La biogiuridica "al femminile" tra uguaglianza e differenza con riferimento alle questioni di fine vita

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La biogiuridica «al femminile» tra uguaglianza e differenza                        11

                  La biogiuridica «al femminile»
                    tra uguaglianza e differenza
             con riferimento alle questioni di fine vita
                                          di Laura Palazzani

      Scientific and technological progress in the biomedical field always raises biological and
juridical questions that have weighty implications on the «female question», also in reference
to the end of human life. This article proposes to critically outline the main directions of the
current debate focusing on the «bioethics of freedom of women» and the «bioethics of care»,
with specific reference to questions concerning end-of-life issues. Rethinking freedom and
care within the sphere of justice becomes an apparent necessity as an indispensable criterion
of biological-juridical theory and practice with the scope of defending the human dignity
to die.

1.    La differenza sessuale di fronte al progresso della scienza

      Nell’ambito della riflessione biogiuridica si stanno delineando nuovi
orientamenti che focalizzano l’attenzione sulla «questione femminile»: si
tratta di teorizzazioni che, pur nella notevole diversificazione, si interrogano
sull’apporto specifico del pensiero femminile in ambito etico e giuridico di
fronte alle nuove possibilità di intervento sulla vita umana (nelle fasi iniziali
e finali). Anzi, in qualche misura, proprio lo sviluppo tecnico-scientifico
biomedico ha sollecitato la riflessione sulla donna, sul suo ruolo e sulla sua
funzione in ambito etico, con le inevitabili ricadute in ambito politico-giu-
ridico. Le sollecitazioni provengono soprattutto dalle possibilità biomediche
connesse alla sfera sessuale e riproduttiva, dunque all’inizio della vita umana.
Ma anche il tema generale del rapporto medico/operatore sanitario e paziente
coinvolgono la riflessione femminile in bioetica, con particolare riferimento
alla fine della vita umana.
      Sul piano filosofico emerge un interrogativo preliminare: esiste una
bioetica specificamente «al femminile», distinta o radicalmente separata
dalla bioetica «al maschile»? Che rapporto c’è tra la bioetica «femminile»
e il biodiritto? Esistono «valori femminili» e «diritti femminili» in bioetica

      Viene qui pubblicato il testo presentato nel corso del seminario di studi «Gender Studies e meto-
dologia nella bioetica di fine vita», organizzato dall’ITC-isr Centro per le Scienze Religiose e tenutosi
a Trento dal 5 al 7 dicembre 2002.
12                                        Laura Palazzani

e nella biogiuridica?1 Che rapporto c’è tra bioetica-biogiuridica «femminile»
e «femminista»?
     Nell’ambito della discussione attuale, si delinea un orientamento di
pensiero che ritiene che non abbia senso parlare di bioetica e di biodiritto
«dell’uomo»: più precisamente, c’è chi sostiene che l’elaborazione di discorsi
sulla dignità della vita umana e sui diritti umani nasconda pericolosi equivoci.
La bioetica e la biogiuridica nella misura in cui si riferiscono all’uomo sono
accusate di «in-differenza», in un duplice senso, sia nel senso di non adeguata
considerazione delle differenze sessuali, sia di cancellazione delle differenze
sessuali in una sorta di assimilazione del femminile al maschile (in un falso
universalismo particolarista, maschilista e androcentrico).
     È questo l’orientamento del «femminismo biogiuridico» che mette
in discussione i principi di universalità etica e di uguaglianza giuridica,
ritenendo che il modello tradizionale del diritto radicato nella soggettività
umana (riconosciuta in ogni uomo) sia iniquo, in quanto patriarcale. Tale
critica si fonda sul fatto che il soggetto umano, identificato formalmente con
l’individuo astratto, risulta essere privo delle connotazioni particolari che lo
caratterizzano nella concretezza della realtà, tra cui, appunto, la sessualità.
Il soggetto umano, così inteso, neutralizza le differenze (anche sessuali):
non è né maschio né femmina; insomma, è asessuato o, ancor peggio, de-
sessuato. Secondo il femminismo, l’universalità e l’uguaglianza, nello sforzo
di garantire l’imparzialità di trattamento di ogni uomo, rischiano di portare
all’ignoranza o all’annullamento delle differenze, con la conseguente discri-
minazione della diversità sessuale.
     In questo senso il femminismo in ambito biogiuridico critica le teorie
«in-differenti», quali l’utilitarismo, il contrattualismo, la teoria dei diritti, il
principialismo e il personalismo: se i valori e i diritti sono fondati sull’utile
sociale (nel calcolo della massimizzazione degli interessi), sulla negozia-
zione tra agenti morali (autonomi), sullo status inerente degli individui
(come secondo la teoria dei diritti), sull’accordo intermedio sui principi (di
autonomia, beneficità, non maleficienza, giustizia) o sulla dignità intrinseca
della persona umana (riconosciuta in ogni fase di sviluppo), in ogni caso si
rileva la mancanza di un’adeguata considerazione della diversità sessuale.
Sono teorizzazioni accusate di individualismo e astrattismo, non riuscendo
a offrire criteri e regole per uomini e donne rispetto a decisioni concrete.
     Si assiste a un mutamento di paradigma nel movimento femminista bio-
giuridico (che riflette il cambiamento a livello filosofico generale), ossia dalla
rivendicazione dell’uguaglianza universale all’affermazione della differenza
particolare: non si vuole il riconoscimento di valori e diritti uguali per tutti
(coloro che sono ritenuti soggetti), ma si esigono valori e diritti «speciali»,
differenziati sessualmente. Si esige, insomma, una sorta di bipolarizzazione
della bioetica, distinguendo la dimensione femminile da quella maschile: i

     1    Per un sintetico inquadramento del tema si veda J. Crosthawaite, Gender and Bioethics, in H.
Kuhse - P. Singer (edd), A Companion to Bioethics, Oxford 1998, pp. 32-40.
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valori e i diritti in bioetica e nella biogiuridica devono essere sessuati, ossia
declinati al femminile e al maschile, prescindendo da un generico riferimento
all’umano.

2.    Due percorsi della biogiuridica femminista (con riferimento alle que-
      stioni di fine vita): la libertà e la cura

      Seppur nell’estrema diversificazione delle teorizzazioni,2 è possibile rin-
tracciare due orientamenti femministi: «la bioetica della libertà delle donne»
e la «bioetica della cura».3 Pur nella diversificazione delle argomentazioni,
tali teorie condividono, sul piano metodologico, l’obiettivo di riabilitare e
rivalorizzare il ruolo femminile in bioetica, riducendo l’oppressione di genere
nell’ambito biomedico.
      La «bioetica della libertà delle donne» è un orientamento femminista di
matrice individualistico-libertaria.4 È la bioetica della rivendicazione non solo
dell’emancipazione, ma anche della liberazione della donna (dal suo corpo,
dalla sessualità, dalla sua emotività, dalla presunta vulnerabilità e debolezza)
dal dominio patriarcale:5 è l’orientamento che ha, oltre a una valenza etica,
anche una rilevanza specificamente giuridica e politica.
      Sul piano etico questo orientamento ha proposto una «trasvalutazione di
valori», ossia una nemesis, una sorta di ritorsione vendicativa al patriarcato
nella direzione della liberazione della donna, sulla base della rilevazione che
l’esperienza morale della donna vale tanto quanto quella dell’uomo. Questo
stesso orientamento in ambito biogiuridico ha portato alla radicalizzazione
della differenza o del genere, sulla base della separazione dei diritti femmi-
nili dai diritti maschili, che a volte si spinge fino all’assolutizzazione della
polarità femminile (soprattutto per quanto riguarda le questioni riproduttive).
Si chiede la trasformazione del diritto per rendere possibile la libertà assoluta
della donna, per dare spazi di cui le donne hanno bisogno in nome della
differenza. Le rivendicazioni femministe chiedono l’assolutizzazione della
libertà della donna, in forza della riappropriazione della differenza di genere:
proprio perché la donna è diversa nel corpo e nella sessualità dall’uomo deve
poter decider autonomamente sul proprio corpo. La differenza, in questo
ambito, è esaltata: non significa sottomissione o necessità di protezione
(da parte dell’uomo), ma al contrario diviene rivendicazione di sovranità e

       2   C’è addirittura chi ritiene che ci siano tanti approcci femministi in bioetica quante sono le
bioeticiste femministe. Cfr. R. Tong, Feminist Approaches to Bioethics, Boulder (CO) 1997, p. 75.
       3   Ibidem, p. 96.
       4   A questo orientamento aderiscono il femminismo marxista, socialista, liberale, radicale, mul-
ticulturale, globale, esistenziale e postmoderno (cfr. ibidem, p. 90).
       5   A. Jaggar, Feminist Politics and Human Nature, Brighton 1983; della stessa autrice si veda
anche Feminist Ethics, in L. Becker - C. Becker (edd), Encyclopedia of Ethics, New York 1992, pp.
363-364; M. Daly, Gyn/Ecology: the Methaethics of Radical Feminism, Boston (MA) 1978, pp. 14-15;
S.L. Hoagland, Lesbian Ethics, Palo Alto (CA) 1989, p. 8; I.M. Young, La politica della differenza, trad.
it., Milano 1996.
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potenza (da esigere contro la subordinazione e l’inferiorità, giustificate in
nome della vulnerabilità, debolezza, emotività).
     In questo senso, si possono leggere talune rivendicazioni femministe
anche in ambito eutanasico. Le donne rivendicano il «diritto sulla propria
morte», il diritto di autodeterminazione nel morire (sulla decisione di quando
e come morire), nel timore che ciò possa essere deciso (in modo patriar-
cale) da altri, sulla base di considerazioni discriminanti, quali lo stereotipo
culturale del senso di sacrificio della donna (essendo la donna disposta al
sacrificio, anche se non manifesta un esplicito consenso, si potrebbe presu-
mere che preferisca morire piuttosto che vivere per non essere di peso alla
famiglia e alla società), o la considerazione della maggiore probabilità di
depressione e di labilità emotiva (considerazione che porterebbe a ritenere
la donna, rispetto all’uomo, più debole e dunque incapace di prendere una
decisione, o comunque di portarla lucidamente a termine, sulla propria vita
e sulla propria morte).6
     Accanto alla «bioetica della libertà delle donne», è rintracciabile un
altro percorso femminista che ha notevoli ricadute in ambito biogiuridico,
anche in riferimento alle questioni di fine vita, la «bioetica della cura»7 o
«del prendersi cura» (care bioethics8).
     Si tratta di un orientamento che, sulla scia della nota distinzione psi-
cologico-morale di C. Gilligan, ha portato alla separazione tra ambito etico
(femminile) della cura e giuridico (maschile) del diritto. Una delle versioni
femministe più diffuse nella bioetica della cura è il cosiddetto «modello
maternalista»9 che identifica la pratica e l’esperienza della maternità quale
fonte di valori etici femminili.10 La maternità insegna l’attenzione responsa-
       6   S.M. Wolf, Gender, Feminism, and Death: Physician-Assisted Suicide and Euthanasia, in
Feminism and Bioethics: Beyond Reproduction, New York - Oxford 1996, pp. 282-317.
       7   C. Gilligan, In a Different Voice: Psychological Theory and Women’s Development, Cambridge
(MA) 1982; trad. it. Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Milano 1987; N. Nod-
dings, Caring: a Feminine Approach to Ethics and Moral Educations, Berkeley (CA) 1984; A. Baier,
Moral Prejudices, Cambridge (MA) 1995. Cfr. anche M.J. Larrabee, An Ethic of Care, London 1993;
R. Manning, Speaking from the Heart: a Feminist Perspective on Ethics, Lanham (MD) 1992.
       8   Nella lingua inglese care si contrappone a cure: curare nel primo senso indica il prendersi cura;
il secondo ha un significato terapeutico sanitario (curare nel senso di guarire). A questo orientamento etico
aderiscono il femminismo psicoanalitico, culturale ed ecofemminista (cfr. R. Tong, Feminist Approaches,
p. 89).
       9   In ambito etico generale si veda: S. Ruddick, Maternal Thinking: Towards a Politics of Peace,
London 1990; trad. it. Il pensiero materno, Como 1993; V. Held, Feminist Morality: Transforming Cul-
ture, Society, and Politics, Chicago (IL) 1993; C. Whitbeck, The Maternal Instinct, in J. Trebilcot (ed),
Mothering: Essays in Feminist Theory, Totowa (NJ) 1984; N. Chodorov, The Reproduction of Mothering.
Psychoanalysis and the Sociology of Gender, Berkeley (CA) 1978.
       10 S. Vegetti Finzi, Il bambino della notte, Milano 1990; della stessa autrice si veda anche Volere

un figlio, Milano 1997; R.C. Manning, A Care Approach, in H. Kuhse - P. Singer (edd), A Companion
to Bioethics, pp. 98-105. Sull’etica infermieristica: S. Fry, The Role of Caring in a Theory of Nursing
Ethics, in «Hypatia», 4 (1989), 2, pp. 88-103; H. Kuhse, Caring: Nurses, Women and Ethics, Oxford
1997; E.S. More - M.A. Milligan (edd), The Empathic Practitioner: Empathy, Gender and Medicine,
New Brunswick (NJ) 1994; L. Alisa Carse, The Voice of Care: Implications for Bioethical Education,
in «The Journal of Medicine and Philosophy», 16 (1991); H.J. Curzer, Is Care a Virtue for Health Care
Professional?, in «The Journal of Medicine and Philosophy», 18 (1993); M.S. Tecker - D.J. Self, Sepa-
rating Care and Cure: an Analysis of Historical and Contemporary Images of Nursing and Feminism,
in «The Journal of Medicine and Philosophy», 16 (1991).
La biogiuridica «al femminile» tra uguaglianza e differenza                       15

bile ed empatetica ai bisogni induttivamente emergenti nell’esperienza del
caso concreto.11 Proprio la donna, in quanto ha sperimentato la maternità
e l’accudimento (dunque ha vissuto l’etica della cura), è il vero soggetto
bioetico. Si tratterebbe, dunque, di «femminilizzare» (o anche «materniz-
zare») la bioetica pubblica grazie ai valori materni, identificati nell’attitudine
protettiva verso l’altro.12 La figura materna è identificata genericamente con
la mothering person, ossia la persona che assume un atteggiamento analogo
a quello della madre rispetto al figlio.13 La bioetica della cura segna dunque
un passaggio dalla bioetica deduttiva, razionale, individualista a una bioetica
induttiva, emotiva, empatica; dalla bioetica fredda e contrattuale dell’ac-
cordo alla calda bioetica della fiducia solidale; dalla bioetica impersonale dei
principi generali astratti di condotta alla bioetica della virtù, dell’esperienza
vissuta nel contesto concreto.
     La «bioetica della cura», nell’ambito di alcune prospettive femministe,
ha messo in discussione il concetto tradizionale di giustizia che, occupandosi
dell’uomo in una dimensione di neutralità e di imparzialità, si è limitato
a stabilire norme astratte e generiche di comportamento, che non offrono
chiare indicazioni rispetto a situazioni concrete nelle quali si trovano ad agire
uomini (maschi) e donne. In questo senso la bioetica della cura femminista
ha posto un’attenzione specifica sulla relazione concreta contestuale tra indi-
vidui: per «relazione concreta» si intende una relazione che si misura con
l’esperienza tipicamente femminile di «curare» (generare, nutrire, accudire,
educare). Facendo perno su questa particolarissima relazione femminile di
cura è possibile imparare a sviluppare i sentimenti necessari per l’agire etico
in biomedicina.
     Si tratta di un orientamento di pensiero che ha rilevanti ricadute sulle
questioni di fine vita. In una duplice direzione possibile, diversificata in
base al modo di intendere la cura: se per cura si intende «il prendersi cura»
nel senso di accudimento, tale orientamento stimola nella direzione di un
caldo accompagnamento del paziente in condizioni esistenziali terminali fino
all’ultimo istante; se per cura si intende «beneficenza» ossia «fare il bene»
del paziente in condizioni di vulnerabilità e sofferenza, tale orientamento può
giungere a giustificare anche un atto eutanasico nella misura in cui il bene
del paziente da accudire sia inteso nel senso dell’anticipazione della morte
per evitare la sofferenza.14

      11 C.E. Gudorf, A Feminist Critique of Biomedical Principlism, in E.R. DuBose - R.P. Hamel -

L.J. O’Connell (edd), A Matter of Principles? Ferment in U.S. Bioethics, Valley Forge (PA) 1994, pp.
164-181.
      12 S. Sherwin, No Longer Patient: Feminist Ethics and Health Care, Philadelphia (PA) 1992.
      13 C. Pateman, Il contratto sessuale, trad. it., Roma 1997.
      14 C. Botti, Bioetica ed etica delle donne. Relazioni, affetti e potere, Milano 2000; della stessa

autrice si veda anche Femminismo, in E. Lecaldano (ed), Dizionario di bioetica, Roma - Bari 2002, p.
129.
16                                       Laura Palazzani

3.    La biogiuridica «al femminile»: dalla giustizia alla cura

      Gli orientamenti della «bioetica della libertà delle donne» e della
«bioetica della cura» offrono interessanti stimoli alla discussione delle que-
stioni di fine vita. Ma suscitano anche alcune riflessioni critiche in ambito
biogiuridico.
      La «bioetica della libertà delle donne», nella prospettiva della rivendi-
cazione della libertà sia ‘della’ differenza che ‘dalla’ differenza, si espone a
un interrogativo: perché le preferenze delle donne dovrebbero divenire valori
e diritti assoluti e sostituire, con una sorta di inversione etica e giuridica, il
patriarcato, accusato di maschilismo? Insomma, il femminismo della libera-
zione della donna rischia di divenire un maschilismo rovesciato, proponendo
l’esaltazione del femminile contro l’esaltazione del maschile: ricadrebbe, sul
versante opposto, nello stesso errore da cui intende prendere le distanze, sosti-
tuendo il matriarcato al patriarcato. All’interno dello stesso femminismo15 si
sono sollevate voci dissenzienti: la liberazione dalla differenza può divenire
l’illusione di una falsa emancipazione dal condizionamento maschile.
      La «bioetica della cura», seppur indubbiamente (e a ragione) divenuta
un punto di riferimento forte per la bioetica delle donne, mostra alcune
incongruenze. Letta da un punto di vista filosofico-giuridico, nella misura
in cui la «cura» mette da parte la «giustizia» (accusata di astrattismo), anzi
la cura si sostituisce alla giustizia (finendo con l’annullarla), se si esaltano i
valori femminili al punto da negare rilevanza prioritaria alla dignità umana
e ai diritti umani (ritenuti troppo generici per essere applicati a situazioni
concrete e particolari), si rischia di inserire un fattore soggettivo nella
valutazione morale e giuridica: lo statuto dell’altro dipende dalla relazione
di cura particolare che si instaura. La giustizia, seppur astratta e generale
(anzi, a ben vedere, universale), offre la garanzia oggettiva dell’uguaglianza
e simmetria di trattamento di ogni uomo (maschio o femmina che sia), posti
sullo stesso piano (ogni uomo è come ogni altro per natura e pari ad ogni
altro per il diritto); la cura, indubbiamente rilevante sul piano concreto e
contestuale, è però intrinsecamente una relazione tra ineguali, una relazione
che presuppone un’asimmetria tra colui che si prende cura di qualcuno e
colui che riceve le cure, tra l’agente e il paziente, ove l’agente è colui che si
assume la responsabilità e l’impegno solidale verso chi ha bisogno di aiuto e
il paziente è colui che si trova in una condizione di fragilità, di vulnerabilità,
di debolezza.
      Il modello della cura è costruito sull’immagine della donna che si prende
cura dell’altro, della madre che si prende cura del figlio: ma, se la madre
abbandona il figlio? Se il medico o l’operatore sanitario preferiscono lasciare
morire o togliere la vita al paziente che soffre troppo (anziché accudirlo, per
quanto possibile, curandolo o alleviando le sofferenze fisiche e psichiche)?

      15 T. De Lauretis (ed), Feminist Studies/Critical Studies, Bloomington (IN) 1986; della stessa

autrice, Technologies of Gender, Bloomington (IN) 1986.
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Così intesa la bioetica della cura rischia di divenire bioetica del potere, il
potere (soggettivo) di chi può decidere e disporre dell’altro rispetto a chi
(oggettivamente) non è in grado di decidere per se stesso (è il caso del malato
terminale o dell’individuo in coma): il rapporto asimmetrico (presupposto
della cura) può rovesciarsi dall’accudimento ‘per’ l’altro alla disponibilità
‘sulla’ altrui vita, se manca uno statuto oggettivo della dignità della vita
umana. Il valore dell’individuo dipende dalla situazione emozionale relazio-
nale: lo statuto va definito in relazione alla donna (alla madre o a chiunque ne
faccia le veci), cambia in base a come si struttura la relazione, alla presenza o
all’assenza del riconoscimento da parte dell’altro.16 In questo senso lo statuto
di persona dipende dall’accoglimento, dall’investimento sentimentale, dalla
«responsività» o rispondenza, dalla sollecitudine o simpatia, dalle reazioni
degli altri, insomma da come gli altri ci trattano.17
     Nell’ambito dello stesso femminismo sono emerse voci critiche nei con-
fronti di questo paradigma etico (etichettato come «femminilismo», a metà
strada tra femminismo e femminile) che rischia di reintrodurre la differenza
tradizionale dei generi, esaltando quei caratteri femminili che hanno nel
passato portato la donna a una posizione di sottomissione rispetto all’uomo.
In ogni caso rimane discutibile la generalizzazione di comportamenti ritenuti
tipicamente femminili: anche se le relazioni di cura sono più frequenti di
fatto tra le donne, ciò non rende tali attitudini intrinsecamente femminili
di principio, ossia non costituisce la prova dell’esistenza di una sorta di
essenza morale femminile (accanto o superiore all’essenza morale maschile).
E, anche se ciò fosse possibile, si rischierebbe di sclerotizzare l’immagine
della donna, non tenendo in adeguata considerazione le differenze tra donne,
oltre che tra uomini e donne, e si finirebbe, oltretutto, con l’idealizzazione
e l’elevazione del ruolo della donna a colei che sa cosa fare nelle situazioni
(ribaltando il paternalismo in una sorta di «maternalismo»). Non è un caso
che la bioetica della cura abbia avuto un impatto più sulla teorizzazione
dell’assistenza infermieristica (ritenuto un lavoro più tradizionalmente svolto
da donne) che medica.18
     Va aggiunto che, per quanto riguarda la relazione madre/figlio, essa non
può essere elevata a paradigma per tutte le relazioni; ogni relazione umana
è troppo specifica per essere generalizzata:19 in particolare le virtù materne,
in quanto espressione di una relazione intima ed esclusiva tra madre e figlio,
sono difficilmente trasponibili (se non al prezzo di snaturarle) sul piano

       16 M.L. Boccia, Un crinale difficile: i corpi nella politica, la politica sui corpi, in «Sofia», 3

(1997), p. 20; A. Baier, Moral Prejudices, p. 314.
       17 E. Wolgast, La grammatica della giustizia, trad. it., Roma 1991, p. 63; C. Botti, Bioetica ed

etica, p. 127.
       18 H.L. Nelson, Against Caring, in «Journal of Clinical Ethics», 3 (1992), pp. 8 ss.
       19 S. Benhabib, Situating the Self, Oxford 1992; S. Benhabib - D. Cornell (edd), Feminism as a

Critique: on the Politics of Gender, Minneapolis (MN) 1987; G. Bock - S. James (edd), Beyond Equality
and Difference, New York 1992; C. Card (ed), Feminist Ethics, Lawrence (KS) 1991; E. Frazer - J.
Horsby - S. Lovibond (edd), Ethics: a Feminist Reader, Oxford 1992; M. Friedman, What are Friends
for? Feminist Perspectives on Personal Relationship and Moral Theory, Ithaca (NY) - London 1993; E.
Kittey - D. Meyer (edd), Women and Moral Theory, Totowa (NJ) 1987.
18                                         Laura Palazzani

collettivo, generale, pubblico. L’uomo e la donna che non è madre possono
davvero comprendere quel tipo di relazione se non l’hanno esperita? Non
sarebbe forse più opportuno riferirsi a un’esperienza davvero generalizzata,
che coinvolga pienamente ogni uomo per proporre un modello pubblico
di valutazione etica? Del resto le relazioni madre/figlio non sono solo di
cura, ma anche di abbandono o di eccesso di cura che rischia di divenire
oppressione; le relazioni madre/figlio non sono le uniche relazioni rilevanti
per lo sviluppo della soggettività (semmai lo sono le relazioni familiari in
senso lato).20
     A questo punto si riapre l’interrogativo messo in questione dalle impo-
stazioni femministe in bioetica e biogiuridica: esistono valori umani e diritti
umani, prima che valori e diritti femminili e maschili?
     Il pensiero bioetico e biogiuridico femminista della «differenza sessuale»,
seppur attraverso percorsi diversi, radica la distinzione maschio-femmina in
un’antropologia radicalmente dualista: in questa prospettiva la natura è con-
cepita come irriducibilmente duale, maschile o femminile; la natura umana
in quanto tale non esisterebbe nella realtà, ma solo come generalizzazione
nominale astratta. La matrice di questo pensiero è la riduzione dell’essere a
fattualità e della conoscenza alla constatazione dei fatti: in questo senso, la
sessualità esaurisce il suo significato nello stesso manifestarsi e la consta-
tazione della differenza sessuale diviene la prova (fattuale) della negazione
dell’esistenza e della conoscibilità di una natura ontologica comune. La
differenza ‘empirica’ tra i sessi (maschile e femminile) diviene differenza
‘ontologica’ dei sessi, nel senso di irriducibilità ad un significato comune.
     Per questo la donna è concepita come un’alterità specifica intesa in
senso forte, separata dall’uomo da una distanza incolmabile; al punto che la
donna deve rappresentare se stessa non in contrapposizione all’uomo, ma a
partire da se stessa, in riferimento solo a se stessa. La donna non vuole né
assimilarsi all’uomo, né tantomeno rimanere chiusa entro la rappresentazione
maschile: la femminilità andrebbe intesa non come assenza di mascolinità,
ma come autorappresentazione, nella quale, insomma, la donna è, e deve
essere, il punto di partenza e di arrivo. Il femminismo mette in luce il fatto
che le donne si muovano in istituzioni che si pretendono neutre ma che in
verità sono maschili (a partire dalla lingua, sino all’etica e al diritto): si
ritiene pertanto che la donna sia chiamata ad elaborare un proprio pensiero e
linguaggio sessuato, una propria etica e un proprio diritto sessuato, che non
pretenda di assimilarsi o assimilare all’altro sesso, ma chieda separazione.
Uomini e donne devono pensarsi e dirsi nella differenza.
     In questa prospettiva, se dunque la natura umana è una mera ipostatiz-
zazione astratta, una stipulazione convenzionale e fittizia, essa non ha alcuna
valenza normativa: se non esiste e non è conoscibile la natura umana, non ha

       20 P.W. Scoltsar, Do Feminist Ethics Counter Feminist Aims?, in E. Browning Cole - S. Coultrip-

McQuin (edd), Explorations in Feminist Ethics, Bloomington (IN) 1992; Commentary on Gilligan’s ‘In
a Different Voice’, in «Feminist Studies», 11 (1981); C. Gilligan, On ‘In a Different Voice’: an Interdi-
sciplinary Forum, in «Signs: Journal of Woman in Culture and Society», 11 (1986), 2.
La biogiuridica «al femminile» tra uguaglianza e differenza      19

senso parlare di dignità umana o di diritti umani in bioetica e nel biodiritto. I
valori e le norme sono posti dalla volontà del soggetto sessuato: esistono solo
valori e diritti femminili contrapposti a quelli maschili, ove la contrapposi-
zione tende a divenire sostituzione (del femminile al maschile, nella bioetica
della libertà) o assimilazione (del maschile al femminile, nella bioetica della
cura). L’universalità e l’uguaglianza cedono il passo alla particolarità e alla
differenza (sessuale), dunque alla asimmetria e alla ineguaglianza.
      Il punto centrale è la negazione femminista dell’umano, la negazione
dell’originaria comunanza ontologica del femminile e del maschile. Parlare
di uomo, in senso neutrale rispetto al sesso, significa parlare di qualcosa
che non esiste: la neutralità è ritenuta responsabile della ignoranza e della
cancellazione delle differenze sessuali in falso universalismo egualitario.
Ma ha ancora senso parlare antropologicamente di uomo? Ha senso riferirsi
all’universalità e all’uguaglianza nella bioetica e nel biodiritto? L’universalità
e l’uguaglianza sono compatibili con la differenza sessuale?
      Il punto di partenza di un’indagine fenomenologica, metodologicamente
realista, non può che essere la rilevazione di una verità empirica: non si
nasce «uomini» in astratto, ma si nasce concretamente (bio-geneticamente)
«maschi» o «femmine», incarnati in una corporeità sessuata. La differenza
della mascolinità e della femminilità (differenza primaria e paradigmatica
rispetto a qualsiasi altra differenza) è una categoria fisicamente «involontaria»
(non è frutto di una scelta, quanto meno al momento della nascita, ma ci
è data): o meglio, è una realtà biologica e fisiologica indiscutibile, proprio
perché fattualmente obiettiva, in quanto esperienzialmente verificabile.
      Eppure, se è vero che nasciamo empiricamente come femmine o maschi,
è anche vero che proprio la nascita svela la nostra natura comune: «la rela-
zionalità dell’essere». Nasciamo da altri: la vita ci è data da altri. L’alterità
ci precede ontologicamente: l’uomo (maschio o femmina che sia) è costi-
tutivamente relazionale, ha bisogno dell’altro per esistere, per nascere, per
venire al mondo, per crescere, per divenire se stesso. L’altro è la condizione
di possibilità ontologica dell’io.
      Non solo: l’uomo, maschio o femmina sul piano esistenziale, avverte di
mancare di qualcosa, avverte la necessità di porsi in relazione «con» gli altri,
per acquisire la propria identità autentica, intesa come identità ontologica,
antropologica, oltre che esistenziale e sessuale. L’uomo, proprio in quanto
essere sessuale, mostra e conosce (in sé e nell’altro) la sua incompletezza:
la condizione esistenziale sessuata e la presa di coscienza di essere maschi
o femmine, apre sia l’uomo che la donna alla consapevolezza della propria
particolarità (ossia alla presa di coscienza di essere una polarità, una parte e
non il tutto). La diversità tra i sessi manifesta la prospetticità dello sguardo
umano, situato nella corporeità ed incarnato (bi-polarmente) nella sessua-
lità.
      In questo senso la biogiuridica è chiamata a difendere la relazionalità tra
gli uomini, come condizione di possibilità dell’identità umana (antropologica
prima ancora che esistenziale e sessuale).
20                                         Laura Palazzani

      Il biodiritto ha un compito ‘minimo’, quello di «garantire la relazione
coesistenziale universale»,21 regolando i comportamenti secondo giustizia:
tutti gli uomini in quanto tali (indipendentemente dalla differenza sessuale)
sono soggetti di diritto. L’essere uomo (a prescindere dall’essere maschio
o femmina) è la condizione fondamentale e irrinunciabile per poter aprire
un rapporto giuridico. In tal senso il diritto difende in prima istanza l’ugua-
glianza per natura tra gli uomini nella simmetria e reciprocità. Del resto la
differenza è presupposta dall’uguaglianza: non si dà uguaglianza se non c’è
diversità tra gli elementi posti a confronto, pur avendo una caratteristica
rilevante simile (se non fossero diversi, sarebbero identici, non uguali).
      In questo senso, bisogna evitare due esiti pericolosi: l’uguaglianza
indifferenziata e la differenza diseguale. La prima sfocia nell’assimilazione
uniformante: la seconda scivola inevitabilmente nell’imposizione unilate-
rale di una differenza, assunta e posta ingiustificatamente come superiore
rispetto alle altre. Al (bio)giurista spetta il compito difficile di farsi custode
del corretto evolversi della dinamica della dialettica dei sessi, con lo scopo
di evitare la tentazione della prevaricazione dell’uno sull’altro, per affermare
la logica relazionale, quale condizione ineliminabile per l’affermazione del-
l’identità soggettiva e del riconoscimento reciproco, nello sforzo di elaborare
una sorta di «diversità nell’uguaglianza». Insomma, la biogiuridica ha il
compito di tutelare la vita dell’essere umano, quale condizione di possibilità
dell’identità: dunque di tutelare in prima istanza i «valori umani», la dignità
intrinseca dell’uomo, quale che sia la diversità esistenziale (anche sessuale).
In questo senso ogni intervento biomedico sulla vita risulta giustificato solo
se terapeutico, ossia finalizzato alla guarigione del soggetto stesso su cui si
interviene, e mai eutanasico e soppressivo.22
      In questo contesto, ossia nel contesto della giustizia, è interessante
inserire un riferimento alla «cura» come portatore di arricchimento alla
discussione.23 La cura non sostituisce la giustizia, ma la integra.
      Va ricordato che la rilevanza etica della relazione di cura non è solo
un portato del pensiero femminista: proprio nel contesto della riflessione
bioetica si rileva che il riferimento alla cura è iniziato prima del femmini-
smo24 nell’etica medica, che ha puntato l’attenzione sull’imprescindibilità e
doverosità dell’attenzione sollecita e responsabile, oltre che scientificamente
competente, del medico nei confronti del paziente.25 L’etica medica, nel

      21 Mi riferisco alla ontofenomenologia del diritto elaborata da S. Cotta, Il diritto nell’esistenza.

Linee di ontofenomenologia del diritto, Milano 1991. Cfr. anche F. D’Agostino, Filosofia del diritto,
Torino 1997.
      22 F. D’Agostino, Bioetica nella prospettiva della filosofia del diritto, Torino 1998.
      23 Interessanti riflessioni sulla specificità dell’etica femminile in bioetica in V. Mele , La bioe-

tica al femminile, Milano 1998; P. Cattorini (ed), Procreazione assistita e tutela del figlio. Prospettive
femministe, dibattito bioetico e ipotesi normative, Milano 1996.
      24 C’è una letteratura che precede gli studi femministi sulla cura nell’ambito dell’assistenza

sanitaria, soprattutto nell’area infermieristica: si veda ad esempio B.A. Carper, The Ethics of Caring, in
«Advances in Nursing Science», 1 (1979), 3.
      25 L. Battaglia, La ‘voce femminile’ in bioetica, pensiero della differenza ed etica della cura, in

S. Rodotà (ed), Questioni di bioetica, Roma - Bari 1993, pp. 266 ss. L’autrice sottolinea la convergenza
La biogiuridica «al femminile» tra uguaglianza e differenza                          21

passato e nella riflessione bioetica odierna, sottolinea l’importanza, oltre
che della perizia tecnica, anche della solidarietà interpersonale del medico
per un’autentica umanizzazione della medicina, che tenda a considerare il
malato e la malattia, non solo sul piano fisico, ma anche psicologico, sociale
e spirituale; il medico insomma dovrebbe considerare il paziente nella sua
globalità, non solo per eliminare la patologia, ma anche per ristabilire il
paziente nel suo complesso.26
      Il concetto di cura come «preoccupazione» per la sorte di un altro essere
si è inoltre dilatata anche oltre i confini dell’etica medica, fino a comprendere
la responsabilità «olistica» dell’uomo nei confronti degli altri esseri (umani
e non, viventi e non) in rapporto all’avanzare incessante del progresso tec-
nologico, che mette in pericolo la sopravvivenza dell’umanità e della vita
sulla terra. La «paura altruistica», di cui scrive H. Jonas, corrisponde al
significato di cura e testimonia la necessità che l’uomo prenda coscienza dei
pericoli per la natura insiti nel progresso scientifico e sia consapevole della
doverosa apprensione per la fragilità di altri esseri (umani, animali vegetali,
e le generazioni future) la cui esistenza è minacciata:27 in questo senso,
cura assume il significato non tanto terapeutico-sanitario, ma soprattutto di
preoccupazione umana e solidarietà per chi ha bisogno di aiuto (a prescindere
dalla condizione patologica).
      La valenza biomedica e olistica della bioetica della cura mostrano che
il paradigma della cura porta un arricchimento alla riflessione bioetica, ma
non è un contributo esclusivamente femminile. La cura non è l’essenza
intrinseca della femminilità separata dalla mascolinità e superiore ad essa:
il valore della «cura», intesa come comportamento virtuoso, nella disponi-
bilità dell’animo alla compartecipazione empatica al vissuto dell’altro, alla
relazione responsabile e solidale di aiuto nella situazione concreta, non è un
valore esclusivamente femminile. Forse è statisticamente più diffuso social-
mente nell’atteggiamento della donna, forse è più visibile psicologicamente
nell’accudimento materno, ma il valore della cura ha un significato simbo-
lico, che va astratto dal fatto concreto di essere donna e di essere madre,
va disincarnato dalla sessualità femminile. Semmai, più propriamente, si
dovrebbe sostituire alla distinzione femminile/maschile (in senso sessuale),
la distinzione femminino/mascolino (in senso simbolico), come del resto

tra bioetica femminista ed etica medica sul tema della cura: anche se la cura è intesa in modo diverso.
Alcune femministe, come visto, hanno assolutizzato il concetto.
       26 Vi è una riflessione bioetica non femminista sulla «cura», sviluppatasi nell’ambito dell’etica

medica: W.T. Reich, History of the Notion of Care, in W.T. Reich (ed), Encyclopedia of Bioethics, New
York 1995, I, p. 329; dello stesso autore, La bioetica negli Stati Uniti, in C. Viafora (ed), Vent’anni di
bioetica: idee, protagonisti, istituzioni, Padova 1990, pp. 172-174; F.W. Peabody, The Care of the Patient,
in J. Stoecke (ed), Encounters Between Patients and Doctors: an Anthology, Cambridge (MA) 1927;
E.J. Cassell, The Nature of Suffering and the Goals of Medicine, New York 1991; D. Callahan, What
Kind of Life. The Limits of Medical Progress, New York 1990; E.D. Pellegrino - D.C. Thomasma, Per
il bene del paziente, trad. it., Cinisello Balsamo (Milano) 1992.
       27 H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, trad. it., Torino

1990.
22                                           Laura Palazzani

aveva teorizzato originariamente C. Gilligan:28 al di là della differenza
fisica sessuale, ogni uomo (maschio o femmina) deve eticamente sforzarsi
di sviluppare la virtù della cura nei confronti dell’altro (e questo vale per la
donna rispetto al maschio, per l’adulto rispetto all’infante o all’anziano, per
il genitore rispetto al figlio, per il maestro rispetto all’allievo, per il medico
e l’infermiere rispetto al malato, e viceversa). Ogni uomo deve eticamente
rendersi disponibile ad ascoltare la voce «femminea» della cura.
      In questo senso la relazione (bio)etica di cura integra la relazione
(bio)giuridica di giustizia: se il diritto difende l’uguaglianza e la simme-
tria tra gli uomini, l’etica si occupa delle differenze e delle asimmetrie.
La bioetica va oltre il biodiritto, la cura oltrepassa la giustizia (non nel
senso di annullamento, ma nel senso hegeliano di inveramento): «prendersi
cura» dell’altro significa, oltre che rispettarne la dignità e tutelarne la vita,
assumere un atteggiamento virtuoso di responsabilità, di sollecitudine, di
aiuto nei confronti del più debole (che può essere l’anziano, l’individuo in
coma, il cerebroleso, chi è malato, chi soffre). La bioetica della cura offre
un prezioso contributo alla biogiuridica della giustizia nella misura in cui
sollecita all’accoglienza gratuita e disinteressata nei confronti dell’altro che
ha bisogno, senza pretendere nulla in cambio: cura assume il significato di
impegno solidale, di rispondenza ai bisogni.
      In questo senso, in riferimento alla questione bioetica di fine vita, non
è configurabile un diritto o dovere ‘di’ morire o ‘a’ morire, ma piuttosto un
diritto ad essere aiutati ‘nel’ morire. È legittimabile il diritto del paziente (a
prescindere dalla differenza sessuale) ad esigere un «accompagnamento»
dignitoso nel morire e il dovere del medico, degli operatori (e della famiglia)
di fare il possibile per aiutarlo a umanizzare (e non burocratizzare) la morte:
in questo senso il diritto difende la relazione terapeutica tra medico e paziente
(uomo o donna), opponendosi all’abbandono terapeutico. Bisogna recuperare
il significato relazionale e personale della morte, il senso del morire come
esperienza radicale di vulnerabilità dell’uomo, esperienza che proprio perché
tocca le radici dell’esistere imponendosi come paradigma della condizione
esistenziale, esige un rapporto di aiuto, di condivisione e di cura.

       28 Gli studi successivi al testo di C. Gilligan puntano l’attenzione sulla necessità di interpretare la

distinzione femminile e maschile in ambito etico in senso astratto rispetto alla differenza sessuale. Cfr.
C. Gilligan, On ‘In a Different Voice’, pp. 304-333.
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