Relativismo, femminismo e l'antinomia del contemporaneo in Teatro Amazonas - Persinsala Teatro

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Relativismo, femminismo e
l’antinomia del contemporaneo
in Teatro Amazonas
written by Daniele Rizzo | Novembre 2, 2021
Dal Cile ai Paesi Baschi, dal deserto di Atacama all’Amazzonia
brasiliana, dal Teatro dell’opera allo stadio della città di
Manaus: Azkona & Toloza presenta al Romaeuropa Festival lo
step conclusivo della trilogia Pacìfico dedicata a «tre
territori molto diversi, ma con una cosa in comune che ne ha
segnato l’evoluzione negli ultimi secoli. L’idea, estesa
dall’occidente, di nominarli e pensarli come deserti,
raccontandoli come territori totalmente vuoti, dove non abita
nessuno, ma ricchissimi di risorse naturali di ogni tipo. Tre
luoghi ideali per arrivare con macchinari occidentali, nello
spirito del progresso, per riempire i nostri mercati e
magazzini e per inciso anche le nostre banche, quasi senza
nessuna opposizione».

Realizzato in «più di 6 anni di ricerca», il concepimento di
Pacìfico è estremamente ambizioso. Si tratta, infatti, di «una
serie di progetti di ricerca e creazione che si completa con
molte altre creazioni artistiche spaziando dalla poesia
visiva, al video, per passare da artefatti sonori, podcast,
pubblicazioni grafiche e workshop», ognuna di esse finalizzata
a convergere, attraversamento linee di fuga apparentemente
eterogenee, su «tre punti fondamentali: lo sviluppo delle
nuove forme di colonialismo, la barbarie sul territorio
latinoamericano e sui suoi popoli nativi, e il rapporto,
stretto ma meno noto, di questi processi con lo sviluppo della
cultura contemporanea».

I drammatici processi di conquista post-colombiana, il
catechismo coloniale, l’orgoglio del “nuovo Brasile” –
repubblicano e positivista – dell’Ordine e del Progresso, ma
anche del samba e del calcio, sono fatti che, secondo Azkona &
Toloza, tracciano direttive a partire dalle quali il più
grande stato sudamericano avrebbe consegnato il proprio
sviluppo storico ed economico allo sfruttamento delle risorse
da parte di gruppi di potere spesso manovrati dall’esterno. Di
questo processo, la mortificazione del femminile perpetuata
dalla cultura patriarcale anche all’interno dei movimenti di
resistenza e protesta popolare sarebbe tra l’altro la spia di
una distorsione ancora più profonda e più ardua da combattere:
«la cosa più difficile da riconoscere per la stragrande
maggioranza della popolazione europea, della quale anche noi
facciamo parte, è che il modo di fare coloniale ci attraversa
ferocemente, quotidianamente, inserendosi nel nostro corpo,
nelle nostre azioni, nei nostri discorsi». La conclusione è
dunque senz’appello «perché comprendiamo il mondo attraverso
modelli educativi dove l’unico sapere valido, l’unico
apprendimento possibile è segnato dalla colonialità del sapere
e dallo sbiancamento culturale». Porre il femminismo nel cuore
dello sviluppo di Teatro Amazonas rappresenta allora un
accenno doveroso a quello che il duo considera «è uno dei
movimenti globali più importanti, complessi e potenti degli
ultimi decenni. E forse, una delle sue battaglie più rilevanti
è aiutarci a riconoscere gli atti di micro machismo che
compiamo quotidianamente, quasi senza rendercene conto».

La scena è inizialmente vuota. Il suo montaggio è semplice e
la costruzione avviene passo passo con del nastro adesivo blu
che disegna il profilo ramificato del Rio delle Amazzoni e dei
ritagli di cartone che plasmano edifici industriali e foreste
lungo il suo sinuoso andamento. Sullo sfondo di un telo bianco
vengono proiettate parole, immagini e video – alcuni
amaramente ironici come quelli di Capitalism for dummies,
sorta di tutorial o pillole sulle nuove forme di capitalismo.

Laida Azkona Goñi e Txalo Toloza-Fernández non interpretano
nessun personaggio, ma sé stessi al termine di un tentativo di
esplorazione del Brasile e in particolare dell’area verde
amazzonica, la cui enorme – ma non immensa o infinita –
riserva naturalistica continua a essere minacciata dallo
sfruttamento capitalistico-industriale e i cui popoli nativi
sono stati marginalizzati, se non proprio sterminati,
dall’avidità del profitto che prevale sull’equilibrio e la
sostenibilità ecologica. I due si confessano «sconfitti»,
«perché ora quello che dobbiamo fare è tacere e ascoltare, con
tutta l’attenzione possibile». Bisogna, pertanto, sospendere
il proprio giudizio nella consapevolezza di quanto esso sia
ormai inquinato – nonché vittima – del pregiudizio
colonialista (o meglio, colonial-machista).

La drammaturgia procede attraverso analogie e metafore, a
partire da quella rappresentata dall’opulenta Opera di Manaus
che dà il titolo alla pièce: costruito come i teatri europei
con marmi di Carrara, lampade in vetro di Murano, mobili in
stile Luigi XV, il Teatro Amazonas costituisce la
testimonianza plastica della sudditanza di un immaginario
incapace di sganciarsi dal modello dominante. Altrettanto
suggestivo è il parallelismo con il visionario Fitzcarraldo di
Werner Herzog, dunque con l’epica etnocentrica del
conquistatore contemporaneo che, reiterata all’interno di una
medesima logica di megalomania, portò lo sloveno Martin Strel
a nuotare per l’intera lunghezza del Rio delle Amazzoni
mostrando come l’ambizione individualistica rappresentasse
semplicemente l’altra faccia della stessa medaglia di
sfruttamento di un territorio saccheggiato fin dal XVI secolo.
Terza analogia (delle voglie di grandeur della borghesia
postcoloniale) è poi incarnato da un secondo parallelismo:
quello – dichiaratamente politico – che lega i due campionati
mondiali di calcio organizzati in Brasile, quello del 1950,
con la costruzione dello Stadio Maracanã di Rio de Janerio, e
quello del 2014, con la “sorprendente” inaugurazione della
tanto imponente quanto inutile Arena da Amazônia di Manaus da
parte del progressista Luiz Inácio Lula da Silva in una città
praticamente priva di tifoseria.
La narrazione è chiara, alterna brevi parentesi liriche a un
andamento prosaico e didascalico e si distribuisce in sette
parti, ciascuna delle quali nominata come una stagione del
ciclo annuale del popolo tucano. La performance, dunque,
contamina il realismo dei fatti con gli artifici dell’arte e
lascia che siano i contenuti del discorso a emergere
attraverso una recitazione neutrale/priva di pathos
accompagnata dalla costruzione scenografica dal vivo della
“cartografia” dell’Amazzonia. Le molteplici pratiche della
colonizzazione del territorio e di sterminio vengono poi
“rinforzate” da testimonianza dirette, alcune delle quali
direttamente in video (tra cui quelle di religiosi
missionari), altre ricostruite (come il connubio tra Ford e
Walt Disney).

Nonostante gli indigeni siano riusciti in tempi recenti a
riportare alcune vittorie sul piano legale rispetto alla
voracità delle multinazionali, purtroppo la deforestazione e
lo spopolamento procedono incontrastate, spesso spalleggiate
dal governo brasiliano. D’altro canto, alcuni fenomeni – come
la controversa pratica della Teologia della Liberazione e il
recente trionfo elettorale di Bolsonaro – sembrano annunciare
un futuro a tinte sempre più fosche per i brasiliani e per
l’intero pianeta.

L’omicidio di leader sindacali (come Chico Mendes), la
visibilità universale del problema – promossa, per esempio,
dal celebre scatto della foresta in fiamme di Ueslei Marcelino
usato come didascalia dai principali network di tutto il
mondo, che però rischia di aver trasformato le fiamme in uno
spettacolo globale da ammirare da lontano – e il manifestarsi
di problematiche più contemporanee (come la condizione della
donna) incontrano una sola autentica resistenza secondo quanto
prospettato da Teatro Amazonas, una resistenza incarnata nel
finale dello spettacolo dalla sagoma di un giaguaro, il
guardiano amazzonico. Sarebbe la potenza ancestrale della
terra, la palingenesi della foresta capace di risorgere dalle
macerie di Fordlandia, a rappresentare l’unica via di riscatto
e ripresa di una natura che segue ritmi e stagioni diverse da
quelle dell’essere umano.

Tra cronaca straniante e visione lirica (come la splendida
proiezione a “scomparsa” dei nomi di indigeni uccisi negli
anni Ottanta), tra freddo documentario e trasfigurazione
teatrale, il duo iberico-sudamericano racconta, dunque, «le
trasformazioni dell’Amazzonia brasiliana tra boom industriale,
cultura coloniale e indigena» con l’intento di «tratteggiare
una rivisitazione della storia ufficiale e scrivere una nuova
storia che racconti dei vinti, dei “nessuno”».

Tra le crepe di una prospettiva più monolitica che solida si
intravedono chiaramente le sfumature di grigio di
un’operazione ingenuamente al confine tra arte e attivismo.
Infatti, Teatro Amazonas pare ignorare come oggi la storia sia
già scritta con la più totale libertà e sia “fatta” da tutti,
da chiunque dal proprio punto di vista. Se nel mondo antico
l’affermazione di “una storia dei vincitori” risultava
credibile (come le guerre galliche “storicizzate” da Giulio
Cesare) e se è indiscutibile che la narrazione ufficiale
rimanga ad appannaggio dei gruppi di potere e delle élites,
oggi nulla e nessuno impedisce agli sconfitti di raccontarsi.
Se si tratta, dunque, di “utilizzare” l’arte e i suoi
variegati strumenti – anche quelli “formativi” – per
documentare «storie dimenticate, cancellate o messe a tacere
dal colonialismo», l’assunto, da questo punto di vista,
risulta però debole rispetto all’ottica della maturità
raggiunta dalla storiografia contemporanea. L’assunto, a lungo
vero, è stato ormai messo da parte dai primi decenni del
Novecento con l’esplosione del fenomeno della Nouvelle
Histoire che, per esempio, ha portato al proliferare di micro-
storie     perfettamente      “legittime”,      sempre     più
particolareggiate, inclusive ed eterodosse.

Per questo l’operazione di Azkona & Toloza appare da subito
naif e ingenuamente utopistica nella sua intenzione di
raccontare «la storia di coloro che […] sono rimasti saldi per
secoli, difendendo la loro sapienza ancestrale e il loro modo
di vedere e di ordinare il mondo».

Per il medesimo motivo, Teatro Amazonas può dirsi
culturalmente “povero”, in quanto, nonostante la modalità –
cruda ed esplicita – attraverso la quale il duo ispanico-
sudamericano denuncia un «modo di fare coloniale» che «va
avanti organizzando da secoli il mondo allo stesso modo,
replicandosi    all’infinito,     indipendentemente     dalle
caratteristiche dei territori colonizzati, dei loro ambienti
naturali o dei loro abitanti», non basta affermare l’esistenza
di un fil rouge tra «la gigantesca piantagione di gomma che
l’industriale Henry Ford sviluppò nell’Amazzonia brasiliana»,
l’attuale deforestazione e le perduranti “dipendenze” delle
“province” sudamericane, dell’Africa e dell’Asia che sono nate
in «conformità alle loro rispettive metropoli e sotto l’idea
europea di Stato». Al netto delle continuità e dello stretto
rapporto con i secoli bui dello sfruttamento “antropologico”,
confessionale ed economico, pare azzardato aver omologato lo
spettacolo sull’idea che «non esistono grandi differenze tra
il periodo coloniale, quello postcoloniale e quello
neocoloniale»

Lo dimostrano tanto l’ottimistico finale (che restituisce
l’idea di una regione che può rinascere sotto la protezione
dello “spirito giaguaro”), quanto l’impressione – più volte
palesata – di un arbitrario e relativistico appello ai misteri
insondabili della cultura e allo spiritualismo nativo. Va bene
contestare la prepotente tendenza all’omologazione del
razionalismo occidentale, salvaguardare le specificità di
territori “altri” rispetto ai modelli di pensiero e azione
dominante e riconoscerne il diritto all’esistenza senza se e
senza ma. Meno bene, invece, affermare che nulla sia mai
cambiato o che il problema, a dirla tutta, non sarebbe altro
che la solita cultura patriarcale dalla quale sembra
impossibile che “tutti gli altri” – ma non chi la combatte
“frontalmente” dal palco di un teatro (come accaduto anche al
“contraddittorio” Fuga dall’Egitto) – possano liberarsene.

 Lo spettacolo è andato in scena all’interno del Romaeuropa
 Festival
 Mattatoio / Teatro 1
 23 – 24 Ottobre 2021
 ore 21 e 16

 Teatro Amazonas
 Prima nazionale
 ideato e diretto da Laida Azkona Goñi e Txalo Toloza-
 Fernández
 con Laida Azkona Goñi e Txalo Toloza-Fernández
 musica e sound design Rodrigo Rammsy
 lighting Ana Rovira
 video MiPrimerDrop
 stage design Xesca Salvà, MiPrimerDrop
 costumi Sara Espinosa
 ricerca documentario Leonardo Gamboa
 produzione di scena e audiovisiva Elclimamola
 traduzione portoghese Livia Diniz
 traduzione Tukano, Joao Paulo Lima Barreto
 reporter Pedro Granero
 illustrazioni Jeisson Castillo
 con il supporto di Helena Febrés e Conrado Parodi
 produced by Azkona & Toloza
 coproduced by Grec Festival de Barcelona, Théâtre Garonne –
 scène européenne (Toulouse), Marche Teatro (Ancone), INTEATRO
 Festival (Ancone), Antic Teatre (Barcelona), Théâtre de la
 Ville-Paris, and Festival d’Automne à Paris
 in association with Théâtre de la Ville-Paris, Festival
 d’Automne à Paris
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