AIPG DISTURBI DI PERSONALITA' ED IMPUTABILITA': DA "VITTIMA" AD AUTORE DI REATO - Corso di Formazione in Psicologia Giuridica
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AIPG Associazione Italiana di Psicologia Giuridica Roma DISTURBI DI PERSONALITA’ ED IMPUTABILITA’: DA “VITTIMA” AD AUTORE DI REATO Corso di Formazione in Psicologia Giuridica e Psicopatologia Forense ANNO 2016 Dr.ssa Annalisa Giannelli
INDICE INTRODUZIONE PAG. 4 Il vizio di mente e imputabilità, la pericolosità sociale e la normativa relativa. 1.1 Vizio totale, vizio parziale di mente ed imputabilità PAG. 6 1.2 La pericolosità sociale PAG. 10 1.3 La nuova normativa ed il definitivo superamento degli OPG PAG. 14 CAPITOLO SECONDO La pericolosità sociale: la valutazione del rischio di violenza 2.1 Aggressività e violenza PAG. 19 2.2 Gli strumenti di assessment dei comportamenti PAG. 26 aggressivo-violenti CAPITOLO TERZO I Disturbi della Personalità: classificazione, criteri diagnostici ed imputabilità. 3.1 Disturbi della Personalità: classificazione PAG. 32 3.2 L’imputabilità nei Disturbi della Personalità PAG. 35 3.2.1 Casi clinici. PAG. 39 3.3 Psicopatia ed Imputabilità PAG. 41 2
CAPITOLO QUARTO L’imputabilità nei Disturbi della Personalità: le Sentenze. 4.1 Sentenza n.9163 del 08/03/2005 della Corte di PAG. 45 Cassazione Sezioni Unite. 4.2 Sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Trieste, PAG. 47 del 18.09.2009 4.3 Sentenza del Tribunale di Como del 20.05.2011 PAG. 48 4.4 Sentenza n.17608 del 17 aprile 2013 della Corte di PAG. 50 Cassazione 4.5 Sentenza n.34466 del 6 agosto 2015, della Corte di PAG. 53 Cassazione. CONCLUSIONI PAG. 60 BIBLIOGRAFIA PAG. 63 3
INTRODUZIONE I disturbi della personalità possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare la capacità di intendere e di volere del soggetto agente, ai fini degli articoli 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla stessa; invece, non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre “anomalie caratteriali” o gli “stati emotivi e passionali”, che non rivestano i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente. Lo ha stabilito la Cassazione a Sezioni Unite con la pronuncia 9163/2005, precisando altresì che è comunque necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo casualmente determinato dal primo (Bertolino, 1990). Da un punto di vista nosografico, classicamente si distinguono i Tratti di Personalità dai Disturbi di Personalità I Tratti di Personalità rappresentano "modi costanti di percepire, rapportarsi e pensare nei confronti dell'ambiente e di se stessi, che si manifestano in un ampio spettro di contesti sociali e personali importanti". Si parla altresì di Disturbi di Personalità "quando i tratti di personalità sono rigidi e non adattativi, e causano quindi una significativa compromissione del funzionamento sociale o lavorativo, oppure una significativa sofferenza soggettiva. La diagnosi di Disturbo di Personalità dovrebbe essere fatta pertanto solo quando le caratteristiche specifiche sono tipiche del funzionamento a lungo termine dell'individuo, e non sono limitate ad episodi ben definiti di malattia”. La nozione di infermità nei disturbi della personalità comprende due aspetti: il contenuto clinico e l’analisi dinamico funzionale. In ambito peritale, pertanto, occorre staccarsi dalla mera diagnosi categoriale per esaminare quale e quanta compromissione funzionale ha comportato quello specifico disturbo comunque diagnosticato, non solo in riferimento al fatto reato. Fondamentale ricordare che diagnosi categoriale e funzionale sono due aspetti complementari ma diversi: l’infermità (da in-firmus = non-fermo) in senso psichiatrico forense non individua un “disturbo mentale”, ma i riflessi che tale stato d’infermità ha sul 4
funzionamento psichico del soggetto e quindi sul suo comportamento. Pertanto, un “malato” può anche non essere un “infermo” e viceversa. L’infermità giuridicamente rilevante è costituita dalla confluenza di un disturbo funzionale che interagisce con un disturbo mentale, al punto di compromettere in concreto la capacità di autodeterminazione del soggetto incidendo in maniera rilevante e grave sulle funzioni autonome dell’Io e conferendo in tal modo “significato di infermità” all’atto agito o subito (Fornari, 2004) . Nel primo capitolo di questo elaborato, vengono presi in considerazione i temi di responsabilità penale e imputabilità, facendo un excursus riguardo ai due concetti con approfondimento sulla capacità d'intendere e di volere e sulla loro influenza nei riguardi dell'imputabilità. Viene inoltre affrontato il tema della pericolosità sociale e del percorso normativo che ha condotto ad oggi al definitivo superamento degli OPG con creazione delle REMS (Residenze per Esecuzione delle Misure di Sicurezza). Nel secondo capitolo viene approfondito il tema della pericolosità sociale sottolineando la distinzione fra i concetti di aggressività e violenza e viene fatto un excursus sui principali strumenti di assessment utilizzati in ambito psichiatrico-forense per la valutazione del comportamento violento in riferimento anche alla possibilità di prevedere la possibilità di reiterazione del reato e quindi stabilire la pericolosità sociale del reo. Il terzo capitolo tratta invece dei Disturbi di Personalità, della loro classificazione, dei criteri diagnostici che li contraddistinguono e soprattutto, dell’influenza sulla pericolosità sociale dei soggetti che ne sono affetti. Vengono inoltre presentati due casi clinici di soggetti affetti da Disturbo Paranoide di Personalità, emblematici di come in presenza di forti fattori di stress si possa sviluppare un quadro psicotico acuto che scemi grandemente o parzialmente la capacità d’intendere e volere. Infine viene trattata la distinzione fra Disturbo della Personalità Antisociale e Psicopatia fondamentale ai fini della valutazione dell’imputabilità. Nel terzo capitolo infine, viene affrontato il tema dell'imputabilità in soggetti affetti da Disturbi della Personalità avvalendoci di alcune sentenze di primo, secondo e terzo grado di giudizio. 5
CAPITOLO PRIMO Il vizio di mente, l’imputabilità, la pericolosità sociale e la normativa relativa. 1.1 Vizio totale, vizio parziale di mente ed imputabilità Nella valutazione di imputabilità di un soggetto autore di reato, al fine di stabilirne in via preliminare, la responsabilità penale, qualora il Pubblico Ministero o il Giudice riscontrino direttamente o per informazioni acquisite, condizioni che necessitino di valutazione specialistica psichiatrica, possono richiedere una perizia psichiatrica, termine con il quale s’intende “un accertamento tecnico di natura psichiatrica volto a formulare un giudizio diagnostico-valutativo e prognostico” che, per adulti e minori, ha lo scopo di “stabilire le condizioni di mente della persona (attiva o passiva) in riferimento ad una determinata fattispecie di reato (commesso o subito) e ad un preciso momento del suo iter giudiziario, in ogni stato e grado del procedimento” (Fornari, 2005, pag. 86). La perizia psichiatrica definita “consulenza tecnica” quando disposta dal Magistrato, nei confronti dell’autore di reato, viene richiesta nella fase di cognizione ed è finalizzata a “stabilire l’eventuale esistenza di un vizio totale o parziale di mente nell’indagato o nell’imputato al momento del fatto”, secondo quanto stabilito dagli Artt. 88 e 89 c.p. (Fornari, 2005, pag. 87), nel rispetto del principio in base al quale ogni individuo è responsabile delle proprie azioni ed omissioni fino a prova contraria, rappresentata in questo caso dall’infermità di mente, regolamentata dagli articoli 85 al 98 del c.p. Nel c.p.p è esplicito il divieto di “perizia psicologica” volta cioè a stabilire “il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche” (Art. 220 comma 2 c.p.p.). Nel sistema legislativo italiano è quindi centrale il concetto di imputabilità, che nell’Art. 85 c.p. richiama alla presenza delle capacità di intendere e di volere (Art. 85 c.p. – Capacità d'intendere e di volere: “Nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità d'intendere e di volere”). 6
L’integrità dello stato di mente del soggetto autore di reato, da stabilirsi “al momento del fatto reato”, è dunque vincolata a due distinte facoltà: la capacità di intendere, intesa come “l’idoneità nel comprendere il valore ed il disvalore sociale di quell’azione o omissione” che si è costituita come reato; e la capacità di volere, intesa come “l’idoneità ad autodeterminarsi in vista del compimento o dell’evitamento di quell’azione” (Fornari, 2005, pag. 106-107). Quindi l’imputabilità di un soggetto, ovvero la responsabilità penale del compimento di un fatto reato, richiama al pieno possesso di facoltà cognitive, logiche e di interazione individuo, realtà che consentano al soggetto di capire e valutare adeguatamente i motivi nonché le conseguenze delle proprie azioni, così da orientare e/o controllare in modo cosciente e coerente il proprio comportamento. Nel momento in cui anche solo una delle capacità di intendere e di volere viene ad essere esclusa o sia “grandemente scemata”, l’imputabilità del soggetto è messa in discussione. Il nostro codice penale riconosce come causa di alterazione di tali funzioni, alcune circostanze quali: il reo sia stato reso da altri incapace di intendere e di volere (Art. 86 c.p.); il reo presentava, al momento del fatto reato, un quadro di infermità di mente totale o parziale tale da escludere o scemare grandemente la sua capacità di intendere e di volere (Artt. 88 e 89 c.p.); il reo era in stato di acuta intossicazione da sostanze stupefacenti o alcol dovuta a caso fortuito o a cause di forza maggiore (Artt. 91 e 93 c.p.) – la cronica intossicazione da sostanze stupefacenti o alcool, quando abbia causato danni psichici organici, è sempre rilevante ai fini dell’applicazione del vizio parziale o totale di mente (Art. 95 c.p.); il reo sia soggetto sordomuto. In particolare la moderna medicina legale distingue: il sordomutismo congenito o precocemente acquisito, che interferisce con il normale funzionamento psichico del soggetto ed il sordomutismo tardivamente acquisito. Solo nel primo caso trova applicazione l’Art. 96 c.p.; il reo sia soggetto con età compresa tra i 14 ed i 18 anni che, per immaturità, non ha ancora raggiunto, al momento del fatto reato, la capacità di intendere e volere (Art.97 e 98 c.p.). Entro i 14 anni di età vi è per legge la presunzione assoluta di incapacità del minore, qualunque sia il reato commesso; dai 14 ai 18 anni deve essere accertato il grado di maturazione psico-sociale, ovvero la sua maturità, per affermare l’esistenza di imputabilità, se imputabile la pena è comunque ridotta. 7
In merito agli accertamenti disposti sull’autore di reato, tre sono quindi le questioni poste al perito: 1. valutare la presenza di un’infermità data da un eventuale vizio di mente di natura totale o parziale tale da escludere o grandemente scemare la capacità di intendere e di volere in considerazione del momento in cui è avvenuto il fatto reato per il quale si procede; 2. nel caso in cui si accerti la presenza di un vizio di mente, deve essere accertata la presenza e la persistenza della pericolosità sociale psichiatrica; 3. se le condizioni di mente possedute dall’indagato o dall’imputato gli consentano di partecipare coscientemente al processo a suo carico e di sapersi utilmente difendere (“capacità processuale”, Artt. 70 e 71 c.p.). Fornari indica la necessità che l’esperto incaricato di effettuare la valutazione in merito alla presenza di una condizione di infermità psichica adotti un ben preciso percorso diagnostico-operativo attraverso tre fasi (Fornari, 2005, pagg.108-128 ): 1. “il classificare”: ovvero individui quali disturbi mentali possano influire sull’infermità, o in altri termini individui quali categorie cliniche assumano significato giuridico nel limitare grandemente o nell’escludere la capacità di intendere e di volere. L’Autore indica quindi l’adozione di un criterio nosografico che ha scopo di individuare quei quadri psichici che possano assumere valore di infermità mentale. Nello specifico indica, per convenzione, le condizioni in cui: è in atto un “evidente scompenso patologico psichico (Disturbo Psicotico Acuto per il DSM-IV-TR o Sindromi Psicotiche Acute e Transitorie per l’ICD-10)”; è in atto un “deterioramento consistente indotto da disturbo mentale organico”; è in atto una “sensibile destrutturazione della personalità da processualità schizofrenica”; è in atto un “disturbo grave di personalità in cui siano documentabili episodi di scompensi in senso borderline o francamente psicotico”. Riguardo la valutazione dell’imputabilità dei Disturbi di Personalità la Sentenza n. 9163 del 25 gennaio 2005 delle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione recita: “Anche i disturbi della personalità, come quelli da nevrosi e psicopatie, possono costituire causa idonea ad escludere o scemare grandemente, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere di un soggetto agente ai fini degli artt.88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, rilevanza, gravità e intensità tali da concretamente incidere sulla stessa; per converso, non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre “anomalie 8
caratteriali” e gli “stati emotivi e passionali”, che non rivestano i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente; è inoltre necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo”. La Sentenza n. 9163/2005 pone quindi fine ad annose controversie interpretative che vedevano contrapporsi il “modello nosografico” volto ad intendere l’infermità in stretto relazione a categorie di patologia mentale nosograficamente descritte, dove dunque i Disturbi di Personalità non trovavano spazio ed il “modello giuridico”, volto ad intendere in modo più ampio l’infermità, come una condizione di “non sanità” mentale. Ammette infatti che anche i Disturbi di Personalità possono costituire una condizione di infermità mentale in misura tale da pregiudicare totalmente o grandemente il funzionamento delle capacità intellettive e volitive del soggetto tale da rendere il soggetto “incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti”. A definire “grave” un Disturbo di Personalità non è dunque il modello nosografico ma la diagnosi di struttura, di organizzazione e di funzionamento, che influisce sulle capacità di intendere e di volere del soggetto (Fornari, 2005, pag.121-123). Indipendentemente dal cluster in cui il Disturbo di Personalità è inserito nei manuali nosografici, un disturbo grave della personalità si caratterizza per un quadro sintomatologico che lo assimila sul piano psicopatologico e valutativo ad una condizione di tipo psicotico con la presenza di: umore disforico, affettività instabile, senso di identità diffuso, reazioni abnormi, labilità dei processi difensivi; 2. “l’attribuire”, ovvero conferisca al reato un valore di malattia, cioè intendere il reato come una delle espressioni fenomenologiche del disturbo. Questo secondo passaggio è dunque volto a stabile un nesso eziologico significativo tra il disturbo psicopatologico, il funzionamento del soggetto ed il compimento del reato. In tal senso, superando il fatto di dover stabilire una correlazione tra tipo di diagnosi e reato, il percorso di comprensione psicopatologica globale del paziente reo, consentirà di superare l’ammissione di infermità mentale solo per alcuni quadri clinici, e di focalizzare l’attenzione su quelle dimensioni psicopatologiche in cui il funzionamento psichico patologico ha determinato in modo diretto una compromissione delle capacità di intendere e di volere nel momento del compimento del fatto reato; 9
3. “il valutare”, ovvero stabilisca la qualità ed il grado con cui il disturbo mentale abbia determinato una compromissione totale o parziale della capacità d’intendere e di volere da cui deriva l’imputabilità. Fornari (2005, pagg. 125-128) indica che, a tal fine, l’esperto potrebbe avvalersi della valutazione dell’integrità delle aree funzionali dell’Io, che esprimono la capacità di rispondere in modo adeguato e funzionale ai diversi stimoli che provengono dall’interazione Io – ambiente. Esse sono: le funzioni cognitive, relative alla percezione formale delle situazioni, interne o esterne al soggetto, in quanto tali; le funzioni organizzative, ovvero l’analisi, la comprensione e l’attribuzione di significato alle stesse; le funzioni previsionali, ovvero l’analisi, la critica ed il giudizio nella valutazione delle possibili conseguenze delle risposte; le funzioni decisionali, che contemplano la scelta tra adeguamento, evitamento o rifiuto della situazione-stimolo, e dunque la decisione di agire o di non agire; le funzioni esecutive, ovvero la risposta scelta in virtù dell'obiettivo che si vuole o si può raggiungere, pianificando il proprio comportamento in senso organizzato o disorganizzato, o mediato dalla logica o dalle componenti emotive. Quindi, partendo dall’assunto che nel vizio di mente la compromissione delle funzionalità dell’Io si traduce in disordini comportamentali che possono precedere, accompagnare o seguire il fatto reato, la valutazione della qualità e del grado del vizio di mente si può specificare come segue: un vizio parziale di mente verrà preso in considerazione nei casi in cui lo scompenso del funzionamento patologico psichico rimanga limitato, consentendo l’adozione di un comportamento ancora sufficientemente organizzato, pianificato e lucido; un vizio totale di mente invece si adotterà nei casi in cui vi sia un grave scompenso del funzionamento patologico psichico, ed il comportamento diventi disorganizzato, bizzarro senza capacità di pianificazione. 1.2. La pericolosità sociale Il concetto di pericolosità sociale si riferisce alla probabilità che un soggetto autore di reato possa reiterare dei reati. L’Art. 203 del c.p. definisce “socialmente pericolosa”, la persona, anche se non imputabile e non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti previsti dalla legge come reati”. 10
La pericolosità sociale rappresenta il secondo quesito a cui è chiamato a rispondere il perito psichiatra e deve essere accertata dallo stesso, solo nel caso di soggetti nei quali sia stata ravvisata l’esistenza di un vizio totale o parziale di mente (pericolosità sociale psichiatrica) altrimenti deve essere stabilita dal Magistrato sulla base di elementi circostanziali come previsto dall’Art.133 c.p.: “Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena”. Nell’esercizio del potere discrezionale indicato nell’articolo precedente, il giudice deve tener conto della capacità a delinquere del colpevole desunta: dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; dai precedenti penali e giudiziari del reo e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo antecedenti al reato; dalla condotta contemporanea e susseguente al reato; dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo ”. “Il Giudice deve altresì tener conto della gravità del reato, desunta: dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione; dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; dall’intensità del dolo o dal grado di colpa”. Nel caso di infermità psichica, il perito deve specificare se al momento dell’accertamento peritale, la patologia di mente persista e sia tale da rendere la persona socialmente pericolosa. Ovviamente tale giudizio si basa sul criterio di attualità riferita a quel preciso momento in cui il soggetto viene valutato e quindi non ha valore previsionale inteso in senso longitudinale. Fornari, indica che l’esperto chiamato ad indicare la presenza e la persistenza della sociale pericolosità psichiatrica può avvalersi di alcuni indicatori, che l’Autore distingue in interni ed esterni (Fornari, 2005 pagg.139-143). Tra gli indicatori interni abbiamo: la presenza e persistenza (o meno) di quella florida sintomatologia psicotica alla luce della quale il reato ha assunto "valore di malattia"; il grado di consapevolezza di malattia (insight); il rifiuto o l’accettazione delle terapie prescritte (compliance terapeutica); la risposta a quelle praticate (adeguate sotto il profilo qualitativo e del range terapeutico); 11
la presenza o meno di segni di disorganizzazione cognitiva, impoverimento ideo- affettivo e psicomotorio che impediscano un compenso in tempi ragionevoli. Tra gli indicatori esterni, invece: le caratteristiche dell'ambiente familiare e sociale di appartenenza (accettazione, rifiuto, indifferenza); l’esistenza, la disponibilità di accoglienza e l’adeguatezza dei progetti terapeutici offerti dai servizi psichiatrici di zona; la possibilità o meno di (re)inserimento lavorativo o di soluzioni alternative; il tipo, il livello ed il grado di accettazione del rientro del soggetto nell’ambiente in cui viveva prima del fatto-reato; le opportunità alternative di sistemazione logistica. Il soggetto giudicato totalmente incapace di intendere e volere (art.88 c. p.: Vizio totale di mente) in caso di esclusione della pericolosità sociale al momento della valutazione peritale, per remissione dell’infermità sussistente all’epoca dei fatti, viene prosciolto e non subisce alcuna pena detentiva. La valutazione positiva in merito alla presenza di pericolosità sociale psichiatrica, comporta invece l’applicazione delle Misure di Sicurezza (art.215 c.p.)1: la pericolosità attenuata si traduce in un regime di libertà vigilata; la presenza di pericolosità in vizio parziale di mente si traduceva, fino alla L81 del 31/05/2014, nell’internamento in Casa di Cura e Custodia (una sezione distaccata dell’OPG), mentre la presenza di grave pericolosità sociale in vizio totale di mente, nell’internamento in OPG (attualmente nelle REMS=Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) che viene disposto al posto della reclusione in carcere (Fornari, 2005). 1 Le Misure di Sicurezza sono state introdotte nel nostro ordinamento penale con il Codice Rocco del 1930. Esse si distinguono in personali e patrimoniali. Le misure personali a loro volta si distinguono in detentive e non detentive. Le prime, al loro volta, distinguono se: i soggetti sono semi-imputabili (in C.C.C artt.219 e 221 c.p.) e non imputabili (in OPG art. 222 c.p.) o imputabili (assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro per i delinquenti abituali, professionali e per tendenza artt. 216-218 c.p.; ricovero in un riformatorio giudiziario per il minore di 18 anni imputabile o no, art. 98 c.p.). Le misure non detentive sono invece la libertà vigilata (art. 228 c.p.), il divieto di soggiorno in uno o più Comuni, o in una o più Province; il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcooliche; l’espulsione dello straniero dallo Stato. 12
Le categorie giuridiche che prevedevano l’internamento in OPG erano essenzialmente le seguenti: internati prosciolti per infermità mentale (art. 89 e segg. c.p.) sottoposti in OPG in quanto valutati socialmente pericolosi (art. 222 c.p.) sulla base di perizia psichiatrica, internati con infermità mentale sopravvenuta durante la pena detentiva per i quali sia stato ordinato l’internamento in OPG o in casa di cura e custodia (CCC) (art. 212 c.p.) per il tempo necessario alla cura con successivo rientro in carcere; internati provvisori imputati, in qualsiasi grado di giudizio, sottoposti alla misura di sicurezza provvisoria in ospedale psichiatrico giudiziario, in considerazione della presunta pericolosità sociale ed in attesa di un giudizio definitivo (art. 206 c.p., art. 312 c.p.p.), internati con vizio parziale di mente, dichiarati socialmente pericolosi ed assegnati alla casa di cura e custodia, eventualmente in aggiunta alla pena detentiva ridotta di un terzo, previo accertamento della pericolosità sociale (art.219 c.p.) che vengono trasferiti dal carcere all’OPG; detenuti minorati psichici (art. 111 D.P.R. 230/2000, Nuovo regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario); soggetti condannati in cui l’infermità psichica sia sopravvenuta prima o durante l’esecuzione della pena detentiva (art. 148 c.p.). In questo caso il giudice può disporre anche il ricovero in ospedale psichiatrico civile se la pena inflitta è inferiore a tre anni e se non si tratta di delinquente abituale, professionale o per tendenza. E’ comunque un provvedimento soggetto a revoca quando vengono meno le condizioni che l’hanno determinato. Decorso il periodo minimo di durata, stabilito dalla legge per ogni misura di sicurezza, il giudice può chiedere il riesame della persona che vi è sottoposta per stabilire se è ancora socialmente pericolosa. L’art. 207 c.p. comma 1 stabilisce che “le misure di sicurezza non possono essere revocate se le persone ad esse sottoposte non hanno cessato di essere socialmente pericolose”. Nel caso di soggetti prosciolti per infermità psichica l’art. 222 c.p. recitava: “Comma 1 – Nel caso di proscioglimento per infermità psichica, ovvero per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti, ovvero per sordomutismo, è sempre ordinato il ricovero dell’imputato in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario per un 13
tempo non inferiore a due anni; salvo che si tratti di contravvenzioni o di delitti colposi o di altri delitti per i quali la legge stabilisce la pena pecuniaria o la reclusione per un tempo non superiore nel massimo a due anni, nei quali casi la sentenza di proscioglimento è comunicata all’autorità di pubblica sicurezza”; “Comma 2 – La durata minima del ricovero nel ospedale psichiatrico giudiziario è di dieci anni, se per il fatto commesso la legge stabilisce (la pena di morte) o l’ergastolo, ovvero di cinque se per il fatto commesso la legge stabilisce la pena della reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a dieci anni”. Decorso il termine minimo di durata, il Giudice del Tribunale di Sorveglianza deve rivalutare la persistenza della pericolosità: laddove essa persista, la misura di sicurezza non può essere revocata per cui viene rinnovata e fissato un nuovo termine per un ulteriore riesame. Le disposizioni di questo articolo si applicano anche ai minori degli anni quattordici o maggiori dei quattordici e minori di diciotto, prosciolti per ragioni di età quando abbiano commesso un fatto previsto dalla legge come reato trovandosi in alcune condizioni previste nella prima parte di questo articolo”2. 1.3 La nuova normativa ed il definitivo superamento degli OPG Il principio del custodire e curare i malati di mente autori di reato in strutture distinte sia dal carcere che dal manicomio, nasce in Inghilterra nel 1863, con l’apertura del manicomio criminale di Broadmoor. In Italia, dopo la presentazione di un progetto di legge da parte di De Pretis, nel 1884, la sezione Maniaci del Manicomio di Aversa viene trasformata nel primo manicomio criminale italiano, seguita dall’apertura degli istituti di Montelupo Fiorentino e Reggio Emilia e, nel secolo successivo, dalla nascita degli altri istituti tutt’ora operanti sul territorio nazionale ,Castiglione delle Stiviere, Napoli e Barcellona Pozzo di Gotto. Con il codice Rocco del 1930 vengono introdotti nel sistema legislativo italiano gli istituti giuridici del vizio di mente e della pericolosità sociale oltre all’istituto della misura di 2 Con sentenza 324/1998 la Corte Costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’articolo “nella parte in cui prevede l’applicazione anche ai minori della misura di sicurezza in ospedale psichiatrico giudiziario”. Infatti si tratta di una misura di sicurezza che non tiene conto delle particolari esigenze del minore affetto da vizio di mente e socialmente pericoloso, trattandosi di un soggetto per definizione debole con una personalità in formazione. 14
sicurezza del ricovero in OPG da applicare al soggetto reo con vizio di mente ritenuto pericoloso socialmente. Il Codice Rocco, darà quindi avvio al percorso di trasformazione che configurerà l’assetto strutturale e funzionale dei manicomi giudiziari. Introduce infatti il sistema del “doppio-binario”, così indicato in quanto fondato sul riconoscimento di una duplice sanzione che da un lato attesta la pena come punizione dell’atto illecito e dall’altro assegna le misure di sicurezza come prevenzione della pericolosità sociale. In sostanza definisce le misure di sicurezza da applicare ai non imputabili prosciolti e ritenuti socialmente pericolosi. Nei decenni successivi, una ulteriore trasformazione culturale si origina dalla percepita inconciliabilità posseduta dagli istituti manicomiali tra la prassi custodialistica ed il fine terapeutico (Basaglia, 1967). La questione verrà risolta per mezzo della Legge 180/1978, o “Legge Basaglia” relativa ad “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” nella quale è affermato il diritto del cittadino ad essere curato anche se malato di mente e viene superato il concetto di malato di mente come soggetto socialmente pericoloso. Tale legge riesce ad abolire i manicomi civili ma “trascura” quelli giudiziari: essi permangono dunque nella loro funzione di custodia a garanzia della difesa sociale, cui viene affiancato il compito di cura e trattamento che risponde al diritto di ogni soggetto condannato di usufruire di un trattamento terapeutico-riabilitativo finalizzato al suo reinserimento sociale. E’ con la sentenza 253/2003 la Corte Costituzionale che viene introdotta la misura di sicurezza non detentiva come alternativa all’OPG nei soggetti prosciolti per vizio di mente, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 222 c.p “nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure all’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale”. Nel motivare tale censura, la Corte ha sostenuto che “l’automatismo di una misura segregante e totale, come il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, imposta pur quando essa appaia in concreto e inadatta…viola esigenze essenziali di protezione dei diritti della persona nella specie, del diritto alla salute di cui all’art.32 della Costituzione”. Quindi scopo del ricovero in ospedale giudiziario diventa non più l’azione custodialistica quanto la cura dell’internato, per migliorare le sue condizioni psico-fisiche e renderne possibile il reintegro sociale con la possibilità di vivere una vita normale senza pericolo per sé stesso e per gli altri. 15
La sentenza 367/2004 della Corte Costituzionale introduce inoltre la misura di sicurezza non detentiva come alternativa all’OPG nell’applicazione di misure provvisorie durante la fase delle indagini preliminari, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art.206 c.p. al Comma 1 “nella parte in cui non consente al giudice di disporre, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una misura di sicurezza non detentiva, prevista dalla legge, idonea ad assicurare alla persona inferma di mente cure adeguate e a contenere la sua pericolosità sociale” . Il DPCM del 1 aprile 2008, recante le “Modalità ed i criteri per il trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di Sanità Penitenziaria”, è volto alla piena applicazione del principio atto a riconoscere ai detenuti adulti e minori ed agli internati, così come avviene per i liberi cittadini, il diritto di usufruire in pieno delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione previste nei livelli minimi assistenziali. Riguardo gli OPG e le Case di Cura e Custodia, le linee di indirizzo sono volte all’attivazione di un programma di trattamento specifico centrato sulla persona, da operarsi con interventi terapeutico-riabilitativi che, con il passaggio di competenza delle funzioni al Servizio Sanitario Nazionale, si modellino su una corretta armonizzazione fra le misure sanitarie e le esigenze di sicurezza. Con il DL del Ministero della Salute o “svuota carceri” n. 211 del 22/12/2011 recante “interventi urgenti per contrastare la tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri” convertito in legge n.9 del 17/02/2012, prende avvio il percorso che porterà alla definitiva chiusura degli OPG. Tale legge contiene “Disposizioni per il definitivo superamento degli OPG” e stabilisce che, a partire dal 31/03/2013 (comma 4.), le due misure di sicurezza detentive del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a case di cura e custodia, devono essere eseguite esclusivamente all’interno di strutture sanitarie, fermo restando che le persone che hanno cessato di essere socialmente pericolose devono essere dimesse e prese in carico sul territorio dai DSM. All’art.3 ter, definisce inoltre i criteri strutturali, tecnologici ed organizzativi delle strutture residenziali atte ad accogliere le persone cui sono applicate tali misure di sicurezza definite REMS, ovvero Residenze per l’Esecuzione di Misure di Sicurezza, con riferimento anche ai profili di sicurezza cui devono rispondere tali strutture. Tale legge prevede due tipologie di REMS: una di valutazione, dove si pone diagnosi e si imposta un adeguato 16
trattamento con l’obiettivo di ottenere una rapida stabilizzazione sintomatologica al fine di permettere il passaggio ad una struttura a minore attività assistenziale, ed una di mantenimento, avente finalità riabilitative e psicosociali. Ogni REMS dovrà avere massimo 20 posti letto. E’ prevista inoltre la realizzazione, su tutto il territorio nazionale, di un’articolazione di strutture residenziali a differente livello di intensità assistenziale. L’invio di un soggetto autore di reato, prosciolto per vizio di mente presso una REMS, dovrà quindi essere residuale e riservata a soggetti socialmente pericolosi (III livello), rispetto ad altri tipi di intervento quali l’invio ad una struttura di tipo residenziale (II Livello) o ad un percorso trattamentale esterno presso il Dipartimento di Salute Mentale competente (I livello di trattamento). Le REMS dovranno avere una gestione interna di tipo sanitario ed il responsabile di struttura dovrà interfacciarsi con l’Autorità Giudiziaria e con il Magistrato, cui rimane il potere decisionale e quindi la responsabilità rispetto a misure quali eventuali licenze, conversione della misura di sicurezza in libertà vigilata e dimissione dalla struttura, sulla base però di valutazioni operate dal sanitario. La gestione e la sorveglianza delle REMS dovrà inoltre comportare accordi fra USL e Questura, trattandosi di strutture per l’esecuzione di misure di sicurezza. La legge n.81 del 31/05/2014 reca “Disposizioni urgenti in materia di superamento degli OPG” (G.U. n.125 del 31/05/2014) e definisce le norme la chiusura improrogabile degli OPG al 31/03/2015 . All’art. 1 ter viene fatto obbligo ai Servizi di Salute Mentale di competenza territoriale, di documentare entro il 15/07/2014 al Ministero della Salute e all’Autorità Giudiziaria, i percorsi terapeutici individuali di dimissione di ogni persona ancora internata in OPG alla data del 01/06/14 motivando perché non è ancora stata dimessa. Per i pazienti per i quali è stata accertata la persistente pericolosità sociale, il programma documenta in modo puntuale le ragioni che sostengono l’eccezionalità e la transitorietà del prosieguo del ricovero in OPG. Viene infine attivato presso il Ministero della Salute un organismo di coordinamento per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari composto da rappresentanti del Ministero della Salute, del Ministero della Giustizia, delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano, al fine di esercitare funzioni di monitoraggio e di coordinamento delle iniziative assunte per garantire il completamento del processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. 17
I Dipartimenti di Salute Mentale e gli altri organi territorialmente competenti in concerto con la Magistratura, sono chiamati a definire un Progetto Terapeutico Riabilitativo Individualizzato (PTRI) ovvero trovare soluzioni alternative all’applicazione della misura di sicurezza detentiva o alla sua revoca con reinserimento del soggetto nel contesto sociale. La proroga della misura di sicurezza detentiva viene quindi disposta solo nei casi in cui, a fronte dell’attuazione di un adeguato programma terapeutico-riabilitativo, sia, stata constatata la persistenza della pericolosità sociale o la riacutizzazione di uno stato di scompenso psicopatologico. In quest’ottica anche il tempo per il riesame della pericolosità sociale viene ad essere ridotto e fissato a 5-7 mesi. 18
CAPITOLO SECONDO La pericolosità sociale: la valutazione del rischio di violenza 2.1 Aggressività e violenza Il rapporto tra patologia mentale e comportamento violento è da sempre stato oggetto delle riflessioni della comunità psichiatrica e del mondo giuridico, nel tentativo di risolvere il complesso percorso che vuole integrare la garanzia del mantenimento dell’ordine sociale e la tutela della sicurezza della collettività, con adeguati trattamenti sanitari per l’utenza psichiatrica violenta. All’inizio del secolo, il trattamento dei pazienti psichiatrici autori di reato aveva risentito dell’assunzione di un’equivalenza tra malattia mentale e pericolosità, che aveva comportato, almeno fino al 1978, l’internamento massiccio dei malati di mente in strutture manicomiali in nome della protezione e della sicurezza del reo e della società. In seguito, grazie al fiorire di filoni di ricerca volti a studiare la correlazione fra malattia mentale e comportamento violento, è stato dimostrato che non vi è correlazione diretta fra malattia mentale intesa in senso aspecifico e maggiore probabilità di compiere reati e che la tendenza a delinquere non è statisticamente superiore rispetto alla popolazione generale (Sanza M., 1999). Tuttavia, ancora oggi rimane centrale la questione della possibilità di prevedere e gestire il comportamento violento che rimanda all’interrogativo se la violenza sia un comportamento innato o acquisito. Al riguardo è importante fare in primo luogo, una distinzione tra i termini violenza ed aggressività. In entrambi i casi si tratta della disposizione a mettere in atto un comportamento lesivo verso altre persone, animali o cose, ma dall’aggressività viene generalmente esclusa l’intenzionalità, ovvero la consapevolezza dolosa dell’offesa arrecata, caratteristica invece della violenza. Tradizionalmente l’aggressività è un istinto innato finalizzato alla difesa della propria integrità, del proprio gruppo o del proprio territorio, o alla conquista, per affermare la propria supremazia all’interno di un gruppo; la violenza viceversa non mostra di avere le stesse motivazioni ed ha come caratteristiche di essere improvvisa, esplosiva, sproporzionata nelle 19
sue manifestazioni. In altre parole: mentre l’aggressività si spiega con la necessità biologica della sopravvivenza, su una ravvisata minaccia (reale o presunta) attraverso la valutazione del contesto ambientale, manifestandosi quindi come un comportamento in un qualche modo “adattivo”, la violenza, che comunque è una reazione non commisurata all’evento minaccioso, interferisce negativamente con la vita sociale, personale, affettiva del soggetto determinando disadattamento e isolamento. Scientificamente, la mancanza di una definizione unitaria di aggressività deriva dal fatto di avere considerato l’aggressività, di volta in volta, un istinto, un comportamento, un’emozione. Se si considera l’aggressività, in senso generico, come un comportamento attivo volto al soddisfacimento dei propri bisogni e dei propri interessi attraverso le interazioni con altri, ed anche ad eventuale discapito dei bisogni e degli interessi altrui, solo in parte il suo significato coincide con quello di violenza, che per sua parte, richiama un carattere specificatamente ostile. Infatti, sinonimi di questa accezione di aggressività divengono “determinazione”, “risolutezza”, “tenacia”, “intraprendenza”, perché l’aggressività è un impeto, una spinta volitiva all’autorealizzazione ed al raggiungimento di un obiettivo. Non è però detto che il raggiungimento dell’obiettivo desiderato, divenga espressione di prepotenza, prevaricazione e brutalità verso l’altro, ovvero divenga un atto violento. D’altro canto, poiché la violenza non ha espressione solo in senso fisico, ma richiama anche la coercizione morale o psicologica, o l’uso di interazioni verbali particolarmente spiacevoli, ha senso dire che il movente intimo sia di natura aggressiva. Dunque in sostanza: la violenza richiama l’aggressività, ma non sempre è vero il contrario. Peraltro l’aggressività più che essere un elemento nucleare di una determinata patologia psichica, risulta essere un fattore sintomatologico e comportamentale caratterizzante differenti quadri clinici ed ha quindi caratteristiche multi-dimensionali, così come la violenza, essendo un fattore multi-determinato, non è inquadrabile in nessuna definizione categoriale netta Per questo motivo gli studi sulle cause dei comportamenti aggressivo-violenti sono divenuti centrali rispetto all’importanza di dare ai termini di aggressività e violenza una definizione univoca. Nell’ambito della nosografia psichiatrica secondo il DSM IV-TR, sulla base di studi di letteratura riguardanti la correlazione fra malattia mentale e violenza sono stati identificati (Biondi, 2005): 20
I Disturbi Psicotici e la Schizofrenia, dove in situazione di acuzie sintomatologica, il comportamento violento è generalmente presente in qualità di reazione “difensiva” in un momento di estrema paura ed angoscia derivante da situazioni che il soggetto interpreta, in modo inadeguato ed esagerato, come minacciose. Tali reazioni, brevi ed intense, si considerano come una caratteristica temperamentale o di personalità del soggetto che nella fase acuta della malattia non riesce più a controllare. Tra gli schizofrenici, è generalmente nel sottotipo della Schizofrenia Paranoide che si individuano i soggetti maggiormente inclini ad acting-out di natura violenta, in virtù del sistema delirante che domina il loro assetto cognitivo. Vale la pena tuttavia di specificare che, per quanto siano molto frequenti i comportamenti aggressivo-violenti nei soggetti affetti da disturbo psicotico, è stato evidenziato che il loro rischio venga incrementato dalla comorbidità con l’uso di sostanze o con la presenza di tratti o Disturbi di Personalità in particolare Borderline, Antisociale o Narcisistico (Biondi, 2005); i Disturbi dell’Umore, Unipolari e Bipolari, nei quali possono essere presenti rabbia, aggressività e distruttività, sia nella fase maniacale del Disturbo Bipolare che nella fase depressiva del Disturbo Bipolare e Unipolare (Overall & Hollister, 1980; Fava et al., 1991; Posternak & Zimmerman, 2002; Pasquini et al., 2004). Infatti anche nell’Episodio Depressivo Maggiore, la sofferenza depressiva si manifesta in tre dimensioni: la prima, quella della “tristezza/apatia”, caratterizzata da manifestazioni comportamentali quali il pianto, il ritiro e la chiusura emotiva; la seconda, quella dell’ “ansia psichica e somatica”, cui corrispondono le manifestazioni somatiche della sofferenza depressiva, ovvero la perdita o l’aumento del peso corporeo, l’insonnia o l’ipersonnia, e l’affaticabilità; la terza, quella appunto della “rabbia/aggressività”, caratterizzata da vissuti e manifestazioni di irritabilità e frequenti scatti d’ira, fino al rischio della messa in atto di condotte autolesive e suicidarie (Biondi, 2005); i Distubi D’Ansia, categoria eterogenea che include gruppi diagnostici con differenti matrici psicopatologiche e differenti fenomenologie. L’aggressività, considerata come un sintomo/dimensione, è stata riscontrata in pazienti affetti da: Disturbo Post- Traumatico da Stress, Disturbo d’Ansia Generalizzato, Fobia Sociale e Fobia specifica (Posternak & Zimmerman, 2002); Disturbo di Panico (Korn et al., 1992; Fava et al., 1991); Disturbo Ossessivo-Compulsivo (Millar, 1983; Pasquini et al., 2003); 21
i Disturbi del Comportamento Alimentare, nei quali sono presenti manifestazioni di auto-aggressività non solo in pazienti affetti dalle forme psicopatologiche classiche (Anoressia e Bulimia), ma soprattutto nella comorbidità con il Binge Eating Disorder (Fassino et al., 2003); i Disturbi di Personalità, nei quali sospettosità, rabbia, rancore e negativismo sono presenti nel Disturbo Paranoide; arroganza, impulsività, aggressività e sfruttamento interpersonale nel Disturbo Narcisistico, nel Disturbo Antisociale e nel Disturbo Borderline (Buss & Durkee, 1957; Henry et al., 2001). In relazione alle riflessioni riguardo la possibilità di considerare un atto aggressivo come il risultato di un processo univoco o piuttosto come il risultato di un processo complesso, l’attenzione si è rivolta alla necessità di gestire gli episodi di crisi nel breve periodo e di prevederli e prevenirli nel lungo periodo. Le riflessioni sulle modalità con le quali un comportamento aggressivo-violento ha origine e si manifesta, propendono oggi nel considerare alla base di qualunque comportamento di questo tipo, un’attivazione psicofisiologica detta arousal, che ha luogo come reazione alla percezione di una minaccia e si esprime con modificazioni di natura somatica e psicologico-cognitiva. Nell’espressione dell’aggressività è stata dunque riconosciuta l’esistenza di un progressivo processo di desensibilizzazione (escalation) scandito dalle seguenti fasi: 1. fase del fattore scatenante: un’iniziale modifica del baseline psico-emotivo ordinario, che si esprime con comportamenti verbali ed espressivi (mimici e comportamentali) tipici e segna l’avvio del processo di attivazione; 2. fase dell’escalation: caratterizzata da un ulteriore aumento dello stato di agitazione psicomotoria. Nel caso di pazienti psichiatrici, è in questa fase che si individua l’efficacia degli interventi operativi, che devono essere tempestivi. In questa fase fondamentale è il cosiddetto talk down, un approccio verbale di negoziazione che mira al positivo riconoscimento del contenuto emotivo della crisi personale del soggetto, deviandone però l’esito comportamentale. Consiste in alcuni suggerimenti verbali (usare frasi brevi e dal contenuto chiaro; non polemizzare; ridurre la tensione dichiarandosi in accordo con quanto sostenuto dal paziente), prosodici (adottare un tono di voce caldo e rassicurante) e comportamentali (non invadere lo spazio del paziente e mantenere una distanza utile) per gestire le crisi aggressive (Maier & Van 22
Rybroek, 1995 in Eichelman & Hartwig, 1995). Inoltre è opportuno l’allontanamento del soggetto dal contesto, se fattori ambientali hanno originato il disagio; 3. fase critica: è la massima fase dell’eccitamento. L’attenzione deve essere posta alla tutela della sicurezza ed alla previsione delle conseguenze dell’imminente comportamento aggressivo; 4. fase del recupero: è l’inizio del percorso di ritorno al baseline iniziale, ma con ancora il rischio di recettività a nuovi fattori di disturbo. In questa fase, l’aiuto al paziente è volto alla progressiva rielaborazione dell’episodio, senza forzare con interventi precoci che potrebbero far riemergere la crisi; 5. fase della depressione post critica: la fase finale, nella quale compaiono nel paziente sentimenti negativi di colpa, vergogna e rimorso per quanto agito. È qui che trovano luogo anche percorsi di rielaborazione dell’accaduto che contemplino la comprensione razionale delle cause che l’hanno originato. In merito alla previsione e prevenzione del comportamento aggressivo in pazienti psichiatrici, la disciplina psichiatrica di inizio secolo, in linea con le opinioni della dottrina giuridica e con il pensare comune della collettività, nell’asserire l’esistenza di una naturale, costituzionale ed imprevedibile pericolosità sociale dei soggetti affetti da patologia mentale, per quanto poco unitarie fossero le legislazioni dell’Italia non ancora unificata, riteneva necessaria la “cura” coercitiva del malato di mente, che doveva essere separato dalla comunità civile per garantire il benessere e la sicurezza di quest’ultima. Prima della promulgazione ed applicazione delle Legge. 180/1978, infatti, il ricovero coatto a tempo indeterminato nei manicomi si basava sull’esistenza di un giudizio di pericolosità che fondava le scelte cliniche sullo stereotipo concettuale che ogni malato mentale poteva essere potenzialmente pericoloso . A supporto di tale pregiudizio erano le teorie costituzionaliste ed alcuni studi epidemiologici che attestavano la stretta connessione tra patologia mentale e violenza. Tra questi, è nota la cosiddetta “Legge Penrose”, dal nome dello studioso che, prima della seconda guerra mondiale, in alcuni stati europei attestò, per mezzo delle sue ricerche, un inverso rapporto di proporzionalità tra le immissioni di pazienti negli ospedali psichiatrici ed alcuni parametri socio-anagrafici: il tasso di mortalità generale, il tasso di natalità, il tasso di omicidi o altri fenomeni criminosi. Penrose aveva osservato cioè che, aumentando il numero 23
di pazienti ammessi negli ospedali psichiatrici, era stata rilevata una diminuzione della mortalità nella popolazione generale ed una diminuzione della criminalità. Anche altri studi epidemiologici, condotti sulla falsa riga di quello di Penrose (Gunn et al., 1973; Taylor, 1984), fondarono le loro analisi sulla prevalenza dei disturbi psichiatrici tra i detenuti e sull’incidenza dei reati nella popolazione degli ospedali psichiatrici. Questi studi contribuirono ad una patologizzazione della criminalità e ad una criminalizzazione della patologia, che ancora oggi in alcuni ambienti stenta ad essere superata. Oggi però sappiamo che la metodologia usata per tali studi risentiva dell’effetto della scelta del campione, preselezionato proprio tra i detenuti degli istituti di pena o degli ospedali psichiatrici, insieme ad un deficitario approfondimento clinico dei soggetti esaminati, che in una generica associazione tra violenza e patologia, non indagava la specificità dei quadri psicopatologici dai quali erano affetti. Successivamente, il movimento culturale di difesa civile dei malati mentali suscitò un nuovo interesse scientifico attorno al tema. Studi di follow-up (Russo, 1994) dimostrarono l’inattendibilità delle previsioni a lungo termine della pericolosità sociale sulla base dei tassi di recidiva di pazienti dimessi dagli ospedali psichiatrici, che risultavano sovrapponibili a quelli della popolazione generale. Allo stesso modo, studi retrospettivi (Hafner & Boker, 1973) sulla correlazione fra alcune categorie di reato e le diagnosi degli autori del reato, non dimostrarono differenze significative al confronto con la popolazione generale: questi studi dimostrarono una maggiore incidenza di criminalità violenta per diagnosi specifiche quali la schizofrenia ed i disturbi dello spettro affettivo, ma sottolinearono anche come alcuni fattori di personalità, familiari e sociali, correlati con il disturbo psichiatrico, incidessero maggiormente sulla predisposizione al crimine. In sostanza, anche questo secondo filone di studi ebbe origine dal confronto tra l’incidenza dei reati nella popolazione psichiatrica e l’incidenza dei reati nella popolazione generale, ma giunse a conclusioni differenti rispetto ai primi studi descritti. Attestò infatti la mancanza di un nesso di causalità tra patologia e comportamento violento e criminale, ed evidenziò che gli stessi fattori generici che incidono sul comportamento criminale per la popolazione generale e cioè, genere sessuale maschile, giovane età, uso precoce ed abituale di sostanze stupefacenti e/o alcol, stato socio-familiare disagiato, valgono anche per la popolazione psichiatrica. 24
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