Gli anni più belli - Il film

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Gli anni più belli - Il film
Gli anni più belli - Il film

   “È il film più grande che abbia mai realizzato perché i personaggi sono la
   microstoria nella cornice della grande storia. Sullo sfondo della storia che
 racconto c’è l’Italia che cambia, dalla fine degli anni di piombo alla caduta del
   Muro di Berlino, dalla stagione di Mani pulite all’11 settembre. Racconterò
    anche l’ascesa del Movimento 5 stelle. Non sarà un viaggio nostalgico, o
  pessimista: tutti i personaggi, con le loro difficoltà, sono spinti dall’idea che
                         domani sarà un giorno migliore”.

                                                                                 Gabriele Muccino
Che male c’è a rifare un film, sia anche questo una delle pietre miliari del cinema italiano e
mondiale? Nulla, perché le ispirazioni possono diventare imitazioni, le riproposte non mancanze di
idee nuove, ma voglia di raccontare il proprio presente. Il regista de Gli anni più belli, Muccino si
rifà a modelli accreditati e storicizzati, che hanno dettato, ai loro tempi, evasione, esempio e anche
qualità. È vero che i tre protagonisti, Giulio (Favino), Paolo (Rossi Stuart) e Riccardo (Santamaria) li
abbiamo già visti e rivisti e certo ricordano i loro omologhi Gianni (Gassman) Antonio (Manfredi) e
Nicola (Satta Flores) di C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Ed è vero che la Gemma che fa
Micaela Ramazzotti assomiglia alla Luciana di Stefania Sandrelli di quel film. Ma cosa c’è di male? E
potremmo ancora aggiungere che Muccino rifà la scena della fontana di Trevi. Non è lesa maestà
come qualcuno ha erroneamente annunciato, ma piuttosto un richiamo di estetica e di sentimento
nostalgico e gradevole, ma soprattutto un omaggio pieno d’amore verso i grandi autori della
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commedia all’italiana.

Potremmo chiuderla dicendo che Muccino ci ha fatto ricordare Scola, così come Sorrentino, per certi
versi, ci ricorda Fellini. E ancora, che questo quartetto di incredibile bravura, non ci fa rimpiangere i
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Gassman, i Manfredi, i Satta Flores e la Sandrelli, ma rappresentano la naturale evoluzione delle
loro storie. Già perché se il film di Scola, racconta attraverso la storia di tre amici ed una ragazza
oggetto dei desideri di tutti e tre, trent’anni di Italia, dalla Liberazione alla metà degli anni ’70; il
remake di Muccino dai primi anni ’80 arriva ai giorni nostri, seguendo esattamente il filo logico del
film del maestro Scola. E così il film di Muccino si erge, in maniera impeccabile come il commovente
e amaro ritratto di una generazione, che “credeva di cambiare il mondo, e invece è il mondo che l’ha
cambiata”, come profetizzava Manfredi nell’originale.

https://youtu.be/X5KHk6SGOEU

Andando più nel concreto, il film è sorretto dal quartetto di protagonisti, con la splendida aggiunta e
scoperta di una Emma Marrone attrice di livello. Dopo l’entrata in scena di Pierfrancesco Favino,
Kim Rossi Stuart e Claudio Santamaria, il film comincia a prendere quota e a trovare un’identità che
si smarca gradualmente dai cliché, rivelando un’onestà artistica credibile. Il merito è certamente
degli attori, che trovano la loro misura anche all’interno dello stile dominante, ma anche di una regia
attenta. È proprio il ritratto di chi oggi è arrivato ai cinquant’anni il punto di forza e il cavallo di
Troia che si insinua nella coscienza degli spettatori, de Gli anni più belli: un ritratto che finora
nessuno, negli anni 2000, aveva portato al cinema con altrettanta compiutezza, mettendo a fuoco
una generazione sfocata, travolta da una “metamorfosi socioculturale”, umiliata dal precariato e
schiacciata dai padri.

In questo senso il modello di riferimento dichiarato del film, C’eravamo tanto amati, fa da efficace
pietra di paragone, perché i protagonisti di Gli anni più belli, smarriti e spaesati, sono l’ombra di
quelli del capolavoro di Ettore Scola, ed è giusto così, perché non possono avere lo spessore e la
definizione di chi ha vissuto un’Italia molto diversa dalla nostra, ma ugualmente come gli originali,
diventano lo specchio della società italiana, rivisitata e trasportata agli anni 2000.

Muccino fa leva drammaturgica su questo scarto epocale raccontandoci tre identità maschili
depotenziate e destrutturate, come lo sono molti neocinquantenni di oggi. E alla fine ci si commuove
profondamente, si riflette su dove siamo e perché, e su quali siano “le cose belle” cui restare
incollati quando il mondo intorno ci tradisce. Muccino racconta molto bene quanto sia facile
sbagliare nella vita (soprattutto se è “una vita difficile”) senza valutare le conseguenze di errori cui
sarà arduo porre riparo, ma è ancora possibile rammendare la propria vita e trovare una
consolazione finale, una rappacificazione con noi stessi e il nostro bilancio esistenziale.

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