Niccolò Ammaniti, è il gioiello imperdibile di questo 2021

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Niccolò Ammaniti, è il gioiello imperdibile di questo 2021
La miniserie "Anna", scritta e diretta da
Niccolò Ammaniti, è il gioiello imperdibile
di questo 2021
Quando iniziamo a guardare “Anna”, la miniserie Sky Original scritta e diretta dallo scrittore
Niccolò Ammaniti, un senso di angoscia ci assale, perché ritroviamo delle immagini a noi molto
familiari. Si parla di un potente virus, di persone in quarantena, di una malattia che dilaga ma non
tocca i bambini, di gente che si infetta semplicemente stando a contatto l’uno con l’altro e il senso di
smarrimento aumenta, perchè abbiamo davanti a noi ciò che stiamo vivendo nella realtà.

All’inizio di ogni episodio una scritta ci fa venire i brividi, il romanzo omonimo di Ammaniti, da cui
lui stesso ha tratto la serie, è stato scritto nel 2015, quindi stiamo per assistere non ad una storia
inventata che ha preso ispirazione dalla pandemia dei nostri giorni, ma una storia immaginata prima
dell’inizio di quest’incubo, le cui riprese sono iniziate sei mesi prima dell’inizio della pandemia e
sono poi terminate dopo il lockdown del 2020, ma il racconto è assolutamente degno di un
preveggente.

Nella serie vediamo luoghi abbandonati e deserti, come erano le nostre città nei mesi di marzo e
aprile in cui eravamo tutti chiusi in casa e le città vivevano in un silenzio forzato e spaventoso.
Avevamo paura, ora forse non ne abbiamo più, visti i numerosi atteggiamenti irresponsabili o forse ci
siamo stancati o semplicemente ci siamo abituati, esattamente come si sono abituati i bambini
protagonisti della serie, rimasti gli unici al mondo, a vivere da soli sulla terra, a non poter più
contare sul conforto dei propri genitori e sulla sicurezza che solo un adulto può dare ad un bambino.

Siamo in Sicilia nel 2020, “la Rossa” è il nome del virus che viene dal Belgio e che pian piano
stermina “i Grandi”, gli adulti, e che silente vive anche nei bambini per poi manifestarsi solo dalla
pubertà, iniziando con la comparsa di macchie rosse sulla pelle. Le analogie con il covid ci sono
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tutte, compresa l’esistenza di un vaccino di cui si sente tanto parlare, invece, per fortuna, nella
nostra realtà esistere davvero, ma quello che la protagonista Anna non perde mai per tutta la durata
della narrazione è sicuramente la speranza; lei è forte, risoluta, capace di grandi gesti di dolcezza
verso il fratellino Astor che ha dovuto crescere da sola dopo la morte della mamma, ma determinata
e astuta nei momenti in cui bisogna lottare per sopravvivere. Un grande personaggio, un grande
insegnamento, un grande racconto che, a prescindere dalla forza narrativa legata alla similitudine
con il periodo attuale, è capace di coinvolgere, rapire ed emozionare.

Se finora vi ho suggerito che la bellezza di questa miniserie è all’80% merito della trama, ho
sbagliato, perché, accanto ad una narrazione meravigliosa, c’è un quadro fatto di scenografie,
costumi, musiche, atmosfere e fotografia, che rendono questa favola dark post apocalittica un vero
capolavoro da non lasciarsi sfuggire.

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  non sbagliare la rotta (o magari di ritrovarla se smarrita) e di indirizzare correttamente le nostre
  azioni.

Le fantastiche location naturali sono i luoghi della Sicilia, una Sicilia che si respira nelle scenografie
e nell’accento dei protagonisti, piccoli e così capaci di emozionare con un solo sguardo. In questa
terra abbandonata, piena di immondizia e cibo vecchio che bisogna rimediare per sfamarsi (merito
del grande lavoro dello scenografo Mauro Vanzati), protagonisti sono anche gli splendidi costumi,
fatti a volte di numerosi strati di vestiti, a volte costruiti dai personaggi con i rifiuti, come nel caso
del costume da istrice del piccolo Astor, tutto frutto dell’immenso lavoro della costumista Catherine
Buyse.

I sei episodi si sviluppano in un’atmosfera surreale, resa magica dalla bellissima colonna sonora
(presente su Spotify) realizzata dal compositore spagnolo Rauelsson e iniziano con la canzone
“Settembre”, della famosa cantautrice Cristina Donà.
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Niccolò Ammaniti ci aveva già abituati a racconti con protagonisti i bambini, pensiamo al romanzo
“Io non ho paura” del 2001, narrati con la sua particolare sensibilità verso il mondo dell’infanzia e
questo potrebbe forse derivare dal fatto che suo padre, Massimo Ammaniti, è uno psicologo
dell’età evolutiva, con cui ha anche scritto il saggio “Nel nome del figlio. L’adolescenza
raccontata da un padre e da un figlio”, in cui viene analizzata la difficile fase adolescenziale, la
crescita, l’educazione, da due punti di vista molto diversi.

Lo scrittore Ammaniti, dopo averci appassionato con la serie drammatica “Il Miracolo” del 2018 da
lui ideata, è tornato per incollarci allo schermo con questa storia capace di unire alla bellezza delle
immagini la potenza del racconto, dando vita ad un prodotto davvero imperdibile.

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Non voglio cambiare pianeta: Riflessioni
per la 51° Giornata Mondiale della Terra
All’indomani di missioni esplorative su Marte, il verso “non voglio cambiare pianeta”, tratto dalla
poesia “El Perezoso (Il Pigro)” di Pablo Neruda, suona quasi come una profezia.

Se non ce ne fossimo accorti, però, un pianeta di ricambio non l’abbiamo ancora, forse è per questo,
per salvaguardare quello in cui viviamo, che da oltre cinquant’anni si festeggia l’Earth Day (La
Giornata Mondiale della Terra).

Una giornata dedicata al nostro pianeta per porre l’attenzione e sensibilizzare i suoi abitanti su tutti
quegli squilibri ambientali e sociali che lo riguardano, concentrandosi su inquinamento, clima,
biodiversità e sviluppo sostenibile.

Nell’ultimo anno, più che in altri momenti, ci siamo resi conto di quanto gli equilibri ambientali siano
labili e quanto ci riguardino da vicino; forse ci voleva una pandemia per farci capire che se si
ammala il pianeta ci ammaliamo anche noi, che non siamo estranei al luogo in cui viviamo, ma siamo
parte di esso.

Per celebrare l’Earth Day, abbiamo deciso di tornare indietro di oltre un anno e concederci un
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viaggio, seppur virtuale, tra Argentina e Cile in compagnia di Lorenzo Cherubini.

Il docu-film (o docu-trip, come Lorenzo ama chiamarlo) “Non voglio cambiare pianeta”, è un
racconto appassionato ed innamorato di paesaggi mozzafiato, incontri fortuiti e rispetto per la
natura.
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Un viaggio lungo circa 4000 Km, quasi interamente in solitaria, in sella ad una bicicletta; una
sfida contro i propri limiti fisici, che Jovanotti fa alla scoperta di territori incontaminati ed alla
ricerca di sé stesso, ispirato dalla natura e dalle sue bellezze, lasciandosi accompagnare dalla
musica e dalla poesia, ma anche perdendosi nelle tante contraddizioni di città grandi e popolose,
concedendosi pure di sbagliare strada.

Un viaggio che possiamo fare anche noi spettatori, lasciandoci trasportare da quella stessa musica e
dai versi, da racconti quotidiani ed aneddoti, gratitudine per la bellezza del mondo in cui viviamo ed
un mantra su tutti: “Non voglio cambiare pianeta”.

In 16 puntate, ancora visibili su RaiPlay, girate da Jovanotti tra gennaio e febbraio 2020, Lorenzo
ci esorta a non stare fermi, ad adoperarci per salvaguardare il pianeta, ma anche a fare un viaggio
dentro di noi, il più tortuoso e difficile alla ricerca dell’equilibrio interiore.

Un viaggio nel viaggio, un percorso solitario verso pace interiore e serenità dopo un periodo di caos
(Lorenzo era reduce dai Jova Bach Party e dal bagno di folla che ne derivava), la riscoperta del
silenzio e della meditazione come cura di sé stessi e ristoro dell’anima.

Lentezza e solitudine in un periodo in cui nessuno dei due era contemplato nella società moderna,
dove tutto era velocità ed i rapporti umani consumati con voracità, tutto era moltitudine e socialità.

“Non voglio cambiare pianeta” è stato lanciato il 24 aprile 2020 su RaiPlay, era appena iniziata
la pandemia e nessuno avrebbe mai immaginato che si sarebbe protratta tanto a lungo.

Guardando le 16 puntate in quei pomeriggi di lockdown, chissà quanti di noi, ispirati da quei
racconti, si sono detti: “lo voglio fare anch’io, voglio prendere la bici e viaggiare”, “voglio perdermi
nel centro di Cordoba o di Buenos Aires”, questo perché tutti credevano che il lockdown fosse solo
una parentesi, che presto sarebbe finita.

Solitudine ed isolamento, invece, a distanza di un anno, sono la condizione normale e quel racconto
appassionato sembra lontano anni luce, quasi appartenesse ad un’altra epoca, un altro mondo di cui
non ci ricordiamo più.

Ecco perché riguardare il docu-film a distanza di un anno apre ad altre riflessioni, più intime, più
interiori: è come ascoltare il racconto di un’altra storia, guardare un altro film dove la natura prende
il sopravvento e si rivela ancora più potente in tutta la sua bellezza, ma anche le riflessioni di
Lorenzo hanno un sapore diverso, persino i gesti, come abbracci e strette di mano, sembrano alieni,
come i volti che possiamo ammirare in tutta la loro umanità senza le mascherine a nascondere le
espressioni.

Lorenzo ci fa capire che, in fondo, la solitudine non è solo una condizione negativa ma allo stesso
tempo ci fa compagnia, ci porta in viaggio con lui, così che la sua e la nostra solitudine siano più
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lievi, così come ci esorta a meravigliarsi ogni giorno ed a ringraziare per quello che si ha.

A detta sua, siamo stati fortunati a nascere in questo pianeta, ecco perché mai e poi mai dovremmo
abbandonarlo a sé stesso e ne dobbiamo avere cura più di ogni altra cosa.

In fondo, basterebbe trattarlo con la stessa cura con cui trattiamo la nostra casa o come qualcosa di
prezioso e raro, basterebbe che ognuno facesse la sua parte con piccoli gesti quotidiani ma che non
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smettesse mai di abbassare la guardia e chiedere rispetto per il pianeta e per chi lo abita.

Come Lorenzo ci suggerisce in una delle sue tante riflessioni di questo viaggio, il problema non è il
pianeta e le sue tante contraddizioni, il problema siamo noi e sta a noi dover cambiare per vivere in
armonia con la natura.

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Nuovo lockdown: non serve sembrare tutti
supereroi, possiamo creare un altro
racconto.
Mostrarsi sempre all’altezza della situazione; avere sempre la battuta pronta (e sarcastica);
minimizzare e via dicendo, sono tipici atteggiamenti dei nostri tempi. I social (che siamo noi)
hanno enfatizzato questo modello: siamo costantemente messi di fronte ai like ed alla
condivisione dei successi (solo di quelli).

Capita poi che da mesi stiamo vivendo una situazione nuova, impensabile ed avversa. Capita che le
nostre abitudini sono state stravolte, la nostra vita cambiata e l’incertezza (a dir il vero già molto
presente negli ultimi anni) è entrata stabilmente nel nostro quotidiano. E, ancora, capita che il già
pesante peso del “non sentirsi abbastanza” o del “non fare abbastanza”, diventi alle volte
insopportabile.
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Ti senti malinconico, magari ansioso… spesso provi emozioni che non conoscevi, che non riconosci.
Allora provi a capire se sei il solo, se il “problema” sei tu. Vedi intorno a te la solita narrativa
del successo, dell’infallibilità. E ti persuadi così di essere l’unico in quella condizione. Per cui, come
se non bastasse, ti mortifichi.

Non c’è spazio per un altro racconto.
A guardare i social (che siamo sempre noi), a parte qualche ricetta e piatto in più, nel newsfeed c’è
poco altro. Ci sono i soliti meme, le solite liturgie televisive e il susseguirsi delle serie TV. Tutto
pressoché invariato. Le insicurezze e le riflessioni evidentemente non sono cool o, come si suol
dire, sharabili.

Eppure (credo sarà successo anche a te) quando in questo periodo senti al telefono una persona
(amico, collega, etc.) e gli chiedi “come stai?”, non ricevi il classico “sì, bene e dai”, ma un flusso di
emozioni e pensieri.

E allora ti rendi conto che non sei solo, che c’è spazio anche per Altro. Solo che questo Altro
non ha voce, non si sente: non emette suoni, se non interiori.

Dovremmo iniziare a costruire un altro racconto.
Serve un racconto non più vero, ma più pieno. Accanto ai momenti felici e ai successi (che per
fortuna e per bravura ancora ci sono) ci può essere lo spazio per un racconto che, insomma, mostri
più prospettive e non solo una.

Dovremmo iniziare a smontare il mito del supereroe, senza che questo in alcun modo scalfisca
la nostra persona o la nostra immagine di professionisti capaci. L’obiettivo non è quello di iniziare a
piangersi tutti addosso. È una modalità che non mi piace assolutamente perché non incorpora in sé
alcuna soluzione, alcuna evoluzione. No, l’obiettivo è un altro. È quello di trovare un vero momento
di condivisone, relazione e quindi di crescita.

Se è vero che i social siamo noi – ed è così – potremmo iniziare a condividere stati d’animo, pensieri
e riflessioni per costruire un dialogo con gli altro sincero, autentico e meno artefatto. Nel
nostro newsfeed ci può e ci deve essere spazio per tutto: non siamo costretti a privarci di una parte
di noi. O peggio a silenziarla. Anche perché credo che sia proprio quest’ultima quella che ci
caratterizza.

Sempre di più le persone scelgono le altre persone per i propri valori e per il proprio modo di
essere. Se questo è vero (o dovrebbe esserlo) per le relazioni personali/private, lo è altrettanto per
quelle che nascono in ambito professionale. A fare la differenza, oggi, sono le nostre qualità umane.
Tutte.

Come diceva Lev Tolstoj: “Tutta la varietà, tutta la delizia, tutta la bellezza della vita è
composta d’ombra e di luce”.

Ti è piaciuto? Hai qualche considerazione in merito? Fammelo sapere nei
commenti. Rispondo sempre.
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Se vuoi rimanere in contatto con                                   me   questo       è   il   link
giusto: www.linkedin.com/in/ivanzorico

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The lost words: Vocabolario bellico,
linguaggio e propaganda ai tempi del
Coronavirus
“È una guerra!”, “siamo in trincea”, “dobbiamo vincere questa battaglia contro questo
nemico subdolo”, “i medici e gli infermieri sono i nostri eroi”, ed ancora, “il coronavirus è il
male”, “gli anziani sono i nostri martiri”, “gli scienziati ci salveranno da questa catastrofe”.

Negli ultimi due mesi il vocabolario attraverso cui ci esprimiamo su mezzi di comunicazione, TV,
giornali, internet e social media è stato sommerso da metafore belliche. La pandemia da
Coronavirus non solo ci ha messo di fronte alla fragilità della condizione umana a causa di un virus,
ma, di più, ci ha fatto vedere di nuovo la morte in faccia.

Avevamo come rimosso la morte dalle nostre vite, non ne parlava nessuno, se non gli anziani e gli
addetti alle pompe funebri. Per l’uomo medievale non era così, la morte era sempre presente, anche
perché l’aspettativa di vita era di poco superiore ai 30 anni e non è andata tanto meglio nel
Rinascimento e per buona parte del ‘600; bisogna aspettare l’Ottocento, con i progressi della
medicina, per vedere l’aspettativa di vita salire intorno ai 45 anni.

Poi è arrivato il Coronavirus e, soprattutto in Europa, dove ha colpito molto duramente, ha
ricordato le pandemie storiche come la Peste del 1300 e la Spagnola, durante e dopo la Prima
Guerra Mondiale. Sono arrivati i morti, tanti morti, i cimiteri si sono riempiti, i corpi sono stati
cremati, poi è toccato ai convogli di camion partiti per trasportare “altrove” tutte le vittime di questa
emergenza sanitaria; insomma, la morte è tornata prepotente e inesorabile nelle nostre vite.

Eppure, benché siano cambiate le nostre abitudini di vita, il nostro vocabolario, le parole che usiamo
per esprimerci e quindi anche la maniera con cui ci raffiguriamo il mondo, i media, non solo quelli
digitali, hanno finito per dettare la nostra agenda setting e “distrarci” da tutta una serie di altre
“variabili” e “fatti” che pure abbiamo sotto gli occhi, ma che semplicemente non riusciamo a vedere.

Se davvero si tratta di una guerra (in barba agli ammonimenti che Susan Sontag ci aveva dato nel
suo saggio Malattia come Metafora già nel 1978[1]), davvero questa battaglia la stanno
combattendo solo in prima linea?
Che fine hanno fatto le retrovie, la logistica, gli approvvigionamenti, le comunicazioni, il
genio civile?

È una ben strana guerra se a combatterla ci sono solo i fanti i prima linea e gli eroi.

Ma come abbiamo fatto a dimenticare, al netto del personale sanitario, tutta quella massa
di lavoratori che non si sono potuti permettere il lockdown e la quarantena domiciliare?

Sono davvero così invisibili?

O piuttosto siamo così ubriacati da una comunicazione propagandistica da guardare, ma non riuscire
a vedere il postino che ci consegna la posta o il camionista che continua a trasportare alimenti e
bevande, su e giù per lo stivale italico?

Non riusciamo a vedere l’edicolante da cui compriamo il giornale o il tabaccaio da cui compriamo
le sigarette, o il ferramentista da cui compriamo il flessibile della doccia che dobbiamo sostituire.

             Scopri il nuovo numero > Tutto andrà bene (?)
       Questo particolare momento necessita di una azione collettiva che vada oltre il semplice
   ottimismo che da solo non basta, anche se comunque aiuta. Solo insieme si può uscire da questa
                                             situazione.

Non riusciamo più a vedere i riders, non che prima del virus ci accorgessimo di loro, che continuano
a consegnarci i cibi a domicilio nella totale insicurezza e precarietà lavorativa.

Non riusciamo a vedere neanche i giornalisti che ci informano, benché li abbiamo perennemente
sotto gli occhi, dalla tv allo schermo degli smartphone, e addirittura le forze dell’ordine sono
pressoché invisibili, anche se magari ci hanno fermato per controllare la nostra autocertificazione
l’ultima volta che siamo usciti.

E, cosa ancora più grave, nonostante la spesa alimentare sia diventata un nuovo rito laico, con la sua
liturgia fatta di distanze prefissate, file ordinate, e tempi contingentati, proprio non riusciamo a
vedere i volti spaventati e stanchi di commessi e commesse, di cassiere e cassieri al
supermercato.

Magari ci raccontiamo la scusa che con le mascherine i volti sono meno visibili, con le visiere o i
pannelli in plexiglass la loro immagine pare filtrata, sfocata e apparentemente ci sembra che
attraverso queste barriere, tutto sommato, siano al sicuro dal contagio.

Ma non è così!

Postini, corrieri, autotrasportatori, edicolanti, forze dell’ordine, giornalisti, addetti al supermercato
non li vediamo perché il vocabolario bellico che abbiamo adottato in emergenza da Coronavirus non
li contempla. Queste voci, questi lemmi non ci sono, ma questo, attenzione, non vuol dire che sono
astrazioni linguistiche, queste sono persone, sono uomini e donne con sogni e desideri, paure ed
angosce, sono “individui” grazie ai quali possiamo mangiare, comprare, bere, leggere notizie,
fumare, sentirci sicuri, essere informati e cambiare le lampadine fulminate delle nostre abitazioni.

Tutti questi lavoratori, questi operai, questo esercito “invisibile” sono quelli che hanno permesso che
il Paese non si fermasse, che le nostre quarantene fossero meno claustrofobiche e le nostre vite
meno drammatiche di quanto già non ci appaiano.

Sono un esercito invisibile solo perché siamo innamorati della “propaganda bellica”, vogliamo gli
eroi, vogliamo i martiri, ma una battaglia, un conflitto, una guerra come questa contro l’implacabile
Coronavirus la vinceremo solo come esercito. Gli eroi ed i martiri da soli non basteranno, per evitare
che il tessuto sociale, già lacerato, si strappi, ci vogliono tutti i reparti di cui è composto un esercito:
la logistica, i trasporti, le comunicazioni, il genio civile, anche le retrovie, perché ogni ingranaggio è
essenziale ed insostituibile, e soprattutto ci vuole cameratismo.

Cosa fare allora per non diventare schiavi di una propaganda bellica che limita fortemente
la nostra capacita di vedere la realtà?

Come ampliare l’orizzonte delle nostre percezioni in maniera da riuscire a “vedere” tutto l’esercito
di persone che sta combattendo questa guerra, per poterlo finalmente ringraziare?

Purtroppo non ho risposte, né formule magiche, posso solo suggerirvi le tre “buone pratiche” che
hanno funzionato per me.

Per pima cosa, credo, come ha ribadito Daniel Goleman in un recente saggio[2], che la nostra
capacità di concentrazione sia la facoltà che più di tutte meriti di essere allenata, in un tempo
scandito da armi mediatiche di “distrazione di massa”; la nostra capacità di concentrarci, di prestare
attenzione a tutto ciò che facciamo, anche quando facciamo cose scontate come la spesa, può
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             lario bellico di questi giorni, analizzatelo, e vedrete quante parole ne sono state omesse, e ricordate
             che ogni parola, ogni vocabolo, ogni lemma “assente” rappresenta una categorie di persone, degli
             individui, degli esseri umani.

   Parole omesse non vuol dire inesistenti, noi dobbiamo sforzarci di riconoscere, pronunciare,
   ricordare e tradurre queste parole, queste persone, questo esercito di invisibili che ci regala ogni
   giorno (lo so, sembra strano dirlo mentre siamo in quarantena) la libertà di cui godiamo.

   Volenti o nolenti la realtà e perfino noi stessi siamo fatti di parole, da quelle che usiamo, da quelle
   che pronunciamo, da quelle che scordiamo e anche da quelle che non conosciamo; il grande filosofo,
   ingegnere e logico austriaco Ludwig Wittgenstein, nella sua opera principale[3], scrisse: “I limiti
   del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, impossibile per noi oggi non cogliere la
profonda verità di queste parole.

Infine, dovremmo aspirare a diventare paleontologi delle parole e scavare il racconto del
quotidiano per riportare alla luce tutte le parole che abbiamo smarrito, ignorato e dimenticato.
Come i fossili di dinosauri molte ci spaventeranno, alcune ci sembreranno incredibili, altre scontate,
altre ancora prive di significato, ma, attenzione, così come i fossili ritrovati ci aiutano a disegnare la
storia dell’evoluzione, allo stesso modo le parole che ritroveremo sono tutte degne di esistere, di
vivere, di essere raccontate e di far parte della storia contemporanea che stiamo narrando agli altri,
ma soprattutto a noi stessi.

[1] Susan Sontag, Malattia come Metafora, Milano, Mondadori, 2002.

[2] Daniel Goleman, Focus. Perché fare attenzione ci rende migliori e più felici, Milano, Rizzoli,
2013.

[3] Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, Torino, Einaudi, 1989.

La situazione lavorativa italiana,
raccontata in 5 film
La complessa tematica della disoccupazione, la difficoltà di arrangiarsi con lavori sottopagati, il
problema dei neolaureati costretti a fuggire all’estero, sono argomenti che spesso sono stati
affrontati sul grande schermo. Tra i tanti film che parlando della situazione lavorativa attuale in
Italia, cinque opere trovo particolarmente interessanti:
Santa Maradona (2001, regia Marco Ponti): film che rappresenta una generazione, uno dei primi
film italiani ad affrontare la difficile tematica del lavoro precario. “Santa Maradona” è un mix di
citazioni letterarie, sportive e cinematografiche, che racconta la routine di due giovani squattrinati, i
grandiosi Stefano Accorsi e Libero De Rienzo, attraverso dialoghi esilaranti e una movimentata regia
stile fine anni ’90.

  Leggi anche:

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      Intervista a Cristiano Carriero.

Il regista, circa quindici anni prima di dedicarsi ai fortunati “Io che amo solo te” e “La cena di
Natale”, distanti anche per stile e tematica da “Santa Maradona”, regala uno spaccato dei
neolaureati di inizio duemila, preda delle incertezze e dell’amore (anch’esso incerto) nello sfondo di
una Torino dinamica e talvolta cupa. Fugace apparizione dei Subsonica, che interpretano loro stessi,
dopo soli cinque anni dalla loro nascita.

Tutta la vita davanti (2008, regia Paolo Virzì): Il regista livornese ci ha sempre abituati ad un riso
amaro, invitandoci a guardare e a riflettere su situazioni goffe e realistiche ed anche in questa
pellicola non è da meno. E’ la storia di Marta, interpretata da una emergente e già brava Isabella
Ragonese, che dopo una laurea in filosofia e tante porte in faccia, finisce per accrescere la sua
carriera professionale in un call center, con a capo una brillante Sabrina Ferilli, in una delle sue
migliori interpretazioni.

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  ■   Work in progress

Come sempre nei film di Virzì, anche in questo film i protagonisti sono personaggi umani, con
numerosi limiti e difetti, che vivono una vita mediamente soddisfacente e fanno di tutto per non
restare indietro e anche Marta, alla fine, troverà il modo di affrontare la sua banale, ma
estremamente vera, esistenza.

Workers – Pronti a tutto (2012, regia Lorenzo Vignolo): commedia divisa in tre episodi, tutti
incentrati sul tema del precariato. Le tre storie (“Badante”, “Cuore di toro” e “Il Trucco”) partono da
un elemento comune, una coppia di colleghi, proprietari dell’agenzia interinale “Workers”, che
propina a tre giovani in cerca di futuro, dei lavori improponibili. Film piacevole e poco conosciuto
che, con ironia, affronta il tema, purtroppo ancora attuale, del doversi accontentare di lavori
mortificanti e sottopagati, ben lontani dal percorso di studi intrapreso. L’ultimo episodio, il più bello,
ha un tocco surreale, non usuale per il cinema italiano ed è reso ancor più strambo e tetramente
divertente, dal contributo attoriale di Paolo Briguglia, Nicole Grimaudo e Nino Frassica.
Smetto quando voglio (2014, regia Sydney Sibilia): Esordio del regista salernitano con un action
movie tutto italiano, una saga di tre episodi intelligente, spassosa e coinvolgente. E’ la rocambolesca
storia di Pietro Zinni, ricercatore a caccia di un posto fisso all’università, che quando le sue
aspettative vengono disattese, decide di provare a guadagnare con una folle intuizione.

  Per approfondire:

  ■   Scopri la nostra rubrica dedicata interamente al Cinema

Vuole creare una smart drug, una droga considerata legale perché non ancora inserita nella lista
delle sostanze stupefacenti; vuole riuscire in questa impresa radunando una banda di geniali
ricercatori squattrinati. Esilarante pellicola che affronta il triste tema dei ricercatori plurilaureati,
costretti a fare lavori sottopagati o addirittura ad emigrare all’estero, argomento trattato nel
secondo capitolo della saga “Smetto quando voglio – Masterclass”, del 2017. Uscito nel 2017
anche l’episodio finale “Smetto quando voglio – Ad Honorem”, dove Pietro e la sua banda
dovranno fare i conti con l’astuto Walter Mercurio.

Gli ultimi saranno ultimi (2015, regia Massimiliano Bruno): commedia amara con protagonisti
Paola Cortellesi, Alessandro Gassmann e Fabrizio Bentivoglio. Il film, ambientato in un piccolo
comune romano, racconta la storia di Luciana e Stefano, moglie e marito: lei lavora in una fabbrica
tessile e lui cerca di sbarcare il lunario, provando a fare il meccanico e facendo piccoli scambi
commerciali, non sempre fortunati. In contemporanea, è narrata anche la vicenda del poliziotto
Antonio (Fabrizio Bentivoglio), che da poco è stato trasferito in paese. La vita va avanti tra difficoltà
economiche e solita routine, finché la gravidanza di Luciana non cambierà le cose, causando il suo
licenziamento.

Information o Transformation? Il nuovo
valore della COMUNICAZIONE
  L’arte oratoria di una volta oggi è nello storytelling, l’opportunità di “raccontare”
  stimolando i sensi e l’immaginazione.

Pensate che informazione e comunicazione siano la stessa cosa? Posso confermarmi che vi
sbagliate…e vi spiego perché.

Informare nella sua etimologia del termine significa portare qualcuno a conoscenza di qualcosa
mentre comunicare esattamente significa rendere noto, far sapere. La differenza c’è ed è
sottile e va letta tra le righe dell’intenzione perché è lì che tutto si svela e diventa chiaro. Sono due
volti della stessa medaglia che mostrano due diverse realtà e sollecitano diverse attenzioni.

L’i
nf
or
m
azi
on
e
pu
ra
e
ve
riti
er
aè
l’arte dell’ “informare” per il solo scopo di farlo e con la sola necessità di esercitare un diritto di
cronaca o di condividere un’informazione che mette al centro il potere della veridicità di quello
che si sta raccontando, senza fronzoli o mezze verità.

La comunicazione è l’informazione rivisitata per attrarre e coinvolgere, è la pillolina magica che
indolora le notizie più negative o che mette del pathos solleticando le curiosità e invogliando sempre
più a leggere, approfondire, ricercare e perché no, se lo scopo ultimo è fare business, portare ad
acquistare un prodotto/servizio.

La comunicazione è un abbellimento destinato a convincere il consumatore che un prodotto è
superiore o più innovativo ad altri sul mercato, l’elettore che il candidato scelto risponde ai requisiti
espressi dal cittadino, il lettore che quella testata è più vicina alla propria ideologia e così via per
qualsiasi forma di messaggio che diventa evocativo, accattivante nascondendo un retro-pensiero:
stuzzicare l’interesse del destinatario al fine di raggiungere l’obiettivo di chi lo mette in
pratica.

Ecco che se pensiamo alle nuove modalità di fare informazione, ci rendiamo conto che si
avvicinano sempre più allo stile “comunicazionale” che a quello puramente informativo. Dai
telegiornali ai programmi di approfondimento, dall’utilizzo di tutti i media di massa ai social e con
l’avvento del digitale la sinergia tra rapidità tecnologica e l’uso di massa degli strumenti di
comunicazione, ne ha accentuato le differenze.
Co
sì
l’a
rt
e
de
l
co
m
un
ic
ar
e diventa una strategia, una “marketing solution” dove scende in campo la trasformazione
dell’informazione in nuovi modelli di comunicazione, nuove soluzioni, nuove possibilità, nuovi
canali che partendo dalla realtà dei fatti o dalla verità di una informazione diventa Storytelling, un
marketing narrativo innovativo dove l’informazione è potere ma il modo in cui lo si fa è
innovazione: traducendo e promuovendo le “cose” in parole, immagini, suoni, percezioni
rendendole vere ed entusiasmanti

Fare storytelling significa:

■   Creare emozioni legate ad un prodotto/un brand/un fatto/un’iniziativa;
■   Accendere i “sensi” per comunicarne il valore;
■   Raccontarne la storia;
■   Creare una nuova concezione, posizionare nella mente dell’ascoltare un significato percepito;
■   Coinvolgere e non convincere, perché in realtà questo succede naturalmente;

Siamo immersi in un universo narrativo dove l’informazione è un continuo evolversi attraverso
canali sempre più nuovi e di impatto stimolando i sensi e raccontando STORIE che possono più o
meno interessarci.

Citando H. Lasswell, “la comunicazione è chi dice, che cosa, a chi, per mezzo di quali canali, con
quali effetti”; un circolo seduttivo che apporta valore nella persuasione e che solo utilizzandolo nel
modo corretto e con i canali e mezzi giusti, porta al risultato.

I
te
m
pi
d
el
“
te
l
e
f
o
no senza filo” dove il messaggio iniziale non corrispondeva mai con quello che in realtà si voleva
trasmettere sono finiti, oggi vi sono tutte le possibilità e gli strumenti per Comunicare
efficacemente, basta saperlo fare!
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