RO FAME di LAVO Storie di gastronomie operaie - Consiglio regionale del Piemonte

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RO FAME di LAVO Storie di gastronomie operaie - Consiglio regionale del Piemonte
FAME di LAVORO
   Storie di gastronomie operaie
      a cura di Gianpaolo Fassino, Davide Porporato

                                                                     Associazione Culturale
           Associazione Culturale                                    per la diffusione delle cultura scientifica e artistica
           per la diffusione delle cultura scientifica e artistica
RO FAME di LAVO Storie di gastronomie operaie - Consiglio regionale del Piemonte
presentazioni
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     3

                                                                                                                                                                                         Mauro Laus                                                         L’accostamento dei termini fame e lavoro, che costi-
                                                                                                                                                                                         Presidente del Consiglio regionale del Piemonte                tuiscono il titolo della mostra, sottolinea un’originale,
                                                                                                                                                                                                                                                        ampia e intensa attenzione al rapporto con il cibo, che
                                                                                                                                                                                          Il cibo ha sempre avuto, in passato come ancora oggi,         riconquista una sua centralità nella vita delle persone,
                                                                                                                                                                                      una funzione non solo di nutrimento. Tutti gli aspetti            tema quanto mai di attualità ed esemplificativo del pe-
                                                                                                                                                                                      che riguardano questo importante componente della                 riodo di crisi che stiamo vivendo. Le belle immagini, che
                                                                                                                                                                                      vita umana hanno assunto nel tempo numerosi signifi-              costituiscono la mostra, dei lavoratori colti nel momen-
                                                                                                                                                                                      cati religiosi, politici, economici e, soprattutto, sociali. In   to della “pausa pranzo”, riportano con forza al tema del
                                                                                                                                                                                      virtù di ciò, anche il modo di alimentarsi è stato sempre         diritto al cibo e al lavoro, come elemento centrale da
                                                                                                                                                                                      legato alla società. Una corretta nutrizione continua ad          cui è necessario partire: rimuovere “lo scandalo della
                                                          Gruppo di ricerca                                        Grafiche mostra
                                                                                                                                                                                      essere esclusivo retaggio di gruppi sociali più abbienti,         fame” che ancora oggi affligge un’ampia porzione della
                                                          Alba Zanini - Associazione Culturale Kòres;              Elena Schisa                                                       mentre la maggior parte della popolazione mondiale                popolazione del pianeta. Promuovere una prospettiva
                                                          Piercarlo Grimaldi, Gianpaolo Fassino, Michele F.        Progetto di allestimento
                                                                                                                   Interactive Sound
                                                                                                                                                                                      mangia più per sfamarsi che per nutrirsi.                         che restituisca dignità a tutta l’umanità, in equilibrio con
                                                          Fontefrancesco, Luca Ghiardo, Luca Percivalle, Dario
Presidente                                                Leone - Laboratorio Granai della Memoria, Università     Impaginazione e stampa catalogo                                        Nel nostro paese, dopo la seconda Guerra Mondia-              i limiti del pianeta e nel rispetto del diritto alla vita del-
Mauro Laus                                                degli Studi di Scienze Gastronomiche;
                                                                                                                   Gallo Arti grafiche - Vercelli
                                                                                                                                                                                      le, molte famiglie dovettero lasciare le campagne per             le generazioni che seguiranno, è l’impegno cui siamo
                                                                                                                   Con il contributo di                                                                                                                 chiamati.
Vice Presidenti                                           Davide Porporato - Università degli Studi del Piemon-
                                                                                                                   Fondazione CRT                                                     andare a lavorare nelle città industriali come operai,
Nino Boeti, Daniela Ruffino                               te Orientale.
                                                                                                                   Ringraziamenti                                                     abbandonando perciò le innumerevoli tradizioni e abi-                 La complessità delle cause ci sollecita ad affrontare
Consiglieri segretari                                     Fotografie
Alessandro Benvenuto, Gabriele Molinari,                  Archivio e Centro Storico Fiat; Archivio fotografico
                                                                                                                   Per le attività di ricerca: Associazione Docbi, Centro Studi       tudini della vita contadina. Le lunghe soste dedicate al          la tematica del diritto al cibo in una prospettiva più am-
                                                                                                                   Biellesi; CISL Torino; Fondazione Vera Nocentini; Fonda-
Angela Motta                                              Istituto Gramsci Torino; Fondazione Sella Onlus, Biel-   zione Sella onlus Biella; SPI CGIL Orbassano; Giuseppe             pasto nel tempo del lavoro nei campi, ritmato dalle sta-          pia, attraverso i diversi elementi che la legano ai temi
Direzione Comunicazione Istituzionale                     la; Marcello Marengo; Mauro Raffini; Mauro Vallinotto.   Baffert; Cesare Cosentino; Marcella Filippa; Enzo Garrone.
                                                                                                                   Per le interviste: Adolfo Audenino, Annamaria Avonto,
                                                                                                                                                                                      gioni, scompaiono per adattarsi ai ritmi frenetici dell’in-       dell’occupazione, della buona finanza e della costruzio-
Direttore - Domenico Tomatis                              Testi                                                    Giuseppe Caristia, Mario Cerrato, Angela Frustagli, Mario          dustria: i pasti in fabbrica vengono consumati in fretta, a       ne di un mondo di pace.
Settore Informazione, Relazioni Esterne e                 Piercarlo Grimaldi, Gianpaolo Fassino, Michele F.        Gheddo, Roberto Greco, Salvatore Lodato, Bruno Pesce,
Cerimoniale                                                                                                        Nicola Pondrano, Clelia Valfrè, Gianfranco Zabaldano, Elio         volte freddi o in condizioni di fortuna, nell’unica sosta di
                                                          Fontefrancesco, Luca Ghiardo - Università degli Studi
Dirigente - Mario Ancilli; Patrizia Bottardi,             di Scienze Gastronomiche.
                                                                                                                   Zanoni.                                                            mezz’ora, “la pausa pranzo”.
                                                                                                                   Per gli oggetti in mostra: Mauro Schellino, Osteria del Peso
Marina Buso, Federica Calosso                             Davide Porporato, Matteo Varia - Università degli Stu-   - Belvedere Langhe (CN).                                               Questo è il tema di questa interessantissima mostra,
                                                          di del Piemonte Orientale                                Per il contributo all’allestimento: Ri-ciclistica Settimese
Mostra a cura dell’Università degli Studi di Scienze                                                               Foto di copertina: Operai nella mensa aziendale Fiat; tratta dal
                                                                                                                                                                                      “Fame di lavoro. Storie di gastronomie operaie”, ideata
                                                          Interviste
Gastronomiche e dell’Associazione Culturale Kòres
                                                          Davide Porporato, Luca Ghiardo, Luca Percivalle
                                                                                                                   documentario di Cinefiat: “Quel primo giorno in fabbrica”,         e realizzata dall’Università di Scienze Gastronomiche di
                                                                                                                   1972, Archivio e Centro Storico Fiat.
                                                          Coordinamento                                            La pubblicazione delle fotografie è stata autorizzata dagli or-
                                                                                                                                                                                      Pollenzo insieme all’Associazione Culturale Kòres, che
                                                          Anna Ghiberti – Associazione Culturale Kòres             ganismi competenti.                                                vuole approfondire ulteriormente il tema del cibo e del
                                                                                                                                                                                      lavoro, con testimonianze raccolte tra quelli che hanno
Associazione Culturale
                                                          Catalogo (a cura di)
per la diffusione delle cultura scientifica e artistica

                                                                                                                   © Consiglio regionale del Piemonte, Torino, 2016
Torino, Palazzo Lascaris, 26 maggio - 22 luglio 2016      Gianpaolo Fassino, Davide Porporato                      ISBN 978-88-96074-81-7                                             vissuto la realtà della fabbrica.
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presentazioni
                                                                                                                                   5

   Carlo Petrini                                                        Alba Zanini
   Presidente dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche      Presidente Associazione Culturale Kòres

    La fame di lavoro da sempre perseguita l’uomo. Una                   La mostra “Fame di Lavoro. Storie di gastronomie
fame che, nel caso della nostra mostra, si placa portan-             operaie” vuole raccontare una storia inedita e poco co-
do in fabbrica il cibo che la donna ha sapientemente                 nosciuta, quella del cibo in fabbrica. È una mostra un
preparato e stivato in un contenitore metallico, il bara-            po’ controcorrente, perché oggi parlare di cibo significa
chin, emblema, tratto distintivo di un mondo operaio                 parlare di chef stellati, di prodotti di eccellenza, di ri-
che, nelle attese utopiche della mia generazione, do-                storanti famosi, quasi che il cibo fosse un bene di lusso,
veva diventare classe dirigente. Tanta acqua è passata               uno status symbol.
sotto i ponti e quel proletario senza rivoluzione, oggi,                 In realtà le modalità di produzione, di distribuzione e
indossa nuovi abiti che sanno di fresco e di pulito, ma              di preparazione del cibo sono espressione di civiltà, nel
che celano piuttosto un sottoproletariato che non pen-               senso più ampio del termine: nel cibo è riassunta l’es-
sa più all’occupazione garantita come un diritto d’uma-              senza di un’intera società, l’economia, i rapporti sociali,
nità, ma vive alla giornata la speranza di sopravvivere sul          le scelte politiche, la democrazia, le regole di conviven-
posto di lavoro per qualche giro di stagione.                        za civile. È quindi importante soffermarsi per una volta
    Nuovi contenitori del pranzo al lavoro continuano a              su un cibo “povero”, il cibo dell’operaio, testimonianza
servire un mondo meno certo di futuro. Un mondo che                  del lavoro in fabbrica e dell’evoluzione e dei cambia-
è anche parte integrante di una più vasta storia della               menti di quella “classe operaia” che oggi sembra avere
gastronomia italiana.                                                perso voce e identità.
    La mostra costituisce, dunque, un indispensabile tas-                Torino, la “città delle fabbriche”, è stata per tutto il
sello per meglio comprendere la creatività gastronomi-               Novecento laboratorio e motore di trasformazioni so-
ca che ogni giorno viene messa in atto per cercare nel               ciali ed economiche e luogo di formazione di una co-
cibo che ci nutre ragioni anche per ri-affrontare, a muso            scienza collettiva che lungo tutto il secolo ha determi-
duro, una società che non vuole più bene a chi lavora:               nato i rapporti e gli equilibri tra lavoratori e industria. È a
scampolo di un famelico sistema finanziario che domina               Torino, infatti, che già a fine Ottocento nasce l’industria
gli orizzonti del pianeta e che non ha più l’esigenza di             manifatturiera, che vede negli anni successivi un rapido
portarsi in fabbrica il nostro cibo quotidiano.                      sviluppo soprattutto nei campi della metallurgia, della
                                                                     meccanica, della chimica, legati alle fabbriche di auto-
                                                                     mobili, aerei, moto e biciclette, fino ad arrivare, negli
                                                                     anni Sessanta del secolo scorso, ad una trasformazione
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saggi
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radicale del tessuto economico e sociale della città, in
seguito alla grande immigrazione dal Sud Italia.
    Gli operai del Sud hanno portato con sé nostalgie e
tradizioni, anche culinarie: nel barachin erano contenuti
i ricordi e il gusto rassicurante del cibo di casa, che aiu-
tava a sopportare la fatica, l’estraniamento e a dare spe-
ranza nel futuro. Tutto questo è rappresentato con im-
mediatezza nei visi che compaiono nelle foto, uomini e                                                                                      Piercarlo Grimaldi                                             campagna e città, di un nuovo mondo costituito da me-
donne colti nella “pausa pranzo” davanti ai contenitori                                                                                                                                                    talmezzadri, che dialogano creativamente e danno vita
                                                                                                                                         Il cibo operaio: un progetto gastronomico                         ad un cognitivo sapere che fonda il suo modo di affron-
metallici e alle bottiglie di vino, visi di persone semplici,
segnati dalla fatica dopo ore di lavoro, mentre mangia-                                                                                      Scopo della mostra “Fame di lavoro. Storie di gastro-         tare i cambiamenti e il confronto, anche di classe, con
no quello che si sono portati da casa, visi di persone che                                                                               nomie operaie” è di riportare alla luce le forme e le pra-        la parodia. Questa interessante e particolare narrativa
lottano e credono in una vita migliore.                                                                                                  tiche di un sapere gastronomico che attiene ad un tor-            forma espressiva, che ritroviamo nella pratica solidale
    Dal barachin si passa successivamente al cibo prepa-                                                                                 nante importante della recente storia del mondo operaio           e collettiva del vivere la vita di fabbrica, è riconoscibile
rato dalla mensa aziendale, luogo che rappresenta non                                                                                    e della vita di fabbrica. Nell’appena passato Novecento,          anche nel progetto gastronomico che la donna di casa
solo una conquista per una maggiore dignità e como-                                                                                      segnato dal trascorrere dalle campagne alla fabbrica,             interpreta per l’uomo che fatica in fabbrica.
dità nel consumare il pasto, ma anche uno spazio pre-           Barachin a due scomparti in acciaio. Il recipiente più piccolo, posto    una vera e propria diaspora contadina ha determinato                  Nella gavetta trovano posto il crudo e il cotto, il sala-
                                                                nella parte superiore del barachin, di solito conteneva la secon-
zioso di condivisione e di socializzazione. È “alla mensa       da portata. La parte più capiente del barachin, di norma immersa         profondi mutamenti anche nelle culture del cibo.                  to e il dolce, il fresco e il conservato, il caldo e il freddo,
per gli stranieri di una fabbrica molto lontana” che Pri-       nell’acqua degli scaldavivande, era destinata a custodire il primo           I tempi e gli spazi che definivano il mangiare quoti-         in un elaborato ed ordinato gioco sistemico e armonico
mo Levi incontra Faussone, protagonista de La chiave            piatto: la minestra o la pastasciutta. La gavetta era spesso contras-    diano, costitutivi di riproduttivi ritmi di vita lenti e affet-   di sapori, alla ricerca di una pratica nutritiva e di salute
a stella ed è alla mensa di una fabbrica che Faussone           segnata da medagliette, fili colorati, incisioni e altri segni che po-   tivi, condivisi nell’ambito della famiglia estesa, vengono        inconsapevolmente buona, pulita e giusta, una già avver-
incontra una ragazza con cui inizia una storia “[...] e ho      tessero renderla riconoscibile in mezzo a selve di altri manufatti del                                                                     tita coscienza del cibo allora ancora da venire.
                                                                                                                                         drasticamente abbandonati per un ossimorico, solitario
                                                                tutto simili.
tastato la panca alla mia destra, e c’era la sua mano, e                                                                                 pasto collettivo, consumato sul posto di lavoro, in un non            Un rapsodico progetto parodico complessivo ben
io l’ho toccata con la mia, e la sua non se n’è andata e                                                                                 interrotto dialogo con la macchina, oggetto-soggetto,             compreso in questa formularità espressiva generata al
si lasciava carezzare come un gatto” (Levi, 1978, p. 43).                                                                                cogente al costituirsi di un’attesa nuova classe dirigente.       tempo delle gavette: il tempo del cibo consumato in fab-
    Le immagini e le interviste della mostra, che sono                                                                                       Per un lungo tempo il cibo che serve a riprodurre la          brica veniva popolarmente definito la passà di cuciar. Gli
state raccolte e inserite nei “Granai della Memoria”,                                                                                    forza-lavoro si porta da casa. La gavetta, la gamella, il         operai, mangiando, creavano un orizzonte sonoro dode-
vogliono essere un ricordo di un periodo non distan-                                                                                     barachin, che lo stesso operaio, oppure il padre, aveva           cafonico, risultato dello scontro ritmato, metallo contro
te da noi come intervallo temporale, ma molto diverso                                                                                    utilizzato per nutrirsi nelle due drammatiche guerre che          metallo, gavetta-cucchiaio. Questo ritmo rappresenta-
per coinvolgimento sociale e passione politica; voglio-                                                                                  hanno segnato il secolo breve, viene riciclato per nutri-         va il trapasso del mezzogiorno, una sonorità che, come
no anche suscitare una riflessione sull’oggi, sul tema                                                                                   re il tempo della fabbrica. Il barachin diventa, dunque,          quella delle non dimenticate campane di campagna, de-
dell’immigrazione dal Sud del mondo e della mesco-                                                                                       l’elemento identificativo dell’aristocrazia operaia, nella        finiva il tempo del pasto e in qualche modo di un cibo
lanza etnica di abitudini e saperi, un tema più che mai                                                                                  misura in cui questa figura rururbana riesce a introdurre         che veniva consumato integralmente, sino a decretarne
di attualità, che suscita aspettative e paure, che deve                                                                                  e a rifunzionalizzare, nella fabbrica, i saperi creativi propri   un metaforico trapasso.
essere affrontato con serietà e umanità, per trovare del-                                                                                dell’oralità contadina, appresi di generazione in genera-             Un trapasso che veniva accompagnato dal barbera,
le risposte condivise.                                                                                                                   zione attraverso il gesto e la parola.                            identitario vino operaio che, a quei tempi, era maschio e
                                                                                                                                             La cultura operaia è, dunque, il frutto dell’incontro tra     forte come lo era l’operaio che sudava la giornata e che,
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saggi
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oggi, si declina al femminile per riconoscergli gastrono-         provvedere ad un degno funerale che, peraltro, non si
mici toni nobili per flebili lavori e far dimenticare il di lui   nega a nessuno, magari al suono della passà di cuciar
trascorso proletario.                                             che scusava da trapasso.
    Trascorre il tempo e la fabbrica fordista, che espropria
sempre di più l’operaio delle sue evolutive, cognitive co-
noscenze popolari, parcellizza anche il cibo, introducen-
do una mensa sindacale priva di ogni gastronomica con-            Barachin e porta uova in alluminio. Sul coperchio della gavetta,
notazione affettiva e segnica. La produzione e la scelta          vicino all’anellino, ci sono segni di colla, probabilmente servita a       Davide Porporato                                              per cui lavoravo perché noi ci ritenevamo operai specia-
del cibo diventano una decisione estranea all’operaio, la         fissare un cordino al quale attaccare un segnale utile a distinguerlo                                                                    lizzati, una élite, e non ci ritenevamo assolutamente dei
                                                                  dagli altri contenitori.                                                Etnografia del barachin                                          barachin” (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016a).
divisione dei processi produttivi trascorre dal lavoro alla
mensa ed espropria le saggezze culinarie della donna di                                                                                       Il barachin è un contenitore pratico e resistente, una           Quando si giungeva in fabbrica, si mettevano i ba-
casa.                                                                                                                                     gavetta di metallo, utilizzato soprattutto per portarsi il       rachin uno accanto all’altro in vasche con pochi centi-
    Forme e pratiche di storiche e sotterranee resistenze                                                                                 cibo in fabbrica e mangiare. I primi erano d’alluminio ma        metri d’acqua. Prima della pausa per il pasto venivano
verso una mensa tanto attesa sono il seguito, non ancora                                                                                  capitava che per l’usura si bucassero e così l’acqua dello       riscaldati a bagnomaria, grazie a una resistenza elettrica
risolto oggi, di un progetto di alimentazione autonomo                                                                                    scaldavivande penetrava all’interno, nella pasta o nella         che portava l’acqua in temperatura. Se mancavano gli
e soggettivo preferito a “quell’aria stantia della mensa                                                                                  minestra. A partire dagli anni Cinquanta del Novecento           scaldavivande, gli operai utilizzavano creativamente le
aziendale” avvertita da Faussone, l’operaio montatore di                                                                                  si diffonde il barachin realizzato in acciaio inossidabile:      fonti di calore presenti in officina: termosifoni, piastre
Primo Levi che, con La chiave a stella (1978), dà vita ad                                                                                 è resistente agli urti e non arrugginisce. Lo si porta al        elettriche, potenti lampade, forni, saldatrici a cannello,
una creatività e originalità produttiva, il cibo di casa che,                                                                             lavoro, in una borsa di finta pelle scura, accompagnato          fuochi improvvisati diventavano altrettanti focolari per
trasportato in altri più moderni quanto incerti contenito-                                                                                da un pezzo di pane, talvolta un frutto, un fiaschetto di        scaldare il cibo (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016h).
ri, cambia forma, ma la sostanza rimane, dimentico però                                                                                   vino e con le posate avvolte in un tovagliolo.                   A volte, tutta la fabbrica era calda come un forno e non
della memoria della classe.                                                                                                                   I modelli più diffusi si compongono di due vaschette         c’era il problema di scaldare la gavetta. Clelia Valfrè
    Una gastronomia, dunque, che ancora oggi segna il                                                                                     a pianta ovale o rettangolare con gli angoli smussati:           ricorda: “Mia sorella è andata a lavorare in fabbrica a
mezzogiorno di nuove attività, di una nuova fame di la-                                                                                   una, alta una dozzina di centimetri per la minestra o la         quattordici anni a Orbassano in una tessitura. Durante
voro, di nuove, precarie gavette che, più di un tempo,                                                                                    pasta; una, più bassa (circa cinque centimetri) per le pie-      l’estate nello stabilimento vi erano trentacinque gradi
devono essere riempite di cibo e di lavoro.                                                                                               tanze, fatte in modo da stare l’una nell’altra. Un sistema       con un alto tasso d’umidità così ha sempre mangiato
    Così ci dicono, alla fine della fine, le autobiografie di                                                                             a sgancio rapido o a vite assicura una buona chiusura.           solo riso e latte, perché con il caldo che faceva almeno
operai che con la gavetta hanno convissuto una                                                                                            Il barachin era così diffuso nelle fabbriche da divenire         quella minestra poteva mangiarla fresca” (Ghiardo, Per-
vita, raccolte per dare coeren-                                                                                                           sinonimo di operaio: “è un barachin”, “fa il barachin”,          civalle, Porporato, 2016c).
za scientifica alla mostra e                                                                                                              “lavora da barachin”, “è un barachin di Agnelli” sono                Al suono della campanella che annunciava l’inizio
disvelare un mondo che                                                                                                                    espressioni linguistiche che definiscono l’operaio e che         della pausa, gli operai più fortunati correvano a lavarsi
troppo presto abbia-                                                                                                                      ritroviamo ricorrenti nelle interviste realizzate soprattut-     le mani, recuperavano la borsa e il cibo riscaldato, che
mo voluto dimenticare.                                                                                                                    to tra coloro che hanno lavorato negli stabilimenti Fiat.        mangiavano seduti a tavola, in appositi locali. Altri con-
Abbiamo lasciato che                                                                                                                      Ad alcuni questa analogia non piaceva, era considerata           sumavano il pasto sul posto di lavoro, accanto alla li-
la classe operaia andas-                                                                                                                  offensiva. Come ricorda Adolfo Audenino operaio e sin-           nea, in mezzo alle macchine: una condizione che segna
se in paradiso (Grimaldi                                                                                                                  dacalista alla Beloit Italia di Pinerolo: “Il termine barachin   il vissuto nel triangolo industriale (Bigatti, Zanisi, 2015).
P., Grimaldi R., 1982) senza                                                                                                              non veniva usato per definire il lavoratore dell’azienda         Elio Zanoni riferisce che, nei primi anni Sessanta, nella
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vetreria industriale di Settimo Torinese in cui lavorava          I barachin, esteriormente, son tutti uguali. Sono gli      ti: “mangiare insieme e aprire la propria gavetta diven-         te. Per i giovani, figli del nuovo millennio, fino a qualche
esisteva un locale per la consumazione dei pasti ma non       operai a personalizzarli per riconoscerli. Alcuni incido-      tava un momento, marginale ma non meno importante                anno fa, questo oggetto era conosciuto solo attraverso
era curato “non era appetibile per consumare il cibo”         no sull’acciaio del coperchio il nome e il cognome o           di altri, di affermazione della propria identità e, al tem-      le storie di nonni e genitori. Oggi è diventato di nuovo
cosicché i dipendenti preferivano trascorrere il tempo        solo le iniziali, altri personalizzano il manico, rivesten-    po stesso, di scambio: era uno dei rari momenti in cui si        parte dell’orizzonte quotidiano anche grazie al cinema.
della mensa in altri luoghi; nella bella stagione si sede-    dolo con un filo metallico colorato o contrassegnando-         usciva dalla stretta uniformità dettata dall’organizzazio-       La gavetta, infatti, è la protagonista inanimata nell’ap-
vano sui cassoni di legno depositati fuori dallo stabili-     lo con una piccola medaglietta. La gavetta per molti           ne della fabbrica e si mescolavano, insieme agli odori           prezzato film Lunchbox diretto da Ritesh Batra (2013).
mento (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016d). Questa         operai è un oggetto che si carica di simbolici elementi        caldi, le diverse culture, e non soltanto quelle alimen-         La narrazione filmica ambientata nella caotica Mumbai
condizione era molto diffusa tra gli operai delle boite,      affettivi. Mario Gheddo, come gran parte degli inter-          tari” (2003, pp. 122-123). Durante i pasti gli operai cu-        ci dice che, oggi come ieri, il barachin non è solo un
piccole aziende artigianali, ma la si riscontra anche nelle   vistati, ha conservato il proprio barachin in acciaio, ma      riosano nei barachin degli altri; dal cibo e dai profumi         efficace strumento gastronomico, ma anche centro di
narrazioni di coloro che, pur lavorando in grandi stabi-      ora sul coperchio c’è il nome del nipote scritto con un        imparano a riconoscere l’origine regionale e la fortuna          relazioni capaci di far conoscere le persone, superare
limenti industriali, erano impossibilitati a raggiungere,     pennarello indelebile. L’ha dato in prestito per esser         gastronomica. Il confronto poteva dare origine a invidie,        distanze e distinzioni. Se nel film il fraintendimento nel-
nel poco tempo a disposizione, le mense troppo distan-        usato durante gli anni della scuola, e ora lo conserva         ma spesso poteva essere anche motivo di consolazione.            la consegna di un lunchbox avvia un fitto dialogo tra
ti dal posto di lavoro. A tal proposito le parole di Angela   tra i suoi oggetti della memoria. Anche Mario Cerato           Si faceva conoscenza e si era accolti apprezzando il bac-        una casalinga appassionata di cucina e un impiegato
Frustagli sono utili a comprendere la situazione che si       lo conserva gelosamente e ne parla così: “Il mio barac-        calà alla vicentina, la soppressata calabra, gli spaghetti       prossimo alla pensione, nella fabbrica lo scambio di
era venuta a creare alla Fiat di Rivalta: “Nei primi anni     chino è sempre stato solo quello. Gli ufficiali in pensio-     alla marinara napoletani o il minestrone piemontese.             barachin, più volte ricordato nell’indagine, e la condi-
Settanta c’era gente che mangiava sulla linea perché          ne hanno le spade appese al muro. Io ho il mio barac-          La minestra di verdura con pasta e riso era il piatto dei        visione del cibo hanno fatto degli operai, compagni.
la mensa era troppo lontana. Così dopo il suono della         chino, l’arma delle mie battaglie” (Ghiardo, Percivalle,       piemontesi, i veneti preferivano la polenta e i meridio-
campanella ci si lavava le mani, si recuperava il barachin,   Porporato, 2016g). Emblematico è il caso di Cornelio           nali pasta. Le vivande davano così il nome alle persone:
si mangiava e ci si rilassava un po’” (Ghiardo, Percivalle,   Porporato che, raggiunta l’età della pensione, affida il       “«polentone», «maccheroni» erano gli appellativi con
Porporato, 2016b).                                            proprio barachin, compagno di una vita, a chi in quel          cui erano riconosciuti, con tono ora scherzoso ora irri-
    Il tempo della pausa pranzo, normalmente di trenta        momento più ne aveva bisogno: la sorella suora mis-            dente, i veneti e i meridionali, ed erano usati per se-
minuti, obbligava alla velocità: “Mezz’ora per mangiare.      sionaria in Ghana. All’interno vi pone un breve messag-        gnalare una differenza di origine che, a volte, diveniva
Per troppi anni abbiamo mangiato in fretta. Abbiamo           gio, scritto a mano su un cartoncino, che recita: “Na-         pretesto per affermare superiorità e inferiorità sociali e
perso per sempre il gusto di stare a tavola e assaporare      zarena cara, di questo pentolino me ne sono servito            regionali” (Margotti, 2003, p. 123).
veramente il cibo”, così ricorda Clelia Valfrè (Ghiardo,      io tanti anni andando al lavoro alla Fiat. Sarei lieto che         Alcuni ricordano con nostalgia i barachin preparati
Percivalle, Porporato, 2016c). Nella foga e nella confu-      ora servisse a te nei tuoi innumerevoli spostamenti per        dalla madre, l’unica a conoscere l’arte del dosare sa-
sione, poteva succedere di prendere il cibo altrui, talvol-   svariati lavori nella tua Missione”. L’oggetto giunge in       pientemente l’umido e l’asciutto: due categorie che
ta non si trovava più il proprio barachin o lo si trovava     Africa alla metà degli anni Settanta ma, molto proba-          occorre saper dominare per preparare un buon cibo,
vuoto. Mario Cerato, assunto alla Fiat di Mirafiori nel       bilmente non utilizzato, ritorna in Italia, alla morte della   che sarà consumato dopo molte ore senza l’aggiunta
1962, ricorda che tutti i giorni nel refettorio si sentiva    sorella, accompagnato dallo stesso messaggio.                  di condimenti. Non mancano, nelle storie raccolte, le
pronunciare la domanda “Chi ha preso il mio baracchi-             Nel barachin il cibo è quello della famiglia, sono le      lamentele indirizzate a madri e mogli, accusate di riem-
no? Eravamo in migliaia e tra confusione e rumore qual-       madri e le mogli a prepararlo con ciò che è avanzato           pire il contenitore sempre con la stessa minestra. In ogni
cuno non ritrova più il proprio cibo” (Ghiardo, Percival-     del pranzo o della cena. Si portano in fabbrica le ga-         caso riempire il barachin per la donna era un rito quanto
le, Porporato, 2016g). Poteva capitare, ricorda Salvatore     stronomie del proprio paese e la pausa diventa così            per l’uomo aprirlo e mangiare.
Lodato operaio alla Fiat di Rivalta, che il contenitore       il momento della scoperta dei sapori e dei saperi del-             Oggi il barachin è tornato, seppur con nomi diversi, a
sparisse “non solo per errore ma per una questione di         l’‘altro’ che, soprattutto nella condivisione del pasto,       viaggiare tra la casa e il posto di lavoro. Il suo ri-apparire   Messaggio scritto da Cornelio Porporato che accompagna il
fame” (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016k).                s’impara a conoscere. Come sottolinea Marta Margot-            è anche l’esito della crisi economica che segna il presen-       barachin donato alla sorella missionaria in Ghana.
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saggi
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                                         Luca Ghiardo                                               che nelle grandi aziende. Presso la Eternit di Casale
                                                                                                    Monferrato la natura venefica delle lavorazioni e delle
                                      Cibo e lavoro operaio: una storia precaria                    materie prime si sovrappone all’assenza di locali men-
                                          Le città del triangolo industriale, negli anni del mi-    sa, di ambienti protetti dalle fibre d’amianto e da com-
                                      racolo economico, subiscono una crescita demografica          portamenti pericolosi come mangiare con gli stessi abi-
                                      senza precedenti. In Piemonte il fermento produttivo è        ti utilizzati durante i turni di lavoro (Rossi, 2012). Nicola
                                      concentrato sia nelle piccole attività artigiane, le boite,   Pondrano, in forza presso l’azienda casalese dal 1974,
                                      sia nelle grandi fabbriche e richiama masse di lavora-        testimonia in modo esemplare tali carenze ricordando
                                      tori dalle campagne e dalle regioni italiane economi-         un vecchio operaio, seduto su un sacco d’asbesto, che,
                                      camente depresse. Le piccole fabbriche sono ospitate          sbocconcellando il pane del suo pranzo, gli disse: “Che
                                      in spazi talvolta sottodimensionati e sono quasi sempre       cosa sei venuto a fare qui? Sei venuto a morire?” (Ghiar-
                                      sprovviste di locali di servizio, come le mense. Alle gran-   do, Percivalle, 2016c) consapevole della tragedia che si
                                      di aziende aspirano soprattutto i nuovi operai, dove la       sarebbe consumata da lì a qualche anno a causa della
                                      forza sindacale riesce a spuntare condizioni lavorative       ripetuta e massiccia esposizione all’amianto.
                                      più favorevoli.                                                   Le regole aziendali talvolta vietano il consumo di
                                          Nelle piccole fabbriche gli operai mangiano in piedi      alimenti negli orari di lavoro. Clelia Valfrè racconta:
                                      o seduti su materiali di risulta, accanto al macchinario o    “Non si poteva parlare e non si poteva mangiare, ci
                                      nelle immediate vicinanze dell’azienda, tra la polvere e      chiudevano dentro con una grata e non ci facevano
                                      gli odori della produzione. Mario Gheddo, classe 1931,        uscire fino a mezzogiorno” (Ghiardo, Percivalle, Porpo-
                                      racconta che nella boita di Santhià, dove aveva iniziato      rato, 2016c). Si escogitano allora strategie per ovviare
                                      a lavorare ancora giovanissimo, “si andava avanti a pa-       alle necessità alimentari di chi si sveglia prima dell’alba
                                      nini” (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016h) per l’assen-    per raggiungere, con lunghi e faticosi spostamenti, il
                                      za di un locale e di strumenti per scaldare le vivande.       posto di lavoro. “A 14 anni, appena entrato in fabbri-
                                      Molti, per sfuggire agli odori e allo sporco della fabbri-
                                                                                                    ca, facevo il garzone. Ogni mattina raccoglievo dagli
                                      ca, preferiscono uscire e sopportare i rigori del freddo:
                                                                                                    operai gli ordini per i panini, mortadella o gorgonzola,
                                      “Eravamo abituati a mangiare dove capitava, la gente
                                                                                                    facevo finta di andare in bagno e poi via come il vento
                                      preferiva andare fuori a mangiare sui cassoni” dice Elio
                                                                                                    fino alla bottega più vicina”. Rientrato in fabbrica Bru-
                                      Zanoni (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016d).
                                                                                                    no Pesce, autore del racconto, distribuiva i panini agli
                                          L’inadeguatezza delle condizioni igienico sanitarie,
Pausa sulla linea di montaggio Fiat   legate al consumo dei pasti, è talvolta drammatica an-        operai, che mangiavano con molta circospezione, arri-
Mirafiori, maggio 1972, foto Mauro                                                                  vando anche a nascondersi con il cibo sotto al banco
Vallinotto.
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di lavoro. “A volte ci si metteva anche più tempo per-         e piccoli allevamenti di animali da cortile1. Gli orti, si-                      per essere riscaldati. Formaggi, salumi, olive e altri pre-
ché venivi interrotto, allora mangiavi metà panino o un        mili a tanti microcosmi, riproduzioni dei mondi agricoli                         parati che oggi definiremmo con l’espressione anglo-
terzo per volta, c’erano mattinate più fortunate, altre in     che avevano dovuto abbandonare, sono la fonte pri-                               fona “Street food” alimentavano piccoli meccanismi di
cui eri costretto a fermarti più volte”. Il vicino di banco    maria dei pasti consumati ogni giorno dai “nuovi ope-                            scambio e di condivisione tra colleghi. Gianfranco Za-
                                                               rai” piemontesi. “Un tempo, una bella fetta di operai,                           baldano ricorda un collega, operaio siciliano, che ogni
di Bruno ogni lunedì, reduce del ballo e dei festeggia-
                                                               almeno di quelli che pranzavano con me, si portavano                             giorno portava un pacchetto di olive di differente qua-
menti della domenica sera, affrontava una levataccia se-
                                                               il pezzo di pollo del proprio cortile, l’insalata coltivata                      lità. “Io, abituato alla mia cultura alimentare piemonte-
guita da un faticoso viaggio. Giunto sul posto di lavoro,      nel proprio orto o in quello del vicino o del parente.                           se, ho scoperto un mondo di sapori nuovi” (Ghiardo,
all’ora della colazione, “si metteva sotto al bancone a        Il cibo a chilometro zero non era un predicato, era la                           Percivalle, Porporato, 2016e). Così fu per molti altri che,
mangiare e si addormentava. Era quasi sistematico, tan-        normalità. Tutti avevano il loro orto”. E anche quando                           attraverso piccoli meccanismi di dono e controdono
to sonno aveva. Allora io dovevo insistere con i calci per     l’omologazione dei gusti, portata dalle mense e dalla                            basati sul cibo, stavano creando i presupposti dell’in-
svegliarlo!” (Ghiardo, Percivalle, 2016b). Mangiare fuori      produzione industriale degli alimenti, lasciò al margine                         serimento dei nuovi arrivati nella comunità piemontese,
dall’orario della mensa era considerato una perdita di         gran parte di questo variegato mondo, vi era chi non                             un’integrazione che contribuì ad arricchire il paniere ali-
                                                                                                                                                                                                              Bottiglie in vetro per il vino. La cussa, zucca in piemontese, era uno
tempo, un abuso a danno della produttività aziendale,          si fidava, chi riteneva che gli unici piatti degni d’esse-                       mentare dei mercati e delle tavole torinesi.
                                                                                                                                                                                                              dei contenitori più arcaici e tradizionali per trasportare e custodire
“un giorno – testimonia Mario Gheddo, operaio Fiat –           re consumati fossero quelli amorevolmente cucinati                                   È in questo plurale quadro di esperienze che              al fresco, sino all’ora del pasto, il vino.
                                                               dalle mani delle mogli con ingredienti dell’orto e del                           il consumo del pasto assume forme e modi che
mentre lavoravo, un motorista vicino a me ogni tanto
                                                               cortile: “non posso mangiare un coniglio allevato da                             valorizzano la creatività e l’arte di sapersi arrangiare.
apriva il cassetto del suo banco e mangiava un morso di        uno sconosciuto. Io i miei conigli so cosa mangiano,                             Utilizzando mezzi di fortuna, come assi e cavalletti, si
panino. Arriva il suo caposquadra, spinge l’operaio da         gli vado a tagliare l’erba fresca ogni giorno!” (Ghiardo,                        realizzano tavole improvvisate. Questi materiali, sottratti
una parte e, aperto il cassetto, butta il panino in terra      Percivalle, Porporato, 2016h) racconta Mario Gheddo a                            e strappati all’uso cui la produzione li ha destinati,
dicendo ‘qui non si mangia. Si lavora!’” (Ghiardo, Perci-      proposito di un suo compagno di lavoro.                                          vengono nascosti per evitare che, come sostiene Nicola
valle, Porporato, 2016h).                                          Se sulle tavole dei refettori e delle mense i barachin                       Pondrano, “la tua tavola che ti eri conquistato [...]
    Il paniere alimentare dei piemontesi, dopo la Secon-       la facevano da padroni non altrettanto accadeva sulla                            improvvisamente sparisca” (Ghiardo, Percivalle, 2016c).
da Guerra Mondiale, costringe gli operai a una dieta           linea, a chi consumava i pasti vicino alla postazione di                         Il bricolage tipico della cascina e della cucina contadi-
povera di calorie e ripetitiva (Margotti, 2003). La politica   lavoro. In questi contesti gli operai mangiavano, oltre                          na assume inedite forme e pratiche nella fabbrica del-
                                                               ai panini, spesso imbottiti con salumi fatti in casa o                           la modernità, grazie alla perizia di quella che,
di autarchia alimentare, sostenuta e promossa dal fasci-
                                                               accompagnati da verdure, a seconda delle possibilità                             per un definito periodo storico, verrà indicata
smo, non aveva riempito le pance vuote del popolo ita-                                                                                          come la nuova classe operaia.
                                                               economiche e dei gusti, anche alimenti facili da ma-
liano e spesso si era ridotta a mera propaganda (Zama-         neggiare che non necessitassero di una fonte di calore
gni, 1990; Preti, 2003). Solo a partire dagli anni Sessanta,
i frutti della rivoluzione verde, innescata dalle teorie di    1
                                                                 Nel 1917 nell’area comunale torinese gli orti occupavano 800.000 mq
Norman Borlaug e sostenuta dal progresso tecnologi-            (Anonimo, 1942), nel 1930 i mq arrivarono a 1.200.000, nell’immedia-
                                                               to dopoguerra vengono occupati abusivamente oltre 2.500.000 metri
co, riuscirono a invertire in modo radicale questa ten-        quadri di terreno di proprietà comunale o demaniale, attorno ai quar-
denza (Shiva, 1993). A Torino e nei distretti industriali      tieri popolari periferici delle Vallette e della Falchera, lungo i fiumi, lun-
del Piemonte le forti radici contadine di gran parte dei       go le ferrovie e in seguito lungo la tangenziale (informazioni tratte dalla      Il barachin o la pietanziera, le posate, e un fazzo-
                                                               mostra Torino: agricoltura in città. Cent’anni di orti urbani in mostra.         letto sul quale appoggiare il pane e una bottiglia
lavoratori, giunti dalle zone rurali della regione, dal Sud    Torino, Mausoleo della Bela Rosin, 23 marzo – 15 aprile 2016 cfr. http://        di vino erano fino agli anni Settanta gli elementi
Italia e dal Veneto mantennero una fittissima rete di orti     agricolturaincitta.to.it/images/pdf/agricolturaincitta.pdf).                     dominanti sulla tavola operaia in fabbrica.
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saggi
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                                                                                                                         Gianpaolo Fassino                                          ecco perché il vecchio lo chiama il suo latte; ecco per-
                                                                                                                                                                                    ché con un buon bicchiere di vino sullo stomaco, l’ope-
                                                                                                                      Il consumo del vino nel mondo operaio                         raio può far a meno anche di qualche libbra di pane”
                                                                                                                          Il vino nel mondo operaio era parte integrante e in-      (Livi, 1868, pp. 17-18). L’antropologo Paolo Mantegaz-
                                                                                                                      sostituibile della dieta alimentare: così come nel mondo      za, nei medesimi anni, affermava che “Il vino è il più
                                                                                                                      contadino, anche in fabbrica era infatti pratica abituale     sano compagno del lavoro muscolare e dei voli della
                                                                                                                      e diffusa l’accompagnare il consumo dei pasti con vini        fantasia, e in ogni tempo fu il migliore amico dell’ope-
                                                                                                                      robusti, che svolgevano non solo una funzione disse-          raio e del poeta” (Mantegazza, 1872, p. 24). Circa un
                                                                                                                      tante, ma anche e soprattutto nutritiva. Il vino assolveva    trentennio più tardi, nell’ottobre 1897, il giornale “La
                                                                                                                      all’interno della società italiana dell’Otto e Novecento      Jereiatria”, diffuso fra i sacerdoti italiani, riconosceva al
                                                                                                                      a una pluralità di funzioni: “era considerato – ha spie-      vino la funzione di “un triste ma fatal sostituto del pane
                                                                                                                      gato lo storico Paolo Sorcinelli – un rimedio per alcune      insufficiente e degli altri digiuni ancor più dolorosi del-
                                                                                                                      malattie e un ausilio nelle convalescenze, serviva per        le classi povere” (Sorcinelli, 1998, p. 459).
                                                                                                                      mangiare di meno e lavorare di più” fino a costituire un          L’eccesso del consumo di alcol fra i lavoratori delle
                                                                                                                      prezioso completamento energetico (Sorcinelli, 1998,          bòite torinesi è documentato dalla diffusa pratica del
                                                                                                                      pp. 458-460; 1999, pp. 149-153).                              lunediare, dello “sciopero del lunedì”, del fé ër lünes
                                                                                                                          Nella storia del movimento operaio italiano, e tori-      (fare il lunedì), cioè di astenersi dal lavoro il primo gior-
                                                                                                                      nese in particolare, le forme e le pratiche di consumo        no della settimana, per potersi riposare e riprendere
                                                                                                                      del vino, già a partire dalla seconda metà dell’Ottocen-      dalle frequenti ubriacature domenicali (Grimaldi, 1993,
                                                                                                                      to, lo descrivono come elemento di nutrizione e socia-        pp. 62-64; Gera, 1998, pp. 123-125; Jona et al., 2008,
                                                                                                                      lità (Levi, 1991, pp. 36-37). Il vino era presentato, dagli   pp. 181-186). La frequentazione delle osterie nei giorni
                                                                                                                      studiosi dell’epoca, come un alimento che dava ener-          festivi, con il conseguente dilagare dell’alcolismo, era
                                                                                                                      gia all’operaio ma allo stesso tempo, soprattutto se          un problema sociale ampiamente diffuso tanto nelle
                                                                                                                      consumato in eccesso, lo poteva distrarre dal proprio
                                                                                                                                                                                    aree rurali quanto nelle città (Beck, 1997; cfr. Fassino,
                                                                                                                      compito di lavoratore. Si tratta di un dibattito che ha
                                                                                                                                                                                    2015, p. 27). Per contrastare questo fenomeno in Pie-
                                                                                                                      accompagnato per oltre un secolo la storia del mondo
                                                                                                                                                                                    monte, fra Otto e Novecento, sorsero, per iniziativa
                                                                                                                      operaio: “Nel vino – scriveva nel 1868 lo psichiatra to-
                                                                                                                                                                                    del mondo cattolico, associazioni per “la santificazione
                                                                                                                      scano Carlo Livi – non c’è da bere solamente, ma anche
                                                                                                                                                                                    delle feste” e il “riposo festivo” (Lanzavecchia, 1985),
                                                                                                                      da mangiare; vale a dire contiene anche delle sostanze
                                                                                                                      nutrienti […]. Ecco perché il buon vino nutre e sostenta;     mentre la nascita di numerosissime società di mutuo
Servizio cucine dello Stabilimento Lingotto di Torino, preparazione minestre, 1943, Archivio e Centro Storico Fiat.                                                                 soccorso contribuì a diffondere “nei ceti operai modelli
18                                                                                                                                                                                                                                                                               19

di comportamento ispirati alla morigeratezza, al rispar-       si possono vuotare scavando dentro, poi si fanno es-                        rinesi. “Agli inizi degli anni Settanta – conferma con il        il vino servì infatti agli operai torinesi anche per su-
mio, all’importanza dell’istruzione e della competenza         siccare e conservano il vino buono e fresco” (Ghiardo,                      proprio racconto Giuseppe Caristia, anch’egli operaio            perare la durezza – non solo fisica, ma a tratti anche
professionale come via del riscatto sociale, individua-        Percivalle, Porporato, 2016h). Il consumo di vino non                       alla Fiat di Rivalta – il vino era vietato dentro all’azienda.   esistenziale – del lavoro in fabbrica:
le e di classe” (Jona et al., 2008, p. 186; cfr. Zanlungo,     fu costante, ma subì un’evoluzione decrescente, se-                         Però la gente il vino se lo portava, in particolar modo
1997, pp. 154-158).                                            guendo il variare dei gusti e degli stili di consumo più                    gli anziani, a volte in una piccola botte, quella che noi               Trista la vita, sempre gumè,
    A partire da questo complesso quadro storico le te-        generali che coinvolsero via via la società italiana nel                    in dialetto siciliano chiamiamo il carrateddu (caratello)”              travaiè sempre e mai gnun piè.
stimonianze raccolte nell’ambito della ricerca Fame di         corso degli anni1. A partire già dal 1955 all’interno del-                  (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016f). Il divieto di con-             Ma son l’è niente, s’a iè d’afè
lavoro confermano come il consumo del vino in fabbri-          la Fiat ebbe inizio la distribuzione di “bevande analco-                    sumare vino nelle fabbriche era soprattutto legato ai                   piand quaich sborgne tut fa passè2.
ca durante la pausa per il pasto sia rimasto, per gran         liche refrigeranti” (Margotti, 2003, pp. 125, 135), una                     rischi che un eccessivo consumo di alcol poteva com-
parte del Novecento, parte costitutiva e irrinunciabile        pratica presto diffusasi anche in molte altre aziende.                      portare in termini di sicurezza, soprattutto per quelle             Complessivamente il vino, tanto dentro come fuori
della pratica gastronomica dei lavoratori. Mentre il cibo      “Sui tavoli della mensa – racconta Mario Cerato, ope-                       maestranze che erano impegnate in mansioni pericolo-             la fabbrica, costituiva non solo un prezioso corrobo-
del barachin, monoporzione, non si prestava facilmente         raio Fiat – c’erano delle file di bottiglioni che era uno                   se che richiedevano particolare cautela e prontezza di           rante e una fonte d’ebbrezza, ma rappresentava anche
ad essere scambiato e condiviso con i colleghi, il vino        spettacolo! Trent’anni dopo, non c’era più una botti-                       riflessi (Margotti, 2003, pp. 124, 133), come ad esempio         un profondo tratto identitario che accompagnò il tra-
poteva più agevolmente essere assaggiato e scambia-            glia di vino, solo bottiglie d’acqua: guardando i tavoli                    il lavoro alle presse: “Il vino – testimonia Roberto Gre-        passo dal mondo contadino – in cui la gran parte dei
to con gli altri operai: “In mensa – narra Salvatore Lo-       ricordavo quei periodi quando c’era una ‘giungla’ di                        co, dapprima operaio alla Fiat di Rivalta, poi alla Riber        lavoratori dell’industria del boom economico erano
dato, operaio alla Fiat di Rivalta, originario della Sicilia   bottiglioni. Molti quando uscivano dalla mensa ave-                         di Beinasco – non mancava quasi mai. Il problema è               nati e cresciuti – a quello urbano e industriale, facendo
– capitava che ognuno portasse il proprio tipo di vino,                                                                                    che alcuni bevevano anche se c’era scritto che non si            quotidianamente entrare, fra le linee di montaggio, i
                                                               vano problemi a fare le scale perché andavano fuori
dal Merlot del Veneto al Cannonau della Sardegna o                                                                                         poteva bere, specialmente quando si lavorava sotto le            colori e gli aromi dei territori vitivinicoli italiani e, insie-
                                                               misura, e continuavano a bere in officina: difficilmente
al Cirò della Calabria; io stesso cercavo di inserirmi                                                                                     presse, ed era pericoloso. Purtroppo sono successi an-           me con essi, la magia nutritiva e simbolica che il vino
                                                               c’era reparto in cui non vi fosse qualche bottiglione al
socialmente gustando il cibo e i vini piemontesi: c’era                                                                                    che dei guai sotto le presse, proprio per quel motivo,           significava.
                                                               fresco” (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016g).
questo scambio, erano esperienze gastronomiche plu-                Il passaggio dal consumo del vino a quello dell’ac-                     ne approfittavano…, se il quartino non gli bastava… gli
ralistiche” (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016k). “Mi       qua e delle bevande analcoliche nelle fabbriche fu                          anziani avevano il pintone di vino, che poi si divideva
ricordo – racconta Elio Zanoni, operaio in una vetreria        un fenomeno che, seppur graduale, fu consistente e                          un po’ per ciascuno, anche al pomeriggio ne approfit-
a Settimo Torinese – che c’era un abruzzese che veni-          venne ampiamente percepito dagli stessi lavoratori:                         tavano, era irrinunciabile, non si doveva fare, però si fa-
va sempre con dei bottiglioni di Verdicchio” (Ghiardo,         “Il vino – racconta ancora Mario Gheddo – era molto                         ceva, non si pensava ai rischi che si correvano” (Ghiar-
Percivalle, Porporato, 2016d). Gli operai, insieme alle        consumato, se penso agli anni Cinquanta e Sessan-                           do, Percivalle, Porporato, 2016i).
tradizioni gastronomiche delle proprie regioni d’origi-        ta, dopo sempre meno, perché hanno incominciato a                               Il vino della quotidianità, bevanda caratterizzante
ne, portavano quindi con sé nella fabbrica i vini del pro-     vendere nei locali delle mense la Coca Cola, la Fanta,                      il pasto operaio, si presenta quindi, a fianco del bara-
prio territorio di nascita, ed essi diventavano elemento       caffè e quant’altro” (Ghiardo, Percivalle, Porporato,                       chin, come elemento di coesione e integrazione fra i
di condivisione e di conoscenza reciproca.                     2016h). Si tratta di una trasformazione degli stili di vita                 lavoratori, mentre i contenitori multiformi in cui il vino
    Non solo i vini, ma anche i contenitori, denunciava-                                                                                   raggiungeva la fabbrica (caratelli, pintoni, zucche, bot-
                                                               e di consumo non priva di contraddizioni, che nume-
no le appartenenze regionali e le differenti pratiche di                                                                                   tigliette di varia foggia, ecc.) testimoniano la creatività
                                                               rosi testimoni hanno vissuto direttamente all’interno
conservazione e consumo del vino. “Una bella percen-                                                                                       con cui i contadini italiani, inurbati e fattisi operai, sep-
                                                               della propria esperienza lavorativa nelle fabbriche to-
tuale di operai – ricorda Mario Gheddo, operaio Fiat,                                                                                      pero organizzare il proprio pasto feriale. Il vino quo-          2
                                                                                                                                                                                                              Gribaudi Rossi, 1978, p. 197; Jona et al., 2008, p. 188 (“Triste è la
riferendosi agli anni Sessanta e Settanta – si portava il      1
                                                                Il consumo annuo pro capite di vino in Italia fu di 97,4 litri nel 1951-
                                                                                                                                           tidiano contribuì a rendere meno pesante il faticoso             vita, sempre a sgobbare, / lavorare sempre senza prendere mai nessun
vino in fabbrica con quella che in piemontese si chiama        1955, saliti a 113 nel 1965-1969, quantità via via scesa a 111 litri nel    lavoro dell’operaio. Come narrato dal canto Progress             [soldo]. / Ma questo non è nulla, se c’è da fare / prendendo qualche
la cossa, la zucca: ci sono delle zucche particolari che       1971-1973, 90,6 nel 1981-1983 e 60,5 nel 1992 (Zamagni, 1998, p. 189).      industrial: Turin ch’a bougia di Antonio Dughera (1907)          ubriacatura tutto passa”).
saggi
20                                                                                                                                                                                                                                                                  21

                                                                                                                                                    Matteo Varia                                                Le mogli e le madri compaiono nelle narrazioni
                                                                                                                                                                                                            raccolte come donne capaci di preparare un cibo
                                                                                                                                                 Riempire il barachin                                       buono da pensare e da mangiare anche il giorno
                                                                                                                                                     L’operaio, se non lavora, non mangia. Argomento        dopo (Harris, 1990). Deve essere cotto e condito al
                                                                                                                                                 che ora si vuole rovesciare, come si fa con la pento-      punto giusto, confezionato in modo che abbia biso-
                                                                                                                                                 la, per scolare la pasta quando è cotta. L’operaio per     gno soltanto di calore per tornare appetitoso. Si trat-
                                                                                                                                                 lavorare deve mangiare. È un uomo, per definizione         ta, quindi, di aggiungere prima ciò che la seconda
                                                                                                                                                 soggetto a una legge di natura dura quanto la fame.        ‘selvatica cottura’ in fabbrica inevitabilmente toglie. Il
                                                                                                                                                 Nella ricerca si è voluto prestare ascolto ai racconti     saper fare delle donne, gli aggiustamenti creativi del-
                                                                                                                                                 di vita di operai e operaie raccolti nei “Granai del-      le pratiche alimentari, sono, dunque, conoscenze che
                                                                                                                                                 la Memoria” per mostrare come il cibo che l’operaio        preservano la qualità del cibo e il suo valore affettivo
                                                                                                                                                 conserva e consuma nel barachin possa essere con-          (Grimaldi, 2012).
                                                                                                                                                 siderato il prodotto di una cucina insieme domestica           Dopo il passaggio dei barachin nelle vivandiere,
                                                                                                                                                 e ‘selvaggia’.                                             alcuni cibi, come la carne asciutta o le zuppe dense,
                                                                                                                                                     Il cibo nel barachin viaggia, è nutrimento, memo-      diventano immangiabili. Le madri e mogli degli ope-
                                                                                                                                                 ria di un tempo altro da quello della fabbrica, di un      rai riescono ad adattare molti cibi della tradizione:
                                                                                                                                                 altro ritmo, quello delle campagne, delle cucine del-      le minestre le tirano più brodose, le paste vengono
                                                                                                                                                 le donne, che, compresso nei ritmi quantitativi della      fatte navigare nei sughi, carni e pesci sono immer-
                                                                                                                                                 produzione industriale, è ancora presente e tangibile.     si in condimenti ricchi e saporiti. Le donne del Nord
                                                                                                                                                 Il tempo e lo spazio del viaggio e del lavoro espon-       preparano soprattutto minestre di verdura, mentre
                                                                                                                                                 gono la gavetta al caldo e al freddo. La necessità del     quelle del Sud si orientano maggiormente sulla pa-
                                                                                                                                                 trasporto aggiunge alla preparazione dei cibi un ele-      sta asciutta, al sugo di pomodoro. È “l’avanzata del
                                                                                                                                                 mento aleatorio che è commisurato alla distanza dal-       Mediterraneo” che, come sappiamo, ha contribuito
                                                                                                                                                 le mura domestiche. Nel passaggio dall’interno all’e-      al farsi della gastronomia italiana (Capatti, Montanari,
                                                                                                                                                 sterno, dal domestico al ‘selvatico’, si confida, per la
                                                                                                                                                                                                            2006). “Il contenuto del baracchino esprimeva anche
                                                                                                                                                 conservazione della bontà del pasto, nell’esperienza
                                                                                                                                                                                                            l’esistenza di legami familiari in una città che spesso
                                                                                                                                                 di chi l’ha preparato e nella buona sorte. L’operaio
                                                                                                                                                                                                            non era quella di origine: la maggior cura nella pre-
                                                                                                                                                 che può godere di un buon pasto è fortunato; una
                                                                                                                                                                                                            parazione dei pasti portati sul lavoro era sovente il
                                                                                                                                                 condizione che ha come premessa la sapiente arte
                                                                                                                                                 gastronomica di una donna.                                 segno della presenza di madri, sorelle o mogli che
Operai nella mensa aziendale Fiat; tratto dal documentario di Cinefiat: “Quel primo giorno in fabbrica”, 1972, Archivio e Centro Storico Fiat.                                                              si preoccupavano delle pietanze e dedicavano par-
saggi
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te del loro tempo a questa incombenza” (Margotti,         a prepararsi i cibi da sole, tuttavia era raro che pre-
2003).                                                    parassero cibi ricchi o grassi, la cucina che l’operaia
    Il cibo che riempie le gavette è di solito ciò che    pensava per sé era molto diversa da quella che le
avanza del pasto casalingo. Le donne cucinano por-        casalinghe offrivano al marito. Alcune operaie erano
zioni più abbondanti e mettono da parte la razione        anche mogli e madri di numerosi figli e preparare
destinata alla fabbrica. In alcuni casi questa proget-    per sé il barachin era l’ultimo pensiero dopo aver
tualità ha come esito un menù settimanale più o           provveduto agli altri (Ghiardo, Percivalle, Porporato,
meno vario. Mario Cerato racconta che quando era          2016b).                                                       Michele Filippo Fontefrancesco                          do in relazione dialettica queste diverse risorse.
un giovane operaio il cibo consumato in fabbrica lo           Gli operai pendolari che quotidianamente viag-                                                                        Le fonti orali sono state raccolte seguendo la me-
                                                                                                                     La metodologia della ricerca                               todologia dei “Granai della Memoria” (Grimaldi, Por-
preparava la madre: “qualsiasi cosa preparasse lo         giano dai paesi alla città portano in fabbrica cibi
mangiavo”. Altri, meno fortunati - come un suo com-       confezionati con materie prime di prossimità: il pollo        Oggi il cibo entra nei luoghi e nei momenti del         porato, 2012). È stata pertanto condotta una ricerca
pagno di lavoro - si lamentavano delle mogli: “Capi-      allevato nel proprio cortile, oppure le verdure raccol-    lavoro legandosi a scatole di plastica, imballaggi co-     etnografica mirata a raccogliere le storie di vita di
tava che aprisse il barachin e dicesse, oggi si mangia    te nell’orto. Altri, come accadeva ai giovani emigrati,    lorati, forni a microonde, macchinette automatiche,        chi ha vissuto direttamente l’industria piemontese. Il
minestrina, lasciava allora cadere il cucchiaio nel ba-   spesso non disponevano neppure di una cucina vera          self-service: forme e pratiche gastronomiche che           racconto autobiografico è un particolare esercizio di
rachin che rimaneva conficcato dritto, tanto la zuppa     e propria, adatta a preparare uno spezzatino, una          descrivono un paesaggio diverso, lontano da quello         memoria che porta l’individuo a collocare se stesso
era densa per essere stata riscaldata. Diceva: quante     pasta o una minestra di verdure. In questa condizio-       delle grandi mense e delle gavette di latta che hanno      all’interno dello spazio e del tempo collettivo della
volte glielo devo dire a mia moglie!” (Ghiardo, Perci-    ne, l’unica gastronomia praticabile, che garantisce        contraddistinto le realtà manifatturiere del secondo       comunità, riproducendo al presente un affresco vivo
valle, Porporato, 2016g). Un altro testimone racconta     una buona tenuta fino al momento del pranzo, è un          Novecento. Il mondo della fabbrica d’allora, all’oc-       di ricordi e conoscenze (Bertaux, 1999). Chiedendo
che, prima del matrimonio era la madre a preparare        uovo sodo con un contorno di verdure lesse.                chio del presente, appare attinente ad un altro se-        agli intervistati di raccontare le loro esperienze legate
la gavetta, mentre da sposato aveva iniziato a occu-          Mario Gheddo ricorda che guardare nei barachin         colo, ad un altro millennio, per molti versi non solo      al cibo in fabbrica, la ricerca ha permesso di approfon-
parsene da solo: sceglieva i cibi che gli piacevano di    voleva dire scoprire la povertà della gente, si vedeva     cronologicamente.                                          dire, con inedito dettaglio, le forme e le pratiche del-
più, cibi buoni, cucinati dalla moglie, umidi e sapori-   che mentre alcuni pranzavano con la pasta al ragù,            La memoria di quel mondo, seppure distante, non         la gastronomia operaia dagli anni della ricostruzione
ti, ‘buoni da puciare’ (Ghiardo, Percivalle, Porporato,   con la carne, con la verdura, con la frutta altri inve-    è andata persa. Essa affiora negli oggetti, nelle foto,    all’avvento delle grandi mense industriali, oggetto di
2016a). Mario Gheddo racconta: “A casa mia chi cu-        ce avevano tanto poco da non potersi dire (Ghiardo,        nella voce di chi visse la fabbrica in prima persona.      rivendicazione sindacale a partire degli anni Sessan-
cina è mia moglie, ma il barachin me lo sono sempre       Percivalle, Porporato, 2016h). La ruota della fortuna,     Questi frammenti tratteggiano il profilo di una socie-     ta, descrivendo gli ingredienti, le ricette, gli alimenti,
preparato io così come mi sono sempre preparato lo        la bizzarra giostra che incrocia gli alterni destini de-   tà in trasformazione mettendo in luce le forme e le        la socialità dei lavoratori. Queste autobiografie sono
zaino” (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016h). Salva-    gli uomini riproduce nelle fabbriche e nei barachin il     pratiche del cibo che la distinguevano. La ricerca, che    state raccolte e rese liberamente accessibili online in
tore Lodato ricorda soprattutto il pasto consumato il     secolare contrasto tra fame e abbondanza.                  è stata alla base della mostra “Fame di Lavoro. Storie     un archivio digitale consultabile all’indirizzo internet:
lunedì. La madre riempiva il barachin con gli avanzi                                                                 di gastronomie operaie”, ha voluto raccogliere questi      www.granaidellamemoria.it.
del pranzo domenicale: agnolotti alla piemontese e                                                                   frammenti di memoria per narrare al presente le sto-           A fianco di queste fonti orali, l’indagine è stata
un po’ d’arrosto erano i cibi festivi che marcavano il                                                               rie, le caratteristiche della gastronomia operaia così     completata attraverso un lavoro di ricerca d’archivio
primo giorno di lavoro della settimana e portavano in                                                                come s’è sviluppata a partire dal secondo dopoguer-        mirato all’analisi del patrimonio fotografico attestan-
fabbrica un controritmo gastronomico che dilatava il                                                                 ra, negli anni del boom economico.                         te la condizione operaia nel secondo Novecento. In
tempo della festa e rendeva la giornata meno dura                                                                       Per far ciò, è stata condotta un’indagine storica e     particolare sono stati esplorati archivi di aziende, sin-
(Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016k).                                                                             antropologica che ha guardato tanto alle esperienze        dacati, partiti politici e professionisti che hanno ritrat-
    Le operaie, racconta Clelia Valfré, potevano appro-                                                              ed ai ricordi di testimoni del mondo della fabbrica        to e raccontato il mondo interno alla fabbrica, investi-
fittare della cucina della madre, ma presto iniziavano                                                               quanto alle fonti scritte e di cultura materiale, ponen-   gando la socialità e la materialità della gastronomia
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