I REDDITI DI CAPITALE: DEFINIZIONE E TASSAZIONE DELL'IMPONIBILE

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I REDDITI DI CAPITALE: DEFINIZIONE
E TASSAZIONE DELL’IMPONIBILE

FRANCO GALLO *

1. Premessa
Il tema della tassazione dei cosiddetti « redditi finanziari » è sempre
stato appassionante e denso di implicazioni sia tecniche che scientifi-
che. Vi si trovano ricomprese, infatti, molte delle problematiche su cui
la dottrina tributaria dibatte ormai da decenni, non ultimo il concetto
stesso di reddito 1. La recente emanazione del DLgs n. 461 del 21
novembre 1997 – che completa, con decorrenza dal 1º luglio 1998, la
riforma organica della complessa materia – affronta tali problemati-
che e in buona parte le porta a soddisfacenti soluzioni.
    Alle innegabili qualità lessicali del testo si accompagna in partico-
lare un disegno inattaccabile dal punto di vista tecnico-scientifico,
frutto di una evoluzione legislativa e di una elaborazione tecnica ini-
ziata fin dai primi anni Novanta. Per quanto possano apparire a vol-
te opinabili alcune soluzioni ivi adottate, si deve convenire che ven-
gono risolti, con formulazione chiara e comprensibile, i problemi di
fondo relativi alla eterogeneità della tassazione delle rendite finanzia-
rie 2, talora anche mediante scelte « di avanguardia ». Sul piano del
metodo trovo, ad esempio, particolarmente apprezzabile la tecnicità
delle soluzioni relative alla tassazione dei contratti sia a termine che
« derivati » e del risparmio gestito nonché la scelta di riscrivere gli
articoli 41 in toto e 81 nella parte concernente le rendite di natura
finanziaria. Ed è proprio su tali ultimi aspetti – e, in particolare, sul-
la nozione di reddito di capitale che emerge dalla nuova formulazio-

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* Docente di Diritto Tributario all’Università Internazionale Studi Sociali Luiss di
Roma.
¹ Sul punto v. tra gli altri, De Mita, La nozione di reddito, in Commentario al Testo
Unico delle imposte sui Redditi, Milano, 1990; Escalar, Contributo allo studio della
nozione di reddito di capitale, in Rass. Trib., 1997, 2, pagg. 285 e segg.; F. Gallo, Prime
considerazioni sulla disciplina dei redditi di capitale nel nuovo Testo Unico, in Rass.
Trib., 1998, I, pagg. 69 e segg.; Marchetti, Il risparmio nel sistema delle imposte sui red-
diti, Milano, 1997, pagg. 53 e segg.
² Basti pensare alla riduzione delle aliquote a due che dovrebbe preparare l’aliquota
unica europea o, meglio, «l’euroritenuta» proposta nel «pacchetto Monti».

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ne dell’articolo 41 – che intendo soffermarmi in questo mio breve
scritto.
2. Reddito prodotto e reddito-entrata nella definizione dei cosiddetti
redditi finanziari
In termini generali è innanzitutto degno di rilievo che, in attuazione
della delega contenuta nel comma 160 dell’articolo 3 della Legge
n. 662 del ’96, si sia mantenuta la distinzione fra redditi di capitale e
redditi diversi.
    Altre legislazioni – in particolare quelle di cultura anglosassone –
hanno seguito una via, indicata soprattutto dagli economisti, diversa
da quella della diversificazione tra plusvalenze finanziarie (reddito-
entrata) e redditi di capitale (reddito prodotto). Negli Stati Uniti, ma
anche in diversi paesi del Nord Europa, si è creata infatti un’unica
categoria di redditi finanziari, comprensiva tanto dei redditi di capitale
quanto dei redditi diversi. Una tale scelta avrebbe potuto essere prati-
cata anche in Italia, ma ritengo, allo stato, in fin dei conti migliore la
condotta prudenziale tenuta dagli estensori della riforma: mantenere
le due categorie, limitandosi a darne una migliore puntualizzazione.
    In effetti l’unificazione delle due categorie avrebbe comportato un
intervento un po’ troppo intrusivo nel sistema del vigente Testo
Unico approvato con il DPR n. 917 del 1986, il quale è invece
improntato ad un metodo casistico, che racchiude in un novero di fat-
tispecie puntuali e tassative le ipotesi di reddito tassabile e, con
riguardo ai redditi finanziari in particolare, riconduce la categoria dei
redditi di capitale alla nozione di reddito prodotto e le plusvalenze
finanziarie a quella di reddito entrata. Una riforma, quale quella in
esame, che ha « accettato» la filosofia del Testo Unico limitandosi a
modificarlo ed integrarlo, non poteva che accettarne anche il peculia-
re metodo casistico e la suddetta distinzione. Nel Testo Unico manca
del resto una norma che definisce in via generale la nozione di reddito
e, a differenza del previgente DPR 597 (articolo 80), manca anche
una norma che, più o meno, dica in via residuale: « Ogni altro reddito
che non sia considerato negli articoli precedenti è comunque conside-
rato reddito tassabile». Né, d’altro canto, esistono in Italia norme,
come quella della legislazione francese, in cui il reddito viene sì tassa-
tivamente individuato, ma con definizione talmente espansa da farne
più un reddito « entrata» che un reddito « prodotto ». Si pensi che in
Francia e negli Stati Uniti i redditi da attività illecita sono tassati non
già in forza di una norma che espressamente li preveda, ma perché
ricadono nell’amplissimo concetto di reddito – assunto quasi come
sinonimo di qualsiasi «incremento di ricchezza» – ivi adottato.
    Al contrario, fino all’entrata in vigore nel 1988 del citato TUIR, il
nostro sistema di tassazione sui redditi è stato costruito ignorando il
concetto di reddito-entrata e puntando esclusivamente sulla nozione,
più ristretta, di reddito prodotto: di quel reddito, cioè, che deriva

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direttamente dallo svolgimento di un’attività produttiva o, più in
generale, da una fonte produttiva. Coerentemente a questa scelta,
tanto i redditi di capitale quanto i redditi diversi erano fino a quella
data ricondotti alla nozione di reddito prodotto e cioè erano presi in
considerazione solo in quanto derivanti (e, perciò, prodotti) dalla
conclusione di atti negoziali e/o speculativi. La linea di discrimine tra
le due categorie passava allora non attraverso la distinzione tra reddi-
to prodotto e reddito-entrata, ma attraverso la differenziazione tra
frutti civili e proventi ad essi assimilati, da una parte, e plusvalenze e,
comunque, ogni provento differenziale speculativo, dall’altra.
    È solo con il Testo Unico che si è – almeno a mio avviso – mutato
rotta e si è introdotta, sia pure con qualche timidezza, anche la nozio-
ne di reddito-entrata riconducendo ad essa ogni plusvalenza indicata
nell’articolo 81 e, nel contempo, eliminando il fine speculativo e la
preordinazione al guadagno come elementi qualificanti l’attività pro-
duttiva delle plusvalenze stesse 3. Il legislatore del 1997, a sua volta,
non ha però condotto fino alle estreme conseguenze questa evoluzio-
ne accomunando in una unica, più generale nozione di reddito le due
categorie. Si è limitato a rendere più netta e decisa la differenziazione
ritenendo non ancora maturi i tempi per assorbire nella più ampia
nozione di reddito-entrata ogni provento derivante dallo svolgimento
di un’attività finanziaria. Come ho già detto, la soppressione della
categoria dei redditi di capitale (prodotti) e il conseguente repentino
passaggio, per i redditi di capitale, da una nozione di reddito prodot-
to ad una unitaria di reddito-entrata – la sola che avrebbe potuto reg-
gere la categoria omnicomprensiva dei redditi finanziari – sarebbero
apparsi, infatti, non necessari, eccessivi e contraddittori alla filosofia
del Testo Unico. Si sarebbero cioè creati all’interno del Testo Unico,
per così dire, due «spezzoni» anomali di reddito: da un lato, quello
dei redditi prodotti riconducibili alla generale definizione di Quarta –
e cioè dei redditi di lavoro dipendente, di lavoro autonomo, di impre-
sa e fondiario (seppur con le note riserve sulla identificabilità di una
«fonte» produttiva del reddito fondiario) – e, dall’altro, quello delle
rendite finanziarie comprensivo sia dei redditi (prodotti) di capitale
che dei redditi (entrata) diversi.
    Bene ha fatto, invece, il legislatore della «riforma Visco », in assen-
za di una normazione di principio che definisca il reddito come mero
incremento di ricchezza, ad evitare tale forzatura e a mantenere e
ridefinire le categorie identificate dal TUIR. Così operando ha aperto
però decisamente la via al reddito-entrata per quei proventi finanziari

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³ Cfr. sul punto il mio, Prime considerazioni sulla disciplina dei redditi di capitale nel
nuovo testo unico, in Rass. Trib., 1988, I, pagg. 69 e segg.; contra G. Falsitta, Alcune
puntualizzazioni in tema di attività commerciali non attuali, di operazioni speculative iso-
late e di capital gain, in Rass. Trib., 1990, I, pagg. 93 e segg. Studi sulla tassazione delle
plusvalenze, Milano, 1991, passim.

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differenziali che si realizzano per il solo fatto di consistere in una dif-
ferenza positiva e ai quali, mal si attaglia la connotazione di reddito
prodotto; e mantenendo nella categoria dei redditi di capitale solo i
redditi da considerare realmente prodotti e cioè – come si vedrà
meglio più avanti – derivanti da un rapporto avente per oggetto l’im-
piego di capitale (articolo 41, lettera h). Le plusvalenze e tutti i vari
proventi differenziali, rientranti ora nell’articolo 81, sono infatti ipo-
tesi indiscutibili di reddito-entrata, se per tale si intende – come credo
si debba intendere – il mero incremento di ricchezza (a seconda dei
casi, percepito o maturato dal contribuente), realizzatosi indipenden-
temente dall’esistenza di un intento speculativo, intesa come fonte
produttiva di reddito.
    In conclusione, è stata inevitabile e coerente alla filosofia origina-
ria del TU la scelta di mantenere la distinzione, quanto ai redditi
finanziari, tra reddito prodotto e reddito-entrata e, nel contempo, di
riportare con apprezzabile sforzo sistematico:
— al reddito prodotto, i redditi sicuramente «di» capitale, e cioè quei
    proventi che costituiscono frutto (anche) economico (e non solo
    civile) dell’impiego del capitale;
— e al reddito-entrata, i redditi « da » capitale e, comunque, di natura
    finanziaria, e cioè ogni provento differenziale in cui il negozio di
    impiego del capitale, quando c’è, non si pone come diretta causa
    produttiva del provento stesso.
    D’altro canto, anche da un punto di vista tecnico-giuridico, questa
distinzione ha ancora un senso. Essa trova una sua giustificazione
pragmatica ed ha ancora una sua utilità per il legislatore sia con
riguardo alle diverse modalità di determinazione della base imponibi-
le vigenti per le due categorie, sia come strumento per lo svolgimento
di più flessibili politiche fiscali fondate su applicazioni di ritenute o di
cedolari o di regimi opzionali. Per i redditi (prodotti) di capitale,
come si sa, la base imponibile è costituita dai proventi percepiti al lor-
do degli eventuali e correlati costi e oneri e si presta perciò fisiologica-
mente ad essere assoggettata a tassazione mediante cedolari o ritenu-
ta alla fonte. Per i redditi (entrata) diversi, invece, la base imponibile è
determinata al netto dei costi ed oneri necessari alla loro realizzazio-
ne (e ciò per la stessa natura di differenziale che è propria delle plu-
svalenze finanziarie) e, quindi, mal si presta alla tassazione (anticipa-
ta) mediante ritenuta alla fonte. L’unificazione delle due categorie
nell’unica categoria dei redditi (entrata) finanziari avrebbe fatto in
effetti perdere gli attuali vantaggi costituiti, appunto, dalla più sem-
plificata tassazione dei redditi di capitale e dalla possibilità di utiliz-
zare più agevoli regimi sostitutivi di imposizione 4.

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⁴ Per l’individuazione di altre ragioni che giustificano le permanenze della distinzione
vedi F. Marchetti, op. cit., pagg. 86 e segg.

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    Pertanto, se si aggiunge alla necessità di non abbandonare – lad-
dove possibile – i principi sia del reddito prodotto che della norma-
zione casistica che ispirano il vigente sistema impositivo, anche l’esi-
genza tecnica e di politica fiscale di differenziare le basi imponibili del
reddito di capitale e dei redditi diversi, si ha la conferma che l’assetto
che deriva dal nuovo testo è – allo stato attuale della evoluzione legi-
slativa – senz’altro soddisfacente.
3. La nozione di reddito di capitale
Date queste premesse d’ordine generale sulla perdurante validità del-
la distinzione tra redditi di capitale e redditi diversi, vediamo ora
come sono stati concretamente affrontati e risolti dal DLgs n. 461 i
problemi relativi alla definizione di tali due categorie di reddito.
    Innanzitutto, a dimostrazione di quanto ne sia stata tormentata la
stesura, va rilevato che il testo della prima versione dello schema di
decreto legislativo non corrisponde a quello definitivamente approva-
to dal Consiglio dei Ministri. Si tratta di cambiamenti molto incisivi
(specie per quanto riguarda la tassazione degli interessi), che in parte
risultano indotti dal parere reso frattanto dalla «commissione dei
Trenta», ma che per altra parte esprimono, appunto i « tormenti » ed i
ripensamenti propri del gruppo di lavoro costituito presso il Mini-
stero delle Finanze.
    Il nuovo articolo 41 ha, nella sua lettera h), una portata rilevantis-
sima ai fini di individuare ambedue le categorie. Iniziamo ad esami-
narlo con riguardo ai redditi di capitale. Finora, si era sempre ritenu-
to che i redditi di capitale fossero i redditi (prodotti) identificati in
modo tassativo ed esplicito nello stesso articolo 41, dalla lettera a)
fino alla lettera h). Ne conseguiva che, in fase applicativa, si doveva
procedere ad un semplice atto di inquadramento della singola opera-
zione finanziaria nella pertinente lettera dell’articolo 41; ove nessuna
lettera risultava adatta, si doveva consequenzialmente disconoscere al
provento de quo la natura di reddito di capitale. In particolare, la pre-
cedente stesura della lettera h) – che qualificava come redditi di capi-
tale gli altri interessi non aventi natura compensativa e «ogni altro
provento in misura definita derivante da impiego di capitale» – non
dava luogo propriamente ad una « norma generale residuale», come
pure poteva a prima vista sembrare, ma, al contrario, ad una fattispe-
cie puntuale ulteriore rispetto alle altre lettere. Il riferimento, oltre che
agli interessi, ai proventi in misura definita, rendeva infatti riferibile
quella previsione alle sole somme invariabili e predeterminate o prede-
terminabili. Insomma, la precedente versione della lettera h) ampliava
l’ambito di imponibilità a ogni forma di provento equiparabile agli
interessi, ma oltre non andava. Secondo quanto affermato anche dal-
la giurisprudenza delle commissioni tributarie di merito (confermata
dalla recentissima sentenza della Cassazione n. 2245 del 31-10-97,
depositata il 27-2-98, per ora inedita) «misura definita» era da inten-

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dersi come «misura predeterminata o predeterminabile», e cioè deter-
minata o determinabile dalle parti contraenti in via negoziale; trattava-
si, quindi, delle somme accomunabili agli interessi per il fatto di avere
un ammontare noto o predeterminabile fin dal tempo della stipula-
zione.
    La lettera h), nel suo riferimento esclusivo a proventi non variabili,
non poteva dunque considerarsi residuale; ad esempio, palesemente
non era tale rispetto agli utili, cioè rispetto a somme che non hanno
misura contrattualmente definita e non sono predeterminate o prede-
terminabili. Se, quindi, l’utile era tassabile perché già previsto nelle
lettere e) ed f) dell’articolo 41, invece somme di diversa natura, ma
affini agli utili, non erano inquadrabili nell’articolo 41.
    Questo era il caso, ad esempio, delle somme che il mandatario
rimette al mandante in base ad un mandato individuale di gestione
patrimoniale (purché il mandatario non sia un investitore istituziona-
le, nel quale caso vige una disciplina tributaria ad hoc). È noto che se,
in base ad un mandato senza rappresentanza, un soggetto (mandan-
te) conferisce un patrimonio in gestione discrezionale ad altro sogget-
to (mandatario), quest’ultimo ne ha la piena disponibilità giuridica e
ne diviene, quindi, titolare, salvo ovviamente l’obbligo di restituzione
del capitale e degli utili di gestione; la produzione di tali utili andrà
quindi – almeno secondo la dottrina cui aderisco – civilisticamente
imputata al mandatario stesso e non al mandante. Ove, poi, il manda-
tario provveda a retrocederli al mandante, è dato chiedersi se si realiz-
zi un flusso di redditi di capitale o meno a beneficio del mandante.
Giacché tali utili non hanno certamente una « misura determinata»
(o determinabile) all’atto della stipula del mandato, nel vigore della
precedente versione della lettera h) si doveva concludere che essi non
costituissero, per il mandante, reddito di capitale imponibile 5.
    Certamente, l’esemplificazione appena operata ha scarso rilievo
pratico, poiché non capita spesso che un soggetto affidi il proprio
denaro a un terzo che non sia un professionista o che non sia ricono-
sciuto tale in termini istituzionali (sebbene si possa immaginare che
ciò avvenga, ad esempio, nei confronti di un consulente di fiducia).
Tuttavia, essa è di estremo interesse teorico, proprio perché un man-
dato senza rappresentanza conferito ad un gestore non professionista
(ribadisco che non sto parlando delle gestioni individuali di portafo-
glio da parte delle banche, o di quelle collettive dei fondi comuni di
investimento, o delle altre ipotesi di gestione previste dalla normativa
mobiliare) non consente – almeno secondo la dottrina civilistica che
prediligo – la diretta imputazione dell’investimento al mandante, ma
impone di «passare » sempre attraverso il mandatario: il conseguente

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⁵ Rinvio su questo punto al mio, I redditi di capitali, in Il reddito d’impresa nel nuovo
Testo Unico, Padova, 1998, pagg. 316 e segg.

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ritrasferimento dal mandatario al mandante, proprio perché avente
ad oggetto somme non predeterminate, non poteva inquadrarsi nella
fattispecie dell’articolo 41, nella specie lettera h), vecchio stile, indi-
pendentemente dal fatto che sussistesse o meno un impiego di ca-
pitali.
    Orbene, la nuova lettera h) supera questi problemi poiché assume
carattere autenticamente residuale. Come si è visto, è infatti una nor-
ma che qualifica come reddito di capitale ogni provento derivante da
rapporti-contratti per il solo fatto che hanno per oggetto un impiego di
capitale; dove per impiego di capitale deve intendersi a mio avviso, atec-
nicamente e semplicemente, la mera concessione temporanea alla con-
troparte della disponibilità del capitale 6.
    Qualunque reddito – variabile o invariabile – prodotto da un atto
di impiego in senso lato del capitale costituisce dunque reddito di
capitale, senza che sia necessario accertare l’ulteriore circostanza che
la concessione del capitale avvenga o meno ai fini di godimento del
capitale stesso. Non v’è alcuna ragione, infatti, perché la parola
«impiego » assuma, con riferimento al capitale, un significato più tec-
nico e più restrittivo di quello – più neutrale e funzionale che esso ha
nel linguaggio comune – e cioè di «utilizzazione di un bene mobile
motivato da un criterio di convenienza e funzionalità » 7. In altre
parole il termine impiego (può essere letto, ma) non va necessaria-
mente letto connettendolo ad un godimento o ad altre situazioni che
connotano nettamente in termini di finanziamento la posizione del
soggetto cui è attribuita la disponibilità del capitale: è sufficiente che
all’altra parte passi la disponibilità temporanea del capitale e che da
tale situazione consegua in termini economici un vantaggio, e cioè un
provento (anche non necessariamente corrispettivo), a favore di chi il
capitale ha impiegato.
    Il problema che si pone in via interpretativa è, quindi, solo verifi-
care caso per caso se si sia in presenza di un atto di impiego del capi-
tale come sopra inteso. Per il mandato gestorio senza rappresentanza
cui ho appena fatto cenno, ad esempio, la detassazione potrebbe
rimanere se si ritenesse civilisticamente che il passaggio dal mandata-
rio al mandante non è conseguente ad un impiego di capitale.
    Che la norma della lettera h) si riferisca, come ho già detto in via

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⁶ Non dovrebbe contraddire il carattere della temporaneità della concessione del capi-
tale il fatto che tra i redditi di capitale siano ricomprese anche le rendite perpetue (lett.
c). Riguardo ad esse, infatti, non può parlarsi di temporaneità in senso stretto, ma
nemmeno di definitività della concessione del capitale, potendo questo essere riscattato
e, comunque, non essendo oggetto, al momento dell’impiego, di una vera e propria
alienazione e di una perdita definitiva da parte del concedente (proprio per queste
ragioni taluni autori riconducono le rendite perpetue ad un mutuo senza termine di
scadenza quanto alla restituzione del capitale).
⁷ Così Devoto e Oli, Il Dizionario della lingua italiana, Firenze, 1990, pag. 906.

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generale sub paragrafo 2, ad una forma di reddito-prodotto e non di
reddito-entrata è chiaramente desumibile dal riferimento che la lettera
h) stessa fa ai proventi derivanti da «rapporti aventi per oggetto l’im-
piego di capitale»: per esservi provento-reddito «di» capitale (e non
«da» capitale), come ho già fatto rilevare, vi deve essere un rapporto
che sia causa efficiente e produttiva del provento stesso. In tutti i casi,
dunque, in cui c’è un impiego di capitale che ha la sua fonte diretta di
produzione in un rapporto avente per oggetto la messa a disposizione
temporanea di un capitale, quell’impiego di capitale dà luogo a un
provento che è tassabile come reddito (prodotto) di capitale.
    Tutto ciò significa che la lettera h) assorbe ogni voce delle lettere
precedenti che ha ad oggetto proventi derivanti da impieghi di capita-
le, nel senso sopra indicato. Con un po’ di coraggio, e parzialmente
derogando alla tradizione casistica del nostro sistema impositivo
seguita anche all’interno dell’articolo 41, si sarebbero potute anche
eliminare quelle lettere, mantenendo solo la definizione generale della
lettera h) e aggiungendovi solo quei proventi « assimilati» al reddito
di capitale (ma non derivanti da rapporti aventi per oggetto impiego
di capitale), quali i compensi per prestazione di fideiussione o altra
garanzia (lettera d) e gli utili derivanti da contratti di cointeressenza
senza apporto di capitale (lettera f ).
    In conclusione, ben può sostenersi che la lettera h) così riscritta
diventa, rispetto al precedente testo, una norma generale che defini-
sce il reddito di capitale nel modo che si è detto, e cioè quale reddito
derivante dal capitale impiegato per la capacità produttiva sua pro-
pria. Soprattutto, tale norma non consente più di sostenere in termini
dogmatici, come taluno sosteneva prima (a mio avviso già allora con
molta difficoltà), che la categoria dei redditi di capitale è eterogenea e
si scompone nel frutto civile inteso come corrispettivo di un godimen-
to del capitale impiegato (gli interessi e i dividendi) e in altre fattispe-
cie di diversa natura, ma ad esso assimilate (ad esempio gli utili) 8. Al
contrario, il reddito di capitale è ormai definibile, con nozione unita-
ria ed onnicomprensiva, come frutto economico di un capitale trasferi-
to temporaneamente alla controparte contrattuale, che ha la sua
diretta fonte produttiva in un rapporto giuridico. Il frutto economico
ricomprende dunque il frutto civile, ma anche qualcosa di più del
frutto civile: è tutto ciò che incrementa il patrimonio di un soggetto,
in relazione alla concessione da parte sua della disponibilità (lato sen-
su temporanea) di un capitale si tratti o meno di provento in misura

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⁸ V. F. Marchetti, Alcune riflessioni sulle nozioni di reddito di capitale, in Rass. Trib.,
1990, pagg. 781 e segg. e Commento agli articoli 41-45 del D.P.R. n. 917/1986, in
L’imposta sul reddito delle persone fisiche, a cura di D’Amati, Torino, 1992. Tale auto-
re, peraltro, è giunto recentemente alle stesse conclusioni indicate nel testo con riferi-
mento alla recente evoluzione legislativa della materia (cfr. Il risparmio, cit., passim).

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determinata o determinabile, di un corrispettivo per il godimento che
controparte ne abbia o, ancora, di una remunerazione di una parteci-
pazione e così via. Con questa formulazione siamo giunti insomma
alla fase finale dell’evoluzione del concetto di reddito di capitale rap-
presentata dalla giuridicizzazione del fenomeno economico di incre-
mento conseguente ad un impiego di capitale come sopra inteso 9.
4. L’articolo 41 lettera h) quale chiave di lettura dell’articolo 81
Proseguendo nella lettura dell’articolo 41 lettera h), ci si potrebbe
domandare che senso abbia, nella definizione dei redditi di capitale,
aggiungere alla frase « altri proventi derivanti da rapporti aventi per
oggetto l’impiego di capitale », l’inciso «[...] esclusi i rapporti attraver-
so cui possono essere realizzati differenziali positivi e negativi in
dipendenza di un evento incerto » 10.
    Evidentemente, gli estensori di questa norma si sono resi conto
che tra i «redditi diversi » di cui all’articolo 81 figurano anche dei
proventi che presuppongono anch’essi un impiego di capitale – si
pensi al cross currency swap e ad altri tipi di contratti derivati – in cui
però l’impiego di capitale si innesta in un rapporto di carattere alea-
torio che può dar luogo sia a proventi che a perdite e cioè, più corret-
tamente, a differenziali positivi e negativi. È caratteristica infatti dei
«contratti derivati» l’aleatorietà del provento. Si è ritenuto perciò
correttamente già in sede di articolo 41 di assumere proprio questa
incertezza come elemento di discrimine per differenziare le fattispecie
dei redditi diversi rispetto a quelle tipicamente produttive di redditi di
capitale (utili e interessi), in modo da ammettere la deducibilità degli
elementi negativi, e cioè di quegli elementi che non sarebbero stati
riconosciuti in deduzione ove invece i suddetti proventi fossero stati
qualificati come redditi di capitale.
    L’articolo 41, lettera h), quindi, non solo contiene una definizione
residuale dei redditi di capitale, ma aiuta anche a interpretare l’artico-
lo 81 perché, mentre nella prima parte definisce positivamente il red-
dito di capitale come provento derivante da rapporti aventi per ogget-
to un impiego di capitale, nella seconda invece lascia intendere, con
riferimento alla specifica categoria dei contratti derivati, che si esclu-
dono comunque dall’ambito dei redditi di capitale e si comprendono
nell’ambito dei redditi diversi quei proventi che, pur implicando un
impiego di capitale, sono caratterizzati dalla incertezza del risultato.
Dove tale incertezza esprime la possibilità che si abbiano differenziali

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⁹ V. sul punto, in senso adesivo, Escalar, op. cit., pag. 285 e segg.
¹⁰ Il testo originario dello schema di decreto, peraltro, al posto di «differenziali »
impiegava le parole « perdite» ed «utili », esse sono state sostituite sulla spinta della
giusta preoccupazione di non adottare in tema di redditi di capitale un gergo peculiare
del reddito d’impresa.

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positivi e negativi e diviene l’elemento sintomatico di quella particola-
re tipologia di redditi « diversi » che non sono riconducibili a quelli –
parimenti «diversi» – da negoziazione (plusvalenze) di cui al successi-
vo articolo 81.
    L’articolo 41, lettera h) si limita a far questa parziale incursione
additiva nel campo dei redditi diversi. Bisognerà però leggere il suc-
cessivo articolo 81 per completarne la nozione, aggiungendo ai redditi
derivanti da impiego di capitale la cui produzione è aleatoria, quegli
altri redditi scaturenti o dalla mera attività finanziaria di negoziazio-
ne – nei quali vi è un impiego peraltro inteso come investimento di
capitale – o dalla stipula di altri contratti derivati diversi da quelli
richiamati nell’articolo 41, lettera h), nei quali è indifferente che vi sia
o meno un impiego di capitale. Ad esempio, quanto ai redditi diversi
da negoziazione finanziaria, la linea di demarcazione con i redditi di
capitale passa attraverso il fatto che la plusvalenza da cessione di tito-
li non deriva direttamente da un rapporto avente per oggetto un
impiego di capitale, ma dal fatto che il contribuente, avendo già impie-
gato (e cioè investito) il capitale per acquistare titoli che fruttano inte-
ressi (e cioè redditi di capitale), cede successivamente detti titoli e rea-
lizza dunque un incremento, una plusvalenza, un provento che è,
appunto, solo reddito diverso.
    Il reddito diverso, dunque, risulta costituito:
a) sia da proventi derivanti da rapporti di natura aleatoria che, aven-
    do per oggetto l’impiego di capitale, sono, in ragione di tale alea-
    torietà, idonei a realizzare differenziali positivi e negativi (articolo
    4, lettera h);
b) sia da ogni plusvalenza derivante da negoziazione, in cui l’impiego
    di capitale si pone come un mero strumento per realizzare tali pro-
    venti e non come fonte diretta produttiva del reddito (articolo 81,
    lettera c, c-bis, c-ter, c-quinques, quest’ultima voce per la parte
    relativa alle plusvalenze);
c) sia dai differenziali derivanti dall’utilizzo di « contratti derivati»
    riguardo ai quali è indifferente che vi sia un impiego (articolo 81,
    lettera c-quater);
d) residualmente, da altri presupposti, sui quali non mi soffermo,
    che niente hanno a che fare né con le plusvalenze e i redditi diffe-
    renziali, né con i redditi di capitale, e che sono indicati tassativa-
    mente e in via residuale dal legislatore (le residue lettere dell’arti-
    colo 81).
5. Il regime fiscale degli interessi
Così chiarita, in termini sistematici, la trafila logica sottostante agli
articoli 41 e 81 TUIR, posso passare ora alla illustrazione di ulteriori
aspetti del testo normativo sempre in punto di definizione del reddito
di capitale come frutto economico.
    La prima versione dello schema di decreto, alla lettera h) dell’arti-

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FRANCO GALLO, I REDDITI DI CAPITALE: DEFINIZIONE E TASSAZIONE DELL’IMPONIBILE

colo 41, faceva riferimento a « ogni altro provento derivante da rap-
porti aventi per oggetto impiego di capitale ». Il testo che è entrato in
vigore, invece, ha parzialmente ripristinato la versione originaria del-
l’articolo 41, lettera h), vigente ancora fino al 1º luglio 1998, in quan-
to non parla più solo di « ogni altro provento», ma anche de « gli inte-
ressi e gli altri proventi derivanti da altri rapporti ». Viene recuperata,
quindi, l’espressione «gli interessi... e gli altri proventi». Ciono-
nostante, fra il testo della riforma e quello in vigore fino al 1º luglio
1998 permane una differenza di rilievo: quest’ultimo, infatti, parlava
di «interessi non aventi natura compensativa»; l’espressione « non
aventi natura compensativa» è invece scomparsa con la riforma.
    Ed allora, come sono tassati gli interessi nell’ambito del nuovo
articolo 41?
    Quando sono corrispettivi (si pensi al mutuo), essi sono tassati
sicuramente come « classici» redditi di capitale ai sensi della lettera a)
dell’articolo 41.
    Nutro invece un radicatissimo dubbio sulla riconducibilità di tutti
gli altri interessi alla categoria dei redditi di capitale quando si tratti
di interessi compensativi o di interessi moratori o dilatori.
    Quanto agli interessi compensativi, non possono mai essere strut-
turalmente considerati redditi, costituendo essi per definizione una
mera reintegrazione patrimoniale. Non si può, in altri termini, tassare
un interesse che viene pagato a titolo risarcitorio per reintegrare il
patrimonio di un soggetto che ha subito un danno. In tal caso, si trat-
ta infatti di somme che condividono, con il capitale cui afferisce, la
natura economica di patrimonio e non certo quella di reddito. L’aver
cancellato l’espressione « non aventi natura compensativa» potrebbe
perciò essere considerato un errore, perché tale soppressione rischia di
essere interpretata come sintomo della intenzione del legislatore di
attrarre a tassazione anche gli interessi compensativi.
    Quanto agli interessi dilatori e moratori, il loro trattamento va
definito più attentamente interpretando la richiamata espressione
«altri proventi aventi per oggetto l’impiego di capitale »: se la frase
«aventi per oggetto l’impiego di capitale» si estendesse anche agli
interessi, sarebbe facile limitare l’ambito della categoria degli interessi
– e dunque della loro imponibilità – ai soli interessi, di qualsiasi natu-
ra essi siano, derivanti da rapporti aventi per oggetto un impiego di
capitali nel senso già indicato. Se invece tale espressione fosse malau-
guratamente ritenuta non riferibile agli interessi, si avrebbe una curio-
sa definizione normativa della categoria degli interessi come redditi di
capitale, indipendentemente dal fatto che essi siano o meno derivanti
da impiego di capitale e abbiano perciò natura risarcitoria o meno.
Quest’ultima interpretazione dovrebbe, però, essere agevolmente
superata dalla stessa formulazione letterale dell’articolo 41, lettera h):
l’aggiunta alla parola «interessi» delle parole « altri proventi» dovreb-
be infatti avere il significato logico di riferire la connotazione « deri-

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STUDI E NOTE DI ECONOMIA - QUADERNI/3

vanti da rapporti aventi per oggetto l’impiego del capitale» anche agli
interessi.
    Del resto, a questa stessa conclusione si giunge anche indipenden-
temente da tale argomentazione letterale solo che si proceda ad una
lettura coordinata e sistematica dell’articolo 41, lettera h) con l’arti-
colo 6, secondo comma, ultima parte, del Testo Unico, laddove
espressamente si dispone che «Gli interessi moratori e gli interessi per
dilazione di pagamento costituiscono redditi della stessa categoria di
quelli da cui derivano i crediti su cui tali interessi sono maturati».
Tale norma, infatti, rende impraticabile l’interpretazione restrittiva
dell’articolo 41, lettera h) riconoscendo espressamente che gli interes-
si, se dilatori e moratori, sono fuori dall’ambito dei redditi di capitale
perché (e purché) accessori dei redditi da cui sono maturati. Con ciò
non se ne nega la natura reddituale, ma si subordina chiaramente
l’imponibilità alla loro accessorietà ad un credito reddituale e, impli-
citamente, se ne sancisce la non tassabilità in caso di accessorietà ad
un patrimonio.
    L’articolo 6, comma 2, rafforza dunque, anche con riguardo agli
interessi, una lettura della lettera h) dell’articolo 41 come norma resi-
duale generale che non ammette la tassazione di alcuna somma che
non sia frutto di impiego di capitale; con la conseguenza che gli unici
interessi tassati in via residuale, ai sensi dell’articolo 41, lettera h),
sono quelli non compensativi e non accessori ai crediti reddituali, e
cioè quegli interessi che derivano da rapporti aventi per oggetto l’im-
piego di capitale.
    La lettura congiunta dell’articolo 41, lettera h) e dell’articolo 6,
comma 2, ultima parte, dovrebbe quindi condurre, a mio avviso, alla
seguente conclusione: sono tassabili in ogni caso, come redditi di
capitale, gli interessi corrispettivi; gli interessi dilatori e gli interessi
moratori non sono tassabili tout court come redditi di capitale ma sol-
tanto se accessori ad altri redditi e con la disciplina propria di tali
redditi; non sono in ogni caso tassabili gli interessi compensativi in
quanto ontologicamente non costituiscono reddito, avendo essi – e
quando effettivamente la abbiano 11 – natura di reintegrazione di
patrimonio; sono tassabili tutte le altre somme, denominate più o
meno genericamente interessi, che siano equiparabili a proventi deri-
vanti da rapporti aventi per oggetto l’impiego di capitale.
    Questa sembra l’unica logica interpretazione che, allo stato, può
darsi delle due disposizioni. Sarebbe, peraltro, opportuno un inter-
vento legislativo in sede di decreto correttivo che renda più chiara

—————————————
¹¹ Ad esempio, non sono in tale senso compensativi gli interessi aventi natura risarci-
toria di un lucro cessante. Essi, non derivando da un impiego di capitale, potrebbero
essere attratti a tassazione solo come reddito entrata se fossero espressamente contem-
plati tra i redditi diversi contemplati dall’art. 81.

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FRANCO GALLO, I REDDITI DI CAPITALE: DEFINIZIONE E TASSAZIONE DELL’IMPONIBILE

l’intenzione del legislatore e, perciò, detti una disciplina più organica
ed esaustiva della materia.
    La complessiva importanza definitoria della lettera h) si coglie
anche dalla eliminazione – nel testo definitivo delle lettere che la pre-
cedono – di talune espressioni che erano state inserite nello schema
del decreto dagli estensori «mediani »: espressioni evidentemente rite-
nute superflue a fronte della definizione di cui alla lettera h). La lette-
ra a), infatti, qualifica come redditi di capitale gli interessi e gli altri
proventi derivanti da mutui; ma nella versione «mediana » essa
aggiungeva: « [...] o altri analoghi rapporti che perseguono la medesi-
ma finalità economica».
    Una volta individuati come redditi di capitale gli interessi da
mutuo, dunque, si era detto: giacché vi sono dei negozi atipici, che si
richiamano al mutuo per le medesime finalità economiche di finan-
ziamento, ma che mutuo non sono, anch’essi rientrano tra i negozi
che producono interessi soggetti ad imposta. Il riferimento agli « ana-
loghi rapporti » e alle « medesime finalità economiche » è ora venuto
meno. La ragione, secondo me, è che la lettera h) è ormai talmente
ampia e talmente residuale da comprendere qualunque provento da
impiego di capitale, tanto da rendere del tutto superflua, per ogni let-
tera, l’aggiunta circa i «rapporti analoghi o finalità economiche
medesime».
6. Alcuni brevi rilievi sulla tassazione del risparmio gestito
Vi sono naturalmente molti altri punti della riforma degni di conside-
razione e di studio: le nuove fattispecie imponibili introdotte con la
riscrittura degli articoli 41 e 81; la nuova definizione di partecipazio-
ne qualificata di cui alle lettere c) e seguenti dell’81; i meccanismi di
equalizzazione, volti ad adeguare il trattamento dei redditi di capitale
e di quelli diversi tassati per cassa a quello degli stessi redditi tassati
invece per maturazione; ed ancora, i meccanismi di tassazione sostitu-
tivi della tassazione (analitica e per realizzo), mediante dichiarazione
dei redditi, relativi ai redditi scaturenti da capitali in amministrazione
ed in gestione.
    Mi riprometto di tornare a trattare in modo più approfondito que-
sti e altri punti di grande interesse. In questa sede mi limito a qualche
considerazione in ordine ai regimi di imposizione sostitutiva relativi
alle amministrazioni e alle gestioni di portafoglio.
6.1. L’incarico di custodire e di amministrare un capitale, conferito ad
un soggetto abilitato ai sensi della normativa mobiliare, costituisce il
presupposto per l’applicazione del regime sostitutivo di cui all’artico-
lo 6 del decreto, implicante una tassazione per cassa, con aliquota del
7 per cento, per taluni redditi, e del 12,50 per cento per altri.
   Se invece il patrimonio viene conferito ad un intermediario istitu-
zionale, anziché in amministrazione, il regime impositivo muta sensi-

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STUDI E NOTE DI ECONOMIA - QUADERNI/3

bilmente. L’articolo 7 dispone infatti una diversa imposta sostitutiva
che si applica non già ai redditi realizzati, bensì ai redditi annualmen-
te maturati dai valori mobiliari in gestione, seppur non liquidati e cor-
risposti al soggetto gestito.
    Al fine di evitare che tale differenza sortisca effetti distorsivi sul
mercato dei servizi mobiliari (dal momento che i redditi diversi a for-
mazione pluriennale tassati per maturazione subiscono un prelievo
fiscale anticipato rispetto agli omologhi tassati in base a realizzo), si è
introdotto un apposito meccanismo di equalizzazione, che « correg-
ge» il prelievo dei redditi tassati per cassa, adeguandolo al valore che
esso avrebbe nella diversa ottica della maturazione.
    Ho ritenuto di soffermarmi ad illustrare questo specifico punto
della riforma perché, a mio avviso, esso si presta a qualche critica, che
esporrò sinteticamente qui di seguito.
    In primis, ci si può chiedere perché mai l’equalizzatore agisca sui
redditi valutati per cassa, al fine di adeguarli a quelli valutati per
maturazione; perché, cioè, si adegui il regime ordinario (cassa) a quel-
lo straordinario (maturazione), e non viceversa. Sarebbe certamente
più logico il contrario, vale a dire l’adeguamento della fattispecie
derogatoria a quella ordinaria.
    Rimanendo in tema di equalizzatore, ricordo come con la prima
stesura dell’articolo 4, ultimo comma, seconda parte, in punto di defi-
nizione delle caratteristiche e della misura dell’equalizzatore, si ope-
rasse quasi una delega in bianco al Ministro delle Finanze, in viola-
zione dell’articolo 23 della Costituzione. Gli scarni criteri dettati dalla
legge (considerazione, nella determinazione dell’equalizzatore, del
periodo di possesso dei titoli plusvalenti, nonché dell’andamento dei
tassi d’interesse relativi ai titoli di Stato), non erano infatti sufficienti
a garantire il rispetto della riserva di legge in materia tributaria di cui
al predetto articolo 23.
    Mi sembra comunque che questa critica sia stata recepita nella
versione definitiva del testo, dove si fa riferimento non soltanto al
periodo di possesso, ma anche al momento di pagamento dell’impo-
sta, ai tassi di rendimento dei titoli di Stato, alle quotazioni dei titoli
negoziati in mercati regolamentati e a ogni altro parametro che possa
influenzare la determinazione del valore di attività finanziarie produt-
tive di redditi imponibili. Dovrebbe quindi così essere fugato ogni
dubbio di costituzionalità.

6.2. Un ultimo rilievo critico concerne la base imponibile dell’imposta
sostitutiva applicata sul cosiddetto « risparmio gestito». L’articolo 7,
che disciplina tutte le ipotesi di tassazione del risparmio gestito, se
letto con attenzione, rivela una stranezza. Vi si dice, infatti, che l’im-
posta sostitutiva del 12,50 per cento si applica ai redditi di capitale e
diversi di cui agli articoli 41 e 81, comma 1, lettere da c-bis) a c-quin-
quies) del TUIR maturati nel corso della gestione. Sembra quindi che

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FRANCO GALLO, I REDDITI DI CAPITALE: DEFINIZIONE E TASSAZIONE DELL’IMPONIBILE

tutte le menzionate tipologie di reddito, vengano conglobate in una
massa complessiva che costituisce il provento tassabile. In termini
operativi, alla fine dell’anno l’operatore istituzionale determina il sal-
do dei predetti importi reddituali: se positivo, si applica l’imposta del
12,50 per cento; se negativo, lo si riporta all’anno successivo.
Parrebbe pertanto, in via puramente logica, che questo insieme di
voci reddituali costituisca un tutt’uno.
    Vien quindi da domandarsi quale sia la base imponibile (e di conse-
guenza, il presupposto) della imposta sostitutiva sul risultato maturato
delle gestioni. Se sia, cioè, la semplice sommatoria dei singoli redditi
di capitale e redditi diversi, che manterrebbero in tal caso la loro
autonomia e distinguibilità giuridica, o non piuttosto una entità giu-
ridica unitaria, che dovrebbe pertanto essere ricondotta ad un nuovo
e diverso presupposto imponibile.
    Non è soltanto un problema teorico e astratto quello che sto qui
ponendo. Difatti, se si ritenesse che i vari redditi mantengono la loro
giuridica individualità, seppur algebricamente conglobati, andrebbero
allora applicate tutte le norme inerenti alla determinazione delle rela-
tive basi imponibili (cfr. articolo 42 e 82 del Testo Unico); se invece
ragionassimo in termini di omogeneità e di unicità, si dovrebbero
inventare regole nuove.
    Pur dovendosi propendere, de iure condito, per la prima alternati-
va, non si può tuttavia fare a meno di notare una certa carenza di
razionalità e di coerenza dell’intero congegno; a fronte, infatti, di un
provento tassabile unitario che si compone di voci reddituali diverse,
sarebbe stato opportuno operare una unificazione a monte, vale a
dire a livello di presupposto imponibile.
    A mio avviso, la norma avrà prima o poi necessità di essere riscrit-
ta, in maniera tale che il saldo di gestione si trasformi da entità pura-
mente algebrica ad entità giuridica dalla natura unitaria ed omoge-
nea.

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