1 #nonservi la precarietà è il problema il jobs act non è la soluzione

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1 #nonservi la precarietà è il problema il jobs act non è la soluzione
#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione

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1 #nonservi la precarietà è il problema il jobs act non è la soluzione
#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione

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#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione

                                                #nonservi
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                                  fotogrammi precari
             una breve analisi su lavoro, diritti
                           e sviluppo in Italia

                                                                7
                                  le nostre soluzioni
                       per un'altra idea di società

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                                       alcune proposte
                           da mettere subito in atto

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                       #nonservi!
La macchina            “L’Italia va riparata”. E allora il meccanico Renzi con l’aiuto del
del capo               ministro Poletti - anche se non è da sottovalutare l’apporto
                       fondamentale della ministra Giannini con #labuonascuola - è
                       già da mesi al lavoro per smantellare definitivamente il già
                       precario sistema dei diritti e delle tutele nel mercato del
                       lavoro. Un’operazione in perfetta continuità con i Governi
                       precedenti, in particolare con quello Monti, autore della
                       famigerata Riforma Fornero.
                       “Il lavoro è un dovere, non un diritto”. La linea l'ha indicata
                       chiaramente lo stesso Presidente del Consiglio nel corso della
                       Direzione Nazionale del PD. Ben oltre i richiami al laburismo
                       che spesso vengono “imputati” al nuovo corso renziano, il
                       disegno del futuro del Paese scivola verso il neoliberismo
                       spinto. Poco importa se negli ultimi due decenni, proprio a
                       causa delle ricette neoliberiste della flessibilizzazione del
                       mercato del lavoro, della finanziarizzazione dell'economia e del
                       monetarismo, la disoccupazione – in particolare quella
                       giovanile – ha toccato livelli inediti e nessuno vede la più volte
                       annunciata “uscita dalla crisi”.

Un problema            La colpa è stata attribuita di volta in volta ai giovani
                       troppo choosy, alla scuola e all’università che non preparano
strutturale al di là
                       adeguatamente al mondo del lavoro, ai lavoratori dipendenti
della retorica sui     scansafatiche e poco produttivi, alla mancanza di incentivi alle
choosy                 imprese. Nessuna riflessione critica sull’incapacità cronica del
                       sistema produttivo di scommettere con innovazioni di
                       processo e di prodotto, sull’assenza di piani industriali e
                       investimenti pubblici in grado di orientare il lavoro verso la sua
                       funzione sociale, sulla non volontà di garantire un welfare
                       universale per la dignità di tutte e tutti.
                       Il Jobs Act si inserisce nel solco di questa retorica e cerca di
                       chiudere il cerchio di una serie di riforme e provvedimenti che
                       hanno progressivamente precarizzato il mercato del lavoro,
                       trasformando le forme di contratto a tempo determinato e il
                       falso lavoro autonomo dall’eccezione alla norma nella nostra
                       società. L’abolizione    della    causale     per    i    contratti
                       precari inserita nel Decreto Poletti ne è l’esempio
                       emblematico. Il cosiddetto “contratto unico a tutele
                       progressive”, non essendo affatto unico perché non prevederà

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#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione
                        l’abolizione delle oltre 40 forme contrattuali presenti in Italia,
                        non farà altro che rafforzare la tendenza alla normalizzazione -
                        e alla progressiva estensione a tutte le fasce anagrafiche e a
                        tutti i settori categoriali - della precarietà lavorativa.

Oltre occupazione e     La precarizzazione del mercato del lavoro si accompagna
disoccupazione: il      tuttavia ad un processo di trasformazione molto più profonda,
paradigma               che arriva ad investire l’intera sfera dell’esistenza. E’ evidente
                        infatti    come     oggi,       nel    dibattito    pubblico      del
dell'occupabilità
                        Paese, l’emergenza della disoccupazione, in particolare di
                        quella giovanile, è usata dal Governo come leva per cambiare
                        lo stesso paradigma di occupazione e disoccupazione.
                        Contrapporre garantiti e non garantiti nel mondo del lavoro
                        significa da un lato omogeneizzare verso il basso diritti e
                        tutele, ma dall’altro significa utilizzare la competizione nella
                        popolazione attiva per segmentare il mercato del lavoro e
                        quindi estendere ulteriormente l’occupabilità giocando al
                        ribasso su salari e diritti. E’ la prospettiva della “via italiana al
                        modello tedesco”, con l’introduzione di forme simili ai MiniJob
                        della Riforma Hartz e con la riduzione definitiva dello stato
                        sociale a un modello di workfare spinto (altro che il welfare
                        universale millantato dal Governo!). Anche l’estensione dei
                        diritti legati alla maternità - e non alla genitorialità -
                        presentano delle forti lacune soprattutto nel contesto più
                        generale della progressiva precarizzazione del mercato del
                        lavoro.

                        Quello di cui si parla sempre meno, infatti, è dell’incapacità
Il valore sociale dei
                        del mercato del lavoro attuale di soddisfare le aspettative, le
saperi e del lavoro:    inclinazioni e gli interessi delle tante e dei tanti, in particolare
un'alternativa          della nostra generazione, che rimangono ai margini o che
praticabile             sono impiegati in lavori non solo precari, ma anche percepiti
                        come inutili, dannosi e incoerenti con i percorsi formativi e le
                        capacità individuali. Siamo infatti la prima generazione del
                        Dopoguerra che sta vivendo condizioni materiali peggiori di
                        quelle dei propri genitori, ma il problema si estende al
                        tradimento delle nostre stesse aspirazioni di trasformazione
                        della nostra esistenza e della nostra collettività. Siamo sempre
                        più costretti a, o alla ricerca di, impieghi che escludono la
                        cooperazione, la formazione continua, la connessione con il
                        territorio e le comunità locali. Impieghi che impoveriscono,
                        non solo dal punto di vista economico. Impieghi spesso
                        accettati sotto ricatto, a causa dell’assenza di forme di welfare
                        universale come il reddito di base.
                        Di questo il Jobs Act non parla. Parla degli imprenditori che

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#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione
                       devono poter controllare, demansionare e licenziare a
                       piacimento i propri lavoratori, ma non decide di mettere in
                       campo quelle misure strutturali necessarie per restituire valore
                       sociale al lavoro. Così come #labuonascuola decide che è
                       necessario uniformare l’offerta di lavoro alla domanda
                       esistente, e non interrogarsi su come la conoscenza, la
                       cultura, la ricerca, possano imprimere la trasformazione
                       necessaria per uscire veramente dalla crisi e dalla precarietà.
Non servi!
                       Quello che vogliamo fare è dire chiaramente “Non
                       servi”! L’azione del Governo, il Jobs Act, il Piano Scuola, il
                       rispetto dei vincoli di bilancio, non servono affatto a portarci
                       fuori dalla crisi ma casomai a rafforzare e rendere strutturali
                       quelle dinamiche “emergenziali” introdotte dalle politiche
                       d’austerità. E allo stesso tempo non vogliamo essere serv i di
                       un mercato del lavoro non solo sempre più precarizzato,
                       intermittente, senza tutele, ma anche che non risponde
                       affatto alle nostre aspirazioni e ai bisogni reali della società.
                       Noi, studenti e giovani che continuiamo ad essere
                       strumentalizzati come scusa per distruggere i già precari diritti
                       sul mercato del lavoro, smonteremo con ironia e irriverenza la
                       narrazione del cambiamento per il cambiamento, delle riforme
                       strutturali sottoforma di slide, dell’annuncite cronica e del
                       velocismo superficiale. La strada è appena iniziata. Il primo
                       settembre Renzi ha annunciato l’inizio dei “1000 giorni per
                       cambiare l’Italia”: a poco più di un mese di distanza è
                       evidente che saranno 1000 giorni per precarizzarla e
                       impoverirla. Noi abbiamo 1000 giorni - e più, nei contdown ci
                       sentiamo stretti - per inventare e praticare assieme un’altra
                       idea di scuola, di università e di società.

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#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione

          tra disoccupazione
           e lavoro povero
10 mln di poveri: la      Se proviamo a confrontare la narrazione che il governo Renzi
cifra del fallimento di   da di sé e delle sue “riforme” con la fotografia della situazione
un disegno di società     economica e sociale all’interno del nostro Paese il risultato è
                          allarmante.
                          In Italia la popolazione povera è quantificabile in 10 milioni di
                          individui di cui oltre 6 milioni in povertà assoluta, cioè
                          impossibilitata ad accedere a quei beni e servizi che
                          assicurano un minimo di dignità umana. Lo certifica l’ISTAT ed
                          è la cifra di 5 anni di politiche di austerità e di tagli al welfare
                          e ai servizi essenziali.
                          Nello stesso periodo, a fronte di una narrazione che continua
                          ad asserire che “non esiste ricchezza” nel nostro Paese o che
                          essa risiede nei risparmi familiari, c’è stato un enorme
                          spostamento di questa stessa ricchezza dal basso verso l’alto;
                          basti pensare che in Italia, per fare un esempio eclatante della
                          sperequazione economica in Italia, 10 persone dispongono di
                          un patrimonio pari a quello di 500 000 famiglie operaie
                          (Censis). E’ quanto mai evidente dunque che quella in cui
                          viviamo è una stagione in cui i cosiddetti “sacrifici” vengono
                          imposti solo alla parte più debole della popolazione a favore di
                          una ristrettitissima cerchia di elite che gestiscono nei loro
                          interessi le politiche economiche e sociali del nostro Paese.

                          Mentre da un lato si continua a raccontare di una lunga fila di
La povertà da lavoro,
                          multinazionali e di imprenditori pronti a sbarcare nella
un ritorno all'800
                          Penisola, in attesa solamente dell’abolizione dell’art. 18 e di
                          un ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro per poter
                          poi liberamente investire e creare milioni di posti di lavoro,
                          non ci si rende conto di quella che è la geografia delle
                          tipologie contrattuali, e dei relativi drammi umani e sociali. E’
                          infatti ridicolo affermare, a fronte delle 46 tipologie
                          contrattuali di cui una sola tutelata dall’art. 18 e solo in
                          aziende con più di 15 dipendenti, che il problema della
                          disoccupazione è un problema di “rigidità” dell’accesso o di
                          uscita dal mercato del lavoro. E’ necessario ribadire invece
                          come l’eccessivo utilizzo di forme contrattuali atipiche sia una

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#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione
                        delle principali cause della disoccupazione giovanile (44.2%, il
                        dato più alto di sempre) e del ritorno di un fenomeno che
                        pensavamo aver lasciato nei meandri della storia pre-
                        novecentesca: la povertà da lavoro.

La bolla formativa,     Oggi molti di coloro i quali hanno un lavoro, se così si può
strategia di chiusura   definire al netto dell’assenza di diritti e di tutele e della spesso
dei luoghi di           discutibile utilità sociale, non sono affrancati dalla povertà e
formazione              non      riescono      ad     emanciparsi,       socialmente      ed
                        economicamente, attraverso il salario.
                        In questo contesto i dati sul tasso di occupazione dei laureati
                        al 52%, di cui solo il 45% ha iniziato a lavorare dopo la laurea
                        mentre il 39% mantiene il lavoro pre laurea (dati Almalaurea),
                        e sul numero d’iscrizioni universitarie, con 30.000
                        immatricolati in meno in un triennio e oltre 78.000 in un
                        decennio, assumono i tratti di una precisa strategia politica
                        volta a rendere sempre più elitari i luoghi di formazione, come
                        luoghi di riproduzione dell’attuale classe dirigente e degli
                        attuali indirizzi economici e sociali, e sempre più vasta un’area
                        inedita di esercito (post)industriale di riserva che in una
                        condizione di competizione a ribasso (sui salari e sui diritti)
                        resta uno dei principali fattori della dilagazione della povertà e
                        di estrazione di ricchezza dal basso.

   la mancata innovazione
L'innovazione,          La ricerca scientifica e l’innovazione sono diventate variabili
variabile non           economiche strategiche di fondamentale importanza per le
                        ambizioni di crescita di diversi Paesi del Nord Europa.
considerata
                        Invenzioni come il web 2.0, le stampanti 3d, i passi avanzati
                        nel campo della robotica lasciano presumere cambiamenti
                        forti delle forme di produzione e di organizzazione del lavoro.
                        Bassi salari, flessibilizzazione estrema del mercato del lavoro,
                        assenza di tutele e standard qualitativi scarsi sono invece la
                        strada fallimentare della competizione a ribasso imboccata da
                        tutti i Paesi del Sud. In Italia, questa è addirittura una
                        filosofia, tanto che il miliardario Briatore, facendo seguito alle
                        tantissime dichiarazioni su “choosy” e “bamboccioni” di diversi
                        ministri, ha consigliato agli studenti della Bocconi in una

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#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione
                          conferenza sull’occupazione di volare basso ed aprirsi una
                          pizzeria, che è l’unico modo certo di guadagnare, “Altro che
                          start-up”.

Ricerca e sviluppo, Se presto saremo circondati da pizzaioli laureati in economia
questa sconosciuta non sarà però per il consiglio di Briatore ma perché a questo
                    sembrano spingere le politiche pubbliche in materia di
                    occupazione, strutturalmente incapaci di incentivare e dare
                    spazio a tutte le forze innovative che all’interno del mondo
                    dell’università e della ricerca si sono formate in questi anni.
                    L’Italia è al sedicesimo posto tra i Paesi UE per gli investimenti
                    in ricerca e sviluppo, impiega solo l’1,3% del PIL ed è anni
                    luce lontana dall’obiettivo di Horizon 2020 che fissava il tasso
                    d’investimenti al 3%. Ce lo dicono i dati Eurostat che
                    certificano inoltre proprio in Italia il tasso più basso di
                    cooperazione fra istituti pubblici di ricerca, imprese e
                    università: questi 3 poli si sono parlati solo per il 12,1% dei
                    progetti di ricerca, contro il 51% ad esempio dell’Austria.
                    Il 90% delle start-up in Italia non riesce a superare la fase di
                    avvio proprio a causa dell’assenza di una seria politica di
                    sostegno e investimento statale. Allo stesso modo assistiamo
                    a un calo della registrazione dei brevetti del 6,1% [BES 2014]
                    nel 2011, in controtendenza con il resto dei Paesi europei.

Una condizione di         Dunque se dopo un percorso di studi il tentativo di avviare
sottoccupazione           un’attività ad alto contenuto innovativo fallisce, il mercato del
cronica nella             lavoro come assorbe chi ha una laurea in un settore
                          scientifico-tecnologico? Ebbene, tenuto conto dell’altissimo
ricerca
                          tasso di disoccupazione solo il 10,1% degli occupati lavora in
                          un settore considerato high tech. Come siamo arrivati a
                          questa situazione? Lo stato generale dell’innovazione così
                          basso è dovuto alla incapacità dei nostri ricercatori di seguire
                          il contesto internazionale? Considerando la successione di tagli
                          al finanziamento ordinario, la spartizione di una quota
                          premiale tra gli Atenei attraverso un meccanismo
                          concorrenziale, l’abbattimento del fondo PRIN (Progetti di
                          Ricerca di Interesse Nazionale) portato da più di 120 a quasi
                          40 milioni negli ultimi 10 anni, è un miracolo che ci siano
                          ancora ricercatori nelle nostre Università (e che in termini di
                          produttività, siano molto competitivi).

Valutare e punire         Oggi il mondo della ricerca già fortemente svilito da pesanti e
non è una ricetta         miopi politiche di tagli viene definitivamente umiliato dal
vincente                  sistema di valutazione della qualità della ricerca gestito da
                          ANVUR che, attraverso meccanismi di valutazione puramente

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#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione
                       quantitativi, scatenano la competizione tra Atenei spingendoli
                       a scalare la classifica della quota premiale. Questo sistema si
                       traduce di fatto in una limitazione della libertà di ricerca
                       assegnando punteggi diversi alle diverse tipologie di
                       pubblicazione.
                       Mentre l’idea dello Stato innovatore improvvisamente rivive
                       anche in USA, i governi succedutisi nel nostro Paese attuano
                       politiche di impoverimento delle condizioni del presente e di
                       negazione del futuro. L’Italia è stata inserita secondo il Global
                       Innovation Index tra i Paesi che devono ancora “imparare”.
                       Imparare cosa? Più che a fare la pizza, a valorizzare chi oggi è
                       considerato inutile.

     la falsa soluzione
  della flessibilizzazione
La flessibilità come   La retorica sulla quale poggia tutto il processo di
opportunità: una       precarizzazione del mercato del lavoro nell'ultimo ventennio è
                       la correlazione tra il tasso di flessibilità del mercato del lavoro
prospettiva
                       e il tasso di occupazione. In sostanza, le magnifiche sorti e
inesistente            progressive      della     flessibilità     avrebbero     garantito
                       un'occupazione di qualità, addirittura adatta alle proprie
                       esigenze di vita, per tutti.
                       A distanza di vent'anni possiamo tranquillamente affermare
                       che la prospettiva è tutt'altra: come rilevato dall'OCSE l'Italia
                       è, tra i Paesi industrializzati, quello che allo stesso tempo ha
                       prodotto le più importanti politiche di deregolamentazione del
                       mercato del lavoro – in particolare sul fronte dei licenziamenti
                       individuali – e ha registrato la maggior crescita del tasso di
                       disoccupazione.
Precarietà e diritti
                       Perché nella maggior parte dei casi un maggior grado di
sindacali              deregolamentazione del mercato del lavoro genera un minor
                       tasso di occupazione? Perché la precarizzazione ha come
                       effetto collaterale quello della riduzione del potere
                       contrattuale e dei diritti sindacali dei lavoratori, cosa che porta
                       all'abbassamento generalizzato dei salari, riducendo dunque la

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#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione
                        domanda aggregata derivante dai consumi individuali.
Precarietà,
                        Deregolamentare il mercato del lavoro significa scegliere una
competitività,
                        precisa opzione politica: quella della costruzione della
occupabilità            concorrenza tra imprese sull'abbassamento di salari e tutele e
                        sull'aumento dell'orario di lavoro, e non sull'innovazione di
                        processo e di prodotto. Tant'è vero che un lavoratore italiano
                        svolge in media molte più ore di un suo omologo tedesco,
                        eppure in Italia i salari reali sono in costante diminuzione dagli
                        anni '90.
                        La precarizzazione del mercato del lavoro, e in particolare il
                        moltiplicarsi delle forme contrattuali, genera inoltre un altro
                        effetto che si sta continuando ad amplificare nel nostro Paese.
                        Si tratta della segmentazione sempre più scientifica del
                        mercato che, attraverso la competizione tra lavoratori,
                        estende all'infinito l'occupabilità comprimendo salari e diritti.
                        L'introduzione dei MiniJob alla tedesca nel contesto italiano
                        sarebbe un ulteriore tassello che rafforza questa tendenza.

jobs act e decreto poletti
L'ennesimo        Nonostante il profilo pubblico mantenuto dal governo Renzi
provvedimento per negli ultimi mesi, durante i quali ha ripetutamente dichiarato
                  di voler eliminare la precarietà dal mondo del lavoro, l’operato
la precarietà
                  legislativo va nella direzione diametralmente oppoosta.
                  L’esecutivo ha più volte posto la necessità di aumentare la
                  flessibilità in entrata così come quella in uscita, negando
                  un’ulteriore precarizzazione dello scenario lavorativo, come
                  invece ha denunciato di recente anche il rapporto OCSE
                  Employment Outlook 2014.

                        Il Decreto Poletti, prima parte del cosiddetto Jobs Act, mette
Il contratto            in atto questo progetto per quanto riguarda il contratto a
precario, da            tempo determinato e il contratto di apprendistato. E’ evidente
eccezione a norma       il tentativo di “normalizzare” la precarietà lavorativa finora
                        considerata come eccezione. Il provvedimento, infatti,
                        stabilisce l’acausalità dell’assunzione a tempo determinato. Ciò
                        significa che si può assumere un lavoratore a tempo e
                        prorogargli il contratto di tre mesi in tre mesi per un massimo
                        di cinque volte, senza dover spiegare il motivo per cui non si

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#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione
                         assume a tempo indeterminato. Inoltre, il tetto massimo del
                         20% a questo tipo di assunzioni non vale per le aziende con
                         meno di cinque dipendenti (cioè la maggior parte), non vale
                         per alcun ente di ricerca (tutti i ricercatori potranno essere
                         precari, come e più di ora) e lo sforamento prevede solo una
                         lieve sanzione pecuniaria all’azienda. I contratti di
                         apprendistato vengono privati della loro ragion d’essere,
                         sgravando      l’azienda     dall’obbligo     di     contribuire
                         economicamente alla formazione professionale e, per quelle
                         con meno di 50 dipendenti, di assumere un minimo di
                         apprendisti.

                         Al Decreto Poletti segue adesso la seconda tranche del Jobs
Jobs Act: oltre l'art.   Act, che si propone di intervenire sulle innumerevoli forme
                         contrattuali esistenti, oltre che sugli ammortizzatori sociali.
18, zero tutele e
                         Alla prova dei fatti però il disegno di legge delega non è che,
contratto unico          da un lato, un grande spot e, dall’altro, un attacco esplicito ai
precario                 diritti dei lavoratori se pensiamo alla definitiva cancellazione
                         dell’articolo 18 e alle maggiore possibilità di controllare a
                         distanza e demansionare i dipendenti.
                         L’introduzione del contratto “a tutele crescenti”, non andando
                         a sostituire le altre forme di contratto ma aggiungendosi ad
                         esse, risulterà superflua nel momento in cui le imprese
                         potranno attivare contratti molto più vantaggiosi, a discapito
                         dei diritti dei lavoratori.
                         Per quanto riguarda le tutele, manca totalmente un
                         ragionamento complessivo su forme di tutela universali e
                         inclusive di chi è appena uscito dal proprio percorso formativo
                         e di quelle categorie di lavoratori che ad oggi ne sono esclusi,
                         quali un reddito minimo che garantisca all’individuo la
                         possibilità di sottrarsi al ricatto derivante dalla sua condizione
                         di precarietà lavorativa ed esistenziale.
                         Il dibattito è oggi molto schiacciato sulla singola questione
                         dell’art.18, che ha portato alla contrapposizione tra
                         l’”innovatore” Renzi e i sindacati “conservatori”. Quando il
                         premier dichiara di voler superare la distanza tra lavoratori di
                         “serie A” e “serie B” si nasconde il fatto che attraverso le
                         misure che si intende attuare si avrà un livellamento al ribasso
                         delle condizioni del lavorato

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#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione

                youth guarantee
Una misura non          La Youth Guarantee è una misura finanziata da Youth
strutturale             Employment Initiative (YEI) e dal Fondo Sociale Europeo
                        (FSE) che nasce con l’intento di aiutare i giovani scoraggiati
                        (NEET: Not in Education, Employment or Training) e
                        disoccupati di età inferiore ai 25 anni (in Italia fino a 29) a
                        trovare una occupazione qualitativamente valida, tirocinio,
                        apprendistato o altre misure formative entro 4 mesi dall’inizio
                        della disoccupazione o dalla fine degli studi. La misura, che si
                        concentra sul miglioramento della relazione tra domanda e
                        offerta, prende spunto da programmi simili adottati negli anni
                        passati dai Paesi scandinavi su scala nazionale. La disponibilità
                        complessiva del programma è pari a circa 1 miliardo e 513
                        milioni di euro.
                        Oltre alle misure previste a livello europeo, in Italia è stata
                        disciplinataa l’attuazione del ‘Bonus Occupazione. Si tratta di
                        188 milioni di euro destinati ai datori di lavoro che assumono i
                        giovani partecipanti al Programma con contratti a tempo
                        indeterminato o a tempo determinato di durata pari o
                        superiore ai 6 mesi.
Un fallimento           A ottobre 2014 si sono registrati al programma Garanzia
annunciato              Giovani 223.729 persone, prevalentemente dal Centro Sud.
                        Dopo l’inaugurazione ufficiale del programma a maggio 2014,
                        quindi a distanza di cinque mesi, il bilancio per ora è tutt’altro
                        che positivo. Dei 223.729 giovani registrati solo 69.347 (circa
                        il 30%) sono stati chiamati dai centri per l’impiego per un
                        primo colloquio.
                        Ad oggi, le opportunità di lavoro complessive pubblicate
                        dall’inizio del progetto sono pari a 15.578. per un totale di
                        posti disponibili pari a 22.270. Il 71,7% delle occasioni di
                        lavoro è concentrato al Nord, il 14,4% al Centro e il 13, 8% al
                        Sud, con un’evidente squilibro rispetto alla collocazione
                        geografica dell’offerta. Ma il dato più significativo è quello
                        delle tipologie contrattuali, un dato emblematico di come le
                        risposte date dalla Garanzia Giovani siano del tutto
                        insufficienti: le offerte di lavoro riguardano infatti per ben il
                        75% contratti a tempo determinato, solo per il 12% contratti
                        a tempo Indeterminato, seguono i tirocini (7%) e
                        l’apprendistato (2%).

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#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione
Nessun intento
realmente              Davanti al 44,2% di disoccupazione giovanile la Youth
trasformativo          Guarantee appare dunque una misura totalmente
                       inappropriata. Il problema risiede nella stessa impostazione
                       del programma che destina ingenti finanziamenti all’ incontro
                       tra domanda e offerta, non cogliendo il carattere strutturale
                       della disoccupazione giovanile e non comprendendo come
                       essa sia causata da una reale mancanza di lavoro e da
                       tipologie contrattuali che aumentano la precarietà.
                       Non è un caso che a fronte di 223.729 giovani registrati al
                       Programma Garanzia Giovani le offerte di lavoro provenienti
                       dalle imprese siano state solo 15.578. Non è un caso che 75%
                       dei lavori offerti tramite la Garanzia Giovani siano contratti a
                       tempo determinato, tipologia contrattuale in cui – dopo la
                       riforma effettuata dal decreto Poletti - il lavoratore è sotto il
                       costante ricatto del datore di lavoro a seguito dell’
                       eliminazione della causale e alla possibilità di effettuare ben 5
                       proroghe. Nulla impedisce dunque al datore di lavoro, una
                       volta incassato il ‘Bonus Occupazione’, di non effettuare la
                       proroga al giovane assunto, che si troverà così nuovamente
                       travolto nel vortice della precarietà.
                       Medesima considerazione può essere fatta per l’apprendistato
                       che, in seguito alla riduzione al 20% dell’obbligo per le
                       aziende di stabilizzazione degli apprendisti, si è trasformato
                       definitivamente nell’ ennesimo contratto precario.
                       Infine, sicuramente, problematici risultano essere i tirocini,
                       spesso intesi come mero lavoro sfruttato non retribuito, che
                       favoriscono il dumping salariale e non garantisce affatto
                       possibilità occupazionale.

                       Insomma, la Garanzia Giovani appare a tutti gli effetti un
                       esperimento non esperimento non riuscito. Infatti, senza
                       politiche industriali e di sviluppo; senza un reale investimento
                       in istruzione, ricerca e innovazione; senza una riforma del
                       mercato lavoro che elimini le oltre 40 tipologie contrattuali e
                       che preveda un salario minimo; senza una universalizzazione
                       degli armonizzatori sociali non si può dar vita ad un reale
                       piano per l’ occupazione giovanile.

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      per il valore sociale
     dei saperi e del lavoro
La prima generazione a    La nostra generazione sarà la prima a dover accettare
vivere condizioni         condizioni socio-economiche peggiori di quella che l’ha
materiali peggiori dei    preceduta: questo è il muro contro cui si vanno a infrangere le
padri                     aspettative possibili di alcuni milioni di giovani. Dopo aver
                          passato anni all’interno di percorsi formativi sempre più
                          dequalificanti, spesso facendo sacrifici incredibili per poterne
                          sostenere le spese, ci si ritrova davanti un mondo del lavoro
                          senza prospettive. Anni ed anni di provvedimenti che hanno
                          precarizzato     ed   impoverito     il   lavoro,     demolendo
                          contemporaneamente gli strumenti di welfere e di protezione
                          sociale, ci consegnano un panorama piuttosto fosco.

Per un rapporto tra       In questi anni mettere in comunicazione la formazione ed il
formazione e territorio   lavoro ha quasi sempre voluto significare asservire i luoghi
                          della formazione agli interessi di mercato. Un processo che
                          non è ancora giunto a termine e che vede nel Piano Scuola il
                          suo culmine. Quella che per anni è stata venduta come
                          un’opportunità di avvicinare la domanda di lavoro alla
                          possibile offerta, di fatto si è invece configurata come la
                          costruzione di un esercito di futuri lavoratori poco qualificati
                          da mandare in pasto agli interessi di aziende che non puntano
                          sulla qualità, ma sull’abbassamento del costo del lavoro, per
                          garantirsi una sopravvivenza nel panorama internazionale.
                          Abbassare il costo del lavoro vuol dire appunto puntare su
                          lavoratori poco qualificati, facilmente ricattabili e sostituibili:
                          come questo possa essere coerente con i sogni e gli obiettivi
                          dei giovani italiani è poco chiaro.
                          Per noi è necessario ribaltare radicalmente prospettiva: il vero
                          tema non è quello della relazione (di subordinazione) tra
                          formazione e lavoro, bensì quello della connessione tra
                          formazione, territorio e società. Rafforzare scuole e università
                          come presidi sociali nei territori, socializzare la conoscenza,
                          orientare la ricerca verso forme di sviluppo materiale e
                          immateriale compatibili con la natura e la storia dei luoghi,
                          considerare i saperi come vettore di trasformazione della
                          realtà, non come una delle tante variabili del processo

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                          produttivo.

La distruzione delle      Passo dopo passo, immaginarsi un futuro all’altezza dei propri
aspettative individuali   sogni sembra qualcosa di sempre più lontano e irragiungile.
e dell'orizzonte          La distruzione di un’orizzonte collettivo si compone della
collettivo                distruzione di migliaia di possibilità individuali, per andare
                          verso un Paese dove pochi si godono le ricchezze costruite
                          sulle spalle dei molti.
                          Eppure noi vogliamo immaginare e costruire qualcosa di
                          diverso: vogliamo pensare ad una scuola e a un’Università in
                          grado di valorizzare le individualità non nella competizione,
                          ma attraverso la solidarietà e la collaborazione. Vogliamo che i
                          saperi e le conoscenze che ognuno di noi può dare alla società
                          servano per emancipare il singolo come la collettività, che
                          possano aiutarci a pensare ad una società, ad un modello di
                          sviluppo e di produzione differente. Non pensiamo al lavoro
                          come ad un dovere funzionale a portare a casa quel che basta
                          per sopravvivere, ma ad un diritto utile a realizzarci, nel quale
                          potersi riconoscere e contribuire al benessere individuale e
                          collettivo.
                          Insomma, vogliamo restituire ai saperi, e di conseguenza al
                          lavoro, quel valore sociale, quella dimensione di realizzazione
                          individuale e di sviluppo collettivo che, nel pantano della
                          precarietà, sembra aver perso ormai da tempo.

          per un nuovo ruolo
             del pubblico
Modello neoliberale e     Gli ultimi 30 anni hanno visto l'affermazione piena del modello
politiche di austerità    neo-liberale e la forte diminuzione del ruolo dello Stato nella
                          programmazione dell'economia e nell'impegno a garantire
                          tutele sociali. La crisi economica sistemica che stiamo
                          attraversando ha accentuato la tendenza rigorista e
                          monetarista, concretizzatasi nelle politiche di austerity,
                          sottraendo terreno all'iniziativa pubblica e alle politiche
                          espansive, e colpendo in particolar modo la possibilità di
                          incidere sulle diseguaglianze sociali attraverso misure di
                          redistribuzione della ricchezza.

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                           Lo stato sociale e il welfare di stampo novecentesco – con
                           tutti i limiti connessi a un'impostazione familista e modulata
                           sull'idealtipo del maschio bianco, padre di famiglia, con
                           contratto a tempo indeterminato – ha subito e continua a
                           subire un attacco senza precedenti in nome delle esigenze di
                           spending review e di consolidamento dei conti pubblici. Il
                           risultato è sempre più palese: siamo di fronte al fallimento
                           economico, con la ripresa della produzione e dell'occupazione
                           più volte annunciata come prossima e mai verificatasi negli
                           ultimi 7 anni, ma soprattutto all'aggravarsi delle condizioni
                           sociali e delle diseguaglianze di reddito, causa principale della
                           crisi stessa.
La mutazione del
significato del Pubblico Abbiamo subito una vera e propria ridefinizione del ruolo del
                         Pubblico, per il quale perde progressivamente centralità la
                         partita per la rimozione degli ostacoli socio-economici alla
                         piena affermazione e autodeterminazione degli individui.
                         Siamo di fronte a una ridefinizione, appunto, non a una
                         scomparsa: lo Stato, a tutti i suoi livelli, non diminuisce il
                         livello della sua presenza, ma concentra la propria azione sul
                         controllo sociale, sulla marginalizzazione del dissenso e delle
                         istanze di partecipazione. Questa impostazione oltre a
                         impoverire fasce crescenti di popolazione pone una pesante
                         ipoteca sulla qualità e sulla sostanza della democrazia.
Per un welfare
universale e la
                         A fronte di tutto ciò, sentiamo l'urgenza di rivendicare una
redistribuzione della
                         nuova centralità dell'iniziativa pubblica nella definizione di
ricchezza
                         nuove forme di welfare universale in grado di sostenere tutte
                         e tutti indipendentemente dal proprio contratto di lavoro o dal
                         proprio stato di inoccupazione. Solo un approccio
                         completamente diverso nell'amministrazione dell'interesse
                         collettivo può aggredire le inaccettabili disparità economiche
                         che condizionano in maniera determinante l'uguaglianza
                         sostanziale delle persone nell'accesso a informazioni,
                         conoscenze e opportunità.
                         Non possiamo prescindere, infatti, da una grande operazione
                         di redistribuzione della ricchezza, soprattutto di fronte alla
                         povertà dilagante che colpisce ormai violentemente anche in
                         Europa (secondo i dati del rapporto Istat del 2013 in Italia
                         sono più di 10 milioni le persone in povertà relativa e 6 milioni
                         in quella assoluta). Per fare questo serve riaprire un
                         ragionamento sulla fiscalità generale, mirando a recuperare
                         risorse per le politiche sociali dove si concentrano grandi
                         patrimoni mobiliari e immobiliari, grandi profitti e rendite
                         finanziarie o di altro tipo.

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                        Pretendiamo che il Pubblico torni a farsi garante della qualità,
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                        servizi. L'ondata di privatizzazioni e di tagli in questo settore
                        danneggia l'intera comunità, ma ancora una volta si abbatte in
                        maniera più pesante sulle fasce più deboli.
Per una
programmazione          Lo Stato, insomma, deve riconquistare un ruolo di inclusione
industriale e la        sociale che oggi è profondamente messo in discussione. Non
riconversione del       possiamo, però, fermarci a questo: è necessario che si
modello di sviluppo     riaffermi la cultura della programmazione industriale fondata
                        sull'interesse collettivo, anziché abdicare alla piena libertà di
                        un classe imprenditoriale incapace di investire in ricerca e
                        innovazione e di produrre benessere sociale. Dobbiamo
                        riaprire una battaglia sul ruolo della conoscenza nei progetti di
                        revisione dei processi produttivi, di cosa e come produrre, di
                        conversione di un modello di sviluppo capitalista ed estrattivo
                        verso una sostenibilità sociale e ambientale.

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           il contratto unico
Ampliare la flessibilità   L'attacco al mondo del lavoro in termini economici e in termini
in entrata: questo non è   di smantellamento delle tutele e dei diritti di lavoratori e
il nostro contratto        lavoratrici, attraversato dalla Riforma Fornero con lo
unico                      svuotamento di peso politico e sindacale, di fatto, dell'articolo
                           18 dello Statuto dei lavoratori, trova nella formulazione
                           contrattuale del Governo Renzi un nuovo punto di approdo:
                           l'ampliamento della flessibilità in entrata -con già la flessibilità
                           in uscita a livelli altissimi- e la possibilità di licenziamento nei
                           primi tre anni sono i pilastri che disegnano quello che sembra
                           essere, all'interno del disegno di legge delega, l'inserimento di
                           tipologie contrattuali a tutele crescenti, senza però che il
                           disegno di legge vada a specificare la reale e precisa tipologia
                           di contratto.

Per un vero contratto      Come Rete della Conoscenza, rivendichiamo la necessità del
unico, con la riduzione    contratto unico a tempo indeterminato, a tutele progressive,
delle ore di lavoro e      che garantisca tutele e diritti ai lavoratori, senza prospettive di
l'abolizione degli         licenziamento in bianco in un arco di tempo brevissimo e con
straordinari               la netta riduzione della selva delle tipologie contrattuali, volta
                           soltanto ad abbassare il costo del lavoro e smantellare
                           smantellare, pezzo dopo pezzo, gli strumenti di welfare e di
                           controllo sindacale.
                           La rivendicazione di un contratto unico non può prescindere
                           dalla riduzione delle ore di lavoro e dall'abolizione degli
                           straordinari, con un passaggio strutturale che da troppo
                           tempo manca in ogni riforma emanata dai Governi degli ultimi
                           20 anni, al fine di eliminare ogni elemento di sfruttamento e di
                           scambio strumentale denaro-manodopera a basso costo senza
                           tutele; è necessario, inoltre, inserire anche degli strumenti di
                           welfare femminile, andando a sanzionare, ad esempio,
                           licenziamenti in bianco in seguito al periodo di maternità e
                           prevedendo la presenza di asili nido all'interno delle aziende
                           stesse.
Contratto unico e
welfare                    Le nostre rivendicazioni stanno all'interno di un quadro
                           complessivo di ripensamento del modello sociale di welfare e
                           di strutturazione del mondo del lavoro: oggi, non è più
                           possibile, con il tasso di disoccupazione giovanile sempre più
                           alto, con i licenziamenti che aumentano e con lo scambio

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#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione
                       malato imposto dalle imprese fra diritto alla salute e diritto al
                       lavoro (come nel caso dell'ILVA di Taranto o delle Lucchini di
                       Piombino), che lo Stato non si faccia carico di queste
                       situazioni. È necessario dunque andare in direzione
                       nettamente opposta a quello che è il Jobs Act nel suo
                       complesso; il ripensamento delle tipologie contrattuali sta in
                       questo quadro complessivo.

           il reddito di base
          e il salario minimo
Un modello di          Uno dei temi più spinosi del dibattito odierno in merito al
workfare zoppo         mercato del lavoro è quello riguardante gli ammortizzatori
                       sociali. Attualmente il sistema italiano del welfare prevede
                       svariate tipologie di assistenza per soggetti socialmente
                       deboli, quali disoccupati, donne sole con figli minorenni a
                       carico, diversamente abili, etc.
                       Analizzando i caratteri generali di questo sistema di assistenza
                       notiamo che esso è fortemente frammentato, ovvero
                       articolato in un elevato numero di differenti programmi di
                       erogazione di servizi e denaro; perlopiù familistico, poiché
                       assume come oggetto dell’assistenza la famiglia e non
                       l’individuo; non universalistico, poiché numerose categorie
                       sociali sono escluse da ogni tipo di assistenza. Quando il
                       Governo parla di “universalizzare” il welfare italiano, vuole in
                       sostanza provare a rimettere in sesto con qualche toppa un
                       modello di workfare zoppo.

Il reddito di base     La nostra prospettiva è radicalmente diversa: rivendichiamo
per la dignità di      forme di welfare universale, sottoforma di reddito di base
tutte e tutti          corrispondente almeno al 60% della mediana dei salari, che
                       garantisca una vita degna a tutte e tutti. Tale reddito
                       dovrebbe essere erogato in forme dirette e indirette (servizi e
                       assistenza, riduzioni di costo etc.). Inoltre una misura di
                       questo tipo dovrebbe essere declinata e adattata a seconda
                       delle fasi dell'esistenza attraversate dall'individuo (formazione,
                       inserimento nel mercato del lavoro, disoccupazione,

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                       genitorialità, pensione etc.)
Il salario minimo
                       Per quanto riguarda il salario minimo garantito, esso
garantito
                       costituisce un utile strumento per tentare di arrestare la
                       caduta dei salari a cui abbiamo assistito negli ultimi anni e per
                       fungere da supporto alla contrattazione sindacale. L’istituzione
                       del salario minimo garantito andrebbe in ogni caso affiancata
                       alla riduzione dell’orario di lavoro, in modo da consentire la
                       creazione di nuovi posti di lavoro mantenendo i salari ad un
                       livello dignitoso.

      il diritto allo studio
Contro l'abbandono     L'abbandono scolastico in Italia è in media del 18%, fra le più
scolastico e           alte dell’area OCSE, con punte al sud che superano il 25%.
                       Uno su tre fra coloro che decidono di abbandonare gli studi
l'espulsione dalle
                       prima del tempo ha genitori che hanno frequentato solo la
Università             scuola dell'obbligo oppure che praticano una professione non
                       qualificata (rispettivamente 27,7% e 31,2%). Questi dati
                       allarmanti dovrebbero essere un incentivo per maggiori
                       finanziamenti pubblici alla scuola e al diritto allo studio, ma le
                       linee guida della riforma della scuola del governo Renzi non
                       specificano gli investimenti strutturali e ignorano del tutto il
                       tema del diritto allo studio.
                       Non va meglio sul versante del diritto allo studio universitario.
                       Le borse di studio per consentire a chiunque,
                       indipendentemente dalle condizioni economiche di partenza,
                       di arrivare ai gradi più alti della formazione sono state
                       cronicamente sottofinanziate nel nostro Paese. Lo scarso
                       livello di investimenti destinato al diritto allo studio non
                       soltanto fa registrare in Italia una peruentuale di polazione
                       studentesca coperta da borsa di studio molto bassa risapetto
                       ad altri paesi europei (7% contro il 18% della Germania e il
                       25% della Francia), ma comporta addirittura la vergognosa
                       figura dello studente idoneo non beneficiario di borsa per
                       mancanza di risorse. Il governo Renzi, peraltro, nonostante le
                       promesse ha reintrodotto il Fondo Integrativo Statale (FIS)
                       dentro la morsa del Patto di stabilità interno: una scelta
                       inaccettabile che - se non ritirata - comporterà una drastica
                       riduzione delle borse di studio erogate.

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Per la garanzia          Riteniamo prioritaria un'inversione di rotta reale e non solo a
                         parole sull’accesso ai saperi, che, come già avviene nei paesi
reale del diritto allo
                         del nord e come recita la nostra Costituzione, dovrebbe essere
studio                   gratuita e accessibile a tutti, mentre i costi sempre più elevati
                         (caro-libri, caro-trasporti, caro-affitti per gli studenti fuori
                         sede) la stanno rendendo progressivamente un bene di lusso
                         riservato a pochi.
                         Lo studio è un diritto e come tale deve essere garantito a
                         tutte e tutti con lo stanziamento di adeguate risorse in welfare
                         studentesco. Tuttavia, non si tratta soltanto di prevedere
                         finalmente un efficace sostegno individuale agli studi, ma di
                         scegliere verso quale idea di società vogliamo tendere.
                         Vogliamo una società della conoscenza basata su un libero
                         accesso ai saperi, perché la conoscenza sia una risorsa
                         collettiva in grado di trasformare il presente per un
                         miglioramento delle condizioni di vita. Troppo spesso, come
                         nelle linee di riforma della scuola del governo Renzi, vediamo
                         un ‘idea di formazione completamente subalterna alle logiche
                         di mercato e alle esigenze a breve termine di aziende e
                         imprese. Il rapporto va completamente ribaltato con un
                         investimento forte nel diritto allo studio, nella ricerca e
                         nell’innovazione, affinché sia la conoscenza un vettore di
                         trasformazione della filiera produttiva per ripartire da buona
                         occupazione e conversione ecologica.
Per il reddito di
formazione e dei         Per raggiungere questo obiettivo devono essere affrontate con
                         urgenza alcune priorità: l’approvazione di una legge quadro
livelli minimi
                         nazionale sul diritto allo studio scolastico, la piena o parziale
essenziali adeguati      gratuità dei libri di scuola e dei trasporti, la revisione della
                         carta “io studio” verso una maggiore efficacia dello
                         strumento,il rifinanziamento del Fondo Integrativo Statale per
                         le borse di studio per cancellare definitivamente la figura
                         dell’idoneo non assegnatario, una riforma dei Livelli Essenziali
                         delle Prestazioni (Lep) che aumenti il numero di beneficiari di
                         borsa, l’introduzione di un reddito di formazione che consenta
                         l’autodeterminazione del proprio percorso di studio libero da
                         ogni tipo di condizionamento.

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  gli investimenti pubblici
Per un investimento Secondo il rapporto dell'OCSE Education at a Glance, l'Italia
adeguato in scuola investe il 4,9 % sul pil, di cui 1% istruzione universitaria e 1,3
                    % in ricerca e sviluppo. Con l'esplodere della crisi, gli
e università
                    investimenti complessivi in istruzione sono stati inferiori al
                    diminuire del pil, attestando che la formazione e la ricerca
                    sono stati considerati un costo e non una risorsa.
                    Per la scuola è necessario lo stanziamento di almeno 8
                    miliardi, quelli tagliati nel 2008 dal duo Gelmini-Tremonti.
                    Inoltre vanno apportati investimenti per l’autonomia scolastica
                    e l’offerta formativa, copertura finanziaria per il diritto allo
                    studio e un ulteriore investimento per portare l’obbligo
                    scolastico a 18 anni. Sono dunque necessari 750 milioni di
                    euro. A questi si sommano gli interventi urgenti e strutturali in
                    materia di edilizia scolastica: quasi la metà degli edifici non
                    posseggono infatti i certificati di agibilità, il 65% le
                    certificazioni prevenzioni incendi e il 36% richiedono opere di
                    manutenzione urgenti. Dalle stime della protezione civile gli
                    investimenti necessari a riqualificare le strutture scolastiche
                    sono di 13 miliardi.
                    I dati del sistema formativo universitario italiano in rapporto
                    agli altri paesi Europei e dell'area Ocse, provano come la
                    retorica usata in questi anni, sia stata distante dalla realtà, ma
                    strumentale a legittimare i tagli e la sostanziale
                    privatizzazione. L'Italia è penultima per numero di laureati,
                    con il 21% tra i 25-35 anni, mentre si continua a registrare il
                    calo delle immatricolazioni. Il fondo nazionale per le borse di
                    studio, con il volume di 150 mln, non copre tutti gli aventi
                    diritto, con regioni in cui la copertura è inferiore al 50 %,
                    mentre solo il 3% degli studenti beneficia di una residenza
                    universitaria. Siamo il 3° Paese in Europa con le rette più alte,
                    mentre il volume derivante dalla contribuzione studentesca è
                    aumentato di 283 milioni in 5 anni. Inoltre, si registra un netto
                    calo delle assunzioni, che rispetto al 2006 sono del 90%. É
                    dunque necessario investire 1,5 miliardi di euro in FFO, 350
                    mln di euro l'anno in diritto allo studio e 300 mln di euro in
                    residenze universitarie.

Per un investimento La ricerca subisce la stessa sorte segnando forti riduzioni di
adeguato in ricerca investimenti. I posti banditi per i dottorandi sono in calo del

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#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione
                       19%, mentre le borse di studio coprono il 55,9 % dei posti
                       (2012/2013), con una percentuale di non assunti all'interno
                       del sistema accademico pari al 93,3 % sul totale dal 2003 ad
                       oggi. Mentre dal 2011 sono tagliati gli investimenti in ricerca,
                       come il fondo ordinario e progetti di rilevanza nazionale, nel
                       2007 la percentuale di ricercatori accademici su gli occupati è
                       del 0,15 % e del 1,73% dei ricercatori nelle imprese.
                       È dunque necessario investire 50 mln per la copertura dei
                       posti di dottorato e 150 milioni in fondi di ricerca. Inoltre si
                       propone di investire 100 milioni per l'assunzioni di 1000
                       ricercatori nelle imprese.

Per una rete di        Proprio nell’ottica di ridefinire concretamente il ruolo del
piccole opere          Pubblico, serve una politica in grado di affrontare
                       efficacemente i dati allarmanti che arrivano da più contesti.
sul territorio
                       Mentre il 32 % è su un territorio a rischio sismico e il 10 % a
                       rischio idrogeologico, gli investimenti pubblici si concentrano
                       in maniera preponderante su grandi opere e interventi
                       estrattivi che rispondono più a interessi speculativi di gruppi
                       economici e imprenditoriali che ai bisogni della collettività.
                       Chiediamo che venga predisposto un piano straordinario di
                       piccole opere a impatto locale in grado di incrementare la
                       qualità della vita quotidiana e garantire la messa in sucurezza
                       dei territori: dagli interventi di messa in sicurezza
                       idrogeologica, alle infrastrutture di trasmissione dei dati,
                       passando per la grande mole di bonifiche di cui il nostro Paese
                       ha necessità.
Per una
                       Non possiamo che denunciare la rinuncia sempre più evidente
programmazione         dello Stato ad elaborare una programmazione industriale e
industriale            investimenti adeguati nella ricerca pubblica, in innovazione e
innovativa             sviluppo. Serve una riflessione strategica su cosa e come
                       produrre nei prossimi 50 anni e una riabilitazione della
                       conoscenza come risorsa rivoluzionaria capace di trasformare i
                       processi esistenti e convertire l’attuale modello di sviluppo in
                       termini ecologicamente e socialmente sostenibili: per
                       raggiungere questi obiettivi di interesse generale, solo una
                       grande immissione di investimenti pubblici in questo campo
                       potrà portare a risultati tangibili nei prossimi anni.

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