RACCOLTA DI POESIE E RACCONTI - SESSIONE SPECIALE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS 2020 PREMIO LETTERARIO

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RACCOLTA DI POESIE E RACCONTI - SESSIONE SPECIALE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS 2020 PREMIO LETTERARIO
PREMIO LETTERARIO

Raccolta
di poesie
e racconti
Sessione speciale
…ai tempi
del coronavirus
2020
RACCOLTA DI POESIE E RACCONTI - SESSIONE SPECIALE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS 2020 PREMIO LETTERARIO
RACCOLTA DI POESIE E RACCONTI - SESSIONE SPECIALE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS 2020 PREMIO LETTERARIO
RACCOLTA DI POESIE E RACCONTI - SESSIONE SPECIALE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS 2020 PREMIO LETTERARIO
PREMIO LETTERARIO

      Federica
“Le parole della vita”
     SESSIONE SPECIALE
      ...ai tempi
   del Coronavirus

            2020

Raccolta di poesie e racconti
        dei vincitori
RACCOLTA DI POESIE E RACCONTI - SESSIONE SPECIALE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS 2020 PREMIO LETTERARIO
RACCOLTA DI POESIE E RACCONTI - SESSIONE SPECIALE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS 2020 PREMIO LETTERARIO
INDICE

INTRODUZIONE                                                                    7

FOTO DEI VINCITORI                                                              9

POESIE E RACCONTI DEI VINCITORI                                                17

- Lorena Pierluisa Cazzoletti (Villaggio Sereno - Brescia) - 1° classificato   19
- Veronica Gardoni (Parma) - 1° classificato                                   23
- Assunta D’Aquale (Monterotondo - Roma) - 2° classificato                     28
- Girolamo Meneghesso (Conselve - Padova) - 2° classificato                    33
- Maria Angela Capparelli (Torino) - 2° classificato                           34
- Marta Riminucci (Pino Torinese - Torino) - 2° classificato                   37
- Rosalba Spagnolo (Bergamo) - 2° classificato                                 43
- Elisabetta Anselmi (Roma) - 3° classificato                                  48
- Francesco Di Ruggiero (Monza) - 3° classificato                              52
- Maria Raffaella De Bellis (Roma) - 3° classificato                           58

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RACCOLTA DI POESIE E RACCONTI - SESSIONE SPECIALE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS 2020 PREMIO LETTERARIO
RACCOLTA DI POESIE E RACCONTI - SESSIONE SPECIALE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS 2020 PREMIO LETTERARIO
INTRODUZIONE

                           PREMIO LETTERARIO
                     Federica - “Le parole della vita”
                                  2020

                            SESSIONE SPECIALE
            ...ai tempi del Coronavirus

   Il Premio Letterario “Federica” - Le parole della vita, mira a
incentivare e valorizzare la magia delle parole di molti pazienti che hanno
o hanno avuto a che fare con la malattia oncologica, ma anche dei familiari
di pazienti oncologici o di operatori professionali del settore oncologico.
   Questo Premio è dedicato a Federica, simbolo di tutti i pazienti
oncologici che durante la malattia oncologica continuano a vivere e
progettare la loro vita.

    A seguito della pandemia COVID-19, è stata istituita questo anno una
Sessione Speciale: “...AI TEMPI DEL CORONAVIRUS”, per permettere
a pazienti, familiari e operatori del settore oncologico di raccontare questi
mesi così particolari. In questo periodo in cui il nuovo Coronavirus impone
stringenti regole di vita, detta nuovi ritmi, incute paura, fa scoprire nuovi
affetti, scrivere può infatti diventare un modo per vincere timori e paure.
La scrittura diventa ancora una volta “terapia” della nostra anima.

   Una giuria appositamente nominata e coordinata da Fondazione AIOM,
ha individuato i finalisti tra i numerosi manoscritti arrivati da tutta Italia.

   A seguito dell’emergenza COVID-19 e delle regole emanate dal
Governo e dal Ministero della Salute e per il protrarsi di una situazione
epidemiologica COVID-19 ancora critica, per tutelare sia i pazienti

                                                                             7
oncologici che i familiari, amici, conoscenti che avrebbero potuto
partecipare alla Cerimonia di Premiazione si è ritenuto opportuno annullare
la cerimonia di premiazione prevista per il 25 ottobre 2020.

   In questo volume sono raccolte le produzioni letterarie che sono risultate
vincitrici.

    Il libro è disponibile sul sito di Fondazione AIOM

                         www.fondazioneaiom.it
              premioletterariofederica@fondazioneaiom.it

    Grazie a tutti coloro che hanno partecipato!

                                                     STEFANIA GORI
                                              Presidente Fondazione AIOM

    Novembre 2020

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FOTO
DEI VINCITORI
LORENA PIERLUISA CAZZOLETTI ­ 1o classificato

     VERONICA GARDONI ­ 1o classificato
ASSUNTA D’AQUALE ­ 2o classificato

MARIA ANGELA CAPPARELLI ­ 2o classificato
MARTA RIMINUCCI ­ 2o classificato

ROSALBA SPAGNOLO ­ 2o classificato
ELISABETTA ANSELMI ­ 3o classificato

FRANCESCO DI RUGGIERO ­ 3o classificatoi
MARIA RAFFAELLA DE BELLIS ­ 3o classificato
POESIE
E RACCONTI
DEI VINCITORI
LORENA PIERLUISA CAZZOLETTI
                            1° classificato

In tempo di Covid
    Banale dire che la notte è difficile dormire, riesco a riposare per
alcune mezz’ore intervallate da immagini cupe che a volte mi fanno
sussultare nel buio.
    Sono le cinque del mattino, a letto osservo il nero della notte che sta
cambiando colore, se ne sta andando. Ma quello che è sceso sulle
persone e che ho dentro rimane.
    Ho bisogno di dividere con qualcuno il carico pesantissimo di questi
giorni.
    Un foglio bianco?
    Sta accadendo una cosa strana e interessante al tempo stesso.
    Da tre settimane, da quando cioè è iniziato questo incubo, la vita
sembra essere congelata in una bolla e noi ci siamo dentro come
paralizzati, affannati in azioni che si rivelano inefficaci.
    Un’atmosfera che spaventa l’anima e rende il corpo pesante.
    Non trovo una spiegazione, io abituata a usare sempre la logica che
tutto spiega.
    Stamattina prima di iniziare la battaglia sono scesa nella piccola
chiesa della clinica, speravo che LUI mi aiutasse a capire e mi desse
ancora un po’ di energia, ma il Cristo appeso ha un’espressione
dispiaciuta e affranta, come consapevole di non aver aiuto da dare e di
non poterne ricevere. Pazienza, appoggio le mani sul banco per rialzarmi
e mi accorgo che sono più fredde del legno che toccano.
    Tu non sai aiutarmi e io non so aiutare Te.
    Il papa e i suoi accoliti pregano ogni giorno per tutti noi, loro.
    Pregano e portano a spasso il cane, senza mascherina.
    Il papa ci ammonisce di continuo, d’altra parte la Chiesa è da sempre
severa con gli altri, molto meno con se stessa.

                                                                        19
Noi invece facciamo qualcosa di più concreto ed è così difficile fare
ogni giorno le cose di routine mentre intorno nulla è più come prima. È
scomodo e pesante essere testimoni di così tante morti tutte insieme.
    Respirare aria e lamenti e ricordare di essere ancora viva.
    I parenti e gli accompagnatori aspettano nell’area antistante il pronto
soccorso autori di un vociare a volte concitato, di scatti di pianto, di
marce forzate sul posto.
    Tutto questo per ore prima che qualcuno possa dare loro notizie di
chi hanno accompagnato lì.
    Dalla finestra guardo la collina dietro la clinica, sta diventando verde.
    Cerco in lei una pace interiore che non riesco a trovare da tempo, ma
oggi il sole è pallido, malato, oncologico, non scalda, non scaccia le ombre.
    È un’ombra lui stesso, adeguato ai sogni della notte appena passata,
sogni che ripropongono quello che gli occhi vedono di giorno, un orrore
sbagliato che assume la forma di un corpo orizzontale, sotto a un
lenzuolo bianco, che sorregge i suoi effetti personali. Abbasso lo
sguardo sulle otto tensostrutture allestite per contenere le bare in attesa.
Molte domande affollano la mia mente sulla vita e sulla morte, che mai
come ora in questo posto viaggiano insieme, e sono certa essere le stesse
che si è posto anche chi abita quelle bare davanti a me, magari senza
aver avuto risposte.
    Io altro non sono se non emozioni e dignità.
    Emozioni in questo periodo ne vivo tante e la dignità si cerca di darla
a quei corpi che, morti soli, vengono adagiati nelle bare e poi lasciati
ad aspettare in una tenda, al riparo dalle intemperie.
    «Quando si muore si muore soli» diceva una canzone di De Andrè e
chissà se aveva in mente tutto questo.
    Tra poco mi giro, tra poco torno alle mie occupazioni, tra poco...
prima devo riuscire a mascherare la paura e la confusione, nessuno deve
capire che non so cosa fare.
    Quando la stanchezza si aggrappa alla mia schiena mi tira giù con
l’intento di farmi annegare nella mia incapacità di recupero e non mi
molla, mi trascina in un inferno di paura. Non sono più lucida e vorrei
riposare, ma la mente piena di tutto non me lo permette.
    E non mi sento all’altezza di quello che gli altri si aspettano da me e
non mi sento all’altezza di quello che io chiedo a me stessa.

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E penso al virus come a un mio simile, gli regalo un’intelligenza, gli
riconosco la capacità di fare dei piani, parlo con lui. Spero che mi
risponda e scopra ingenuamente le sue mosse, so che quando deciderà
di andarsene lo farà e non saremo stati noi a fermarlo, anche se ci
vanteremo di averlo fatto.
    Poi mi rendo conto che la psicosi sta avendo la meglio su di me, mi
guardo intorno furtiva sperando di non aver dato voce ai miei pensieri,
di non aver messo gli altri a parte di quello che sta accadendo dentro di
me. E allora mi chiedo se anche gli altri sentono come me, ma non
faccio domande, voglio evitare il mio e il loro imbarazzo. Però quando
ci ritroviamo insieme siamo più forti, stanchi, addolorati, ma non persi.
    Penso ancora di potercela fare da sola?
    Alla fine mi riprendo dai miei pensieri bui e dalle mie pesanti
considerazioni.
    Vado avanti, certo che vado avanti, è solo che ogni tanto ho bisogno
di un incoraggiamento e mi basta anche uno sguardo incrociato nel
corridoio, un cenno di saluto, poi ognuno torna ai suoi pensieri
accomunati da un’esperienza tragica che stringe lo stomaco e
appesantisce il cuore.
    Dopo giorni e giorni passati così si è formata una piccola crepa dentro
di me che piano piano si allarga e mi toglie stabilità.
    All’inizio della mia carriera lavorativa qualcuno mi aveva detto che
il mio lavoro mi avrebbe causato ferite insanabili. Ecco che ci siamo!
    Nelle ultime settimane mi sento invecchiata di anni, mi ripeto di
rimanere calma quando sento di essere in procinto di crollare.
    Ho smesso di fare domande che non hanno risposta, la paura e lo
sgomento mi divorano dall’interno e sembrano non avere mai fine, ma
devo ignorare il timore di sbagliare, bisogna fare e fare presto anche se
sarà comunque tardi. I miei dubbi e le mie perplessità non devono essere
l’anello debole di questa catena non forte.
    Così alla fine mi sento prigioniera del mio inferno personale, cerco
un po’ di serenità o forse semplicemente l’assenza di dolore e mi
accorgo che è solo il godere delle cose semplici che può alleviare il peso
che mi porto dentro, e quando esco dalla clinica l’aria fresca e pulita mi
sferza il viso, lava via il contagio e la tristezza delle lunghe ore passate,
mi ha sempre fatto questo effetto anche in tempi migliori e andati.

                                                                          21
Anche in un’esperienza come questa ci deve essere un lato positivo,
qualcosa di buono da tirare fuori, forse alla fine di tutto le gioie e i dolori
della vita assumeranno una giusta dimensione.
   Per un po’ ho perso di vista me stessa e mi sono rifugiata altrove, in
un luogo più tranquillo, non so ancora se mi sono ritrovata e mi auguro
che quando tutto questo apparterrà ad un passato, mai abbastanza
lontano, la dolorosa pesantezza di questi giorni possa entrare a far parte
di me, per poter abituarmi a conviverci senza che faccia troppo male.
   Andrà tutto bene? Meglio dire che ne usciremo comunque.
   Non tutti moriranno e chi rimarrà dovrà ricominciare a vivere.

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VERONICA GARDONI
                            1° classificato

Ammalarsi di tumore
ai tempi del coronavirus
    «Era una notte buia e tempestosa»; con questa frase Snoopy, in un
vecchio libro che ho in mano, mi consiglierebbe di iniziare il mio
racconto. Sono seduta sotto la veranda dei miei genitori, a pochi giorni
dall’operazione chirurgica al seno. Mio figlio di due anni gioca
spensierato con loro e assaporo questo momento di piacevole distrazione
dopo lunghi mesi di isolamento. Non era notte e non c’era la tempesta,
il giorno in cui arrivò la diagnosi. Era il 12 marzo 2020. Temo che non
scorderò mai quella data: quattro giorni dopo il lockdown nazionale,
sette giorni dopo il mio ultimo viaggio di lavoro in Lombardia,
quattordici giorni dopo la chiusura degli asili nido in Emilia-Romagna.
    A caratteri cubitali nel referto della biopsia c’era scritto
CARCINOMA MAMMARIO. Un macigno, una montagna, un
incendio, un buco nero, un mare in tempesta, un vortice che fa girare la
testa. La sentenza è arrivata mentre stavo giocando con mio figlio,
mentre disegnavamo le nostre mani su un foglio. Proprio quelle mani
che poco dopo hanno iniziato a tremare. La fortuna ha voluto che
arrivasse nel giro di pochi minuti il mio compagno e il destino ha voluto
regalarmi proprio lui nella mia vita. Mi sono avvicinata e gliel’ho detto,
con tutta la sincerità del mondo, con poche parole, guardandolo
impaurita negli occhi. Un lungo abbraccio e di fretta sono corsa al
Centro Senologico. Avevo un appuntamento fissato con il radiologo per
il ritiro del referto, non sapevo che mi sarebbe arrivato poco prima della
visita anche sul Fascicolo Sanitario Elettronico. Mi sono presentata
quindi in un certo senso preparata, ma ho capito ugualmente poco di

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quello che il dottore mi spiegava sulla malattia. Mi sembrava tutto
surreale. Dopo la visita con il radiologo, ho conosciuto il chirurgo che
mi avrebbe operato. Le parole scorrevano così veloci, ma mi sentivo
protetta dentro il Centro. I dottori conoscevano le caratteristiche del mio
tumore, io no, i dottori sapevano cosa fare, io no. Sono stati tutti molto
gentili con me e se da un lato questo mi tranquillizzava, dall’altro mi
confermava che la situazione era grave.
    Ero da sola nella sala di aspetto e da sola ai colloqui con i medici,
gli accompagnatori non erano ammessi. Una pandemia si era inserita
fra il mio dolore e la possibilità di farmi aiutare. Le facce nascoste dietro
le mascherine mi guardavano intensamente negli occhi, ma non vedevo
i sorrisi e i volti nella loro interezza, così come loro non vedevano il
mio. Era più facile piangere sotto una mascherina, non si notava quella
smorfia della bocca tipica di quando soffro; si vedevano solo le lacrime
che riempivano i miei occhi, ma che dovevano essere asciugate
velocemente perché il rischio era non capire nulla di ciò che stavano
spiegando. Essere sola durante le visite ha significato per me un grosso
dispendio di energia emotiva, a cui è seguita tanta fatica che penso
continuerò a pagare ancora per qualche tempo. La parte razionale di me
stessa ha dovuto prendere il sopravvento: dovevo ascoltare,
comprendere il più possibile, incamerare parole mai sentite prima,
entrare in un mondo medico a me sconosciuto, formulare domande
intelligenti e sfruttare il tempo a disposizione durante il colloquio nel
modo migliore possibile. La paura e lo smarrimento, nonché il terrore
di fronte alla parola Oncologia, non potevano inondare quei brevi
dialoghi, non avrei altrimenti capito nulla sulla diagnosi e sulla cura.
Mi promettevo di dedicare dei momenti a quelle emozioni una volta a
casa, ma in verità la difesa psicologica predominante è stata, ed in parte
lo è tutt’ora, la negazione. Non avevo voglia di parlarne e di informarmi,
andavo avanti con le visite fidandomi, lavoravo come se non fosse
successo nulla, cercavo di capire come organizzare al meglio il periodo
di lockdown e giocavo divertendomi insieme a mio figlio. Questi ultimi,
sono stati momenti intimi, teneri e intensi, colmi di abbracci, di baci, di
piccoli capricci, di nuove scoperte e di tanto amore. Ventiquattro ore
insieme: io, il mio compagno e nostro figlio. Niente asilo, niente nonni,
niente parchetto. Il virus ci ha obbligato ad isolare i nostri genitori, oltre

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ovviamente gli amici. Per prenderci cura di nostro figlio e per continuare
a lavorare dovevamo quindi alternarci. Se lo stare a casa in tre tutto quel
tempo, da un lato ha rappresentato un coinvolgimento e un intreccio
meravigliosamente dolce, dall’altro non ha mai permesso, nè a me nè
al mio compagno, di fermarci e guardare in faccia ciò che ci stava
accadendo, o meglio investendo. Sentivo il bisogno smisurato di stare
nella mia sofferenza, di condividere con il mio fidanzato i pianti e di
smarrirci insieme. Non potevamo invece crollare contemporaneamente
e non potevamo contare sui nostri affetti. Il Covid ha messo una maschera
ai volti e alle nostre emozioni, ci guardavano negli occhi bramando il
momento in cui potevano parlare liberamente di noi e tra di noi, ma
quando questo attimo arrivava, eravamo talmente stanchi che a volte,
avevamo solo voglia di ridere o di rimanere muti davanti ad una serie tv.
C’eravamo solo io, lui e nostro figlio, una casa e un balconcino. Nessun
aiuto e nessun appoggio, se non virtuale. Chiamavamo tutti i giorni i
nostri genitori e spesso anche gli amici, trascorrevamo molto tempo
facendo vedere loro la nostra nuova quotidianità in 90 metri quadri.
    Gli aggiornamenti sulla malattia si trasmettevano tramite telefono,
solo la diagnosi ho voluto comunicarla di persona, ma a distanza. La
pandemia non mi ha permesso di sentire sulla mia pelle l’abbraccio di
mia madre. Il Covid ha reso quei momenti innaturali, come lo è il
distanziamento fra esseri umani, animali sociali da sempre. Avrei voluto
stringere mio papà e mio fratello, avrei voluto farmi accarezzare la
schiena. Con alcuni di loro, ancora adesso questo desiderato momento
non è mai arrivato. Sono ferite profonde che necessiteranno di tempo
per essere accolte e colmate.
    Ricordo il momento in cui ho preso in mano con decisione la mia
situazione. Era una mattina soleggiata, il primo caldo sole di aprile. Mi
trovato nel giardino dell’ospedale e anche solo quella boccata d’aria mi
sembrava una preziosa libertà. Avevo appena esplicitamente chiesto
tempo al chirurgo durante una visita pre-operatoria perché sentivo
realmente il bisogno di comprendere meglio cosa sarebbe accaduto al
mio corpo. Penso che in quel momento mi sia davvero voluta bene. Ho
interrotto la catena che mi portava solo a fidarmi passivamente e ho
sentito dentro le mie viscere un altro bisogno, controcorrente rispetto ai
necessari tempi medici, ma indispensabile per me.

                                                                        25
La corsa quindi a Bologna a chiedere un altro parere, la decisione di
farmi operare a 90 km da casa (con tutte le difficoltà che questo
comportava), il tampone due giorni prima dell’operazione, la partenza
all’alba con i miei genitori, il saluto a mio figlio che dormiva ancora nel
lettino e un forte abbraccio tremante al mio compagno.
    Durante il ricovero in ospedale per l’intervento chirurgico, le visite
erano vietate. Il reparto era silenzioso e austero, pieno di donne già
operate o in attesa di operazione, che provano ad aiutarsi e a
chiacchierare fra loro per stemperare le tensioni, sentirsi meno sole e
offrirsi solidarietà. Quel tempo scorreva lentamente, tra i letti che
entravano e uscivano dalla sala operatoria e la gentilezza delle operatrici
socio-sanitarie: quel calore umano, il coronavirus non è mai riuscito ad
interromperlo.
    L’adrenalina dopo l’operazione, di chi pensa che sia già tutto finito,
e la gioia che l’intervento sia andato bene, sono state le due emozioni
protagoniste di quei giorni bolognesi.
    Un lungo abbraccio di mio figlio e un bacio colmo di amore del mio
compagno, mi hanno riaccolto a casa. Il braccio e il seno sinistro erano
indolenziti e i movimenti un po’ limitati, tanto da richiedere nei giorni
successivi l’aiuto dei nonni, mettendoli consapevolmente in pericolo.
    Sono tornata a lavoro dopo tre settimane dall’operazione per essere
di nuovo bloccata tre giorni dopo da un decreto ministeriale che tutela
i malati oncologici in quanto potenziali lavoratori a rischio Covid. I miei
datori di lavoro mi hanno permesso di lavorare in smart working oppure
in strutture che erano ancora “salve” dall’epidemia, quindi “sicure” per
me. È stato molto complesso lavorare a distanza per una che di mestiere
fa la Psicoterapeuta e che le persone ha necessità di vederle in faccia.
    Il nostro percorso in compagnia del tumore si è inserito precisamente
durante tutto il lockdown e quando si nomina la pericolosità del
coronavirus, non posso fare a meno di pensare all’altro mostro che io e
la mia famiglia stiamo combattendo.
    La prima visita l’ho svolta quando le mascherine non erano ancora
obbligatorie e indossarle sembrava una precauzione forse eccessiva. La
diagnosi è arrivata a pochi giorni dalla chiusura totale, di luoghi e affetti.
I volti che avevo intravisto durante i primi ingressi in ospedale erano
spariti, da lì in poi il naso e la bocca dei medici e degli infermieri

26
sarebbero stati dipinti dalla mia fantasia. Le ulteriori visite sono
avvenute durante il blocco nazionale e i miei pianti li hanno ascoltati
anche i poliziotti che controllavano le automobili in circolazione. Sono
tornata a casa dall’ospedale proprio quando stavano per riaprire i primi
servizi e se per molti quel momento ha rappresentato una deliziosa
ritrovata libertà, per la nostra famiglia ha comportato un’ulteriore
chiusura in attesa che stessi meglio dopo l’operazione. A due settimane
dall’intervento chirurgico il governo ha sancito la riapertura di quasi
tutte le attività ed oggi, devo far convivere la minaccia che il Covid
ritorni con l’inizio delle cure ormonali e un agosto torrido in città con il
trattamento di radioterapia (che tra tutti i mesi dell’anno doveva capitare
proprio quando si dovrebbe essere lontano dall’asfalto bollente).
    Il percorso è tortuoso e a volte la paura di non vedere la fine si palesa
davanti come con una potenza arcaica e spettrale. Ma come direbbe
Snoopy, in una frase che ben riassume la forza che la mia famiglia mi
ha trasmesso e tutto l’amore che ha viaggiato nelle mie vene in questi
mesi: «Tutte le lacrime vanno baciate via».

                                                                          27
ASSUNTA D’AQUALE
                           2° classificato

Diario di una Vita Sospesa
   28 febbraio 2020. Nel primo pomeriggio mentre gironzolavo per la
solita passeggiata quotidiana, solo sparute foglie volteggiavano lungo
il viale alberato, sollevate da una brezza leggera, impalpabile. Nel
piccolo cortile della scuola, dove i bambini si rincorrono nell’ora di
ricreazione, aleggiava una triste desolazione.
   Deserto assoluto. Un misterioso Virus ha deciso improvvisamente di
invadere questo mondo e abbattersi sulle nostre vite, come se non
bastassero i problemi che ognuno deve affrontare ogni giorno.
   Un silenzio irreale ha accompagnato i miei passi lenti, e ho avuto
come l’impressione di trovarmi in un brutto sogno, anzi, in un incubo.
   Ho continuato a vagare per le strade pressoché deserte, mentre con
la mente ho riavvolto il nastro dei ricordi, come in un rewind
impazzito, senza sosta, senza pietà, ripercorrendo i momenti più
terribili. Le diagnosi errate, il peregrinare tra un ospedale all’altro e
poi la terribile sentenza seguita dalla fatidica domanda: perché proprio
a me?
   Eppure, a distanza di tanto tempo, la risposta mi è ancora negata, o
forse semplicemente non esiste, anche se continuo a chiedermi perché
la vita a volte riserva un destino così crudele.

   9 marzo 2020. Il Virus è tra noi. Oggi è stato ufficialmente
annunciato il lockdown. È vietato uscire di casa, se non per necessità
urgenti, obbligatorio mantenere la distanza con le persone e usare la
mascherina. È un fermo immagine improvviso, la grande giostra si è
arrestata e le persone intorno a me sono cadute in un lungo, doloroso
letargo.

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Eppure io questa orribile sensazione l’ho già conosciuta da diverso
tempo, e in un modo o nell’altro, l’ho già metabolizzata, rassegnandomi
all’inevitabile isolamento che la “bestia” ti impone.
    Fino a questo momento ho osservato per giorni e giorni il mondo
esterno attraverso i vetri di una finestra, il mio solo contatto con la vita
là fuori. Nei giorni in cui stavo davvero male e non potevo uscire, vedere
gente, incontrare gli amici vivevo da sola la mia vita sospesa, sperando
di chiudere gli occhi e risvegliarmi dall’incubo.
    Ora, improvvisamente questo virus ha travolto le nostre vite e il
mondo intero si è congelato. Come in una brutta favola, la strega cattiva
ha lanciato il suo maleficio, facendo cadere il reame intero in un torpore
profondo, immobilizzando qualsiasi forma di vita.

    30 marzo 2020. I giorni di questa prigionia forzata passano
lentamente. Alla tv solo immagini sconvolgenti e anche tenendo spento
questo dannato schermo la realtà è sotto i nostri occhi: strade vuote e
spettrali. Il silenzio profondo, assordante.
    Solo verso le 18, ogni giorno, uno sprazzo di vitalità rianima finestre
e balconi. L’umanità, rinchiusa nelle solitarie quattro mura, si riaffaccia
verso l’esterno per cantare e urlare, nel tentativo di liberarsi di quella
tristezza che immancabilmente accompagna queste giornate
interminabili e forse per esorcizzare la paura che sempre più si
impossessa del nostro cuore.
    #iorestoacasa e #andràtuttobene, sono i nuovi mantra di chi vive
oramai prigioniero nella propria abitazione. Cerchiamo di farcene una
ragione, sperando che tutto finisca presto.

    10 aprile 2020. A dir la verità, egoisticamente mi sento meno sola.
Mi sembra come se tutto il mondo fosse solidale con il mio stato,
condividendo il mio personale lockdown. Ho vicino i miei cari, anche
loro costretti a stare dentro casa, mentre fino a poco tempo prima
ognuno viveva la propria vita. Il Virus ci ha riuniti, anche se non nelle
condizioni ideali e soprattutto non per libera scelta, ma non si può far
altro che accettare la situazione e attendere. Questo è l’unico lato
positivo di tutta questa incredibile storia.

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20 aprile 2020. Il contagio continua ad espandersi in tutto il mondo
e dopo l’Italia altre nazioni capitolano e chiudono le città. L’isolamento
è ancora più duro, amplificato dalla paura del contagio.
    Andare in ospedale per le terapie è diventato angosciante. Fino a poco
tempo fa ho potuto guardare in faccia i miei interlocutori: gli oncologi,
gli infermieri e le persone che come me ogni settimana si ritrovano nel
Day Hospital. Se in giorni normali si sarebbero scambiate quattro
chiacchiere con il vicino di poltrona, in questo periodo ognuno pare
sprofondare nei propri pensieri, isolandosi dall’ambiente circostante e
nessuno ha molta voglia di parlare. Ma lo sguardo dei miei compagni di
viaggio è eloquente: uno sguardo impaurito, spaesato, di chi è
consapevole di trovarsi in posto potenzialmente pericoloso ma che non
si può assolutamente evitare, pena l’interruzione della terapia salvavita.
    Anche le infermiere, di solito cordiali e sorridenti, nascondono le
proprie espressioni dietro il celeste della mascherina, ma si comprende
dai loro sguardi la preoccupazione e lo sgomento per quello che sta
succedendo.

   4 maggio 2020. Oggi inizia la Fase 2 e i mezzi di informazione
dicono che ci sarà un graduale allentamento delle precedenti misure di
contenimento. Pare che la curva epidemica sia in discesa. Riapre anche
il parco sotto casa e posso tornare finalmente alle mie passeggiate
quotidiane.

   12 maggio 2020. Il mondo lentamente si rianima, anche se io ho
ancora timore di andare in luoghi troppo frequentati. Passeggio la
mattina presto, per evitare di incontrare troppe persone, dato che la
chemio mi rende un soggetto fragile e devo stare molto attenta. La
terapia procede e ora ho concluso i primi 4 cicli, quelli più pesanti e
devo dire che non è andata così male, il mio fisico ha retto bene. Ora
dovrò proseguire fino ad agosto, pandemia permettendo...

   11 giugno 2020. Siamo nella Fase 3. La gente affolla le strade, il
traffico è tornato caotico e sono finite le interminabili file davanti al
supermercato sotto casa. Nelle strade, prima deserte, i ragazzini si
rincorrono a piedi e in bici, urlando e ridendo, mentre gli adulti, più

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composti, formano discreti e allegri capannelli, raccontandosi tutto
quello che hanno fatto durante il lockdown.
   Io sono tornata alla mia finestra e li osservo e li ascolto, con una certa
dose di sana invidia. Anch’io vorrei tornare alla normalità. Ma il mio
personale lockdown sarà purtroppo molto più lungo.

    3 luglio 2020. Le spiagge iniziano ad affollarsi. Sullo schermo della
tv i vacanzieri si godono, dopo mesi di lockdown, la ritrovata libertà.
Fanno bene, anch’io se potessi affonderei i piedi nella sabbia calda e
soffice per poi tuffarmi nelle acque cristalline di qualche isola tropicale
sperduta dell’oceano... purtroppo sono ancora costretta a rimanere
chiusa in casa, non potendo espormi ai raggi solari per via della terapia.
Manca un mese alla fine di questo faticoso percorso e si avvicina anche
il momento di tornare in sala operatoria. Il mondo circostante riprende,
bene o male, il suo normale tran tran quotidiano. Su Facebook le foto
degli amici in vacanza mi suscitano una gran malinconia e penso a solo
un anno fa ero in giro, nonostante non mi sentissi bene e dopo aver
invano cercato di prenotare una risonanza magnetica, cercavo di
autoconvincermi che la mia era una semplice mastite che presto si
sarebbe risolta. Ma le cose sono andate diversamente.

   3 agosto 2020. Un altro mese è volato via. Ho saltato già 2 cicli di
terapia e dovrò rinunciare anche all’ultima per grave tossicità. Ho le dita
dei piedi e delle mani intorpidite, perdo spesso l’equilibrio e non sento
più il gusto del cibo. Mi preoccupa questo secondo intervento ai
linfonodi e se penso che avrei potuto farlo mesi fa, quando mi sono
operata la prima volta, sento una grande rabbia ribollirmi dentro.
   Ma arrabbiarsi non serve, peggiora solo la situazione. Cerco di
focalizzare la mia attenzione sui progetti futuri, anche se in questa
incertezza generale mi rendo conto che nulla potrà essere come prima.
L’esperienza del Covid ci ha insegnato proprio questo: occorre essere
consapevoli che il mondo è cambiato, che noi stessi siamo
profondamente diversi e che per sopravvivere bisogna adattarsi.
   Anche se il lockdown è terminato, la nostra vita, anche nelle cose
più semplici si è modificata e so benissimo che per me questa vita
sospesa continuerà chissà per quanto tempo ancora.

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Il mio percorso sarà costellato di imprevisti, difficoltà ma anche di
piccole conquiste quotidiane, perché amo la vita e vorrei viverla fino in
fondo, senza pensare troppo al futuro. Occorre concentrarsi sul presente,
assaporare ogni istante e sperare che #andràtuttobene...

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GIROLAMO MENEGHESSO
                        2° classificato

Maschere
La vita sconvolta.
Improvvisamente,
Finito è il tempo.
Per piangere,
Per ridere,
Per accompagnare un amore.
Per cogliere,
Un sorriso caro.
Un bacio appassionato.
Per vivere un amplesso,
sereno.
Per condurre,
per mano
un figlio.
Solo maschere ora,
come fantasmi anonimi,
sul palco della vita.
Mute,
fredde.
Eppure
Vitali.

                                          33
MARIA ANGELA CAPPARELLI
                             2° classificato

Io lo so, perché c’ero
   L’ho vista varcare la soglia, con un trolley nero, i guanti in lattice, la
mascherina e il piumino punteggiato di pioggia.
   Fuori l’aria spessa, come quel tempo sospeso in una dimensione
senza tempo. Aveva baciato quell’uomo straordinario, d’un tratto
impotente, scaraventato lontano dalla sua intimità. Gli occhi gonfi di
lacrime. Il cuore colmo di paura. Un acre tanfo di pioggia. In bocca il
nauseante sapore di niente.
   Non aveva vissuto in tempo di guerra, ma quel passaggio al
checkpoint dell’ospedale, il buio accecante, le code fuori dai negozi, il
coprifuoco sulle strade, il silenzio assordante intorno: tutto descriveva
una drammatica scena di terrore.
   E quella donna da cui mi ero separata, fluttuando a tre metri da lei,
senza mai perderla d’occhio, stava affrontando la sua più impietosa
battaglia contro il male. Sola. Mentre il mondo era impegnato a
combattere su piani sconosciuti un nemico invisibile.
   Io lo so cosa si chiedeva mentre passava un panno umido d’amuchina
intorno a tutto ciò che toccava o anche solo guardava.
   Io lo so, perché c’ero.
   Uno dopo l’altro, sospingeva i suoi passi sui gradini che portavano
in cima a quella fottutissima storia.
   E sulla vetta nessuna voce amica... amata... cara. Nulla! Solo silenzio,
solitudine e disperazione. Solo adempimenti burocratici, informative,
liberatorie, amuchina e paura.
   Il terrore di non riabbracciare le sue figlie. La paura di non rivedere
suo marito. Il timore di non tornare tra i suoi cari.

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In quel luogo deserto vigeva una tangibile, umana e sotterranea
diffidenza. Se ne sentiva l’odore.
    L’ho vista darsi una pacca sulla spalla, nascosta tra le ante
dell’armadio, e farsi coraggio, ingoiando le ultime lacrime rimaste.
Quelle che non aveva ancora mai pianto.
    Ripensava: «quando hai due figlie piccole e scopri che un cancro
vorrebbe fotterti, non hai tempo di stare lì a piangere. Ingoi ogni rospo
e combatti ogni battaglia come sul set de “La Vita è Bella”. Le terapie
ti stroncano? Vomiti e sorridi. Cadi e ti rialzi, come se fossi solo
inciampata. Non vuoi e non puoi abbatterti e questo limite diventa la
tua risorsa più grande. Impari ad apprezzare ogni istante, perché è
l’unica certezza che hai e questo diventa il tuo mantra, non perché sei
intelligente ed hai trovato la chiave della felicità, ma perché senti che
non v’è altro... non ancora almeno, non per te. Così, indossi la tua
parrucca ed entri in scena ogni giorno, rassicurando il mondo che tutto
è sotto controllo: la mamma ce la farà!
    E poi una domenica qualsiasi d’inverno, mentre attendi di
recuperare ogni forza prima dell’intervento, e ti sembra che l’universo
ruoti intorno a quell’attesa, tutto si blocca. Tutto si sospende. Nessuno
può più uscire di casa, se non per comprovate ragioni di necessità. La
paura incombe. Il covid 19 non è cosa d’altri, aleggia intorno a te. C’è
già chi ne muore. Ma sono solo i più deboli; quelli che hanno altre
patologie – sminuiscono i media. Cavoli! “Quelli” potresti essere tu!
O tuo fratello che, come te, sta fronteggiando la tua stessa battaglia...
    Allora la tua reclusione si fa più serrata. E anche chi ti sta intorno
si fa mille volte più cauto».
    La vedevo bene: da quell’armadio sembrava non voler più uscire.
Sembrava quasi volersi rinchiudere dentro. In quel tempo che dilatava
le distanze tra la camera e la sala operatoria.
    Restava di spalle e assorbiva le preghiere e l’energia di tutti quelli
che l’amavano e pensavano a lei, fuori da quell’ospedale, barricati nelle
loro case e nel loro lockdown.
    «Talmente inverosimile da sembrare quasi allegorico» – pensava.
Stava per affrontare la partita più dura della sua vita, in piena pandemia,
e doveva pagare pure il prezzo della solitudine. Come se quel momento
fosse troppo sacro per poterlo condividere.

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L’ho vista allontanarsi, mascherata e fiera, sulla sua barella... L’ho
vista andare, fiduciosa, tra le braccia di quei medici e sanitari che,
coraggiosi, stavano sfidando anch’essi la loro stessa paura.
    Avrebbe voluto sorridere (come aveva visto fare a sua madre,
vent’anni prima, in un’impresa simile), ma non c’era nessuno che, dietro
la mascherina, avrebbe potuto vedere il suo sorriso.
    L’ho vista tornare, otto ore dopo, vittoriosa e con due seni nuovi,
esuberanti, da cui sgorgava la sua voglia di vivere e l’irrefrenabile gioia
d’aver assestato un colpo secco a quei geni mutati.
    L’ho sentita subito chiedere di avere il suo telefono, per ricollegarsi
ai suoi cari e dir loro: «la mamma ce l’ha fatta! È stata dura, ma ce l’ha
fatta!».
    Aveva la voce rotta dalla stanchezza, ma dissimulava.
    Allora ho pianto io per lei, le ho accarezzato il viso e sono tornata
dentro, al mio posto.
    So cosa ha sentito quella donna. Lo so perché c’ero anch’io quel 30
marzo 2020.
    Lo so con indiscutibile certezza, perché quella donna ero io!

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MARTA RIMINUCCI
                             2° classificato

Il linfoma al tempo del coronavirus:
la testimonianza di Emanuele
con gli occhi di Marta.
    Era venerdì sera. Che strano arrivare di venerdì sera all’aeroporto e
non trovare quasi nessuno: il finesettimana di solito è foriero di viaggi,
di ritorni, di arrivi, di abbracci, di arrivederci, di bentornati, di lacrime,
di sorrisi... E invece niente. Nessuno. Avevo aspettato quel momento
con ansia e trepidazione, arrivavo da un’esperienza senza precedenti
dall’altra parte del mondo, a Buenos Aires, avevo lasciato tutto per
vivere tre settimane di una vita che non era la mia, con persone
incredibili che mi hanno stampato sulla retina volti, sorrisi, occhi, e fatto
riecheggiare nelle orecchie voci, pianti, risate, commenti; non smettevo
di sentire le loro strette di mano, i loro abbracci, le loro carezze, le mille
guance baciate nel tipico saluto argentino. Avevo vissuto talmente tante
esperienze che mi sentivo in subbuglio, e sapevo che avrei dovuto
mettere a posto molti pezzi, magari non proprio come prima, ma un
ordine avrei dovuto trovarlo; eppure sentivo che, insieme all’impazienza
di riabbracciare marito, figli, famiglia e amiche che tanto mi avevano
incoraggiato in questa esperienza nel sud del mondo, faceva capolino
una specie di agitazione, una sensazione di qualcosa che non sarebbe
andato come mi aspettavo. Certo, il Covid, quello era un pensiero che
avevo, ma che non era ancora così radicato. Ero partita quando ancora
chi indossava una mascherina veniva tacciato di essere un esagerato,
poi dall’altra parte del mondo avevo provato come ci si doveva sentire
ad essere cinese in Europa un mese prima, e poi... e poi avevo altro a

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cui pensare: le Madres di Plaza de Mayo, le storie dei desaparecidos, le
nonne e i nipoti ritrovati, le condanne ai processi per genocidio, gli ex
guerriglieri, gli antropologi forensi, i cartoneros. Il coronavirus era una
notizia che mi pareva lontana anni luce, come quando senti che su Marte
sono state trovate possibili tracce della presenza di acqua.
    Durante il lungo viaggio da Buenos Aires a Fiumicino avevo faticato
a prendere sonno, mi sentivo affollata da un miscuglio di sentimenti, mi
veniva da piangere, poi da ridere, pensavo alle persone speciali che
avevo incontrato, alle storie che avevo ascoltato, al delizioso cibo che
avevo assaggiato, al mate che avevo condiviso, al tango che avevo
tentato di ballare in maniera decisamente ridicola! E poi cercavo di
pensare al ritorno, ai racconti che avrei fatto, alle serate che avrei
organizzato con le amiche, alle lacrime che mi sarebbero scese
rivedendo i miei figli e mio marito... ma quella sensazione era sempre
lì, una specie di irrequietezza, faceva capolino, come ad avvisarmi in
maniera implicita, un po’ nebulosa, che qualcosa non sarebbe andato
secondo i piani. Ma era una percezione sfuggente, che non riuscivo ad
afferrare e a concretizzare.
    E infatti quel venerdì sera di marzo quando scesi dall’aereo ebbi un
impatto davvero strano, tutto mi parve surreale: l’aeroporto quasi
deserto, le poche persone che c’erano stavano distanti, nessun abbraccio,
nessuna stretta di mano, pensavo di essere approdata in una pellicola di
Kubrick, o di essermi addormentata, finalmente, e di essere sprofondata
nel mio mondo onirico del tutto irrazionale. Poi venni subito rapita dagli
abbracci e dalle parole dei miei figli, che mi aggiornavano sul fatto che
non erano più andati scuola e che non sapevano ancora quando
sarebbero tornati, che avevano dovuto interrompere le loro attività
sportive, i gruppi in parrocchia, che la situazione dei contagi da
coronavirus stava peggiorando di giorno in giorno, e al contempo venni
subissata di domande alle quali avevo molta voglia di rispondere da un
lato, ma rispetto a cui sentivo una specie di reticenza dall’altro, come
se quello non fosse il momento di farlo, di trasmettere la mia energia,
le mie esperienze. Mi sentivo come sospesa. Il rientro a casa fu perfetto:
la cena pronta e deliziosa, tutto pulito e in ordine, piante annaffiate,
bucato fatto. Ma quel tarlo non voleva saperne di tacere, quella
sensazione non se ne andava.

38
E poi udii una frase, come giunta da lontano, da una distanza
interstellare: «Domattina vado al Coes a fare una TAC, se mi
accompagni mi fa piacere, ma se sei stanca lo capisco». Stanchezza,
fuso orario, eccitazione, voglia di raccontare... tutto in un attimo svanì.
Ci fu un blocco nella mia mente. Le parole che ero convinta di dire in
realtà non uscivano e restavano intrappolate in gola, la risposta che stavo
cercando di dare non arrivava né alle mie orecchie né a quelle di mio
marito che, con il suo solito sorriso pacato mi strinse e mi disse: «Andrà
tutto bene», molto prima che questa frase diventasse il grido di speranza
dell’Italia attanagliata dalla pandemia.
    Ed ecco che tutto assumeva un significato. Quella sensazione, quel
tarlo, quell’irrequietezza poco a poco si concretizzavano, assumevano
un nome: LINFOMA. Era il 6 marzo. Di lì a poco sarebbe diventato
“linfoma ai tempi del lockdown”. La mia passione per la lettura mi
aveva subito suggerito, in un reflusso di ironia direi al limite del
sarcasmo, che avrebbe potuto essere un bel titolo per un libro. C’era già
stato il capolavoro di Gabriel Garcia Marquez “L’amore ai tempi del
colera”, perché non avrebbe potuto esserci “Il linfoma ai tempi del
Covid”? Pensiero drammatico, anzi, tragi-comico, anzi... assurdo. Ecco.
Mi sentivo non più in un film di Kubrick ma in un’opera del teatro
dell’assurdo di Ionesco. Assurdo e surreale. Questi erano i termini che
più si addicevano alla situazione che stavo vivendo. E, come nel teatro
dell’assurdo i protagonisti cambiano, i dialoghi sono senza senso,
ripetitivi, serrati, capaci talvolta di suscitare un sorriso nonostante il
senso tragico del dramma che i personaggi stanno vivendo, così,
assurde, si stavano delineando le ore successive al mio rientro e alla
notizia del linfoma di Emanuele.
    I giorni seguenti furono un susseguirsi di notizie tragiche,
preoccupanti, sia per il gran numero di contagi da coronavirus sia per
le caratteristiche che stava assumendo la pandemia a livello economico,
sociale e relazionale.
    Ed eccoci qui, ad iniziare il percorso obbligato del linfoma. In un
altro momento della mia vita avrei detto “calvario”, anzi, l’avevo fatto,
venticinque anni prima quando mio papà si era ammalato senza alcuna
possibilità di cura, ma non questa volta. Sono sempre stata
un’estimatrice delle parole, ed è curioso come, quando si ha a che fare

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con una patologia oncologica, si cominci a padroneggiare un certo
lessico. In una situazione di vita normale se ne parla fuori casa, al lavoro,
con gli amici, ed è come se in qualche modo la parola “tumore” e tutto
ciò che essa porta con sè si stemperasse, si diluisse; anche nella peggiore
delle ipotesi, quand’anche non si mescolasse perfettamente al contesto,
così come accade all’olio nell’acqua, è come se rimanesse lì, come
rifratta in migliaia di minuscole goccioline, che però non svaniscono,
non si sciolgono, non si nascondono. Stanno lì e basta, in modo da
ricordarti che in quell’acqua c’è l’olio, che anche se sembra sminuzzarsi
non si dissolve. Già, in una situazione normale, cioè non questa. Il
lockdown che aveva invaso la nostra vita però ci stava ponendo di fronte
ad una nuova opportunità.
    Chemio, radio, pet, tac, risonanza magnetica, mezzo di contrasto,
picc, accesso venoso, tutte parole che stavano entrando nel lessico
familiare, insieme a effetti collaterali, nausea, vomito, inappetenza,
perdita di capelli, gonfiore, dimagrimento...
    Emanuele doveva affrontare tutto da solo. Il lockdown che ci aveva
investiti invadendo la nostra vita sembrava volermi estromettere dalla
malattia di mio marito, relegandomi al ruolo di spettatrice che di norma
non mi si addiceva, e stava costringendo lui a vivere una specie di vita
parallela a quella dell’#iorestoacasa. Perché lui non restava a casa,
usciva per andare al Coes alle Molinette, partiva per affrontare la sua
piccola battaglia quotidiana, con la sua preziosa armatura fatta di
pazienza, sorriso, buona musica da ascoltare in quel letto d’ospedale, e
baci di cui i ragazzi e io lo riempivamo prima di partire per il suo duello.
    Non poter uscire ci permise di tenerci compagnia, di soccorrerci, di
specchiarci negli occhi dell’altro, di supportarci e non solo di
sopportarci, ma ci mise di fronte alla realtà con una lucidità
agghiacciante, non potevano nasconderci, né piangere di nascosto, né
sfogarci, né arrabbiarci, né urlare... “La convivenza con il tumore ai
tempi del Covid”: questo avrebbe dovuto essere il titolo per esteso del
famoso libro.
    «Io non lo volevo questo linfoma», sentii dire ad Emanuele una sera
mentre eravano nel letto. «Che frase dolcemente infantile», pensai.
Aveva ragione a dirlo, l’aveva fatto senza rabbia, senza recriminazione,
gli era uscita così, come una constatazione, come un pensiero libero che

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fluttua nella mente e ad un certo punto sfugge al controllo che essa
esercita e viene fuori. Io interruppi la lettura del mio libro e voltandomi
lo vidi come se fosse la prima volta: una creatura fragile, indifesa, che
sbucava sul cuscino con la sua testolina lucida, ormai completamente
calva, senza sopracciglia e mi sembrava piccolo, smarrito nei fiori del
copripiumone e nei suoi pensieri ad alta voce.
    Dopo quella sera non so quante volte pensai che neanch’io lo avrei
voluto questo tumore, che i nostri figli erano nel pieno della loro crescita
e dovevano già scontrarsi con questa realtà dolorosa, che la nostra vita
era già stata messa alla prova in troppe occasioni, a partire da quando
otto anni fa proprio lui aveva donato il midollo per salvare sua sorella,
ironia della sorte! E poi non mi rassegnavo alla solitudine in cui
Emanuele doveva affrontare le cure, non mi sembrava vero di non poter
parlare con i medici, di non poterlo stringere e consolare e rassicurare
durante quelle ore interminabili in ospedale. La solitudine,
un’esperienza che durante il lockdown le persone sofferenti hanno
provato senza possibilità di riscatto.
    A quel punto le mie giornate di moglie di un paziente oncologico si
stavano traformando. Il lavoro, i figli, la casa, gli amici che ci stavano
così vicini, tutto girava in funzione della malattia. Iniziai ad avere come
la sensazione di essere nel bel mezzo di un episodio della nostra vita di
cui c’era già il finale, anche se noi non lo conoscevamo, e quindi
bisognava solo aspettare. Quella sensazione di sospensione che provavo
all’inizio si stava tramutando nella percezione di essere una funambola,
con un equilibrio precarissimo, certo, ma con una solida asta che mi
permetteva di mantenerlo, almeno quel poco che c’era, e poi... sapevo
che nel caso fossi caduta ci sarebbe stato il materasso d’emergenza.
Cosa fosse questo materasso non lo so neanch’io, a posteriori dico che
forse era una miscellanea di amore, pazienza, amicizia, fede, volontà,
libri, risate, buona cucina... non so, oggi fatico a concretizzare il
materasso, ma so che c’era.
    Adesso, a distanza di qualche mese, guardo Emanuele dalla stessa
prospettiva di quella sera, con lo stesso copripiumone, con un libro in
mano, ma vedo un’altra persona, non solo perché gli sono ricresciuti i
capelli, ma perché riconosco in lui i tratti del vincitore, non senza ferite
e cicatrici, nel corpo e nell’anima, ma adesso l’armatura si è trasformata

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in zainetto, con tutto ciò che serve per affrontare la vita che ancora una
volta si presenta sfacciata per essere vissuta. Con o senza linfoma. Con
o senza coronavirus. Una sfida quotidiana. Che gli ha permesso di
andare in vacanza, di giocare a golf, di andare in bici, di scalare le
montagne, «con calma sempre tenendo d’occhio la situazione», come
dicono i nostri figli adolescenti e «un passo e un respiro, piano piano»
come ha detto Emanuele nella recente ascesa al monte Tabor.
   Sono stata una spettatrice che ha pagato caro il prezzo del biglietto,
senza nemmeno sapere come sarebbe stato il finale dello spettacolo, ma
d’altra parte questo era il teatro dell’assurdo, no?

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ROSALBA SPAGNOLO
                            2° classificato

Tu vivi
Ho visto la mia vita
ferma in un angolo.
Smarrita.
Persa dietro ai pensieri.
Spariti,
gli amici di ieri.
Non c’è un Cireneo
che sollevi il mio legno,
una Veronica
che deterga il mio viso.
Chi mi rende la gioia
che mi era compagna,
chi mi ridà il sorriso?
Ma una voce
dapprima lontana,
si fa strada
tra i pensieri cattivi
e, bussando
alla porta del cuore,
mi dice pian piano:
«Tu vivi!»

                                              43
Figlia, io ti racconto
Figlia, io ti racconto
di notti lunghe
sopra un cuscino bagnato.

Figlia io ti racconto
la paura di non vederti diventare donna,
l’amarezza di non accomodarti
il velo da sposa,
di non tenerti la mano
quando al tuo dolore
farà eco una vita nuova.

Figlia, io ti racconto
la testarda speranza
di invecchiare
al fianco di tuo padre.

Figlia, io ti racconto
la gioia
che mi dà il profumo
di questa nuova primavera.

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Per tutto questo
Per la tua tenerezza,
per l’amore dei miei figli,
per l’odore del mare,
per le macchie di ginestra,
per le lance forti e acute dell’agave,
per i cespugli di biancospino,
per le case bianche,
per la luce accecante
di un meriggio d’estate,
per il profumo di pane caldo,
per una schietta stretta di mano,
per l’amicizia sincera,
per un cortile pietroso,
per il suono dell’Avemmaria,
per le lodi del Signore,
per il ricordo dei miei morti.
Per tutto questo e per tant’altro ancora,
per tutto questo,
io voglio vivere.

                                            45
Il tuo dolore
Quello che mi fa più male
amore,
non è lo scempio
di un bisturi impietoso,
non è l’angoscia
di una sentenza senza appello,
non è lo strazio dei miei capelli sul cuscino.

Quello che mi fa più male,
amore,
è il tuo dolore
che nascondi
dietro quel tenero sorriso.

46
Proprio adesso
Ma proprio adesso
dovevo incontrarti,
così tenero, così speciale,
con l’azzurro incanto
dei tuoi occhi innamorati?

Proprio adesso
che ho il seno vuoto...
        - Lo riempirò d’amore.
Proprio adesso
che ho la testa nuda...
        - La coprirò di carezze
Proprio adesso
che ho il volto disfatto...
        - Sei così bella!
Ma se mi guardo
Nell’azzurro specchio
dei tuoi occhi innamorati,
un poco, ma proprio un poco,
ci credo anch’io.

Sì, proprio adesso
dovevo incontrarti.

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ELISABETTA ANSELMI
                            3° classificato

Maria Sole
    Frugava nella borsa una caramella allo zenzero, velocemente ne
metteva una in bocca e tornava in ambulatorio: «Allora Signora, prego
si accomodi per la visita».
    Erano giorni ambigui per la dottoressa Marina, lo sguardo spesso
schivo, fragorose risate a coprire le emozioni, le paure: nascondeva nel
ventre il segreto della Vita, ma aveva deciso di proteggerlo omettendo
la lieta notizia, che tutti, intorno a lei, si aspettavano da tempo.
    Ogni volta che stava per rivelarlo a qualcuno, poi si tratteneva
pensando di essere poco opportuna: in un reparto di oncologia, dove
aleggiava così forte il concetto di Morte, di fronte al dolore dei pazienti
e dei famigliari, davanti alla sua collega che di recente aveva subito un
raschiamento, il suo slancio comunicativo si ritraeva e si rannicchiava
insieme al suo feto nella pancia.
    L’estate 2019 volgeva al termine e la Vita che aveva generato sarebbe
esplosa nella primavera 2020, ancora ignara del Mondo profondamente
cambiato che avrebbe trovato.
    Proseguiva a lavorare come se nulla fosse, ripetendosi che la
gravidanza non è una malattia e che poteva continuare ad essere la donna
e il medico di sempre; non si risparmiava, pertanto, ai turni più pesanti,
a visitare i pazienti, ad entrare nelle stanze delle chemioterapie. A volte
pensava di sbagliare, di non essere una madre prudente, di esporre sua
figlia a troppo stress, a potenziali agenti patogeni e mutageni, poi ad un
tratto sorrideva all’idea di riempirla di anticorpi e di così tante emozioni
da farle già grosso il cuore.
    Un giorno non bastò più il camice di due taglie più grande, le maglie
larghe e le battute già pronte come risposta agli sguardi indiscreti delle

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infermiere che lavoravano con lei: decise pertanto di confidare quel
segreto ai suoi colleghi, amici, parenti e ai pazienti che glielo avrebbero
chiesto. Tutti ne furono entusiasti, la maggioranza scommetteva sul
sesso femminile del nuovo arrivo ed anche lei ne era più che certa, fin
dal primo test di gravidanza effettuato: non poteva che essere donna
quella forza prorompente che si faceva spazio tra le sue viscere.
    Tutto scorreva molto velocemente, come del resto scivola frenetica
la vita di una giovane coppia di medici tra turni, guardie notturne,
congressi e l’immancabile racconto serale di qualche caso visto in
giornata.
    Da giorni fomentava nell’aria, ormai più mite, lo spettro di un nuovo
virus proveniente dalla Cina, dove aveva causato un paio di migliaia di
morti; eppure, agli occhi della dottoressa Marina, non sembrava così
nocivo: aveva letto che colpiva perlopiù gli anziani e che la sua mortalità
era anche più bassa di quella dell’influenza stagionale, pertanto cercava
di proseguire al meglio la sua quotidianità, già fortemente scossa da un
recente lutto in famiglia. La Morte che arriva senza la preannunciazione
di una malattia aveva colto impreparata anche lei che con Thánatos
aveva una certa confidenza, così il fratello se ne era andato, a modo suo,
silenziosamente, senza nessun grido di allarme, mentre fuori
allegramente si festeggiava il carnevale. Nella stanza di rianimazione,
un senso di colpa l’aveva pervasa: lei aveva il doppio degli organi,
mentre quelli di suo fratello non aspettavano altro che essere donati a
qualche Vita in bilico, sospesa e in attesa come quella di sua figlia nel
caldo liquido amniotico.

    Era un lunedì, il 9 marzo 2020, quando la dottoressa Marina
entrando, come tutte le mattine, nel day hospital di oncologia, non fu
accolta dai consueti sorrisi e abbracci delle sue colleghe, né tantomeno
dalla rituale carezza al pancione, che ormai era diventata d’abitudine
prima di iniziare il turno, bensì dall’agitazione e dall’irrequietezza dei
suoi colleghi, intenti a liberarsi dei loro consueti abiti per indossare
tutine, ciabatte, mascherine, guanti e cuffie per capelli. D’improvviso
tutto era cambiato: quei compagni di avventura erano come estranei che
le ripetevano all’unisono: «Tu qui non puoi stare, devi rimanere a casa
perché sei incinta ed è troppo pericoloso per te proseguire a lavorare».

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«A casa?», ribatté la dottoressa Marina, «Ma questa è casa mia!». Se
per casa intendiamo il posto dove trascorriamo la maggior parte del
tempo, dove viviamo le emozioni più forti, dove ci sentiamo a nostro
agio, allora l’ospedale rappresenta per ogni medico la propria casa.
    Quel lunedì la dottoressa Marina non fece altro che procurarsi una
mascherina e tornare a casa, quella per cui pagava l’affitto. L’abitazione
era vuota, suo marito era andato a lavoro, lui al contrario suo, poteva
onorare il proprio giuramento, che il quel momento storico, ogni medico
sentiva esplodergli dentro. Lei, invece, percepiva una duplice
sensazione: il dovere a cui finora non si era mai sottratta e l’istinto
materno di dover proteggere sua figlia.
    I giorni trascorrevano tutti uguali, era passata in meno di 24 ore dalle
decine e decine di persone che vedeva quotidianamente, dalle loro storie,
dai colloqui infiniti fatti di miliardi di parole, al silenzio di quella che
ora doveva accettare come sua nuova casa.
    Si era immaginata il nono mese di gravidanza come giorni
elettrizzanti, passati tra divertenti compre per la figlia, le ultime cenette
tête à tête con il marito, il cinema e quella mostra che si era promessa
di ammirare prima di vedere cambiare radicalmente le proprie abitudini.
    Ora, invece si ritrovava confinata in casa come in una grande bolla
di sapone, protetta dagli spigoli di un possibile contagio e da quella
velatura che la circondava osservava il marito che, rientrando in casa,
disinfettava ogni oggetto personale e le faceva sentire ovattato lo
scroscio dell’acqua che lo lavava portando via lo sporco, la tensione
accumulata in corsia e la paura di contagiare la sua famiglia. La sera si
addormentava dopo ore passate a vedere tutti i post che i suoi colleghi
pubblicavano circa il nuovo virus, il covid-19: ogni giorno si cercava
di condividere le esperienze sul campo, le terapie tentate, le strategie
future, le lacune riguardo ai dispositivi di sicurezza individuali: ognuno
voleva contribuire con un piccolo pezzetto di lego alla costruzione di
una nuova conoscenza che eccitava e terrorizzava allo stesso tempo tutta
la comunità scientifica. Anche lei ne voleva sapere di più sul
coronavirus, ma il suo ultimo pensiero era sempre rivolto ai quei
pazienti che aveva lasciato d’improvviso un lunedì mattina di marzo:
loro combattevano già la più grande delle battaglie e come avrebbero
potuto affrontarne un’altra con un’armatura ormai malconcia? Avere un

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