AIPG DISTURBI DI PERSONALITA' ED IMPUTABILITA': DA "VITTIMA" AD AUTORE DI REATO - Corso di Formazione in Psicologia Giuridica

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      Associazione Italiana di Psicologia Giuridica
                         Roma

    DISTURBI DI PERSONALITA’ ED
IMPUTABILITA’: DA “VITTIMA” AD AUTORE
              DI REATO

    Corso di Formazione in Psicologia Giuridica e
        Psicopatologia Forense ANNO 2016

                               Dr.ssa Annalisa Giannelli
INDICE

INTRODUZIONE                                                PAG. 4

Il vizio di mente e imputabilità, la pericolosità
sociale e la normativa relativa.
1.1 Vizio totale, vizio parziale di mente ed imputabilità   PAG. 6
1.2 La pericolosità sociale                                 PAG. 10

1.3 La nuova normativa ed il definitivo superamento
degli OPG                                                   PAG. 14

CAPITOLO SECONDO
La pericolosità sociale: la valutazione del
rischio di violenza
2.1 Aggressività e violenza
                                                            PAG. 19
2.2 Gli strumenti di assessment dei comportamenti
                                                            PAG. 26
aggressivo-violenti

CAPITOLO TERZO
I Disturbi della Personalità: classificazione, criteri
diagnostici ed imputabilità.
3.1 Disturbi della Personalità: classificazione             PAG. 32
3.2 L’imputabilità nei Disturbi della Personalità           PAG. 35
3.2.1 Casi clinici.                                         PAG. 39
3.3 Psicopatia ed Imputabilità                              PAG. 41

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CAPITOLO QUARTO
L’imputabilità nei Disturbi della Personalità: le
Sentenze.
4.1 Sentenza n.9163 del 08/03/2005 della Corte di         PAG. 45
Cassazione Sezioni Unite.
4.2 Sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Trieste,   PAG. 47
del 18.09.2009
4.3 Sentenza del Tribunale di Como del 20.05.2011         PAG. 48
4.4 Sentenza n.17608 del 17 aprile 2013 della Corte di    PAG. 50
Cassazione
4.5 Sentenza n.34466 del 6 agosto 2015, della Corte di    PAG. 53
Cassazione.

CONCLUSIONI                                               PAG. 60

BIBLIOGRAFIA                                              PAG. 63

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INTRODUZIONE

         I disturbi della personalità possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente
scemare la capacità di intendere e di volere del soggetto agente, ai fini degli articoli 88 e 89
c.p., sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente
incidere sulla stessa; invece, non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre “anomalie
caratteriali” o gli “stati emotivi e passionali”, che non rivestano i suddetti connotati di
incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente.
         Lo ha stabilito la Cassazione a Sezioni Unite con la pronuncia 9163/2005, precisando
altresì che è comunque necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un
nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo casualmente determinato dal primo
(Bertolino, 1990).
         Da un punto di vista nosografico, classicamente si distinguono i Tratti di Personalità
dai Disturbi di Personalità
         I Tratti di Personalità rappresentano "modi costanti di percepire, rapportarsi e pensare
nei confronti dell'ambiente e di se stessi, che si manifestano in un ampio spettro di contesti
sociali e personali importanti".
         Si parla altresì di Disturbi di Personalità "quando i tratti di personalità sono rigidi e non
adattativi, e causano quindi una significativa compromissione del funzionamento sociale o
lavorativo, oppure una significativa sofferenza soggettiva.
         La diagnosi di Disturbo di Personalità dovrebbe essere fatta pertanto solo quando le
caratteristiche specifiche sono tipiche del funzionamento a lungo termine dell'individuo, e non
sono limitate ad episodi ben definiti di malattia”.
         La nozione di infermità nei disturbi della personalità comprende due aspetti: il contenuto
clinico e l’analisi dinamico funzionale. In ambito peritale, pertanto, occorre staccarsi dalla
mera diagnosi categoriale per esaminare quale e quanta compromissione funzionale ha
comportato quello specifico disturbo comunque diagnosticato, non solo in riferimento al fatto
reato.
         Fondamentale ricordare che diagnosi categoriale e funzionale sono due aspetti
complementari ma diversi: l’infermità (da in-firmus = non-fermo) in senso psichiatrico
forense non individua un “disturbo mentale”, ma i riflessi che tale stato d’infermità ha sul

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funzionamento psichico del soggetto e quindi sul suo comportamento. Pertanto, un “malato”
può anche non essere un “infermo” e viceversa.
      L’infermità giuridicamente rilevante è costituita dalla confluenza di un disturbo
funzionale che interagisce con un disturbo mentale, al punto di compromettere in concreto la
capacità di autodeterminazione del soggetto incidendo in maniera rilevante e grave sulle
funzioni autonome dell’Io e conferendo in tal modo “significato di infermità” all’atto agito o
subito (Fornari, 2004) .
      Nel primo capitolo di questo elaborato, vengono presi in considerazione i temi di
responsabilità penale e imputabilità, facendo un excursus riguardo ai due concetti con
approfondimento sulla capacità d'intendere e di volere e sulla loro influenza nei riguardi
dell'imputabilità. Viene inoltre affrontato il tema della pericolosità sociale e del percorso
normativo che ha condotto ad oggi al definitivo superamento degli OPG con creazione delle
REMS (Residenze per Esecuzione delle Misure di Sicurezza).
      Nel secondo capitolo viene approfondito il tema della pericolosità sociale sottolineando
la distinzione fra i concetti di aggressività e violenza e viene fatto un excursus sui principali
strumenti di assessment utilizzati in ambito psichiatrico-forense per la valutazione del
comportamento violento in riferimento anche alla possibilità di prevedere la possibilità di
reiterazione del reato e quindi stabilire la pericolosità sociale del reo.
      Il terzo capitolo tratta invece dei Disturbi di Personalità, della loro classificazione, dei
criteri diagnostici che li contraddistinguono e soprattutto, dell’influenza sulla pericolosità
sociale dei soggetti che ne sono affetti. Vengono inoltre presentati due casi clinici di soggetti
affetti da Disturbo Paranoide di Personalità, emblematici di come in presenza di forti fattori di
stress si possa sviluppare un quadro psicotico acuto che scemi grandemente o parzialmente la
capacità d’intendere e volere. Infine viene trattata la distinzione fra Disturbo della Personalità
Antisociale e Psicopatia fondamentale ai fini della valutazione dell’imputabilità.
      Nel terzo capitolo infine, viene affrontato il tema dell'imputabilità in soggetti affetti da
Disturbi della Personalità avvalendoci di alcune sentenze di primo, secondo e terzo grado di
giudizio.

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CAPITOLO PRIMO
Il vizio di mente, l’imputabilità, la pericolosità sociale e la
normativa relativa.

 1.1 Vizio totale, vizio parziale di mente ed imputabilità

    Nella valutazione di imputabilità di un soggetto autore di reato, al fine di stabilirne in via
 preliminare, la responsabilità penale, qualora il Pubblico Ministero o il Giudice riscontrino
 direttamente o per informazioni acquisite, condizioni che necessitino di valutazione
 specialistica psichiatrica, possono richiedere una perizia psichiatrica, termine con il quale
 s’intende “un accertamento tecnico di natura psichiatrica volto a formulare un giudizio
 diagnostico-valutativo e prognostico” che, per adulti e minori, ha lo scopo di “stabilire le
 condizioni di mente della persona (attiva o passiva) in riferimento ad una determinata
 fattispecie di reato (commesso o subito) e ad un preciso momento del suo iter giudiziario, in
 ogni stato e grado del procedimento” (Fornari, 2005, pag. 86).
    La perizia psichiatrica definita “consulenza tecnica” quando disposta dal Magistrato, nei
 confronti dell’autore di reato, viene richiesta nella fase di cognizione ed è finalizzata a
 “stabilire l’eventuale esistenza di un vizio totale o parziale di mente nell’indagato o
 nell’imputato al momento del fatto”, secondo quanto stabilito dagli Artt. 88 e 89 c.p. (Fornari,
 2005, pag. 87), nel rispetto del principio in base al quale ogni individuo è responsabile delle
 proprie azioni ed omissioni fino a prova contraria, rappresentata in questo caso dall’infermità
 di mente, regolamentata dagli articoli 85 al 98 del c.p.
    Nel c.p.p è esplicito il divieto di “perizia psicologica” volta cioè a stabilire “il carattere e la
 personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche”
 (Art. 220 comma 2 c.p.p.).
    Nel sistema legislativo italiano è quindi centrale il concetto di imputabilità, che nell’Art.
 85 c.p. richiama alla presenza delle capacità di intendere e di volere (Art. 85 c.p. – Capacità
 d'intendere e di volere: “Nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come
 reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la
 capacità d'intendere e di volere”).

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L’integrità dello stato di mente del soggetto autore di reato, da stabilirsi “al momento del
 fatto reato”, è dunque vincolata a due distinte facoltà: la capacità di intendere, intesa come
 “l’idoneità nel comprendere il valore ed il disvalore sociale di quell’azione o omissione” che
 si è costituita come reato; e la capacità di volere, intesa come “l’idoneità ad autodeterminarsi
 in vista del compimento o dell’evitamento di quell’azione” (Fornari, 2005, pag. 106-107).
 Quindi l’imputabilità di un soggetto, ovvero la responsabilità penale del compimento di un
 fatto reato, richiama al pieno possesso di facoltà cognitive, logiche e di interazione individuo,
 realtà che consentano al soggetto di capire e valutare adeguatamente i motivi nonché le
 conseguenze delle proprie azioni, così da orientare e/o controllare in modo cosciente e
 coerente il proprio comportamento. Nel momento in cui anche solo una delle capacità di
 intendere e di volere viene ad essere esclusa o sia “grandemente scemata”, l’imputabilità del
 soggetto è messa in discussione.
       Il nostro codice penale riconosce come causa di alterazione di tali funzioni, alcune
circostanze quali:
     il reo sia stato reso da altri incapace di intendere e di volere (Art. 86 c.p.);
     il reo presentava, al momento del fatto reato, un quadro di infermità di mente totale o
     parziale tale da escludere o scemare grandemente la sua capacità di intendere e di volere
     (Artt. 88 e 89 c.p.);
     il reo era in stato di acuta intossicazione da sostanze stupefacenti o alcol dovuta a caso
     fortuito o a cause di forza maggiore (Artt. 91 e 93 c.p.) – la cronica intossicazione da
     sostanze stupefacenti o alcool, quando abbia causato danni psichici organici, è sempre
     rilevante ai fini dell’applicazione del vizio parziale o totale di mente (Art. 95 c.p.);
     il reo sia soggetto sordomuto. In particolare la moderna medicina legale distingue: il
     sordomutismo congenito o precocemente acquisito, che interferisce con il normale
     funzionamento psichico del soggetto ed il sordomutismo tardivamente acquisito. Solo nel
     primo caso trova applicazione l’Art. 96 c.p.;
     il reo sia soggetto con età compresa tra i 14 ed i 18 anni che, per immaturità, non ha
     ancora raggiunto, al momento del fatto reato, la capacità di intendere e volere (Art.97 e 98
     c.p.). Entro i 14 anni di età vi è per legge la presunzione assoluta di incapacità del
     minore, qualunque sia il reato commesso; dai 14 ai 18 anni deve essere accertato il grado
     di maturazione psico-sociale, ovvero la sua maturità, per affermare l’esistenza di
     imputabilità, se imputabile la pena è comunque ridotta.

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In merito agli accertamenti disposti sull’autore di reato, tre sono quindi le questioni poste
al perito:
1. valutare la presenza di un’infermità data da un eventuale vizio di mente di natura totale o
    parziale tale da escludere o grandemente scemare la capacità di intendere e di volere in
    considerazione del momento in cui è avvenuto il fatto reato per il quale si procede;
2. nel caso in cui si accerti la presenza di un vizio di mente, deve essere accertata la
    presenza e la persistenza della pericolosità sociale psichiatrica;
3. se le condizioni di mente possedute dall’indagato o dall’imputato gli consentano di
    partecipare coscientemente al processo a suo carico e di sapersi utilmente difendere
    (“capacità processuale”, Artt. 70 e 71 c.p.).
    Fornari indica la necessità che l’esperto incaricato di effettuare la valutazione in merito
alla presenza di una condizione di infermità psichica adotti un ben preciso percorso
diagnostico-operativo attraverso tre fasi (Fornari, 2005, pagg.108-128 ):
1. “il classificare”: ovvero individui quali disturbi mentali possano influire sull’infermità, o
    in altri termini individui quali categorie cliniche assumano significato giuridico nel
    limitare grandemente o nell’escludere la capacità di intendere e di volere. L’Autore indica
    quindi l’adozione di un criterio nosografico che ha scopo di individuare quei quadri
    psichici che possano assumere valore di infermità mentale.
    Nello specifico indica, per convenzione, le condizioni in cui: è in atto un “evidente
    scompenso patologico psichico (Disturbo Psicotico Acuto per il DSM-IV-TR o Sindromi
    Psicotiche Acute e Transitorie per l’ICD-10)”; è in atto un “deterioramento consistente
    indotto da disturbo mentale organico”; è in atto una “sensibile destrutturazione della
    personalità da processualità schizofrenica”; è in atto un “disturbo grave di personalità in
    cui siano documentabili episodi di scompensi in senso borderline o francamente
    psicotico”.
    Riguardo la valutazione dell’imputabilità dei Disturbi di Personalità la Sentenza n. 9163
    del 25 gennaio 2005 delle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione recita: “Anche i
    disturbi della personalità, come quelli da nevrosi e psicopatie, possono costituire causa
    idonea ad escludere o scemare grandemente, in via autonoma e specifica, la capacità di
    intendere e di volere di un soggetto agente ai fini degli artt.88 e 89 c.p., sempre che siano
    di consistenza, rilevanza, gravità e intensità tali da concretamente incidere sulla stessa;
    per converso, non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre “anomalie

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caratteriali” e gli “stati emotivi e passionali”, che non rivestano i suddetti connotati di
   incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente; è inoltre necessario
   che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di
   ritenere il secondo causalmente determinato dal primo”.
   La Sentenza n. 9163/2005 pone quindi fine ad annose controversie interpretative che
   vedevano contrapporsi il “modello nosografico” volto ad intendere l’infermità in stretto
   relazione a categorie di patologia mentale nosograficamente descritte, dove dunque i
   Disturbi di Personalità non trovavano spazio ed il “modello giuridico”, volto ad intendere
   in modo più ampio l’infermità, come una condizione di “non sanità” mentale. Ammette
   infatti che anche i Disturbi di Personalità possono costituire una condizione di infermità
   mentale in misura tale da pregiudicare totalmente o grandemente il funzionamento delle
   capacità intellettive e volitive del soggetto tale da rendere il soggetto “incapace di
   esercitare il dovuto controllo dei propri atti”. A definire “grave” un Disturbo di
   Personalità non è dunque il modello nosografico ma la diagnosi di struttura, di
   organizzazione e di funzionamento, che influisce sulle capacità di intendere e di volere
   del soggetto (Fornari, 2005, pag.121-123). Indipendentemente dal cluster in cui il
   Disturbo di Personalità è inserito nei manuali nosografici, un disturbo grave della
   personalità si caratterizza   per un quadro sintomatologico che lo assimila sul piano
   psicopatologico e valutativo ad una condizione di tipo psicotico con la presenza di: umore
   disforico, affettività instabile, senso di identità diffuso, reazioni abnormi, labilità dei
   processi difensivi;
2. “l’attribuire”, ovvero conferisca al reato un valore di malattia, cioè intendere il reato
   come una delle espressioni fenomenologiche del disturbo. Questo secondo passaggio è
   dunque volto a stabile un nesso eziologico significativo tra il disturbo psicopatologico, il
   funzionamento del soggetto ed il compimento del reato. In tal senso, superando il fatto di
   dover stabilire una correlazione tra tipo di diagnosi e reato, il percorso di comprensione
   psicopatologica globale del paziente reo, consentirà di superare l’ammissione di infermità
   mentale solo per alcuni quadri clinici, e di focalizzare l’attenzione su quelle dimensioni
   psicopatologiche in cui il funzionamento psichico patologico ha determinato in modo
   diretto una compromissione delle capacità di intendere e di volere nel momento del
   compimento del fatto reato;

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3. “il valutare”, ovvero stabilisca la qualità ed il grado con cui il disturbo mentale abbia
    determinato una compromissione totale o parziale della capacità d’intendere e di volere da
    cui deriva l’imputabilità. Fornari (2005, pagg. 125-128) indica che, a tal fine, l’esperto
    potrebbe avvalersi della valutazione dell’integrità delle aree funzionali dell’Io, che
    esprimono la capacità di rispondere in modo adeguato e funzionale ai diversi stimoli che
    provengono dall’interazione Io – ambiente. Esse sono: le funzioni cognitive, relative alla
    percezione formale delle situazioni, interne o esterne al soggetto, in quanto tali; le funzioni
    organizzative, ovvero l’analisi, la comprensione e l’attribuzione di significato alle stesse;
    le funzioni previsionali, ovvero l’analisi, la critica ed il giudizio nella valutazione delle
    possibili conseguenze delle risposte; le funzioni decisionali, che contemplano la scelta tra
    adeguamento, evitamento o rifiuto della situazione-stimolo, e dunque la decisione di agire
    o di non agire; le funzioni esecutive, ovvero la risposta scelta in virtù dell'obiettivo che si
    vuole o si può raggiungere, pianificando il proprio comportamento in senso organizzato o
    disorganizzato, o mediato dalla logica o dalle componenti emotive. Quindi, partendo
    dall’assunto che nel vizio di mente la compromissione delle funzionalità dell’Io si traduce
    in disordini comportamentali che possono precedere, accompagnare o seguire il fatto
    reato, la valutazione della qualità e del grado del vizio di mente si può specificare come
    segue: un vizio parziale di mente verrà preso in considerazione nei casi in cui lo
    scompenso del funzionamento patologico psichico rimanga limitato, consentendo
    l’adozione di un comportamento ancora sufficientemente organizzato, pianificato e lucido;
    un vizio totale di mente invece si adotterà nei casi in cui vi sia un grave scompenso del
    funzionamento patologico psichico, ed il comportamento diventi disorganizzato, bizzarro
    senza capacità di pianificazione.

1.2. La pericolosità sociale

      Il concetto di pericolosità sociale si riferisce alla probabilità che un soggetto autore di
reato possa reiterare dei reati.
      L’Art. 203 del c.p. definisce “socialmente pericolosa”, la persona, anche se non
imputabile e non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo
precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti previsti dalla legge come reati”.

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La pericolosità sociale rappresenta il secondo quesito a cui è chiamato a rispondere il
 perito psichiatra e deve essere accertata dallo stesso, solo nel caso di soggetti nei quali sia
 stata ravvisata l’esistenza di un vizio totale o parziale di mente (pericolosità sociale
 psichiatrica) altrimenti deve essere stabilita dal Magistrato sulla base di elementi
 circostanziali come previsto dall’Art.133 c.p.: “Gravità del reato: valutazione agli effetti della
 pena”. Nell’esercizio del potere discrezionale indicato nell’articolo precedente, il giudice
 deve tener conto della capacità a delinquere del colpevole desunta:
     dai motivi a delinquere e dal carattere del reo;
     dai precedenti penali e giudiziari del reo e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo
        antecedenti al reato;
     dalla condotta contemporanea e susseguente al reato;
     dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo ”.
“Il Giudice deve altresì tener conto della gravità del reato, desunta:
     dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra
        modalità dell’azione;
     dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato;
     dall’intensità del dolo o dal grado di colpa”.
     Nel caso di infermità psichica, il perito deve specificare se al momento dell’accertamento
 peritale, la patologia di mente persista e sia tale da rendere la persona socialmente pericolosa.
 Ovviamente tale giudizio si basa sul criterio di attualità riferita a quel preciso momento in cui
 il soggetto viene valutato e quindi non ha valore previsionale inteso in senso longitudinale.
     Fornari, indica che l’esperto chiamato ad indicare la presenza e la persistenza della sociale
 pericolosità psichiatrica può avvalersi di alcuni indicatori, che l’Autore distingue in interni ed
 esterni (Fornari, 2005 pagg.139-143).
     Tra gli indicatori interni abbiamo:
     la presenza e persistenza (o meno) di quella florida sintomatologia psicotica alla luce
        della quale il reato ha assunto "valore di malattia";
     il grado di consapevolezza di malattia (insight);
     il rifiuto o l’accettazione delle terapie prescritte (compliance terapeutica);
     la risposta a quelle praticate (adeguate sotto il profilo qualitativo e del range
        terapeutico);

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 la presenza o meno di segni di disorganizzazione cognitiva, impoverimento ideo-
        affettivo e psicomotorio che impediscano un compenso in tempi ragionevoli.
       Tra gli indicatori esterni, invece:
     le caratteristiche dell'ambiente familiare e sociale di appartenenza (accettazione, rifiuto,
        indifferenza);
     l’esistenza, la disponibilità di accoglienza e l’adeguatezza dei progetti terapeutici offerti
        dai servizi psichiatrici di zona;
     la possibilità o meno di (re)inserimento lavorativo o di soluzioni alternative;
     il tipo, il livello ed il grado di accettazione del rientro del soggetto nell’ambiente in cui
        viveva prima del fatto-reato;
     le opportunità alternative di sistemazione logistica.
       Il soggetto giudicato totalmente incapace di intendere e volere (art.88 c. p.: Vizio totale
di mente) in caso di esclusione della pericolosità sociale al momento della valutazione
peritale, per remissione dell’infermità sussistente all’epoca dei fatti, viene prosciolto e non
subisce alcuna pena detentiva.
       La valutazione positiva in merito alla presenza di pericolosità sociale psichiatrica,
comporta invece l’applicazione delle Misure di Sicurezza (art.215 c.p.)1: la pericolosità
attenuata si traduce in un regime di libertà vigilata; la presenza di pericolosità in vizio parziale
di mente si traduceva, fino alla L81 del 31/05/2014, nell’internamento in Casa di Cura e
Custodia (una sezione distaccata dell’OPG), mentre la presenza di grave pericolosità sociale
in vizio totale di mente, nell’internamento in OPG (attualmente nelle REMS=Residenze per
l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) che viene disposto al posto della reclusione in carcere
(Fornari, 2005).

1
  Le Misure di Sicurezza sono state introdotte nel nostro ordinamento penale con il Codice Rocco del 1930. Esse
si distinguono in personali e patrimoniali. Le misure personali a loro volta si distinguono in detentive e non
detentive. Le prime, al loro volta, distinguono se: i soggetti sono semi-imputabili (in C.C.C artt.219 e 221 c.p.) e
non imputabili (in OPG art. 222 c.p.) o imputabili (assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro
per i delinquenti abituali, professionali e per tendenza artt. 216-218 c.p.; ricovero in un riformatorio giudiziario
per il minore di 18 anni imputabile o no, art. 98 c.p.). Le misure non detentive sono invece la libertà vigilata (art.
228 c.p.), il divieto di soggiorno in uno o più Comuni, o in una o più Province; il divieto di frequentare osterie e
pubblici spacci di bevande alcooliche; l’espulsione dello straniero dallo Stato.

                                                                                                                         12
Le categorie giuridiche che prevedevano l’internamento in OPG erano essenzialmente le
seguenti:
   internati prosciolti per infermità mentale (art. 89 e segg. c.p.) sottoposti in OPG in
      quanto valutati socialmente pericolosi (art. 222 c.p.) sulla base di perizia psichiatrica,
   internati con infermità mentale sopravvenuta durante la pena detentiva per i quali sia
      stato ordinato l’internamento in OPG o in casa di cura e custodia (CCC) (art. 212 c.p.)
      per il tempo necessario alla cura con successivo rientro in carcere;
   internati provvisori imputati, in qualsiasi grado di giudizio, sottoposti alla misura di
      sicurezza provvisoria in ospedale psichiatrico giudiziario, in considerazione della
      presunta pericolosità sociale ed in attesa di un giudizio definitivo (art. 206 c.p., art. 312
      c.p.p.),
   internati con vizio parziale di mente, dichiarati socialmente pericolosi ed assegnati alla
      casa di cura e custodia, eventualmente in aggiunta alla pena detentiva ridotta di un
      terzo, previo accertamento della pericolosità sociale (art.219 c.p.) che vengono
      trasferiti dal carcere all’OPG;
   detenuti minorati psichici (art. 111 D.P.R. 230/2000, Nuovo regolamento di esecuzione
      dell’ordinamento penitenziario);
   soggetti condannati in cui l’infermità psichica sia sopravvenuta prima o durante
      l’esecuzione della pena detentiva (art. 148 c.p.). In questo caso il giudice può disporre
      anche il ricovero in ospedale psichiatrico civile se la pena inflitta è inferiore a tre anni e
      se non si tratta di delinquente abituale, professionale o per tendenza. E’ comunque un
      provvedimento soggetto a revoca quando vengono meno le condizioni che l’hanno
      determinato.
   Decorso il periodo minimo di durata, stabilito dalla legge per ogni misura di sicurezza, il
giudice può chiedere il riesame della persona che vi è sottoposta per stabilire se è ancora
socialmente pericolosa. L’art. 207 c.p. comma 1 stabilisce che “le misure di sicurezza non
possono essere revocate se le persone ad esse sottoposte non hanno cessato di essere
socialmente pericolose”.
   Nel caso di soggetti prosciolti per infermità psichica l’art. 222 c.p. recitava:
   “Comma 1 – Nel caso di proscioglimento per infermità psichica, ovvero per
intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti, ovvero per sordomutismo, è
sempre ordinato il ricovero dell’imputato in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario per un

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tempo non inferiore a due anni; salvo che si tratti di contravvenzioni o di delitti colposi o di
altri delitti per i quali la legge stabilisce la pena pecuniaria o la reclusione per un tempo non
superiore nel massimo a due anni, nei quali casi la sentenza di proscioglimento è comunicata
all’autorità di pubblica sicurezza”;
    “Comma 2 – La durata minima del ricovero nel ospedale psichiatrico giudiziario è di
dieci anni, se per il fatto commesso la legge stabilisce (la pena di morte) o l’ergastolo, ovvero
di cinque se per il fatto commesso la legge stabilisce la pena della reclusione per un tempo
non inferiore nel minimo a dieci anni”. Decorso il termine minimo di durata, il Giudice del
Tribunale di Sorveglianza deve rivalutare la persistenza della pericolosità: laddove essa
persista, la misura di sicurezza non può essere revocata per cui viene rinnovata e fissato un
nuovo termine per un ulteriore riesame.
       Le disposizioni di questo articolo si applicano anche ai minori degli anni quattordici o
maggiori dei quattordici e minori di diciotto, prosciolti per ragioni di età quando abbiano
commesso un fatto previsto dalla legge come reato trovandosi in alcune condizioni previste
nella prima parte di questo articolo”2.

1.3 La nuova normativa ed il definitivo superamento degli OPG

       Il principio del custodire e curare i malati di mente autori di reato in strutture distinte sia
dal carcere che dal manicomio, nasce in Inghilterra nel 1863, con l’apertura del manicomio
criminale di Broadmoor. In Italia, dopo la presentazione di un progetto di legge da parte di De
Pretis, nel 1884, la sezione Maniaci del Manicomio di Aversa viene trasformata nel primo
manicomio criminale italiano, seguita dall’apertura degli istituti di Montelupo Fiorentino e
Reggio Emilia e, nel secolo successivo, dalla nascita degli altri istituti tutt’ora operanti sul
territorio nazionale ,Castiglione delle Stiviere, Napoli e Barcellona Pozzo di Gotto.
       Con il codice Rocco del 1930 vengono introdotti nel sistema legislativo italiano gli
istituti giuridici del vizio di mente e della pericolosità sociale oltre all’istituto della misura di

2
  Con sentenza 324/1998 la Corte Costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’articolo “nella
parte in cui prevede l’applicazione anche ai minori della misura di sicurezza in ospedale psichiatrico
giudiziario”. Infatti si tratta di una misura di sicurezza che non tiene conto delle particolari esigenze del minore
affetto da vizio di mente e socialmente pericoloso, trattandosi di un soggetto per definizione debole con una
personalità in formazione.

                                                                                                                       14
sicurezza del ricovero in OPG da applicare al soggetto reo con vizio di mente ritenuto
pericoloso socialmente. Il Codice Rocco, darà quindi avvio al percorso di trasformazione che
configurerà l’assetto strutturale e funzionale dei manicomi giudiziari. Introduce infatti il
sistema del “doppio-binario”, così indicato in quanto fondato sul riconoscimento di una
duplice sanzione che da un lato attesta la pena come punizione dell’atto illecito e dall’altro
assegna le misure di sicurezza come prevenzione della pericolosità sociale.             In sostanza
definisce le misure di sicurezza da applicare ai non imputabili prosciolti e ritenuti socialmente
pericolosi.
      Nei decenni successivi, una ulteriore trasformazione culturale si origina dalla percepita
inconciliabilità posseduta dagli istituti manicomiali tra la prassi custodialistica ed il fine
terapeutico (Basaglia, 1967). La questione verrà risolta per mezzo della Legge 180/1978, o
“Legge Basaglia” relativa ad “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”
nella quale è affermato il diritto del cittadino ad essere curato anche se malato di mente e
viene superato il concetto di malato di mente come soggetto socialmente pericoloso. Tale
legge riesce ad abolire i manicomi civili ma “trascura” quelli giudiziari: essi permangono
dunque nella loro funzione di custodia a garanzia della difesa sociale, cui viene affiancato il
compito di cura e trattamento che risponde al diritto di ogni soggetto condannato di usufruire
di un trattamento terapeutico-riabilitativo finalizzato al suo reinserimento sociale.
      E’ con la sentenza 253/2003 la Corte Costituzionale che viene introdotta la misura di
sicurezza non detentiva come alternativa all’OPG nei soggetti prosciolti per vizio di mente,
dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 222 c.p “nella parte in cui non consente
al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico
giudiziario, una diversa misura di sicurezza prevista dalla legge, idonea ad assicurare
adeguate cure all’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale”. Nel motivare
tale censura, la Corte ha sostenuto che “l’automatismo di una misura segregante e totale,
come il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, imposta pur quando essa appaia in
concreto e inadatta…viola esigenze essenziali di protezione dei diritti della persona nella
specie, del diritto alla salute di cui all’art.32 della Costituzione”. Quindi scopo del ricovero
in ospedale giudiziario diventa non più l’azione custodialistica quanto la cura dell’internato,
per migliorare le sue condizioni psico-fisiche e renderne possibile il reintegro sociale con la
possibilità di vivere una vita normale senza pericolo per sé stesso e per gli altri.

                                                                                                      15
La sentenza 367/2004 della Corte Costituzionale introduce inoltre la misura di sicurezza
non detentiva come alternativa all’OPG nell’applicazione di misure provvisorie durante la
fase delle indagini preliminari, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art.206 c.p. al
Comma 1 “nella parte in cui non consente al giudice di disporre, in luogo del ricovero in
ospedale psichiatrico giudiziario, una misura di sicurezza non detentiva, prevista dalla legge,
idonea ad assicurare alla persona inferma di mente cure adeguate e a contenere la sua
pericolosità sociale” .
      Il DPCM del 1 aprile 2008, recante le “Modalità ed i criteri per il trasferimento al
Servizio Sanitario Nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse
finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di Sanità Penitenziaria”, è volto
alla piena applicazione del principio atto a riconoscere ai detenuti adulti e minori ed agli
internati, così come avviene per i liberi cittadini, il diritto di usufruire in pieno delle
prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione previste nei livelli minimi
assistenziali. Riguardo gli OPG e le Case di Cura e Custodia, le linee di indirizzo sono volte
all’attivazione di un programma di trattamento specifico centrato sulla persona, da operarsi
con interventi terapeutico-riabilitativi che, con il passaggio di competenza delle funzioni al
Servizio Sanitario Nazionale, si modellino su una corretta armonizzazione fra le misure
sanitarie e le esigenze di sicurezza.
      Con il DL del Ministero della Salute o “svuota carceri” n. 211 del 22/12/2011 recante
“interventi urgenti per contrastare la tensione detentiva determinata dal sovraffollamento
delle carceri” convertito in legge n.9 del 17/02/2012, prende avvio il percorso che porterà alla
definitiva chiusura degli OPG. Tale legge contiene “Disposizioni per il definitivo
superamento degli OPG” e stabilisce che, a partire dal 31/03/2013 (comma 4.), le due misure
di sicurezza detentive del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a
case di   cura e custodia, devono essere eseguite esclusivamente all’interno di strutture
sanitarie, fermo restando che le persone che hanno cessato di essere socialmente pericolose
devono essere dimesse e prese in carico sul territorio dai DSM.
      All’art.3 ter, definisce inoltre i criteri strutturali, tecnologici ed organizzativi delle
strutture residenziali atte ad accogliere le persone cui sono applicate tali misure di sicurezza
definite REMS, ovvero Residenze per l’Esecuzione di Misure di Sicurezza, con riferimento
anche ai profili di sicurezza cui devono rispondere tali strutture. Tale legge prevede due
tipologie di REMS: una di valutazione, dove si pone diagnosi e si imposta un adeguato

                                                                                                   16
trattamento con l’obiettivo di ottenere una rapida stabilizzazione sintomatologica al fine di
permettere il passaggio ad una struttura a minore attività assistenziale, ed una di
mantenimento, avente finalità riabilitative e psicosociali. Ogni REMS dovrà avere massimo
20 posti letto. E’ prevista inoltre la realizzazione, su tutto il territorio nazionale, di
un’articolazione di strutture residenziali a differente livello di intensità assistenziale.
      L’invio di un soggetto autore di reato, prosciolto per vizio di mente presso una REMS,
dovrà quindi essere residuale e riservata a soggetti socialmente pericolosi (III livello), rispetto
ad altri tipi di intervento quali l’invio ad una struttura di tipo residenziale (II Livello) o ad un
percorso trattamentale esterno presso il Dipartimento di Salute Mentale competente (I livello
di trattamento).
      Le REMS dovranno avere una gestione interna di tipo sanitario ed il responsabile di
struttura dovrà interfacciarsi con l’Autorità Giudiziaria e con il Magistrato, cui rimane il
potere decisionale e quindi la responsabilità rispetto a misure quali eventuali licenze,
conversione della misura di sicurezza in libertà vigilata e dimissione dalla struttura, sulla base
però di valutazioni operate dal sanitario. La gestione e la sorveglianza delle REMS dovrà
inoltre comportare accordi fra USL e Questura, trattandosi di strutture per l’esecuzione di
misure di sicurezza.
      La legge n.81 del 31/05/2014 reca “Disposizioni urgenti in materia di superamento degli
OPG” (G.U. n.125 del 31/05/2014) e definisce le norme la chiusura improrogabile degli OPG
al 31/03/2015 . All’art. 1 ter viene fatto obbligo ai Servizi di Salute Mentale di competenza
territoriale, di documentare entro il 15/07/2014 al Ministero della Salute e all’Autorità
Giudiziaria, i percorsi terapeutici individuali di dimissione di ogni persona ancora internata in
OPG alla data del 01/06/14 motivando perché non è ancora stata dimessa. Per i pazienti per i
quali è stata accertata la persistente pericolosità sociale, il programma documenta in modo
puntuale le ragioni che sostengono l’eccezionalità e la transitorietà del prosieguo del ricovero
in OPG. Viene infine attivato presso il Ministero della Salute un organismo di coordinamento
per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari composto da rappresentanti del
Ministero della Salute, del Ministero della Giustizia, delle regioni e delle province autonome
di Trento e di Bolzano, al fine di esercitare funzioni di monitoraggio e di coordinamento delle
iniziative assunte per garantire il completamento del processo di superamento degli ospedali
psichiatrici giudiziari.

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I Dipartimenti di Salute Mentale e gli altri organi territorialmente competenti in
concerto con la Magistratura, sono chiamati a definire un Progetto Terapeutico Riabilitativo
Individualizzato (PTRI) ovvero trovare soluzioni alternative all’applicazione della misura di
sicurezza detentiva o alla sua revoca con reinserimento del soggetto nel contesto sociale.
      La proroga della misura di sicurezza detentiva viene quindi disposta solo nei casi in cui,
a fronte dell’attuazione di un adeguato programma terapeutico-riabilitativo, sia, stata
constatata la persistenza della pericolosità sociale o la riacutizzazione di uno stato di
scompenso psicopatologico.
      In quest’ottica anche il tempo per il riesame della pericolosità sociale viene ad essere
ridotto e fissato a 5-7 mesi.

                                                                                                   18
CAPITOLO SECONDO
La pericolosità sociale: la valutazione del rischio di violenza

2.1 Aggressività e violenza

    Il rapporto tra patologia mentale e comportamento violento è da sempre stato oggetto
delle riflessioni della comunità psichiatrica e del mondo giuridico, nel tentativo di risolvere il
complesso percorso che vuole integrare la garanzia del mantenimento dell’ordine sociale e la
tutela della sicurezza della collettività, con adeguati trattamenti sanitari per l’utenza
psichiatrica violenta.
    All’inizio del secolo, il trattamento dei pazienti psichiatrici autori di reato aveva risentito
dell’assunzione di un’equivalenza tra malattia mentale e pericolosità, che aveva comportato,
almeno fino al 1978, l’internamento massiccio dei malati di mente in strutture manicomiali in
nome della protezione e della sicurezza del reo e della società. In seguito, grazie al fiorire di
filoni di ricerca volti a studiare la correlazione fra malattia mentale e comportamento violento,
è stato dimostrato che non vi è correlazione diretta fra malattia mentale intesa in senso
aspecifico e maggiore probabilità di compiere reati e che la tendenza a delinquere non è
statisticamente superiore rispetto alla popolazione generale (Sanza M., 1999).
    Tuttavia, ancora oggi rimane centrale la questione della possibilità di prevedere e gestire
il comportamento violento che rimanda all’interrogativo se la violenza sia un comportamento
innato o acquisito.
    Al riguardo è importante fare in primo luogo, una distinzione tra i termini violenza ed
aggressività.
    In entrambi i casi si tratta della disposizione a mettere in atto un comportamento lesivo
verso altre persone, animali o cose, ma dall’aggressività viene generalmente esclusa
l’intenzionalità, ovvero la consapevolezza dolosa dell’offesa arrecata, caratteristica invece
della violenza.
    Tradizionalmente l’aggressività è un istinto innato finalizzato alla difesa della propria
integrità, del proprio gruppo o del proprio territorio, o alla conquista, per affermare la propria
supremazia all’interno di un gruppo; la violenza viceversa non mostra di avere le stesse
motivazioni ed ha come caratteristiche di essere improvvisa, esplosiva, sproporzionata nelle

                                                                                                      19
sue manifestazioni. In altre parole: mentre l’aggressività si spiega con la necessità biologica
della sopravvivenza, su una ravvisata minaccia (reale o presunta) attraverso la valutazione del
contesto ambientale, manifestandosi quindi come un comportamento in un qualche modo
“adattivo”, la violenza, che comunque è una reazione non commisurata all’evento minaccioso,
interferisce negativamente con la vita sociale, personale, affettiva del soggetto determinando
disadattamento e isolamento.
     Scientificamente, la mancanza di una definizione unitaria di aggressività deriva dal fatto
di avere considerato l’aggressività, di volta in volta, un istinto, un comportamento,
un’emozione. Se si considera l’aggressività, in senso generico, come un comportamento attivo
volto al soddisfacimento dei propri bisogni e dei propri interessi attraverso le interazioni con
altri, ed anche ad eventuale discapito dei bisogni e degli interessi altrui, solo in parte il suo
significato coincide con quello di violenza, che per sua parte, richiama un carattere
specificatamente ostile.
     Infatti, sinonimi di questa accezione di aggressività divengono “determinazione”,
“risolutezza”, “tenacia”, “intraprendenza”, perché l’aggressività è un impeto, una spinta
volitiva all’autorealizzazione ed al raggiungimento di un obiettivo. Non è però detto che il
raggiungimento dell’obiettivo desiderato, divenga espressione di prepotenza, prevaricazione e
brutalità verso l’altro, ovvero divenga un atto violento. D’altro canto, poiché la violenza non
ha espressione solo in senso fisico, ma richiama anche la coercizione morale o psicologica, o
l’uso di interazioni verbali particolarmente spiacevoli, ha senso dire che il movente intimo sia
di natura aggressiva. Dunque in sostanza: la violenza richiama l’aggressività, ma non sempre
è vero il contrario.
     Peraltro l’aggressività più che essere un elemento nucleare di una determinata patologia
psichica, risulta essere un fattore sintomatologico e comportamentale caratterizzante differenti
quadri clinici ed ha quindi caratteristiche multi-dimensionali, così come la violenza, essendo
un fattore multi-determinato, non è inquadrabile in nessuna definizione categoriale netta
     Per questo motivo gli studi sulle cause dei comportamenti aggressivo-violenti sono
divenuti centrali rispetto all’importanza di dare ai termini di aggressività e violenza una
definizione univoca.
     Nell’ambito della nosografia psichiatrica secondo il DSM IV-TR, sulla base di studi di
letteratura riguardanti la correlazione fra malattia mentale e violenza sono stati identificati
(Biondi, 2005):

                                                                                                    20
 I Disturbi Psicotici e la Schizofrenia, dove in situazione di acuzie sintomatologica, il
   comportamento violento è generalmente presente in qualità di reazione “difensiva” in
   un momento di estrema paura ed angoscia derivante da situazioni che il soggetto
   interpreta, in modo inadeguato ed esagerato, come minacciose. Tali reazioni, brevi ed
   intense, si considerano come una caratteristica temperamentale o di personalità del
   soggetto che nella fase acuta della malattia non riesce più a controllare. Tra gli
   schizofrenici, è generalmente nel sottotipo della Schizofrenia Paranoide che si
   individuano i soggetti maggiormente inclini ad acting-out di natura violenta, in virtù
   del sistema delirante che domina il loro assetto cognitivo. Vale la pena tuttavia di
   specificare che, per quanto siano molto frequenti i comportamenti aggressivo-violenti
   nei soggetti affetti da disturbo psicotico, è stato evidenziato che il loro rischio venga
   incrementato dalla comorbidità con l’uso di sostanze o con la presenza di tratti o
   Disturbi di Personalità in particolare Borderline, Antisociale o Narcisistico (Biondi,
   2005);
 i Disturbi dell’Umore, Unipolari e Bipolari, nei quali possono essere presenti rabbia,
   aggressività e distruttività, sia nella fase maniacale del Disturbo Bipolare che nella fase
   depressiva del Disturbo Bipolare e Unipolare (Overall & Hollister, 1980; Fava et al.,
   1991; Posternak & Zimmerman, 2002; Pasquini et al., 2004). Infatti anche
   nell’Episodio Depressivo Maggiore, la sofferenza depressiva si manifesta in tre
   dimensioni: la prima, quella della “tristezza/apatia”, caratterizzata da manifestazioni
   comportamentali quali il pianto, il ritiro e la chiusura emotiva; la seconda, quella dell’
   “ansia psichica e somatica”, cui corrispondono le manifestazioni somatiche della
   sofferenza depressiva, ovvero la perdita o l’aumento del peso corporeo, l’insonnia o
   l’ipersonnia, e l’affaticabilità; la terza, quella appunto della “rabbia/aggressività”,
   caratterizzata da vissuti e manifestazioni di irritabilità e frequenti scatti d’ira, fino al
   rischio della messa in atto di condotte autolesive e suicidarie (Biondi, 2005);
 i Distubi D’Ansia, categoria eterogenea che include gruppi diagnostici con differenti
   matrici psicopatologiche e differenti fenomenologie. L’aggressività, considerata come
   un sintomo/dimensione, è stata riscontrata in pazienti affetti da: Disturbo Post-
   Traumatico da Stress, Disturbo d’Ansia Generalizzato, Fobia Sociale e Fobia specifica
   (Posternak & Zimmerman, 2002); Disturbo di Panico (Korn et al., 1992; Fava et al.,
   1991); Disturbo Ossessivo-Compulsivo (Millar, 1983; Pasquini et al., 2003);

                                                                                                  21
 i Disturbi del Comportamento Alimentare, nei quali sono presenti manifestazioni di
      auto-aggressività non solo in pazienti affetti dalle forme psicopatologiche classiche
      (Anoressia e Bulimia), ma soprattutto nella comorbidità con il Binge Eating Disorder
      (Fassino et al., 2003);
    i Disturbi di Personalità, nei quali sospettosità, rabbia, rancore e negativismo sono
      presenti nel Disturbo Paranoide; arroganza, impulsività, aggressività e sfruttamento
      interpersonale nel Disturbo Narcisistico, nel Disturbo Antisociale e nel Disturbo
      Borderline (Buss & Durkee, 1957; Henry et al., 2001).
      In relazione alle riflessioni riguardo la possibilità di considerare un atto aggressivo
come il risultato di un processo univoco o piuttosto come il risultato di un processo
complesso, l’attenzione si è rivolta alla necessità di gestire gli episodi di crisi nel breve
periodo e di prevederli e prevenirli nel lungo periodo. Le riflessioni sulle modalità con le
quali un comportamento aggressivo-violento ha origine e si manifesta, propendono oggi nel
considerare alla base di qualunque comportamento di questo tipo, un’attivazione
psicofisiologica detta arousal, che ha luogo come reazione alla percezione di una minaccia e si
esprime con modificazioni di natura somatica e psicologico-cognitiva.
      Nell’espressione dell’aggressività è stata dunque riconosciuta l’esistenza di un
progressivo processo di desensibilizzazione (escalation) scandito dalle seguenti fasi:
   1. fase del fattore scatenante: un’iniziale modifica del baseline psico-emotivo ordinario,
      che si esprime con comportamenti verbali ed espressivi (mimici e comportamentali)
      tipici e segna l’avvio del processo di attivazione;
   2. fase dell’escalation: caratterizzata da un ulteriore aumento dello stato di agitazione
      psicomotoria. Nel caso di pazienti psichiatrici, è in questa fase che si individua
      l’efficacia degli interventi operativi, che devono essere tempestivi. In questa fase
      fondamentale è il cosiddetto talk down, un approccio verbale di negoziazione che mira
      al positivo riconoscimento del contenuto emotivo della crisi personale del soggetto,
      deviandone però l’esito comportamentale. Consiste in alcuni suggerimenti verbali
      (usare frasi brevi e dal contenuto chiaro; non polemizzare; ridurre la tensione
      dichiarandosi in accordo con quanto sostenuto dal paziente), prosodici (adottare un
      tono di voce caldo e rassicurante) e comportamentali (non invadere lo spazio del
      paziente e mantenere una distanza utile) per gestire le crisi aggressive (Maier & Van

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Rybroek, 1995 in Eichelman & Hartwig, 1995). Inoltre è opportuno l’allontanamento
       del soggetto dal contesto, se fattori ambientali hanno originato il disagio;
   3. fase critica: è la massima fase dell’eccitamento. L’attenzione deve essere posta alla
       tutela della sicurezza ed alla previsione delle conseguenze dell’imminente
       comportamento aggressivo;
   4. fase del recupero: è l’inizio del percorso di ritorno al baseline iniziale, ma con ancora il
       rischio di recettività a nuovi fattori di disturbo. In questa fase, l’aiuto al paziente è
       volto alla progressiva rielaborazione dell’episodio, senza forzare con interventi precoci
       che potrebbero far riemergere la crisi;
   5. fase della depressione post critica: la fase finale, nella quale compaiono nel paziente
       sentimenti negativi di colpa, vergogna e rimorso per quanto agito. È qui che trovano
       luogo anche percorsi di rielaborazione dell’accaduto che contemplino la comprensione
       razionale delle cause che l’hanno originato.
      In merito alla previsione e prevenzione del comportamento aggressivo in pazienti
psichiatrici, la disciplina psichiatrica di inizio secolo, in linea con le opinioni della dottrina
giuridica e con il pensare comune della collettività, nell’asserire l’esistenza di una naturale,
costituzionale ed imprevedibile pericolosità sociale dei soggetti affetti da patologia mentale,
per quanto poco unitarie fossero le legislazioni dell’Italia non ancora unificata, riteneva
necessaria la “cura” coercitiva del malato di mente, che doveva essere separato dalla comunità
civile per garantire il benessere e la sicurezza di quest’ultima.
      Prima della promulgazione ed applicazione delle Legge. 180/1978, infatti, il ricovero
coatto a tempo indeterminato nei manicomi si basava sull’esistenza di un giudizio di
pericolosità che fondava le scelte cliniche sullo stereotipo concettuale che ogni malato
mentale poteva essere potenzialmente pericoloso .
      A supporto di tale pregiudizio erano le teorie costituzionaliste ed alcuni studi
epidemiologici che attestavano la stretta connessione tra patologia mentale e violenza.
      Tra questi, è nota la cosiddetta “Legge Penrose”, dal nome dello studioso che, prima
della seconda guerra mondiale, in alcuni stati europei attestò, per mezzo delle sue ricerche, un
inverso rapporto di proporzionalità tra le immissioni di pazienti negli ospedali psichiatrici ed
alcuni parametri socio-anagrafici: il tasso di mortalità generale, il tasso di natalità, il tasso di
omicidi o altri fenomeni criminosi. Penrose aveva osservato cioè che, aumentando il numero

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di pazienti ammessi negli ospedali psichiatrici, era stata rilevata una diminuzione della
mortalità nella popolazione generale ed una diminuzione della criminalità.
      Anche altri studi epidemiologici, condotti sulla falsa riga di quello di Penrose (Gunn et
al., 1973; Taylor, 1984), fondarono le loro analisi sulla prevalenza dei disturbi psichiatrici tra
i detenuti e sull’incidenza dei reati nella popolazione degli ospedali psichiatrici.
      Questi studi contribuirono ad una patologizzazione della criminalità e ad una
criminalizzazione della patologia, che ancora oggi in alcuni ambienti stenta ad essere
superata.
      Oggi però sappiamo che la metodologia usata per tali studi risentiva dell’effetto della
scelta del campione, preselezionato proprio tra i detenuti degli istituti di pena o degli ospedali
psichiatrici, insieme ad un deficitario approfondimento clinico dei soggetti esaminati, che in
una generica associazione tra violenza e patologia, non indagava la specificità dei quadri
psicopatologici dai quali erano affetti.
      Successivamente, il movimento culturale di difesa civile dei malati mentali suscitò un
nuovo interesse scientifico attorno al tema. Studi di follow-up (Russo, 1994) dimostrarono
l’inattendibilità delle previsioni a lungo termine della pericolosità sociale sulla base dei tassi
di recidiva di pazienti dimessi dagli ospedali psichiatrici, che risultavano sovrapponibili a
quelli della popolazione generale. Allo stesso modo, studi retrospettivi (Hafner & Boker,
1973) sulla correlazione fra alcune categorie di reato e le diagnosi degli autori del reato, non
dimostrarono differenze significative al confronto con la popolazione generale: questi studi
dimostrarono una maggiore incidenza di criminalità violenta per diagnosi specifiche quali la
schizofrenia ed i disturbi dello spettro affettivo, ma sottolinearono anche come alcuni fattori
di personalità, familiari e sociali, correlati con il disturbo psichiatrico, incidessero
maggiormente sulla predisposizione al crimine.
      In sostanza, anche questo secondo filone di studi ebbe origine dal confronto tra
l’incidenza dei reati nella popolazione psichiatrica e l’incidenza dei reati nella popolazione
generale, ma giunse a conclusioni differenti rispetto ai primi studi descritti. Attestò infatti la
mancanza di un nesso di causalità tra patologia e comportamento violento e criminale, ed
evidenziò che gli stessi fattori generici che incidono sul comportamento criminale per la
popolazione generale e cioè, genere sessuale maschile, giovane età, uso precoce ed abituale di
sostanze stupefacenti e/o alcol, stato socio-familiare disagiato, valgono anche per la
popolazione psichiatrica.

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