razionale, e quando si tocca tale
argomento non basta più riferirsi alle “intuizioni” del senso comune, ma occorre
prendere in considerazione un più approfondito impegno nei confronti di qualcosa
che è profondamente radicato nell’animo umano in una forma che è pre-riflessiva,
pre-cognitiva.
Il problema del libero arbitrio è stato oggetto di dibattito fin dall’antichità (Gomes,
2007); esso è uno dei più antichi quesiti in filosofia, uno dei più frequentemente

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dibattuti (Sie e Wouters, 2010). Siamo liberi? (Gomes, 2007). E se sì, come
qualificare tale capacità umana? Quali relazioni con la coscienza? E col cervello? Il
libero arbitrio è una delle esperienze più preponderanti per il vissuto psicologico:
“L’esperienza della volontà contrassegna le nostre azioni.” (Wegner, in De Caro et.
al., 2010). Anche se il problema del libero arbitrio interroga i filosofi fin
dall’antichità, la nostra intuizione su di esso non ha bisogno di tanti sillogismi; il
dottor Samuel Johnson diceva: “Noi sappiamo di avere il libero arbitrio, e non c’è
altro da dire.” (Boswell, 1791, cit in De Caro, 2004, p.3)
  Alcuni filosofi, che storicamente si collocano entro la prospettiva del
compatibilismo, sminuiscono il ruolo della deliberazione cosciente, volontaria, e
sospendono qualunque ascrizione metafisica al soggetto di esperienza, rimarcando sul
ruolo di “forze” (anche inconsce) che agiscono su di esso e che, in definitiva, lo
guidano a performare l’azione. Per Hobbes, il libero arbitrio si costituisce piuttosto
come una passione che come azione, frutto di spinte generate dai desideri (Cary,
2007), sui quali il controllo volontario è molto limitato. Altri filosofi compatibilisti
sono Hume, Kant – almeno secondo Cary (2007) – e, attualmente, Dennett, Gomes,
Pockett, Sie e Wouters.
Gomes (2007) sostiene chiaramente che il libero arbitrio dipende dalla coscienza.
Tale affermazione ha risonanze metafisiche ed epistemologiche di non poco conto, in
quanto ciò guida ad una lettura particolare dei risultati che le neuroscienze della
decisione (e la psicologia della decisione) hanno conseguito a partire dal pionieristico
esperimento di Libet e collaboratori (1983). “..la libertà ci pare indispensabile per
dirci responsabili delle nostre decisioni e delle nostre azioni e per dare senso a
nozioni come quelle di responsabilità, merito, biasimo, punizione e retribuzione.”,
scrivono De Caro et al. (2010, p.IX).
La capacità di agire volontariamente è essenziale per la natura umana, anche se le
neuroscienze e la psicologia comportamentista hanno spesso bollato questa tematica
come non scientifica, probabilmente perché i meccanismi che causano l’azione sono
poco chiari. La volizione consiste nella serie di decisioni che riguardano se agire,

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quando e quale azione programmare. I resoconti neuroscientifici possono nutrire il
dibattito sulla responsabilità individuale.
L’esperienza del controllo volontario delle nostre azioni è essenziale per la nostra
esistenza, così come la capacità di agire per come si sceglie: alcune patologie come
psicosi, abulia e DOC limitano la nostra capacità di libero controllo sulle azioni
(Haggard, 2008). Gli esseri umani hanno esperienza cosciente del libero arbitrio. Noi
sembriamo essere in grado di generare le nostre azioni e così intervenire sul nostro
ambiente (Haggard et al., 2002).
Il libero arbitrio è stato spesso definito in contrasto alle circostanze che lo invalidano,
o lo impediscono nell’essere esercitato pienamente (Cary, 2007). Come emerso dal
recente convegno di Neuroetica tenutosi a Padova nel maggio 2010, benché il libero
arbitrio sia una capacità ben definibile e non “elementizzabile”, tuttavia al suo
esercizio pieno vi sono delle limitazioni che in alcune occasioni lo rendono
“graduato” in maniera differente.
Ciò non questiona ovviamente la portata metafisica di tale facoltà genuinamente
umana, né la sua esistenza come atto di volontà, un nous poietikos o intelletto attivo
piuttosto che un semplice nous pathetikos, come ricorda il filosofo Da Re (intervista
su Brainfactor.it, maggio 2010). Significa semplicemente che impedimenti,
coercizioni o altre costrizioni sia di natura fisica che psicologica, sia “esterne”, cioè,
che interne, possono invalidare un suo pieno dispiegarsi nella vita cosciente e, di
riflesso, nella sfera interpersonale (Burns e Bechara, 2007; Gomes, 2007; Haggard,
2008; Sie e Wouters, 2010; Juth e Lorentzon, 2010).
Molti neuroscienziati pensano che le scoperte avanzate delle neuroscienze siano
minacciose per il libero arbitrio. La questione è quella più generale della
compatibilità tra libero arbitrio e determinismo e la possibilità di mantenere il libero
arbitrio nonostante siamo regolati da leggi causali universali (Bok, 2007).
I neuroscienziati cercano di scoprire come funziona il cervello per reperire i correlati
fisici del comportamento. Le conoscenze sul cervello minacciano la nostra credenza
in un agire libero e responsabile: più conoscenze acquisiamo sulle correlazioni

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neurali alla base dei nostri comportamenti e più definiamo cause fisiche alle nostre
scelte, così confinando il libero arbitrio a sempre minore spazio: saremmo succubi di
catene causali (ibidem).
Tale ambito di discussione introduce la questione metafisica della “causalità” degli
eventi: hanno una causa tutti gli eventi naturali? O piuttosto alcuni aspetti della sfera
umana (la nostra mente) sono esse stesse delle cause non necessitate da altri eventi –
come ad esempio gli eventi neurali?
Il cervello non spiega chi siamo, come dicono giustamente Legrenzi e Umiltà (2009)
e Noë (2010). Si potrebbe dire, con Straus, che siamo noi a pensare, non il nostro
cervello (in Fuchs, 2002).
Il problema del libero arbitrio potrebbe essere concepito come il problema del fatto
che abbiamo o meno libertà interna, di ciò in cui consiste tale libertà e del come essa
si relaziona al concetto che tutti gli eventi hanno delle cause (necessarie o sufficienti)
(Gomes, 2007).
Rimandando a più avanti tale dibattito, torniamo al legame sopra accennato tra
coscienza e volizione. Le azioni volontarie sono accompagnate da una esperienza
soggettiva specifica (Haggard, 2008): si potrebbe dire che hanno una certa
fenomenologia. La relazione tra esperienza e attivazione neuronale è al centro di un
dibattito nelle neuroscienze (ibidem), dibattito che è stato incastonato in una vera e
propria tradizione di ricerca, uno stile sperimentale che è stato chiamato dal suo
ideatore Francisco Varela Neurofenomenologia (Cappuccio, 2006). Essa non è una
neuro mania (Legrenzi e Umiltà, 2009), poiché non nasce come la semplice
estensione del prefisso “-neuro” ad un’altra disciplina. È pur vero che si tratta di una
incontro tra le neuroscienze e una tradizione di ricerca, quella fenomenologica
husserliana, ma il tentativo è quello di forgiare un approccio non tanto
interdisciplinare, quanto transdisciplinare allo studio dell’esperienza cosciente. Per
certi versi, il binomio fenomenologia – neuroscienze suona come una stridente
contraddizione (Cappuccio, 2006), in quanto la fenomenologia di matrice husserliana
nasce proprio come alternativa “filosofica” all’atteggiamento “naturale” delle scienze

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oggettive. Non a caso, si parla di una “naturalizzazione della fenomenologia”, anche
se   Gallese    (ibidem)     propone     giustamente     di   definirla   anche     come
“fenomenologizzazione delle neuroscienze”. Questo perché è evidente, risuona nei
lavori sperimentali degli scienziati della mente, l’influenza della teoresi
fenomenologica, in particolare ad opera di Merleu-Ponty (Armezzani, 2002). Si pensi
ai lavori di ricerca sui neuroni specchio, all’embodiment, alla intersoggettività; temi,
questi, di ricca significatività per il dibattito neuroetico in oggetto in questo lavoro.
“D’altra parte, è vero anche che non si può condurre l’indagine filosofica in completa
indipendenza dai risultati della ricerca scientifica…è anche vero che in seguito
occorre trovare un equilibrio riflessivo tra l’analisi concettuale e ciò che la scienza ci
dice del mondo…Nondimeno il requisito della compatibilità della filosofia con la
scienza non implica la contiguità tra tali discipline, e meno ancora la riducibilità
della prima alla seconda…” (De Caro, 2004, pp.20-21). Di “omologia strutturale” tra
fenomenologia e neuroscienze parlano anche Vogeley e Kupke (2007).
Tale “compenetrazione” o mutuo vincolarsi (Cappuccio, 2006) di fenomenologia e
neuroscienze consente di studiare l’esperienza cosciente alla luce della sua duplice
polarità di evento biologico e neurobiologico e di fenomeno soggettivo, umano, unico
e irripetibile; si parla, a questo proposito, non dell’“isomorfismo” che aveva
connotato le teorie riduzionistiche di stampo fisicalistico (come la teoria dell’identità
di tipo o psico-neurale), ma piuttosto di un omeomorfismo che significa la profonda e
reciproca influenza delle due polarità dell’esperienza l’una sull’altra, senza che
nessuna delle due si riduca all’altra ma in modo che ognuna mantenga la propria
unicità nonché interdipendenza dall’altro aspetto dell’esperienza. Lo studio della
stessa va quindi condotto con attenzione alle neuro-dinamiche e contemporaneamente
alle feno-dinamiche del vissuto cosciente (Petitmengin et al., 2007).
Ecco allora che la coscienza assume un ruolo decisivo entro il dibattito sul libero
arbitrio: essa è definita da alcuni come una “proprietà biologica” e quale “livello di
sistema” (Searle, 2005), un fenomeno emergente dalla neurobiologia del cervello e
causato da essa (Searle, 1998), tanto che sarebbe il “neurobiologico ad un livello

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superiore” (Searle, 2005); altri insistono invece sul carattere esteso, cognitivamente
distribuito tra corpo, mondo e cervello (Noë, 2010; Damasio, 1995; Cappuccio, 2006;
Vogeley e Kupke, 2007).
L’intenzione cosciente sembra essere la causa dell’azione: noi sentiamo di avere il
libero arbitrio (Haggard, 2008). Ma come si configura la coscienza in psicologia?
Anzitutto, viene puntualizzato lo stretto legame tra essa ed il cervello; ma in che
termini si traduce la loro relazione? Le teorie causalistiche dell’azione del cervello
sulla coscienza sono frutto di un riduzionismo ormai datato (Noë, 2010); inoltre, è
sottointesa, benchè i fisicalisti si propongano come avversari giurati della stessa, una
concezione dualistica di mente e cervello (Gomes, 2007), per cui vi sarebbe un Io
cosciente e un cervello fisico che interagiscono tra loro. Nei casi più soft di
fisicalismo, l’interazione si traduce in causazione cervello-mente; in quelli più hard,
si ha riduzionismo di mente a cervello.
“Secondo le altre obiezioni…le teorie libertarie non riescono a spiegare come gli
agenti controllino le proprie azioni, incorrono facilmente in un regresso all’infinito e
non sono in grado di localizzare il presunto momento indeterministico nel corso del
processo che conduce all’azione. A queste obiezioni, la concezione qui difesa
risponde in modo drastico, mettendo in questione il monismo ontologico e causale
tacitamente assunto dalla gran parte del dibattito contemporaneo sulla libertà…” (De
Caro, 2004, p.145).
Nella lettura di Gomes, è sostenuta una visione materialistica dell’Io come attività del
cervello (2007). Tale definizione però non consente di giungere a conclusioni
riduzioniste: parlare di “attività del cervello” non nega l’autonomia ontologica della
sfera psichica rispetto a quella, correlata, del dominio cerebrale. La correlazione, i
correlati neurali della coscienza (Varela, 2001; Searle, 1998), non consente alcuna
conclusione causalistica né tantomeno isomorfista. È proprio su questo punto che la
Neurofenomenologia si propone come risoluzione al “problema difficile” (Chalmers,
in De Palma e Pareti, 2004; Cappuccio, 2006). La Neurofenomenologia accetta la

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località, la parzialità delle descrizioni naturalistiche e neurobiologiche della attività
mentale senza trarre conclusioni ontologiche (Cappuccio, 2006).
La coscienza è un’emergenza (Varela, 2001); non solo, essa non è nelle nostre teste
(Armezzani, 2002; Noë, 2010) ma si dispiega entro una relazione tra il soggetto e il
proprio mondo, e verso l’unico e condiviso mondo-della-vita popolato dalle
coscienze umane, nonché verso le altre coscienze (Merleau-Ponty, 1945).                “La
spensierata sicurezza con cui i neuroscienziati affermano che il cervello è la sede
della coscienza equivale all’ingiustificata convinzione secondo la quale il nostro
cranio rappresenterebbe il confine tra noi e il resto del mondo.” (Noë, 2010, p.73). Il
filosofo si esprime così a proposito della coscienza estesa: “La mente emerge dal
lavorio dei nostri cervelli individuali; il cervello è l’organo della nostra mente. Ma
non tutta l’esperienza e la cognizione sono così distaccate…individualistiche. Molta
della nostra vita cognitiva…richiede…la presenza…di altre persone.” (ibidem, p.91).
Il sistema nervoso istanzia l’esperienza, la rende possibile, ma è solo una delle sue
polarità. “Esistono correlati interni della coscienza…agli eventi della coscienza
corrispondono senza dubbio eventi di tipo neurale. Esistono però anche correlati
esterni della coscienza…La mente…consiste nella sua forma di impegno rispetto
all’ambiente…” (ibidem, p. 44).
“Se vogliamo comprendere la mente di un animale non dobbiamo guardare soltanto
al suo interno, alla sua costituzione fisica e neurologica; dobbiamo prestare
attenzione al suo modo di vivere, al modo in cui esso è preso dal suo ambiente.”
(ibidem ,p.45).
Noë sostiene che la lettura delle neuroscienze di un “Io” coincidente col cervello in
attività è frutto di un retaggio cartesiano, solo che in questo caso si identifica la “cosa
pensante” con un organo materiale, che viene antropomorfizzato: al cervello si
ascrive la capacità di pensare, agire, comportarsi (Fuchs, 2002).
Stando alla lettura più propriamente fisicalistica, gli scienziati che adottano una tale
visione tentano di proporre l’esistenza di un “campo di lavoro”, come lo chiama
Baars, di natura però non immateriale bensì fisica, che si origina dal lavoro congiunto

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di milioni di neuroni della corteccia e del talamo, nonché dall’azione della
formazione reticolare tronco encefalica, connessi in modo sincrono da scariche
neurali di 40 Hz.
Lo stesso Libet aveva proposto, nei suoi esperimenti, di guardare alla coscienza come
a un campo unificato, ma la sua concezione si distanzia da quella di molti scienziati
in quanto il fenomeno, nella chiave di lettura libetiana, conservava il proprio statuto
di evento non materiale.
Diversa è la concezione difesa da Gomes: egli parla di “working brain”, di un sistema
complesso e differenziato tale da ammettere che la sua attività corrisponda alla
coscienza, intesa come proprietà del sistema neurale, una visione non lontana da
quella di Searle. È interessante notare come questi scienziati e filosofi che si
riconoscono nel naturalismo o biologismo di base della coscienza adottano posizioni
differenti riguardo al libero arbitrio; così, ad esempio, Gomes (2007) si propone come
difensore del compatibilismo, Searle (2005) come sostenitore di una visione libertaria
– pur se entro la cornice del naturalismo biologico-, Kane (cit. in Sie e Wouters,
2010) come anch’egli difensore di una concezione libertaria ma situante il libero
arbitrio nel cervello; è interessante anche che alcuni negazionisti della coscienza,
come Dennett, sono nondimeno difensori del libero arbitrio, nella forma
compatibilista. Ciò starebbe ad indicare che coscienza e libero arbitrio per alcuni
scienziati non solo non sono interdipendenti, ma sono addirittura eslcusivi!
Tra le posizioni sopra citate, la più interessante è a mio avviso quella di Kane e di
Searle: essi adottano la concezione probabilistica degli eventi naturali mutuata dalla
meccanica quantistica e la applicano, a livello microscopico, agli eventi
neurobiologici.     A   livello   microscopico   significa   che   tale   “fluttuazione”
indeterministica degli eventi neurali si riscontra a livello della fisica subatomica e
non a quello neurofisiologico. Una tale condizione si riproporrebbe poi a livello
psicologico; come fa notare Searle (2005), il fatto che la meccanica quantistica abbia
un elemento di casualità non esclude che la coscienza possa ereditare dal cervello
l’elemento indeterministico, ossia la causalità non deterministica che è prerogativa,

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secondo Searle, per il libero arbitrio, senza che ne venga ereditata la componente
aleatoria. Ciò è estremamente importante perché, come il determinismo sarebbe
incompatibile con il libero esercizio della libertà – almeno per i filosofi
incompatibilisti -, lo sarebbe anche la casualità o fatalità, anch’essa tale da non
consentire un controllo sull’azione da parte dell’agente. “Dobbiamo supporre che la
coscienza svolga un ruolo causale nella determinazione delle nostre decisioni e delle
nostre azioni libere, ma dobbiamo anche supporre che tale ruolo causale non sia di
tipo deterministico. Vale a dire, non è una questione di condizioni sufficienti.”
(Searle, 2005, p.208).
Searle sostiene che l’assenza di impedimenti esterni sia irrilevante per il significato di
libero arbitrio. Noi esperiamo un gap tra le ragioni per agire e la decisione di agire.
Noi sentiamo che le condizioni causali antecedenti delle nostre azioni libere non sono
causalmente sufficienti a produrre l’azione (Gomes, 2007).
“Fa parte della nostra esperienza cosciente trovarci in situazioni in cui le cause delle
nostre decisioni e delle nostre azioni, sotto forma di ragioni a loro favore, non sono
sufficienti a determinare la decisione e l’azione effettiva…In breve, c’è uno iato tra le
cause della decisione e dell’azione, che hanno la forma di ragioni, e l’effettivo
raggiungimento della decisione, o l’esecuzione dell’azione.” (Searle, 2005, p.196).
Searle parla di iato, tanto a livello neurobiologico quanto a quello psicologico, che
rende necessario l’intervento dell’Io-agente per completare il ruolo svolto dalle
ragioni psicologiche (Merleau-Ponty, 1945), le quali non sono semplici cause neurali,
o meglio sono cause a questo livello, ma divengono ragioni vissute a quello del
soggetto.
“Le cause puramente psicologiche delle nostre azioni spesso non sono causalmente
sufficienti a determinarle. Tuttavia, questo lascia ancora aperta la questione più
profonda di come stiano le cose al livello della neurobiologia soggiacente…Finora
abbiamo assunto che, a ogni dato istante, lo stato della coscienza di una persona sia
del tutto determinato causalmente dalla sua neurobiologia. Ora sosteniamo che gli
stati coscienti in genere non sono sufficienti a determinare la decisione e l’azione.”

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(Searle, 2005, pp.204-205). E prosegue: “…Il libertarismo psicologico, quale l’ho
definito, è probabilmente vero. Secondo questa tesi, i nostri stati psicologici…non
sono in ogni circostanza causalmente sufficienti a determinare l’azione susseguente…
Ciò equivale a dire che lo iato è, dal punto vista psicologico, reale, che non è cioè una
mera illusione…Ogni mutamento di stato psicologico richiederebbe un mutamento
dell’attività cerebrale…Lo psicologico non è che il neurobiologico a un livello più
elevato di descrizione.” (ibidem, p.205).
“…per attribuire allo iato una realtà non solo psicologica ma anche neurobiologica,
dobbiamo supporre allora, allo stato attuale della fisica e della neurobiologia, che vi
sia una componente quantistica nella spiegazione della coscienza.” P.210
“L’esistenza dello iato non è un tratto fenotipico trascurabile, come l’esistenza
dell’appendice, Dal punto di vista evolutivo, sembrerebbe un risultato assurdo che si
debbano avere intense esperienze di libertà senza alcun vantaggio biologico concreto.
Lo iato implica un rilevante investimento biologico da parte di organismi come gli
esseri umani e gli animali superiori, Una porzione enorme dell’economia biologica
dell’organismo è destinata all’elaborazione cosciente di decisioni razionali.”
(ibidem,pp. 210-211). Il ragionamento di Searle è anche di spessore evoluzionistico:
perché dovremmo possedere una esperienza illusoria se tante delle energie biologiche
sono spese per tale vissuto fenomenologico?
Eppure, per Wegner la volontà è la “bussola della mente” (De Caro et al., 2010): “La
volontà cosciente è la bussola della mente…l’esperienza di volere coscientemente
un’azione sorge come risultato di un sistema interpretativo, un meccanismo di
monitoraggio che esamina la relazione tra pensieri e azioni e risponde con un “volevo
questo” quando pensiero e azione corrispondono in modo appropriato.” (Wegner, in
De Caro et al., 2010, p.42). Egli si spiega così: “Si potrebbe pensare che l’esperienza
di volere consapevolmente un’azione e la causazione dell’azione da parte della mente
cosciente siano la stessa cosa. Tuttavia, risulta che siano completamente distinte e che
la tendenza a confonderle sia all’origine dell’illusione della volontà cosciente.”
(Wegner, in De Caro et al., p.22). Perché Wegner parla di “illusione”? Egli ritiene

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che l’esperienza cosciente e l’azione volontaria sono correlate in maniera spuria: il
fattore determinante per entrambi è l’azione neurobiologica del cervello. “…la
volontà, per la persona, non costituisce la causa, la forza o il motore, bensì la
sensazione cosciente dell’esercitare una causa, una forza, o di essere il motore.”
(ibidem).
Wegner differenzia la volontà empirica e la volontà fenomenica: “La sensazione di
volere coscientemente le nostre azioni, invece, non equivale alla lettura diretta di tale
potenza della volontà verificabile scientificamente.” (p.29).
La mente genera una spiegazione inferenziale a posteriori sulle cause dell’azione e
crea l’illusione della volontà cosciente.
“La volontà cosciente non è una percezione diretta di quella relazione, piuttosto è una
sensazione basata sull’influenza causale circa i dati che si rivelano disponibili alla
coscienza: il pensiero e l’atto osservato.” (p.38).
Io non sono d’accordo su questa interpretazione: c’è immediatezza ed intuitività, noi
– come dice Haggard – sentiamo di avere la libertà!
Prosegue Wegner: “Le intenzioni…non causano il movimento, lo indicano prima che
accada. Secondo questa logica, gli effettivi meccanismi causali soggiacenti al
comportamento non sono mai presenti alla coscienza. Piuttosto, i motori di
causazione operano senza manifestarsi e possono quindi costituire meccanismi
mentali inconsci…Le vere cause delle azioni umane sono inconsce…Tuttavia, la
volontà cosciente origina da un insieme di processi diversi da quelli che causano il
comportamento al quale attiene l’esperienza della volontà…quell’esperienza non è un
indicatore diretto della loro reale influenza causale” (pp.40-41). Tuttavia, non può
che concludere dicendo che “Anche se tale esperienza non è una teoria adeguata alla
causazione del comportamento, va riconosciuta come un’importante caratteristica
dell’effetto che fa essere uomini. Le persone sentono la volontà, e la psicologia
scientifica deve capire perché.” (pp.45-46). Questo perché, a livello empirico, pratico,
“La volontà cosciente è allora particolarmente utile come guida a noi stessi…” (p.48).
Ecco perché si parla di sentire fenomenologico, di un risuonare intuitivo che rende

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improbabile la costruzione a posteriori della esperienza della volontà, e la colloca
invece verosimilmente come contemporanea all’azione. Anche in neuropsicologia,
pur se sono state riscontrate doppie dissociazioni tra la consapevolezza della funzione
neuropsicologica e la funzione stessa, è verosimile che la compromissione dei
“moduli” cognitivi deputati alla istanziazione di una funzione generi la mancanza di
esperienza cosciente della stessa, come nel caso dell’afasia di Wernicke e della
sindrome disesecutiva (Vallar e Papagno, 2007).
“La volontà allora serve ad accentuare l’azione e ad ancorarla nel corpo. Ciò rende
l’azione molto più intensamente nostra di quanto possa essere un pensiero…
l’occorrenza della volontà cosciente marchia profondamente l’atto, associandolo con
il sé attraverso la sensazione.” (Wegner, in De Caro et al., 2010, p. 46).
Huxley sosteneva che la volontà è indicativa di cambiamenti fisici, non causa di essi:
ciò somiglia molto all’idea di Damasio del marker somatico (Burns e Bechara, 2007;
Vallar e Papagno, 2007).
Burns e Bechara sostengono che la questione del possesso del libero arbitrio si lega ai
processi coi quali lo esercitiamo. I processi di decision making sono influenzati da
meccanismi impliciti che non raggiungono il livello di consapevolezza. Vi sono
anche disturbi psicologici o da abuso di sostanze che limitano il nostro libero volere e
si definiscono “disturbi del libero volere”.
Gli autori sostengono che questo comportamento complesso ed indeterministico è in
realtà governato da un complesso processo cognitivo a cui asservono due separati
sistemi:
-impulsivo, guidato dall’amigdala e che asserve a immediato piacere
-riflessivo, guidato dal sistema prefrontale e associato ad una futura gratificazione
(Burns e Bechara, 2007).
La decisione finale è regolata dalla forza relativa dei segnali di pena o di piacere
associati a prospettive immediate o future.
Damasio definisce il libero arbitrio o “potere decisionale” come la capacità di agire in
prospettiva a lungo termine piuttosto che a breve termine (ibidem).

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Il termine “somatico” si riferisce a una collezione di risposte viscerali e corporee che
marcano le risposte emozionali.
La cornice dei marcatori somatici prevede un modello neuroanatomico di sistema e
un modello cognitivo per la presa di decisione, la quale prende avvio anche sulla
base di condizioni omeostatiche, di emozione e sentimento.
- 1 induttori primari: stimoli che elicitano una reazione innata e automatica (es
dipendenza da droghe)
- 2 induttori secondari: pensieri e rievocazione di eventi particolari o memorie degli
induttori primari, i quali elicitano risposte somatiche (ricordo di una esperienza da
sostanze stupefacenti).
L’amigdala è il nucleo primario di azione degli induttori primari ed accoppia le
caratteristiche dell’induttore con lo stato corporeo, quest’ultimo scatenato da effettori
quali ipotalamo e tronco encefalico, che inducono modificazioni nel milieu interior, e
quali striato ventrale, PGM e tronco che elicitano cambiamenti facciali e
comportamentali. La percezione di questi patterns a livello di tronco cerebrale è per
larga parte inconscia ma a livello corticale assume i tratti di un sentimento cosciente.
Una volta formato lo schema emotigeno, questo può essere rievocato dal ricordo
dell’esperienza e fungere da induttore secondario. Nell’IOWA Gambling Task, un
compito particolarmente utile per il suo impiego nella valutazione delle capacità di
decision making, i soggetti scelgono prima di essere consapevoli di quali carte siano
vantaggiose, e si genera una risposta elettrodermica ampia appena prima che scelgano
un mazzo svantaggioso. Nello striato avviene un sapere senza consapevolezza, che
invece è mediato dalla coscienza in ACCe SMA. Benché entrambe le guide operino
in maniera complementare, la maggior parte delle scelte avviene in maniera implicita.
Il willpower nascerebbe allora da una interazione tra sistema impulsivo e riflessivo;
quest’ultimo eserciterebbe un controllo sull’altro. A livello di processi, la dizione è
quella di Tversky e Kahneman di intuizione vs ragionamento, coi processi dell’uno
caratterizzati da rapidità, automaticità e assenza di effort, e quelli dell’altro regolati
in maniera lenta, esplicita, e governata da regole (ibidem).

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Ma, a mio parere, è un errore assimilare il concetto di intuizione a un processo
automatico poichè quest’ultimo è poco flessibile e stereotipato mentre l’intuizione è
euristica e inoltre è piuttosto una forma superiore di coscienza.
Tornando alla connotazione della coscienza, le neuroscienze e la scienza in generale
non sono mai state in grado di fornire una descrizione esaustiva del fenomeno (Jahn,
2001; Noë, 2010). Jahn (2001) sostiene che i tentativi di ricondurre la coscienza sotto
una definizione quantitativa ed entro categorie predefinite di una rigorosa scienza
quantitativa si scontrano con le sue peculiari caratteristiche:
   - elusività della definizione
   - pletora di stati mentali prevalenti
   - intrinseca soggettività
   - ampia variabilità di risposta agli stimoli
   - capacità anomale dell’elaborazione di informazioni.
È su quest’ultimo punto che i lavori di Jahn e Dunne alla Princeton University si
concentrano da anni: il loro scopo è quello di scoprire come possa la coscienza
influenzare la materia!
Niels Bohr (ibidem) diceva che siamo attori e allo stesso tempo spettatori nel dramma
dell’esistenza, a sottolineare il carattere proattivo e reattivo del fenomeno.
Ecco perché la coscienza è qualcosa di esteso, che ci coinvolge interamente, e non
può essere ridotta ad uno stato del cervello (Noë, 2010). La coscienza non sarebbe
niente più e niente meno di ciò che siamo sebbene nel particolare ambiente in cui
viviamo. “La coscienza non è qualcosa che il cervello ottiene da solo. La coscienza
richiede l’operazione congiunta del cervello, del corpo e del mondo. La coscienza è
qualcosa che l’animale ottiene nella sua interezza e con l’ausilio dell’ambiente. In
breve: io nego che noi siamo il nostro cervello.” (ibidem, p.10).
Ogni calcolo o conclusione qualitativa è preceduta da una capacità soggettiva frutto
della nostra coscienza (Merleau-Ponty, 1945; Maturana e Varela, 1985). Roskies
sostiene che è necessaria una rilettura dei dati delle neuroscienze, in cui il cervello
sarebbe un particolare sistema fisico che governa le azioni, compatibilmente con una

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concezione di responsabilità morale e non con la concezione di assenza di leggi
causali che governano il libero arbitrio (Roskies, 2006). Ciò perché la mente è un
prodotto dell’evoluzione secondo Damasio (Oliverio, 2009), e così essa è soggetta
agli stessi vincoli del mondo naturale. La peculiarità del soggetto non sarebbe tanto
quella di sfuggire alla determinazione causale, ma quella di “entrare nella catena
causale” che conduce all’azione come parte integrante del processo deliberativo,
tramite un controllo sugli eventi regolato da una razionalità pratica (Roskies, 2006;
Sie e Wouters, 2007; 2010; Gomes, 2007).
Pockett (2007) pensa alla coscienza come fenomeno fisico, non identico al cervello
bensì ad un “campo” generato dal cervello. Anche Libet parla di un campo, non fisico
però. Per Pockett la coscienza è un tipo particolare di pattern spaziotemporale nel
campo elettromagnetico generato dal cervello in attività, dal working brain (Gomes,
2007); essa sarebbe pertanto ancora parte del mondo fisico e non ci sarebbe conflitto
tra determinismo e libero arbitrio. Le difese del compatibilismo si configurano in
questa prospettiva: non c’è incompatibilità tra una visione del libero arbitrio come
evento che è istanziato nel cervello e determinismo meccanicistico dello stesso.
Pockett vede come epifenomenica una coscienza non fisica funzionalista (Pockett,
2007). La scienziata considera la coscienza come generata dall’attività neuronale del
cervello e perciò anche l’azione, in definitiva, come generata dai neuroni.
Un più dettagliato concetto di come si istanzi questo pattern nel cervello lo
forniscono Vogeley e Kupke (2007): essi, ricalcando l’omeomorfismo o omologia
strutturale tra fenomenologia e neuroscienze tipica della Neurofenomenologia, nella
loro analisi del tempo mentale e delle sue anomalie, definiscono l’approccio
neuroscientifico   “binario”,   quasi   oggettivo,    e   complementare       a   quello
fenomenologico quasi soggettivo e tripartito in protensione, ritenzione e
presentificazione. Oltre ai loro studi sulla percezione temporale nelle neuroscienze,
essi riprendono anche la definizione vareliana di coscienza come unità trans
temporale e diacronica, necessaria per l’autocoscienza, frutto di assemblee cellulari
ognuna asservente una funzione cognitiva. L’esperienza dell’adesso sarebbe frutto

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delle oscillazioni sincrone cellulari in sintonia per un determinato periodo di tempo.
L’emergere del tempo è questione di compenetrazione tra i tre orizzonti intenzionali e
non di sequenzialità, l’adesso non è un punto fisso ma una durata dinamica e
transitoria. Anche il tempo vissuto, all’interno dell’esperienza cosciente, è a mio
avviso, ma anche a quello di Bergson, condizione necessaria per l’emergere del libero
arbitrio.
Gomes (2007) sostiene che le cause psicologiche menzionate da Searle agiscono
sull’Io come se vi fosse una distinzione tra l’Io psicologico e le cause che fanno
effetto su esso. In effetti, il linguaggio impiegato dalla psicologia intenzionale è
sostanzialmente dualistico, per cui ci sarebbe un Io-soggetto che inizierebbe attività
cerebrali e movimenti, ma distinto da cervello e corpo (Haggard, 2008). La questione
se ci sia un Io che “viene prima” delle azioni oppure viceversa una libertà che
“precede” la costituzione della persona è oggetto di dibattito (Popper e Eccles, 1977;
Praetorius, 2008; De Monticelli, in De Caro et al., 2010). Gomes (2007) prende in
considerazione il fatto che l’Io che determina le azioni possa essere a sua volta
determinato: in questo senso avremmo sì un Io che si definisce in base a come agisce,
cioè una persona la cui identità personale è frutto anche di come si comporta, ma in
chiave fortemente materialistica. L’Io infatti sarebbe generato e guidato dagli eventi
neurali che avverrebbero nel cervello.
A difesa del compatibilismo, egli ritiene poco probabile la concezione secondo la
quale potrebbero esistere eventi che non sono a loro volta causati, come invece
sostengono i fautori del libertarismo.
Tuttavia, in una chiave di lettura chiamata “nuovo compatibilismo” (Sie e Wouters,
2010), ciò che conta non è tanto la presenza o meno del determinismo neurobiologico
e di quello universale, quanto la capacità di esercitare un controllo razionale sul
comportamento e di fornire ragioni pratiche per lo stesso. Poiché la mente fa parte
del mondo naturale, il determinismo non implica che le scelte che tramite essa opero
siano irrilevanti ai fini del comportamento; il determinismo da solo non implica
niente rispetto a ciò che “dovrei fare” (Bok, 2007). La libertà o meno del

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determinismo, continua Bok, è irrilevante quando facciamo delle scelte; la libertà sta
nel fare ciò che ci spetta, decidere secondo criteri razionali. Il libero arbitrio non
richiederebbe così l’indeterminismo ma la capacità di autoregolarsi. L’avanzare delle
neuroscienze, dice l’autore, può chiarire i meccanismi per i quali la libertà
decisionale viene compromessa ma non può mettere in discussione il libero arbitrio.
Noi abbiamo libertà decisionale, sia che le nostre azioni abbiano o meno cause
neurali.
Inoltre, le neuroscienze possono provare solo che il cervello è deterministico e
meccanicistico, non l’universo (Roskies, 2006). La scienza del cervello non si
potrebbe pronunciare sulla verità o meno del determinismo nell’universo, anche
perché nulla a livello neuronale e cerebrale sarebbe una prova dell’una o dell’altra
tesi. Ci si deve chiedere allora in quali casi ed in quali contesti limitati si può
applicare il principio del determinismo (Cary, 2007). “teorie deterministiche sono
oggi comuni in biologia (con il determinismo genetico, ad esempio), nelle
neuroscienze, in psicologia (si pensi alla psicologia evoluzionistica)…” (De Caro,
2004, p.19).
I recenti sviluppi nel campo delle neuroscienze sono spesso interpretati come una
minaccia alla nostra concezione del libero arbitrio, come se una comprensione di
come il cervello causi il comportamento minasse la nostra idea di libero arbitrio e di
conseguenza la responsabilità morale (Roskies, 2006; Bok, 2007)
Roskies sostiene che tali interpretazioni sono erronee:
   - i problemi di senso comune ed intuitivi sul libero arbitrio esistono
      indipendentemente dalle neuroscienze e da prima di esse
   - le neuroscienze non sono nella posizione di minare le nostre convinzioni
   - se le persone interpretassero i dati delle neuroscienze secondo una
      riconsiderazione della libertà metafisica, i nostri giudizi sulla responsabilità
      morale resterebbero invariati.

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Roskies (in De Caro et al., 2010) sostiene che le neuroscienze non possiedono il
“livello di grana sufficientemente fine” per pronunciarsi sui rapporti mente-cervello
circa la presenza del libero arbitrio.
“In primo luogo, a suo avviso, anche qualora riuscissimo a stabilire se i processi
decisionali sono deterministici oppure indeterministici, ciò sarebbe irrilevante per la
questione del libero arbitrio. In secondo luogo, il problema del libero arbitrio è
indipendente dalle discussioni sulla coscienza: e ciò per Roskies implica che, seppure
la ricerca neuroscientifica riuscisse a dimostrare l’illusorietà dell’idea di un sé
unitario che perdura nel tempo, la nostra fiducia nella libertà non ne sarebbe
inficiata.” (ibidem, p.XVII). Altri neuroscienziati sono dell’avviso che le
neuroscienze non metteranno in questione l’esistenza del libero arbitrio, ma piuttosto
genereranno una condizione di equilibrio riflessivo tra dati empirici ed intuizioni
ordinarie (Roskies, 2006).
“Tempia sostiene che l’interpretazione dei risultati neuroscientifici non implica
affatto la negazione del libero arbitrio. In primo luogo, infatti, i dati sperimentali e le
evidenze neurofisiologiche di cui disponiamo sono suscettibili di letture assai diverse
tra loro.” (ibidem).
Roberta De Monticelli sostiene che “c’è un senso in cui la “libertà” viene prima di
“noi”. Si tratta della posizionalità, quel potere di prendere posizione…nell’esercizio
del quale un essere umano si costituisce come soggetto personale.” (p.XVIII).
Per il nuovo compatibilismo è fondamentale che noi siamo esseri praticamente
razionali. Proprio questo aspetto sarebbe messo in discussione dalle neuroscienze
poiché le ragioni che apportiamo alla spiegazione del comportamento sono
ricostruzioni a posteriori, razionalizzazioni e non cause genuine dell’azione, dicono
Sie e Wouters (2007; Wegner, in De Caro et al., 2010). Il nuovo compatibilismo
insiste sul giudizio di responsabilità come connessione di responsabilità personale e
razionalità pratica: è proprio quest’ultima che verrebbe messa in discussione dalle
neuroscienze. Anche i nostri giudizi morali sembrano esulare dalla consapevolezza
introspettiva: ciò è ad esempio quel che si annovera nella cornice teorica

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dell’emotivismo (De Caro, in De Caro et al., 2010). Il fatto che i giudizi morali non
richiedano consapevolezza conscia non è altro, però, che un’evidenza su “come
siamo fatti”, come dice Armezzani.
Per comprendere la coscienza, dobbiamo comprendere anche i meccanismi inconsci
che sono alla base di tanti dei suoi aspetti essenziali (Jahn, 2001; Oliverio, 2009), ma
che non per questo sono fuori dal nostro controllo.
Il giudizio morale è talmente radicato nell’essere umano che è una forma di coscienza
pre-verbale, pre-riflessiva, pre-cognitiva; c’è poi, a mio avviso, una grande differenza
nel concepire l’intuizione come una semplice forma di processo inconsapevole,
inconscio ed automatico da una parte e come forma superiore di coscienza, pre-
riflessiva ed ante-predicativa, più potente ma non per questo estranea dalla coscienza!
Il problema metafisico del libero arbitrio sarebbe risolto in una pratica responsività a
ragioni (Sie e Wouters, 2007). Roskies replica alle obiezioni che gli autori citano ad
esempio della minaccia che le neuroscienze porterebbero al libero arbitrio sostenendo
che gli studi riportati sono più di carattere psicologico che neuroscientifico e che
inoltre essi non dimostrerebbero che non siamo capaci di agire per ragioni, o che non
facciamo mai scelte orientate razionalmente. Le neuroscienze non ci dicono molto sul
nostro stato di esseri viventi come agenti pratici e razionali: le ragioni hanno efficacia
causale ma resta aperta semmai la questione sulla finestra introspettiva che
possediamo su di esse (Roskies, 2007).
Ci sono casi in cui il libero arbitrio di una persona è fortemente limitato da certe
condizioni psicopatologiche, come l’abulia o il disturbo ossessivo-compulsivo, o la
cleptomania, e da circostanze contingenti, come costrizioni fisiche, oppure
dall’ipnosi. Il comportamento del soggetto in questo caso sembra non rispettare il
normale processo di deliberazione cosciente. Ecco come Searle si esprime circa
l’esempio dell’ipnosi: “Ma noi abbiamo buone ragioni per ritenere che sia
determinato da cause di cui non ha consapevolezza. In questo caso, dunque, lo iato si
dimostra illusorio. Il soggetto ha l’illusione di intraprendere un’azione libera, ma di
fatto il suo comportamento è del tutto determinato.” (Searle, 2005, p.203). A

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rimarcare il fatto che una limpida deliberazione volontaria richiede la altrettanto
limpida consapevolezza cosciente delle proprie ragioni, egli prosegue: “La libertà
piena richiede la consapevolezza delle proprie motivazioni, che in questo caso manca.
Diverso è il caso del tossicodipendente che, pienamente consapevole della propria
dipendenza, agisce nondimeno condizionato da essa.” (ibidem).
L’azione cosciente e volontaria è forse innescata e portata avanti in maniera
automatica? Così risponde il filosofo: “No, dobbiamo sforzarci continuamente di far
procedere l’azione fino al suo completamento.” (ibidem, p.197).
Una visione comune in filosofia della mente vede la capacità di deliberazione
volontaria come dipendente da due fattori:
“Secondo l’intuizione, innanzitutto, perché un’azione sia libera è essenziale che
all’agente si presenti una molteplicità di possibili corsi d’azione alternativi.” (De
Caro, 2004, pp.9-10). La possibilità di fare altrimenti o “libertas indifferentiae” è ciò
che De Monticelli (in De Caro et al., 2010) chiama “determinarsi” o “potere di fare
altrimenti”. Ad essa è necessario che si aggiunga una seconda proprietà, ossia
l’autodeterminazione o controllo ovvero “libertas spontaneitatis”, ciò che Kant
chiama “spontaneità” o “potere di iniziativa”, e che Crisholm chiama “ causalità
dell’agente”, che consiste nella capacità di un agente di dare origine ad una catena
causale, esercitando un controllo su di essa (ibidem).
“Non c’è dubbio che noi facciamo esperienza della libertà nel senso del libero
arbitrio, del potere iniziale di determinarci all’azione, in presenza di alternative. Non
c’è dubbio, addirittura, che sia una delle esperienze più centrali e costitutive della
nostra vita…” (ibidem, p.113).
Come abbiamo visto, non tutti concepiscono la capacità di fare altrimenti, questa
“intrinseca proprietà di scegliere tra alternative disponibili” (Gomes, 2007), come
necessaria e fondamentale, o meglio come rilevante, ai fini del libero arbitrio (Sie e
Wouters, 2010); Searle sostiene che il compatibilismo adotta una visione restrittiva
del libero arbitrio come assenza di vincoli al suo esercizio. Quest’ultimo richiede
invece la presenza di uno iato tra decisione ed azione (ibidem).

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