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Per un nuovo umanesimo: percorsi al servizio della cittadinanza Pasolini e Saviano: la letteratura militante Chi scrive, muore Claudia Colombo Benedetta Nanni 6 novembre 2020 Liceo Galvani
Qual è il significato della parola «intellettuale» ? Chi è un «intellettuale militante»? Nel saggio del 2011 La responsabilità degli intellettuali. Usare il privilegio per mettere in discussione lo Stato, Noam Chomsky afferma che il concetto di intellettuale nell’accezione moderna si è imposto a partire dalla redazione del Manifesto degli intellettuali (1898) da parte dei dreyfusardi, ispirati alla lettera di protesta J’accuse di Emile Zola: un’immagine di intellettuali che sfidano il potere con coraggio ed onestà in nome della giustizia. Tuttavia, i dreyfusardi furono duramene avversati dagli ambienti intellettuali tradizionali, in particolare da alcune figure di spicco appartenenti all’ Académie française.
Da allora fino ad oggi i termini della questione, secondo Chomsky, non sono mutati e riguardano il concetto assai ambiguo di “responsabilità degli intellettuali”, interpretabile in due accezioni conflittuali tra loro: • responsabilità morale di uomini che possono usare il loro status privilegiato per far progredire libertà, giustizia, solidarietà, anche avversando i poteri costituiti • ruolo che ci si aspetta che essi debbano rivestire, non screditando ma anzi servendo la leadership e le istituzioni consolidate.
Anche nel mondo antico esiste una figura sotto certi aspetti simile all’ “intellettuale” di cui parla Chomsky ed è quella del parresiastes, colui che usa la parresìa, ovvero “il parlar chiaro, diretto”, per dire la verità. Michel Foucault, in una famosa lezione tenuta nel 1983 a Berkeley dal titolo Discorso e verità, riassume così l’atteggiamento morale del parresiastes, per come emerge nei testi greci a partire dalla fine del V secolo a.C.: «Nella parresìa il parlante fa uso della sua libertà e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell’adulazione, e il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale.» Non c’è dubbio che le figure di Pier Paolo Pasolini e di Roberto Saviano abbiano fatto proprie le caratteristiche di cui parlano Foucault e Chomsky: due personalità che – attraverso strade in parte diverse- percepiscono il privilegio di essere degli intellettuali e con esso la responsabilità di scegliere da che parte stare e farsi portavoce della “verità”.
Pasolini: passione e ideologia “Primo dovere di un intellettuale: quello di esercitare prima di tutto e senza cedimenti di nessun genere un esame critico dei fatti.” (SC 1974) Al fondo dell’esperienza intellettuale e umana di P. sta la sua formazione di umanista e filologo, una formazione borghese che da una parte gli ha trasmesso l’attitudine critica e il rifiuto di ogni irrigidimento dogmatico, dall’altra lo ha costretto a stare a cavaliere tra due mondi, uno, il proprio, patito e odiato, l’altro vagheggiato ma permanentemente estraneo.
A questo doppio statuto si può far risalire il senso drammatico della mancanza di una lingua del popolo e per il popolo e dell’inadeguatezza della sua lingua -che è la lingua della borghesia, inadatta a esprimere contenuti antiborghesi ad un destinatario popolare Al suo umanesimo militante si riconducono i due caratteri della sua esperienza artistica e civile: la “passione” - “l’amore per gli uomini che ci circondano”- si fa ideologia, cioè chiave di lettura del reale nella prospettiva di una salvazione laica dal dolore e dall’umiliazione: l’ideologia tempera la passione liberandola dal rischio di una deriva estetizzante, la passione impedisce all’ideologia di irrigidirsi in una dogmatica semplificazione.
Senza entrare nei contenuti del messaggio pasoliniano, focalizziamo due aspetti connessi alla dimensione pubblica dell’intellettuale e dell’artista: P. ha a che fare con una rinnovata, o mai sopita, “questione della lingua”, o meglio “questione dell’espressione”, questione semiologica “integrale”; nel corso della sua riflessione sulla Storia e sulla sua propria storia, intesa come storia (o meglio non-storia) del proprio presente, la sua visione della funzione dell’intellettuale attraversa diverse fasi, corsi, ricorsi, palinodie.
La questione della lingua “Provo un’immensa tenerezza per questa istituzione della lingua italiana in quanto koiné, per questa lingua italiana nel senso più esteso del termine, perché è proprio all’interno di questo codice istituito che fraternizzo con gli altri. Quel che più m' importa nell'istituzione è il codice che rende possibile la fraternità. Il codice, soprattutto il codice linguistico, è la forma esterna indispensabile a questa fraternità umana che provo sempre in me come qualche cosa che ho perduto.” (SDC 1981) “Ogni volta che si ripropone la questione della lingua, vuol dire che si ripropongono problemi sociali e politici di fondo, diceva Gramsci, pressappoco”. (BB 1964)
Ma in Italia manca una lingua nazionale, e men che mai una lingua “nazional-popolare”: “La lingua italiana è dunque la lingua della borghesia italiana che per ragioni storiche determinate non ha saputo identificarsi con la nazione, ma è rimasta classe sociale: e la sua lingua e la lingua delle sue abitudini, dei suoi privilegi, delle sue mistificazioni, insomma della sua lotta di classe”. (EE 1972) Questa lingua, se intesa nella prospettiva dei valori, è una “lingua impossibile, infrequentabile” è dunque inadatta a esprimere contenuti antiborghesi ad un destinatario popolare: “Il mio sogno, nel nostro rapporto pedagogico, caro Gennariello, sarebbe di parlare napoletano. Purtroppo non lo conosco.”(LL 1975)
La lingua nazional-popolare arriva negli anni Sessanta: ma è la lingua che esprime la “nuova cultura della civiltà dei consumi”, alla quale si omologano i comportamenti fisici e verbali, con la “riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività”; “il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato (tecnicizzato)”. (SC) “ Da Milano a Palermo tutti conoscono la parola frigorifero”. (Intervista 22/2/1968, nella rubrica televisiva Rai "Sapere. L'uomo e la società")
“C’è un solo caso di espressività -ma di una espressività aberrante- nel linguaggio puramente comunicativo dell’industria: è il caso dello slogan. […] Ma la sua espressività è mostruosa perché diviene immediatamente stereotipa, e si fissa in una rigidità che è proprio il contrario dell’espressività. […] La finta espressività dello slogan è così la punta massima della nuova lingua tecnica che sostituisce la lingua umanistica. Essa è il simbolo della vita linguistica del futuro.” (SC)
L’altro livello di lingua che si diffonde in tutto il territorio nazionale è la lingua della politica: “Ora è la loro lingua che è la pietra dello scandalo. Infatti ogni volta che aprono bocca, essi, per insincerità, per colpevolezza, per paura, per furberia, non fanno altro che mentire. La loro lingua è la lingua della menzogna. E poiché la loro cultura è una putrefatta cultura forense e accademica, mostruosamente mescolata con la cultura tecnologica, in concreto la loro lingua è pura teratologia. Non la si può ascoltare. Bisogna tapparsi le orecchie. Il primo dovere degli intellettuali, oggi, sarebbe quello di insegnare alla gente a non ascoltare le mostruosità linguistiche dei potenti democristiani.” (LL)
Dentro questo orizzonte, che di fatto contesta i codici della comunicazione, P. adotta strategie di mantenimento dell’espressività: • il disegno • il dialetto • il plurilinguismo: esplorazione di diversi livelli di lingua (dal romanesco alla terza rima) • il cinema, un’arte che può raccontare superando almeno parzialmente l’intermediario linguistico, perché il reale si presenta senza bisogno di parole.
“Pasolini è il primo vero artista di grande livello internazionale che possa definirsi multimediale in modo adeguato alle tecnologie contemporanee della comunicazione e dell’espressione. Egli è stato un infaticato sperimentatore di linguaggi: parola e disegno, teatro e cinema, canzone e musica, corporeità e sport. “Quando negli anni sessanta egli invocava una “semiologia generale” come teoria generale del senso della realtà, lo faceva avendo personalmente percorso e utilizzato da attivo creatore e anche da critico, filologo e studioso, i più differenti tipi di semiologie.” (Tullio de Mauro, prefazione a BB, 1991)
E alla fine, P. dichiara un ritorno alle sue radici culturali, mai in effetti dismesse: “Mi accontenterò dunque di un italiano che non abbia nulla a che fare con quello dei potenti e degli oppositori ugualmente potenti. L'italiano di una tradizione colta e umanistica: senza temere una certa «maniera», che in un rapporto come questo nostro, è inevitabile.” (LL)
L’intellettuale alla “fine della storia” La consapevolezza di essere una “forza del Passato” è precoce: dopo la fine della stagione della Resistenza, la mancata trasformazione in senso marxista della società lo priva della speranza in una “inattendibile palingenesi dell’uomo”: [...] Ma io, con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai più con pura passione operare, se so che la nostra storia è finita? (Le ceneri di Gramsci, in CG, 1956)
Poi il canto, che s'era levato che la precoce notte. È la nostalgia gioioso, disperato, cessa, e il vecchio dei vecchi tempi, la paura, pur bandita, dell'errore, che spira tanta malinconia lascia cadere la bandiera, e lento, con le lacrime agli occhi, – non l'aria d'autunno, o una sopita si ricalca in capo il suo berretto. pioggia – sulla sfiorita festa. Ma in questa malinconia è la vita. Su questa baraonda della Villa, il buio che sommerge la disperata allegria, (Una polemica in versi, in CG, 1956) è, forse, più l'ombra del dubbio
Il carattere passionale della psicologia di Pasolini gli impedisce la rassegnazione. La palinodia alla ipotesi di fine dell’impegno è già in una lettera a Fortini del medesimo anno: “La storia, infatti, nella mia poesia poesia a Gramsci, è chiaro che continua nei pur incoscienti e faziosi abitanti del quartiere popolare di Testaccio. E la mia, poi, era una domanda in parte logica, in parte poetica. La risposta era evidentemente che sì, a parte certi momenti di smarrimento e angoscia (come in quel giorno di maggio) è sempre possibile in qualche modo appassionarsi e operare” (VL, 3 dicembre 1956)
Il ‘56 è del resto un anno chiave: con l’invasione dell’Ungheria la posizione degli intellettuali “organici” si fa variegata (come del resto testimoniato dal titolo della raccolta poetica di Pasolini, oltre che dalla testimonianza di altri grandi intellettuali come Vittorini e Calvino); Il rapporto, già, com’è noto, sofferto ed eretico, col Partito Comunista diventa sempre più problematico, e sempre più fragile la fiducia nella funzione gramsciana dell’intellettuale capace di generare e orientare il consenso.
Agli inizi del nuovo decennio, l’idolo polemico diventa più chiaro e minaccioso: il Nuovo Potere, più potente di ogni fascismo, vanifica l’ipotesi di un artista- intellettuale che si proponga come coscienza della società “No, non credo possibile che l’opera di uno solo, per quanto grande, possa porre in crisi uno stato di cose. [...] Ma anche ammesso che ci fosse uno scrittore di tale levatura [...] da poter mettere in crisi una società, egli verrebbe inesorabilmente sconfitto, oggi, dalla potenza industriale, dalle catene dei giornali e dei mezzi di diffusione conservatori e reazionari.” (BB, 1962) Negli anni, l’angoscia di chi si sente in qualche modo discrono rispetto al proprio tempo non si placa: “Siamo in un momento di “zero storico” […] è finita cioè un’epoca storica […] Ogni artista si adempie secondo un complicato e fitto reticolato di proiezioni che partono dal momento storico che lo determina e che egli conosce ed esprime: quando questo momento storico è zero, l’artista impazzisce.” (BB, 1964)
Del resto, è il carattere di passionalità, di “amore per gli uomini”, che non permette il cedimento di fronte alla delusione della storia (con le annesse colpe ascritte al PCI di connivenza con il nuovo potere dei consumi): e sono infatti gli anni dell’apertura a un nuovo modello di predicazione, gli anni della Ricotta (1963) e del Vangelo secondo Matteo (1964). L’intellettuale organico si fa apostolo e l’impegno missione: “Un apostolato! Racchiude bene la mia idea di impegno ideologico e politico. E’ un fatto che implica la totalità dell’artista. Per uno scrittore della mia età, del mio tipo, che opera in questo momento storico della vita italiana, non ci può essere che cointeressenza assoluta fra poesia e propaganda intesa come apostolato, cioè come un momento passionale dell’ideologia” (PPP 1963)
Se l’orizzonte resta ancora quello dell’ideologia marxista, non mai abbandonato nonostante le polemiche, il momento esistenziale, vocazionale, diventa imperativo e si elide la distanza tra l’essere e l’esprimersi: “La parola impegno ha ormai una storia molto lunga. Prima di riassumerla, vorrei però dire che c’è anche un momento elementare e immutabile di questo significato, che consiste nella partecipazione dello scrittore alla lotta operaia. […] La partecipazione alla lotta è una libera scelta e fa parte della cultura dell’artista: è cioè lui stesso. […] Egli non deve tacere nulla, perché in un artista il peccato più grande è l’omissione – essendo la sua funzione l’esprimere, e dunque l’esprimere è tutto” (BB, 1964)
L’artista è inevitabilmente rappresentazione dell’alterità marginale rispetto alla pseudocultura del potere (oggi diremmo rispetto al mainstream). Il contenuto dell’espressione (e cioè dell’essenza) dell’artista non può che essere quindi la critica, la sovversione, la contestazione: “Io penso che nessuno in nessuna società sia libero e che quindi l’opera di ogni artista sia per forza un’opera di contestazione […] L’artista è, in un certo senso, una contestazione vivente. Egli rappresenta sempre l’altro rispetto a quell’idea che ogni uomo ha di se stesso in qualsiasi società. Io trovo che ogni artista, per questa ragione, sia sempre impegnato.”
Dalla seconda metà degli anni Sessanta la vis polemica, provocatoria, contestataria diventa il tratto prevalente degli interventi di Pasolini: quanto sta accadendo in Italia costituisce un passaggio epocale, un punto di non ritorno irredimibile; il mito della crescita, dell’abnorme sviluppo generatore di bruttezza, ha irretito anche quelli che stavano dalla “parte giusta”. Dopo alcune prese di posizione, sorprendenti rispetto alla cultura di sinistra (sul ‘68, sul divorzio, sull’aborto), la condizione di P. diventa sempre più solitaria, la sua percezione del reale più apocalittica.
Ciò nonostante, il senso della necessità di porre una frontiera di resistenza si mantiene nell’atto del rifiuto del Potere: “P - Non credo che ci sarà mai più un tipo di società in cui l’uomo sarà libero. Non bisognerebbe mai sperare niente. La speranza è una cosa orrenda inventata dai partiti per tener buoni I propri iscritti. B – Allora il lavoro dell’artista nella società in fondo non serve a nessuno scopo salvo l’autosoddisfazione? P - No, ha uno scopo, ed è quello di porsi come esempio di anarchia.” (PPP, 1975)
Il rifiuto del potere coincide col rifiuto definitivo della storia, giacché il nuovo potere è pervasivo della totalità del reale: il potere dei consumi è più calamitoso di qualsiasi fascismo, in quanto non permette lo spazio, nemmeno interiore, del dissenso: non resta un pezzo “sano” di società, dal quale aspettare la redenzione. Da apostolo, P. si fa pedagogo, in una dimensione che si propone sul piano di una pedagogia ad personam: “Vedi, Gennariello, la maggioranza degli intellettuali laici e democratici italiani si danno grandi arie perché si sentono virilmente «dentro» la storia: accettano realisticamente il suo trasformare le realtà e gli uomini, del tutto convinti che questa «accettazione realistica» sia frutto dell'uso della ragione. Io no, invece, Gennariello. Ricorda che io, tuo maestro, non credo in questa storia e in questo progresso. Non è vero che, comunque, si vada avanti. Assai spesso sia l'individuo che le società regrediscono o peggiorano. In tal caso la trasformazione non deve essere accettata: la sua «accettazione realistica» è in realtà una colpevole manovra per tranquillizzare la propria coscienza.” (LL, 1975)
Cosa resta della rivoluzione “Bisogna avere la forza della critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile. Chi accetta realisticamente una trasformazione che è regresso e degradazione, vuoi dire che non ama chi subisce tale regresso e tale degradazione, cioè gli uomini in carne e ossa che lo circondano.” (LL, 1975)
Per queste ragioni sappi che negli insegnamenti che ti impartirò, non c'è il minimo dubbio, io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istituito. Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di feticci. (LL 1975)
Roberto Saviano: Gomorra Pubblicato nel 2006, Gomorra nasce dalle indagini di Roberto Saviano, uno scrittore esordiente nato a Napoli nel 1979, laureatosi in filosofia e formatosi presso l’Osservatorio sulla camorra e sull’illegalità, un centro di ricerca sulla criminalità organizzata della Campania. Da subito un caso editoriale, la cui forza d’urto -indipendentemente dal giudizio di valore letterario, su cui la critica è discorde- è stata paragonata a “classici” quali Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi (1945) o a A sangue freddo (In Cold Blood, 1966) di Truman Capote o ad altre meno note opere come Il mare non bagna Napoli (1953) di Anna Maria Ortese – tutte opere in cui il ricorso allo strumento letterario serve a valorizzare un libro di inchiesta.
Lo statuto narrativo di Gomorra Il primo problema da cui partire presentando Gomorra è l’estrema labilità di confini tra realtà e finzione, da cui anche la difficile collocazione in un genere, tra giornalismo e fiction (alcuni inseriscono Gomorra nel filone Non-fiction novel, categoria anglosassone e non italiana). La domanda dunque che si pone è: lo statuto narrativo di Gomorra è fattuale o finzionale? «E quindi il lettore capirà che ciò che sta leggendo è una verità trasformata in visione. C’è il dato, ma capace di trascendersi in mito, che non è la negazione della storia, ma la sua sublimazione in novella storica, racconto, parola letteraria. In fondazione di un pensiero da tramandare» (La bellezza e l’inferno, capitolo Sindrome Vollmann)
Quali sono in Gomorra gli aspetti caratteristici dell’inchiesta giornalistica? • Saviano costruisce il suo io-narrante come testimone diretto e quindi si fa garante della veridicità dei suoi enunciati: «io c’ero» • dove racconta episodi cui non ha assistito direttamente, lo scrittore spesso -ma non sempre (problematicità)- riporta anche le fonti da cui ha preso l’informazione amalgamandole nella narrazione • molti dei fatti raccontati, seppur noti ai giornalisti e alle forze dell’ordine, non avevano mai raggiunto il grande pubblico • Saviano carica il suo testo di forti investimenti emotivi che portano il lettore a ritenere che egli creda fermamente in ciò che racconta, altrimenti tale coinvolgimento non sarebbe giustificato.
Talvolta però Saviano infrange le regole dell’inchiesta giornalistica ricorrendo agli artifici della scrittura di finzione, per cui risulta difficile riconoscere la diversa natura dei frammenti che compongono il discorso. Esemplare è il caso della descrizione fisica di Annalisa Durante, la quattordicenne uccisa fortuitamente dalla camorra mentre ascoltava musica sotto a un portone in compagnia delle amiche (capitolo Donne): «Indossava un vestitino bello e suadente. Aderiva al suo corpo teso e tonico, già abbronzato. Queste serate sembrano nascere apposta per incontrare ragazzi, quattordici anni per una ragazza di Forcella è l’età propizia per iniziare a scegliersi un possibile fidanzato da traghettare fino al matrimonio.»
In realtà, Annalisa non era l’emblema della sensualità che si vuol far credere, indossava semplici blue jeans: come deve porsi il lettore di fronte a queste contraddizioni? Tali artifici romanzeschi sono funzionali alla strategia testuale di Saviano o indeboliscono la coerenza del suo discorso e quindi la sua posizione di intellettuale? Innanzi tutto, Saviano non si preoccupa di nascondere gli artifici romanzeschi, li usa per argomentare con maggior forza la sua tesi e per alzare il livello di empatia che è normalmente richiesto al lettore di storie vere. Dopo avere in un rigo e mezzo condensato il fatto di cronaca («Annalisa Durante, uccisa a Forcella il 27 marzo 2004 dal fuoco incrociato, a quattordici anni»), lo scrittore vuole che l’immagine della giovinezza di Annalisa rimanga emotivamente impressa nel lettore, e per ottenere questo passa dalla cronaca al racconto.
Inoltre, se è vero che Annalisa quella sera non vestiva in quel modo, tuttavia avrebbe potuto, in quanto ragazza quattordicenne di Forcella: la descrizione del suo abbigliamento rimanda ad una realtà mitizzata, che il lettore conosce o perché lui stesso proveniente da quel mondo o perché ereditata da una tradizione orale. In questo senso, l’utilizzo da parte di Saviano di un’ aneddotica romanzata, di personaggi quasi leggendari, di vicende al limite del mito, frutto però della sedimentazione nell’immaginario collettivo e/o mediatico, sono certamente non “reali”, ma “vere”.
Un’ultima considerazione relativa alla scelta della scrittura in prima persona. Essa non risponde solo ad un’esigenza documentale e testimoniale, garanzia della veridicità del racconto, ma è il riflesso dell’ossessione di Saviano per il comprendere la realtà che lo circonda: «esserci» per capire e usare la parola scritta come strumento conoscitivo sono due azioni necessarie e tra loro consequenziali.
«Avevo deciso di seguire quello che stava per accadere a Secondigliano. Più Pasquale segnalava la pericolosità della situazione, più mi convincevo che non era possibile non tentare di comprendere gli elementi del disastro. E comprendere significava per lo meno farne parte. Non c’è scelta, e non credo vi fosse altro modo per capire le cose. La neutralità e la distanza oggettiva sono luoghi che non sono mai riuscito a trovare.» (Gomorra, capitolo La guerra di Secondigliano) Il testimone non è solo lo spettatore di un evento, ma anche colui che, mediante la narrazione, lo tramanda.
Io so, ma non ho le prove Il 14 novembre del 1974, P., che ha cominciato la sua collaborazione col Corriere della sera (il “giornale della borghesia”), pubblica un articolo che viene poi riproposto in SC col titolo “il romanzo delle stragi”, una sorta di J’accuse in cui l’intellettuale rivendica con forza il proprio ruolo di interprete degli eventi e di demistificatore del potere: Pasolini sa i nomi dei responsabili... del vertice... del gruppo di potenti... di coloro che hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica... delle persone serie e importanti… “Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove.”
“Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere.[…] “A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale. Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. […] Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.”
“A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale. Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi. Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi. Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.”
Io so e ho le prove Verso la fine del capitolo di Gomorra intitolato Cemento armato troviamo una vera e propria dichiarazione di poetica, chiave di lettura per comprendere la strategia comunicativa di Saviano. Egli racconta di essersi recato sulla tomba di Pasolini a Casarsa (che ci sia andato davvero o meno è poco rilevante dal momento che anche in questo caso l’episodio ha una funzione narrativa ben precisa, che non viene indebolita dalla sua eventuale non veridicità): “Mi andava di trovare un posto. Un posto dove fosse ancora possibile riflettere senza possibilità di vergogna sulla possibilità della parola. La possibilità di scrivere sui meccanismi del potere, al di là delle storie, oltre i dettagli”.
“Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e dove prendono l’odore. L’odore dell’affermazione e della vittoria. Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente. Io so e ho le prove. Io so dove le pagine dei manuali d’economia si dileguano mutando i loro frattali in materia, cose, ferro, tempo e contratti. Io so. E lo sanno le mie prove. Le prove non sono nascoste in nessuna pen-drive celata in buche sotto terra. Non ho video compromettenti in garage nascosti in inaccessibili paesini di montagna. Né possiedo documenti ciclostilati dei servizi segreti. Le prove sono inconfutabili perché parziali, riprese con le iridi, raccontate con le parole e temprate con le emozioni rimbalzate su ferri e legni. Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio, brutta parola che ancora può valere quando sussurra: “è falso” all’orecchio di ascolta le cantilene a rima baciata dei meccanismi di potere. La verità è parziale, in fondo se fosse riducibile a formula oggettiva sarebbe chimica. Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di queste verità.”
Questi i punti importanti del passo: • il valore della testimonianza come atto di un autore che garantisce per la verità dei suoi enunciati perché ha la possibilità di provare ciò che afferma • la scelta della scrittura in prima persona per esprimere il suo coinvolgimento diretto nei fatti: un sapere che deriva dall’esperienza, dall’osservare, dall’ascoltare, dal provare emozioni • la parzialità della verità come garanzia della sua unicità: Saviano afferma che le sue prove sono “inconfutabili” proprio perché parziali, legate al suo sguardo, ai suoi sensi, eleggendo tale esperienza sensibile come garanzia della credibilità di ciò che scrive • il costruire la testimonianza attraverso l’atto del raccontare, conferendo quindi ad essa una natura narrativa e non puramente documentale.
Rispetto a Pasolini: • il sapere di Saviano ha un fondamento extra-letterario, nasce fuori dalla scrittura, nella concretezza e nella corporeità dell’esperienza • tuttavia, Saviano sottolinea l’autonomia della parola come strumento conoscitivo e rivendica il diritto di non dovere mostrare le sue prove • l’atteggiamento di Saviano presuppone una fiducia nella possibilità della parola di influire sulla realtà • nell’ultima parte lo scrittore si sofferma sulle responsabilità di chi pratica la scrittura: si dipinge come testimone che racconta quello che sa, consapevole che la testimonianza si espone al rischio della delegittimazione.
Chi scrive, muore A proposito del rischio della delegittimazione, è molto interessante leggere alcune parti del saggio Chi scrive, muore, scritto nel 2009 come introduzione a una raccolta postuma degli articoli della giornalista russa Anna Politkovskaja ed entrato poi a far parte de La bellezza e l’inferno. Come avviene in Gomorra per la figura di Peppino Diana, Saviano dà l’impressione di disegnare la figura di un alter ego per sostenere alcune tesi su di sé e sulla propria scrittura. A proposito di Anna, dapprima diffamata e poi uccisa, scrive: “ Prima delle pallottole o quando le pallottole non riescono nel loro intento, si arriva alla distruzione della credibilità, a inabissare l’autorevolezza, a rendere nulle le parole non partendo dalle parole stesse, ma creando un meccanismo che quelle parole priva di ogni senso, rendendole involucri vuoti.”
«Il rischio per gli scrittori non è mai [...] di aver scoperto chissà quale verità nascosta, ma di averla detta. Di averla detta bene. Questo rende lo scrittore pericoloso, temuto. Può arrivare ovunque attraverso una parola che non trasporta soltanto l’informazione, che invece può essere nascosta, fermata, diffamata, smentita, ma trasporta qualcosa che solo gli occhi del lettore possono smentire e confermare. Questa potenza non puoi fermarla se non fermando la mano che la scrive. […] Una verità, quella letteraria, che è nella parola, non nella persona. La verità delle parole del nostro tempo si paga con la morte. Ci si aspetta che sia così. Ti addestri la mente che sia così. Ne sono sempre più convinto». Dal “si” impersonale che ratifica un’evidenza incontestabile, l’autore passa a un “tu” più enfatico e sentimentale, finché l’ultima frase introduce la prima persona e l’io domina la scena.
Più avanti nello stesso saggio, Saviano si addentra sul rapporto tra il rischio di chi fa uso della parresìa e il compito della scrittura nell’età contemporanea: “Ma è forse giunto un tempo in cui chi scrive possa invadere, coinvolgere, abusare di ogni strumento. Questo è il compito dello scrittore che si occupa della realtà e scrive per mezzo di essa. Le parole continuano ad essere fondamentali, ma la solitudine di chi scrive e la pericolosità della parola sono ancora enormi.” Il rischio cui conduce la parola di verità è ancora più forte se lo scrittore ha il coraggio di adeguare il testo alle forme della comunicazione di massa: più il parresiasta si insinua nella comunicazione più si espone al rischio; più la sua incolumità è in pericolo più la sua voce mediatica acquisisce forza e rilevanza culturale.
“Col tempo ho capito che potevo essere davvero fastidioso e odioso per coloro che detestano il mio modo di scrivere, di essere e apparire. Coloro che vorrebbero che mi nascondessi, che fossi più discreto, che non mi presentassi nelle università o in prima serata in tv. […] Quando qualcuno mi riferisce che ricevo attacchi da alcuni giornali, da certi personaggi o programmi televisivi, so di avere agito bene. So che più si cerca di delegittimarmi, più le mie parole fanno paura. Più forte è il cachinno di molti intellettuali infastiditi, più significa che le mie parole sono per loro assordanti.” (Il pericolo di leggere, introduzione a La bellezza e l’inferno, 2009)
Possedere e distruggere: siamo tutti in pericolo Il 1 novembre 1975, il giorno prima di morire, Pasolini concede un’intervista a Furio Colombo, che sarà pubblicata l’8 novembre su La Stampa col titolo “Siamo tutti in pericolo”. P. ribadisce l’incapacità degli intellettuali di sinistra di cogliere il degrado totale frutto dell’idolatria della merce e del consumo. La sua esperienza personale - la sua “discesa all’inferno”-, se non gli consente di “avere le prove” delle stragi, gli permette di saggiare la pervasività della corruzione morale a tutti i livelli. I nuovi “collaborazionisti” sono ovunque, sono tutti, sono, a differenza delle SS, indistinguibili: chi opera dall’alto lo fa in blazer attraverso le speculazioni, chi vive in basso lo fa con la spranga:
“Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono”.
“Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. Allora una prima divisione, classica, è «stare con i deboli». Ma io dico che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.”
Chi dice la verità corre un rischio totale. Il rischio connesso alla denuncia, al rifiuto, che pure è fatto per amore degli uomini che si vorrebbe salvare da se stessi. «Ecco il seme, il senso di tutto – ha detto – Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: “Perché siamo tutti in pericolo”» (F. Colombo, 8 novembre 1975 su La Stampa’)
Opere citate N. Chomski, Chi sono i padroni del mondo, Milano 2016 M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Roma, 1996 E. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Milano 1995 P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Milano 1972 (EE) P.P. Pasolini, Scritti corsari, Milano 1975 (SC) P.P. Pasolini, Lettere luterane, Milano 1976 (LL) P.P. Pasolini, Le belle bandiere, Roma 1977 (BB) PP. Pasolini, Il sogno del centauro, a cura di J.Duflot, Roma 1981 (SDC) P.P. Pasolini, Vita attraverso le lettere, Torino 1994 (VL) P.P. Pasolini, Polemica Politica Potere. Conversazione con G. Bachmann, a cura di R. Costantini, Milano 2015 (PPP) R. Saviano, Gomorra, Milano 2006 R. Saviano, La bellezza e l’inferno, Milano 2009
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