ALLE ORIGINI DELLA MODA COME ISTITUZIONE SOCIALE - Marco Belfanti DSS PAPERS STO 1-06

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Marco Belfanti

      ALLE ORIGINI DELLA MODA
      COME ISTITUZIONE SOCIALE

DSS PAPERS STO 1-06
Nella società attuale la moda è ormai divenuta un fenomeno sociale di
dimensioni impensabili soltanto qualche decennio fa, in grado di
condizionare gusti, scelte e comportamenti dei consumatori - o, perlomeno
di interagire con essi. Il tentativo di ricostruire il percorso attraverso il quale
si mette in moto il processo di trasformazione che ha portato la moda ad
imporsi come un’istituzione sociale destinata a durare nei secoli non può
fare a meno di considerare il contesto economico-sociale in cui è maturato
tale cambiamento. Non si tratta pertanto di arricchire con qualche fantasiosa
interpretazione quello che è stato definito “il mito delle origini”(Segre
Reinach 2005, p. 8), quanto di proporre argomentate analisi dei tempi e dei
modi che hanno consentito l’affermazione della moda come istituzione della
modernità.
    Sulla scorta delle articolate riflessioni proposte dagli studiosi di scienze
sociali, si può infatti pensare alla moda come ad una istituzione sociale che
regola l’avvicendamento di cicli di cambiamento delle fogge degli abiti,
superando la pre-esistente regolazione fondata su principi di carattere
ascrittivo1. L’assunto implica due elementi essenziali: il primo è dato dal
costante cambiamento, più o meno rapido, delle fogge, mentre il secondo
consiste nella facoltà degli individui di seguire tali avvicendamenti senza
limitazioni normative. Si può perciò ritenere che il “fenomeno moda” fosse
presente, in forma più o meno compiuta, in quelle società in cui fossero
riscontrabili questi due elementi.
    Allora in quale fase della storia delle società occidentali è possibile
ravvisare l’emergere del “fenomeno moda”? Mary Stella Newton, nel suo
Fashion in the Age of the Black Prince (Newton 1980), non ha dubbi

1
    Per un compendio delle posizioni emerse nell’ambito delle scienze sociali si veda
     l’agile sintesi di Marchetti 2004, pp. 13-69.

Alle origini della moda come istituzione sociale                                    3
nell’indicare gli anni attorno al 1340 come il periodo in cui furono introdotte
importanti innovazioni nelle acconciature, nelle calzature e soprattutto nella
foggia degli abiti2: si passò infatti da fogge indifferenziate per l’abito
maschile e quello femminile ad una netta distinzione di genere
nell’abbigliamento, nonché dall’abito drappeggiato all’abito aderente, grazie
ad una serie di cambiamenti nel taglio e all’adozione diffusa di allacciature
fissate con i bottoni3. L’introduzione di tali innovazioni avrebbe poi aperto
la strada ad un’evoluzione caratterizzata da ciclici cambiamenti nel gusto di
vestirsi.
    Anche accettando la tesi che il XIV secolo sia stato il grande spartiacque
tra un’epoca in cui l’abbigliamento non si discostava dalla tradizione ed
un’epoca in cui, invece, il ritmo del cambiamento subì una accelerazione4,
rimane però vero che si trattava comunque di una società in cui l’abito era
espressione diretta dell’appartenenza ad un preciso ordine sociale.
L’abbigliamento era considerato un preciso segnale di appartenenza ad un
ceto sociale e/o ad una comunità etnica, ma anche un efficace indicatore
dell’età, della professione e, ovviamente, di genere: le gerarchie sociali si
rispecchiavano fedelmente nelle gerarchie delle apparenze. Lo esplicitava
Giovanni Della Casa, autore del fortunato trattato sulle buone maniere
Galateo, quando scriveva: “Ben vestito dèe andar ciascuno, secondo sua
conditione e secondo sua età, perciò che, altrimenti facendo, pare che egli
sprezzi la gente” (Della Casa 1558, p. 23). E ancora più chiaramente,
laddove consigliava: “[La veste] quale ella si sia, vuole essere assettata alla
persona e starti bene, acciò che non paia che tu abbi indosso i panni d'un

2
    La tesi è stata poi ripresa da molti autori: si vedano, tra gli altri, Steele 1999, pp.15-18
    e Wilson 2003, pp. 18-20.
3
    Sui bottoni si veda Frugoni 2001, pp. 102-103.
4
    Posizione più cauta è stata assunta da Ribeiro 2003, pp. 42-43.

4                                            Alle origini della moda come istituzione sociale
altro, e sopra tutto confarsi alla tua conditione, acciò che il cherico non sia
vestito da soldato e il soldato da giocoliere.” (p. 80) Gli faceva eco dalla
Spagna “l’arbitrista” Fernàndez Navarrete, il quale sentenziava che “es
justo que los trajes de los nobles se diferencien de los que han de permitirse
a los plebeyos” (Alvarez Ossorio 1998-99).
    Le numerose leggi suntuarie promulgate nei vari stati europei sono
l’indicatore dello sforzo volto a regolamentare “le apparenze” in funzione
delle gerarchie sociali. Così, ad esempio, nel 1551 tredici gentiluomini
mantovani inviarono al signore di Mantova una lettera di protesta contro una
prammatica suntuaria che non teneva in adeguato conto le differenze sociali,
argomentando nel modo seguente: “Ma se pur deve essere a particolari
osservato il grado, non veggiamo (sia detto senza ambitione) per qual
ragione non dovesse esser per il meno il mercatante dal gentiluomo et
l’ignobile dal nobile conosciuto. Et ci pare strano che la reputatione di
alcuni di noi acquistata colla vertù de’ nostri antecessori et conservata per
noi con tanto sudore et spesa in servigio di questa illustrissima casa, debba
hora essere così vilipesa, ch’havendosi a far discernenza                    di persone,
dobbiamo essere nuoi posti a rubbio con gli più infimi et vili di questa città”
(Luzio 1913). Senza dubbio si può discutere fino a che punto le leggi
suntuarie siano state efficaci o se, invece, la loro reiterazione non
rappresenti piuttosto un segno della loro inefficacia5. Credo che tale
argomento possa avere una valenza esplicativa per secoli come il XVI e il
XVII, ma ho qualche dubbio per i secoli precedenti.
    Che l’abito fosse considerato funzione della gerarchia sociale è
testimoniato      anche     dalla    fortuna       editoriale   dei   trattati   illustrati
sull’abbigliamento, nei quali venivano proposte vere e proprie gallerie di

5
    Sulle legi suntuarie si vedano Hunt 1996 e il recente Muzzarelli e Campanini 2003.

Alle origini della moda come istituzione sociale                                          5
costumi, sfilate su carta di abiti, classificati per area geografica, sesso, età e,
naturalmente, condizione sociale di chi li indossava. Il punto culminante di
questo genere di trattatistica fu probabilmente il volume di Cesare Vecellio,
Habiti antichi e moderni di tutto il mondo, pubblicato a Venezia alla fine del
secolo XVI6, in cui l’impegno a classificare in maniera chiara e
incontrovertibile la “gerarchia delle apparenze” arrivava ad includere anche
i popoli delle terre recentemente scoperte oltre Oceano7: il libro XII
dell’opera è infatti dedicato all’America ed in esso sono descritti – e
classificati per sesso, età e condizione sociale di chi li portava - gli abiti
delle genti del Perù, del Messico, della Virginia e della Florida (Vecellio
1598).
    L’afflato classificatorio di Cesare Vecellio costituì probabilmente il
tentativo supremo, più compiuto e maturo, di rappresentare gli ordini sociali
inserendoli in una coerente e ordinata architettura vestimentaria, uno sforzo
realizzato mentre emergeva più di un sintomo che segnalava l’esistenza di
qualche crepa nell’apparato della gerarchia delle apparenze. In questa
prospettiva l’opera di Vecellio si può anche leggere come il tentativo di
fissare in immagini una visione della società che cominciava ad incrinarsi. E
non è un caso che dopo Vecellio quel genere di trattatistica
sull’abbigliamento cominciasse a declinare.
    E’ infatti proprio nel corso di quello stesso secolo XVI che cominciarono
a venire alla luce i segni di un mutamento delle funzioni dell’abito. Vi sono
testimonianze che mi sembrano illuminanti. L’avvento di cicli di
avvicendamento del gusto vestimentario è attestato con chiarezza. Michel de

6
    L’edizione del 1590 portava il titolo De gli abiti antichi et moderni di diverse parti del
    mondo, presso Damian Zenaro; quella successiva, del 1598, fu titolata Habiti antichi e
    moderni di tutto il mondo, presso Gio. Bernardo Sessa.
7
    Sull’opera di Vecellio si vedano J.A. Olian 1977; Dalle Mese 1998; Grimes 2002.

6                                            Alle origini della moda come istituzione sociale
Montaigne lo ha rilevato con grande lucidità: “L’attuale maniera di vestirsi
fa immediatamente condannare l’antica, con una sicurezza così grande e un
consenso così generale che direste che è una specie di mania che sconvolge
in tal modo il cervello. Poiché il nostro cambiamento in questo è così pronto
e improvviso che l’inventiva di tutti i sarti del mondo non saprebbe fornire
sufficienti novità, è giocoforza che molto spesso le fogge disprezzate tornino
in credito e poco dopo cadano di nuovo in disprezzo” (Montaigne 1580, I
pp.384-385). Ed era lo stesso Vecellio ad ammettere che “perchè gli habiti
donneschi sono molto soggetti alla mutatione et variabili più che le forme
della luna, non è possibile in una sola descrittione metter tutto quello che se
ne può dire” (Vecellio, 1598, p. 109).
  Ma ciò che maggiormente colpisce nelle testimonianze dei contemporanei
è la convergenza di valutazioni sulla crisi della gerarchia delle apparenze.
Sono ben note, ad esempio, le indignate considerazioni del puritano Phillip
Stubbes, autore del trattato Anatomie of the abuses in England, che nel 1583
scriveva: "Nowhere is suche a confused mingle-mangle of apparell [as in
England] and such preposterous excesse thereof, as anyone is permitted to
flaunt it out in what apparell he lusteth himself, or can get by with any kind
of meanness, so that it is very hard to know who is noble, who is worshipful,
who is a gentleman, who is not" (Hunt 1996, p. 108). Ma anche Fynes
Moryson parlava di         “babylonian confusion” e denunciava il fatto che
ognuno “goe apparelled like a gentleman” (De Marly 1986, p. 24).
  Valutazioni di tenore molto simile erano espresse da autorevoli
osservatori della società spagnola, come Sebastiàn de Covarrubias, letterato
spagnolo attivo nella seconda metà del secolo XVI, che annotava: “Notorio
es el excesso en Espana en el vestir, porque un dìa de festa el oficial y su
muger no se diferencias de la gente noble” (Alvarez Ossorio 1998-99). Gli

Alle origini della moda come istituzione sociale                              7
faceva eco il vescovo di Limoges, che nel 1561 scriveva da Madrid alla
regina di Francia, esprimendole il suo sdegno per la “vanità che domina gli
uomini di questo paese, i quali si nutrono di boria, purchè siano considerati
come nobili e possano averne l’abito e l’apparenza” (Braudel 1966, II, p.
774).
    La situazione non doveva però essere tanto diversa in Francia, se nei
primi anni del Seicento Antoine de Montchrestien annotava: “Ce n' est point
de nos jours, mais de tout temps que la necessité du vestement se tourne en
vaine pompe. Les meilleurs estats en ont souffert de grands desordres,
ausquels on a bien souvent esté contraint de remedier par de severes loix, le
nostre mesme plusieurs fois, et maintenant en auroit-il besoin plus que
jamais; car, pour en parler à la verité, il est à present impossible de faire
distinction par l' exterieur. L' homme de boutique est vestu comme le
gentilhomme. Cestuy-ci ne sçauroit plus estre connu, que par la seule bonne
creance et belle façon. Si cela manque, àdieu toute difference. Au reste qui
n' apperçoit point comme ceste conformité d' ornement introduit la
corruption de nostre ancienne discipline ? Qui ne void point comme le vilain
qui se void brave veut aller du pair avec le noble, croyant que l' habit fait le
moyne? Qui ne void point comme le gentilhomme, se sentant méprisé du
bourgeois, pour rendre ce qu' on luy preste méprize le seigneur? Si l' on
continuë ainsi, il ne sera plus question desormais d' estre; il ne faudra que
paréstre. Qui plus reluira sera de meilleur or. Mais garde la touche! Quel
ordre peut on esperer de ceste creance, qui se tourne en habitude, et ceste
habitude en coustume? Quelle obeissance pour l' advenir aux superieurs?
Qui prendra plus à gloire l' honneur d' estre commandé? Si vos majestez ne
nous retirent de ceste confusion et indifference, c' en est fait; tous
generalement vont faire banqueroute à la vraye et solide vertu, tous se vont

8                                    Alle origini della moda come istituzione sociale
mettre apres la vanité. La discipline sera banie des troupes et l' ordre des
armées. La naifve valeur sera contrainte de ceder à la vaine pompe”
(Montchrestien 1615, pp. 59-61).
  Stefano Guazzo, autore del trattato La civil conversazione, pubblicato per
la prima volta nel 1574 in Italia, con altre 20 edizioni entro la fine del
secolo, e tradotto in Francia, Inghilterra, Olanda e Germania, condannava
“l’indiscretezza d’alcuni ignobili ricchi, i quali non si vergognano di vestirsi
nobilmente e portare arme indorate a canto, con quegli altri ornamenti che
converrebbono a soli cavalieri (…). Ed è scorsa ormai tanto oltre questa
licenza in molte parti d’Italia, che, così negli uomini come nelle donne, non
si conosce più alcuna distinzione de’ gradi loro e vedete che i contadini
presumono di fare concorrenza nel vestire agli artefici e gli artefici ai
mercatanti e i mercatanti ai nobili” (Guazzo 1574, p.140).
  Benché appartenenti a contesti molto diversi, gli autori dei brani citati
condividevano la preoccupazione per il disordine e la confusione che
regnava nella società a causa dell’abbigliamento: l’abito rappresentava un
fondamentale strumento di identificazione e distinzione sociale, ma se
ciascuno avesse avuto facoltà di vestirsi secondo il proprio capriccio, allora
sarebbe divenuto impossibile riconoscere le persone e l’ordine sociale stesso
avrebbe subito gravi conseguenze.
  Probabilmente si trattava di un fenomeno limitato ai centri urbani, la cui
portata non può essere generalizzata, tuttavia le testimonianze citate fanno
pensare al manifestarsi di una crescente attitudine al consumo connotata da
comportamenti emulativi dello stile di vita dei ceti elevati. Quale
interpretazione darne? Si tratta delle esagerate lamentele di moralisti afflitti
da nostalgia del buon tempo antico, presenti in ogni epoca,             o della
preoccupata espressione di chi coglieva i sintomi di un pericoloso

Alle origini della moda come istituzione sociale                               9
mutamento in atto? Quest’ultima sembra essere la lettura più verosimile. In
effetti, nel corso del secolo XVI le indignate reprimende morali della
crescente dipendenza dalle variazioni della moda appaiono particolarmente
dure e frequenti a confronto con i secoli precedenti (Ribeiro 2003, p. 59).
Inoltre, a giudicare dall’incremento quantitativo delle leggi suntuarie
promulgate nella maggior parte degli stati europei tra XVI e XVII secolo, in
quel periodo i poteri politici si impegnarono in un’azione normativa allo
scopo di restaurare l’ordine nella “gerarchia delle apparenze” (Hunt 1996,
pp.28-29). Assai esplicito in questo senso fu il preambolo del proclama
emanato nel 1588 in Inghilterra da Elisabetta I, nel quale si deplorava “the
confusion of degrees of all estates, amongst whom diversity of apparel hath
been always a special and laudable mark” (Vincent 2003, p. 125).
     E’ fuor di dubbio che dietro la questione dell’abito e della disciplina
dell’abbigliamento si celavano tensioni sociali complesse e articolate,
diverse a seconda delle varie situazioni, sulle quali si tornerà, ma mi sembra
inevitabile ritenere che “l’attacco” alla gerarchia delle apparenze sia stato
supportato dalla crescita e dall’ampliamento della propensione al consumo
di capi di vestiario. Tale interpretazione è confortata anche dai risultati delle
indagini condotte sugli inventari post-mortem, che hanno consentito ad
Anton Schuurman e Lorena Walsh di affermare che “since the sixteenth
century, consumption seems to have been growing” (Schuurman and Walsh
1994, p.14). Ma, se è vero che la gerarchia delle apparenze cominciava ad
incrinarsi a causa      delle accresciute possibilità di acquistare capi di
abbigliamento, allora è necessario chiedersi quali fossero le condizioni
economiche che avevano consentito tale cambiamento.
     Gli studi che consentono di affrontare la questione dell’evoluzione del
potere d’acquisto durante i secoli dell’Età moderna sono innanzitutto le

10                                    Alle origini della moda come istituzione sociale
ricerche sui salari e prezzi e, in particolare, quelle focalizzate sulla
ricostruzione della dinamica dei salari reali, che, dopo una stagione di
indagini risalente ad alcuni decenni fa8, hanno recentemente ritrovato nuovo
vigore, utilizzando nuove fonti e adottando metodologie statistiche più
accurate9. Le informazioni messe a disposizione da questi studi non lasciano
molto spazio alle interpretazioni: tra la metà del secolo XVI e la prima metà
del XVII si verificò un consistente deterioramento dei salari reali (Allen
2001, pp. 441-447). Il fenomeno si presenta con intensità diversa a seconda
delle aree geografiche e con oscillazioni, ma l’evoluzione secolare del
potere d’acquisto dei salari sembra caratterizzata da una generale tendenza
alla flessione, anche se tale dinamica fu più pesante nell’Europa centro-
meridionale e meno drammatica nell’area dei Paesi Bassi (Allen 2001, pp.
427-243). E’ doveroso precisare che le pur accurate ricerche sull’evoluzione
dei salari reali scontano alcuni limiti, di cui bisogna tener conto in sede
interpretativa. Innanzitutto è opportuno sottolineare che la costruzione di
serie storiche affidabili e continue di prezzi e salari è limitata dalla
disponibilità delle fonti, reperibili soltanto in alcune aree, e che quanto più si
risale indietro nel tempo tanto più rare si fanno le informazioni quantitative.
In secondo luogo, laddove esistono e sono accessibili, i dati sui salari sono
relativi soltanto ad alcune categorie professionali – per lo più muratori, dei
quali possiamo conoscere la paga giornaliera individuale, ma ignoriamo il
complesso del reddito familiare: informazione essenziale per avere una idea
precisa delle risorse effettivamente disponibili per ogni unità domestica. Per
quanto concerne poi i prezzi dei generi di consumo, ai quali rapportare i
salari nominali per ottenere l’indicatore del potere d’acquisto, la costruzione

8
    Per una sintesi si veda De Vries 1993, pp. 89-98.
9
    Si vedano Allen 2001 e Allen, Bengtsson and Dribe 2005.

Alle origini della moda come istituzione sociale                                11
di un paniere di beni effettivamente rappresentativo dei modelli di consumo
per periodi di tempo molto lunghi appare impresa assai ardua, le cui
difficoltà hanno indotto i ricercatori ad adottare espedienti metodologici che
possono anche essere tecnicamente raffinati, ma corrono il rischio di
condurre a risultati di dubbia attendibilità (De Vries 1993, pp. 95-98).
Tuttavia, le serie storiche costruite dagli studiosi attestano, con l’efficacia
dimostrativa di formule, tabelle e grafici, che il secolo XVI non conobbe un
incremento generalizzato della propensione al consumo sostenuto dalla
lievitazione dei salari reali. Questa conclusione contrasta, almeno in
apparenza, con le evidenze empiriche raccolte dai ricercatori che studiano le
attitudini al consumo - il cosiddetto “world of goods” – attraverso l’analisi
degli inventari notarili. Questa diversità di vedute è ben sintetizzata da Jan
De Vries: “The historian who averts eye contact with the wage and price
evidence just discussed and fixes his or her gaze firmly on what I will call
‘direct evidence’ of the world of goods will gain a very different – a
decidely optimistic – impression of the changing standard of living from the
sixteenth to the beginning of the nineteenth century” (De Vries 1993, p.98).
Naturalmente nemmeno le indagini condotte sugli inventari notarili sono
esenti da limiti e da cautele interpretative. Tra i rilievi che sono stati
sollevati vi sono le osservazioni che si tratta in genere di ricerche a
campione, di cui è difficile appurare la rappresentatività, e che la
documentazione impiegata fornisce soltanto informazioni di stato e non di
flusso, ossia la descrizione dei beni posseduti in un determinato momento
senza la possibilità di capire come tale patrimonio materiale si è formato e
modificato (De Vries 1993, p.98).
     In realtà, il contrasto tra i risultati ottenuti dai due filoni di ricerca –
quello sui salari reali e quello sulla cultura materiale –, per quanto concerne

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l’ampliamento della propensione al consumo di capi d’abbigliamento che ha
prodotto “l’attacco” alla gerarchia delle apparenze, è soltanto apparente,
perché è plausibile ritenere che i comportamenti condannati nelle
testimonianze citate fossero prerogativa di soggetti appartenenti a ceti
abbienti, probabilmente arricchiti, verosimilmente cittadini, che aspiravano
a forme di legittimazione e riconoscimento sociale di rango più elevato De
Vries 1993, p. 106)10. Il Cinquecento è infatti descritto dalla storiografia
come un periodo caratterizzato da mobilità sociale, particolarmente intensa
in Inghilterra Koenigsberger and Mosse, 1968, p. 52; Stone 1965 e 1966, pp.
16-55), ma rilevabile anche sul continente (Kamen 1971, pp. 163 e 231-
232; Braudel 1966, II, pp. 770-775 e 1979, pp. 486-487). Per dirla con
Henry Kamen: “L’ascesa dei ceti medi fu un fenomeno indiscutibile
dell’Europa del XVI secolo. Coloro i quali si erano fatti strada nel
commercio, con la carica e con la terra, si preoccupavano ormai di
consolidare i vantaggi conseguiti dalla loro classe sul piano sia dello status
sociale che dell’influenza politica” (Kamen 1971, p. 231). Si potrebbe
osservare che questi ”ceti emergenti” non volevano abbattere la gerarchia
delle apparenze, ma solo essere inclusi in essa. Non si può escludere che in
una fase iniziale la tendenza fosse di questo tipo, ma ritengo che l’avvento
della moda potesse essere ancor più funzionale alle esigenze di
rappresentazione dell’ascesa sociale: essere “alla moda” sarebbe divenuto il
criterio di distinzione alla portata di chi disponeva dei mezzi per poterselo
permettere.
     Pertanto     non è certo tra i muratori o i salariati non specializzati,
impegnati a mettere insieme il pranzo con la cena, che dobbiamo cercare i
protagonisti della sfida alla gerarchia delle apparenze stigmatizzata dagli

10
     Cfr. De Vries, Between purchasing power, cit., p.106.

Alle origini della moda come istituzione sociale                            13
indignati contemporanei, come rilevano gli stessi Schuurman e Walsh:
“From the sixteenth century onwards, material circumstances among those
not abjectly poor appear to have gradually improved” (Schuurman and
Walsh 1994, p. 14)11. La caduta, più o meno pesante, del potere d’acquisto
dei salari, erosi dalla crescita del costo dei generi alimentari del secolo XVI,
produsse senz’altro un inasprimento delle condizioni di vita dei lavoratori,
ma       non    determinò      necessariamente        una    contrazione       generalizzata
dell’attitudine al consumo: anzi, proprio l’aumento dei prezzi agricoli poteva
causare al tempo stesso un ridimensionamento dei redditi reali dei salariati e
una lievitazione, almeno in termini nominali, delle entrate dei ceti facoltosi
(Hoffman, Jacks, Levin and Lindert 2005, pp. 131-165). Il meccanismo era
stato ben inquadrato dall’agronomo settecentesco Sallustio Bandini, che
osservava come un elevato prezzo del grano imprimesse “nel denaro un più
veloce moto”, perché in tali occasioni “quel nobile spese tante migliaia di
scudi in quella fabbrica, quell’altro tanti in quelle coltivazioni” (Cipolla
1979, p. 19): è verosimile che in siffatte congiunture anche la disponibilità al
consumo ne risultasse favorita. Nel periodo compreso tra il 1500 ed il 1650
circa la disuguaglianza tra poveri e ricchi aumentò considerevolmente:
mentre i salariati incontravano crescenti difficoltà a fronte del costante
incremento dei prezzi dei beni di prima necessità – cibo, casa, riscaldamento
-, che assorbivano la totalità del loro bilancio familiare, i ceti abbienti, quelli
che ricavavano il loro reddito dalla proprietà fondiaria, potevano sfruttare
sia l’incremento dei prezzi agricoli12, sia il contemporaneo declino del costo

11
     Il corsivo è mio.
12
     Tuttavia, non per tutti si trattò di un’opportunità: laddove le rendite fondiarie erano
     percepite in denaro, anche i proprietari furono danneggiati dalla spirale inflazionistica,
     mentre riuscirono a difendersi quanti riscuotevano i canoni in natura o gestivano
     direttamente le tenute (Braudel 1966, I, pp.565-566; Stone 1965, pp. 203-204). Sir
     Thomas Smith annotava nel 1549 che a beneficiare dell’alto prezzo del grano erano

14                                           Alle origini della moda come istituzione sociale
di quei beni e servizi del cosiddetto “consumo vistoso” che drenavano quote
considerevoli del loro budget:           arredamento, generi esotici, servitù e,
naturalmente, abbigliamento (Hoffman, Jacks, Levin and Lindert 2005, pp.
164-165).
  Proprio i prezzi dei prodotti di base per la confezione delle molteplici
tipologie di capi di vestiario, ossia i tessuti, manifestarono una chiara
tendenza al declino nel corso del Seicento. Le accurate ricerche di Carole
Shammas hanno messo in luce che il fenomeno sembra prendere le mosse
già verso la fine del secolo XVI per consolidarsi poi nel corso del successivo
(Shammas 1993 e 1994). Se è vero che le ragioni di tale evoluzione
sarebbero da ricercare nella flessione dei salari percepiti dai lavoratori del
settore (Shammas 1994, pp. 504-505), non è meno vero che questa non è
l’unica    spiegazione.     I   prezzi    dei      tessuti   –   e   più   in   generale
dell’abbigliamento – si contrassero anche perché i produttori allargarono e
diversificarono la loro offerta, proponendo ai consumatori prodotti e
soluzione vestimentarie nuove e più economiche rispetto al passato. Come
ha scritto la stessa Shammas, “Prices declined, and the popularity of
thinner, less expensive fabrics … and in the eighteenth century ready-made
garments, also brought the costs down” (Shammas 1993, pp. 193-194).
  Sappiamo infatti che nell’industria tessile europea si orientò con impegno
crescente verso la produzione di tessuti più leggeri e meno costosi di quelli
tradizionali già nel tardo XV secolo e che tale tendenza andò rafforzandosi
nel secolo successivo. L’evoluzione in tal senso nel settore laniero è
piuttosto nota: la diffusione crescente di tessuti a buon mercato è un tratto

  “tutti coloro che hanno in gestione aziende o fattorie al vecchio fitto perché pagano al
  vecchio tasso e vendono al nuovo, cioè pagano per la loro terra ben poco e ne
  vendono i prodotti a caro prezzo”; erano invece penalizzati “tutti i nobili e i

Alle origini della moda come istituzione sociale                                       15
caratteristico della dinamica produttiva del Cinquecento. Accanto alla
ripresa di manifatture che si erano orientate alla lavorazione di tessuti
leggeri già nel corso del Medioevo, sorsero, nel corso del secolo XVI, altri
centri produttivi specializzati nella produzione di nuovi tipi di stoffe (Van
Der Wee 2003, pp. 428-452). Tra le produzioni leggere tradizionali
conobbero un notevole successo soprattutto i tessuti noti come baiette, saie,
sarze (p. 439). Per quanto concerne le nuove tipologie produttive, si possono
individuare due gruppi fondamentali. Da un lato vi erano le stoffe
confezionate con filato di lana, che si distinguevano in tessuti pettinati,
spesso definiti rascie, i drappi con finiture cangianti che imitavano gli effetti
della seta (satins), ed infine stoffe tessute con l’impiego di lane di capra o di
cammello. Appartenevano ad un secondo gruppo i tessuti misti, fabbricati
con lana e altre fibre come cotone o lino (pp. 434-435).
     Forse meno nota, ma altrettanto rilevante, è l’analoga tendenza che
emerge nell’ambito dell’industria della seta, dove pure appare in crescita la
produzione di tessuti misti, cioè confezionati con filato di seta unitamente a
fibre più economiche, come lana, lino, cotone o seta di qualità inferiore: i
consumatori potevano così accedere a stoffe che emulavano gli effetti della
superficie serica a costi inferiori rispetto a quelli dei drappi di seta pura e di
prima scelta.        L’esempio più conosciuto è forse quello dei cosiddetti
broccatelli, la cui lavorazione si affermò a Venezia e in molti centri serici
italiani ed europei durante il secolo XVI, ma accanto ad essi si producevano
anche altre tipologie note come buratti, canevazze, cosacchi, dobloni,
ferandine, rasetti, tabì (Molà 2000,pp. 170-184).

     gentiluomini e tutti coloro che vivono di fitti o di rendite imposte [cioè fisse], o che
     non si occupano di acquisti e vendite” (Kamen 1971, p. 91).

16                                          Alle origini della moda come istituzione sociale
Anche nell’ambito dei più preziosi velluti si adottarono tecniche di
lavorazione finalizzate al contenimento dei costi, con presumibili ricadute
sul prezzo finale del prodotto. Tra gli accorgimenti adottati vi fu quello di
ridurre le dimensioni dei motivi decorativi dei velluti per abbigliamento:
tale “miniaturizzazione” dei disegni consentiva un più semplice e veloce
riassetto del telaio nel passaggio da una lavorazione ad un’altra, il che
permetteva, oltre ad una maggiore flessibilità produttiva, una contrazione
dei tempi e dei costi di produzione. Sempre diretta a comprimere i costi di
lavorazione era la tecnica, adottata a partire dalla seconda metà del secolo,
grazie alla quale si riproducevano sui velluti uniti gli effetti dei tessuti
operati mediante impressione a caldo sulla stoffa (Orsi Landini 1999a,
1999b, 1999c, 1999d).
  Un altro importante cambiamento nell’offerta di soluzioni per il vestiario
verificatosi nel corso del secolo XVI è rappresentato da quella che
potremmo chiamare “la rivoluzione della maglia”, ossia l’avvento e la
diffusione di articoli lavorati a maglia con gli aghi che andarono a sostituire
capi d’abbigliamento tradizionalmente confezionati con il tessuto.
L’esempio più noto è quello delle calze a maglia, primo caso di articolo di
vestiario pret-à-porter, che poteva essere acquistato ed indossato senza
passare attraverso il lavoro del sarto, come invece avveniva per le
tradizionali calze di tessuto, con presumibili contrazioni del costo del
prodotto (Belfanti 2005). Risale sempre del secolo XVI, probabilmente
trainata dal successo ottenuto dalle calze a maglia, l’introduzione
dell’innovazione di processo del telaio da maglieria, inventato dall’inglese
William Lee (Chapman 2002; Belfanti 2005).
  Il discorso sulla maglieria conduce poi a considerare le prime forme di
abito confezionato accessibili all’epoca. L’esempio più noto di abito

Alle origini della moda come istituzione sociale                             17
confezionato è ovviamente l’abito usato. Il mercato dell’abito usato, fiorente
in tutte le principali città sin dal secolo XVI, offriva l’opportunità di
acquistare una grande varietà di capi di vestiario. Gli abiti usati potevano
essere acquistati presso rivenditori specializzati oppure nell’ambito di
vendite all’asta (Allerston 1996, Deceulaer 1998, Du Mortier 1991, Zander
Seidel 1991). Studi recenti hanno inoltre dimostrato che in alcuni centri
urbani anche la vendita di abbigliamento ready-to-wear, appositamente
confezionato, era praticata già tra la fine del secolo XVI e l’inizio del XVII:
a Gand e Anversa, ad esempio, la vendita di articoli confezionati era
prerogativa dei rigattieri, che commissionavano ai sarti cittadini la
confezione dei capi (Deceulaer 1998, pp. 6-9). Infine, si può ricordare che
consumatori dell’epoca potevano anche accedere ad una soluzione meno
gravosa dell’acquisto, che era quella del noleggio di abiti per partecipare a
particolari occasioni (Allerston 2000, pp. 367-390).
     Le evidenze empiriche esaminate sembrano inserirsi in un quadro
d’assieme coerente. La costante e fruttuosa ricerca di            innovazioni di
prodotto e, in misura minore, di processo che caratterizzò il settore tessile-
abbigliamento nel corso del Cinquecento fu contraddistinta da un
fondamentale obiettivo: allargare e diversificare l’offerta con prodotti
sempre meno costosi allo scopo di raggiungere una platea più ampia di
consumatori. Questa strategia comportò un            abbassamento del livello
qualitativo e una riduzione della durata dei beni prodotti, ma accentò la
flessibilità produttiva ed ampliò la varietà allo scopo di interagire in maniera
più elastica con una composizione della domanda che si stava facendo
sempre più articolata.
     Quanto sin qui esposto e discusso non porta certo ad anticipare al secolo
XVI la cosiddetta “rivoluzione dei consumi”: i casi presi in considerazione

18                                   Alle origini della moda come istituzione sociale
dimostrano però come, almeno nelle principali città europee, esistessero
concrete opportunità di accedere ad un’ampia gamma di opzioni in materia
di abbigliamento per eludere la “gerarchia delle apparenze”. Come si è
detto, tali opportunità erano in origine riservate ai ceti elevati ed è probabile
che la possibilità di partecipare “al gioco della moda” si sia allargata ad altri
gruppi sociali soltanto nel corso del secolo XVII, quando il potere
d’acquisto cominciò a lievitare in maniera consistente e diffusa, in
coincidenza con quella de Jan De Vries ha chiamato “industrious
revolution” (De Vries 1994). Tuttavia, mi sembra importante sottolineare
che il meccanismo del cambiamento si innescò partire dal secolo XVI, anche
se il consolidamento avvenne più tardi. La tradizionale “gerarchia delle
apparenze” entrò in crisi per un concorso di cause: la difficoltà di
“enforcement” delle leggi suntuarie, la pressione di ceti con aspirazioni di
ascesa sociale, le nuove opportunità offerte dal mercato dell’abbigliamento.
Il sistema basato su un codice normativo rigido – le leggi suntuarie – fu
sostituito con un’ istituzione sociale, dalle regole non meno severe, - la
moda - che non cessava di attribuire significati di rappresentazione e
identificazione all’abito, ma assolveva questa funzione in modo molto più
flessibile e, al tempo stesso, più efficace.

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