Il desiderio delle origini - Istituto Aretusa

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Il Desiderio e i suoi Destini                                                5 Maggio 2018

                                     Il desiderio delle origini
                                             Giulio Bellavere

                                                                                Memento mori

Introduzione

Quello che ci proponiamo con questo lavoro, è cercare di indagare il processo melanconico
nell’ottica di un desiderio che non ha potuto esprimersi. Partendo dall’analisi di quelli che
possono essere considerati i principi della metapsicologia melanconica e facendo riferimento al
modello proposto da Lambotte [Lambotte, 1993], vorremmo arrivare a delineare quelle che sono
le caratteristiche del pensiero melanconico. In questo universo devitalizzato dove, ad un primo
sguardo, tempo e spazio sembrano occupati totalmente dal soggetto e dove non sembra esserci
spazio per l’Altro, se ci spostiamo più in profondità la situazione sembra in realtà capovolta.
Ci siamo chiesti se tutto fosse finito prima ancora di nascere, poiché da distante sembra così: un
vuoto infinito. Ma è facile confondere il pieno col vuoto e il vuoto col niente. Sembra una
stagnazione, una palude del pensiero. Ma basta osservare con attenzione, stare in questa palude,
per rendersi conto che siamo circondati da un desiderio ancestrale. Infatti, se consideriamo il
melanconico come occupato totalmente dall’Altro, un Altro incorporato secondo la
Bemächtigungstrieb freudiana [Freud, 1905, 1915], allora ci apparirà chiaro l’aspetto aggressivo e
vitale, in altre parole desiderante, del melanconico. È un desiderio antico, risalente alle prime
relazioni, vorace sotto ogni aspetto, grezzo e potente, un desiderio imprigionato, che vuole
nascere.
Nella prima parte prenderemo in considerazione quelli che sono gli aspetti metapsicologici della
melanconia, per poi avviarci all’analisi delle sue caratteristiche nella seconda parte, ed infine ci
occuperemo della possibile uscita dall’impasse melanconica.
Buona lettura.

1. La macchina melanconica

Nell’addentarci nella situazione melanconica, immediatamente abbiamo avuto la sensazione di
trovarci di fronte ad una macchina complessa con la tendenza ad essere perfetta. In questa prima
parte, vorremmo occuparci di quelli che sono i suoi ingranaggi, seguendo il modello proposto da
Lambotte [Lambotte, 1993]. Vorremmo quindi porre attenzione su quelli che possono essere
considerati i principi del funzionamento melanconico in una sorta di speculazione
metapsicologica, per poi partire alla ricerca del desiderio in questo particolare stato. Iniziamo il
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nostro viaggio steampunk psicoanalitico alla scoperta di quelli che sono i suoi meccanismi.

1.1 Di barriere e controlli

Analizzando la tipologia del discorso melanconico, divenuto oramai piatto, una prima
considerazione che Lambotte fa notare è il ruolo dell’attenzione. Quest’ultima sembra fissata al
mantenimento delle connessioni logiche tra le parti, probabilmente al fine di evitare il riaffiorare
dell’angoscia e del dolore, in altri termini, potremmo dire che essa è rivolta verso l’interno. Questo
cambio di direzione, impedisce il generarsi di un legame tra interno ed esterno, quindi l’evento
esterno non permette all’interno di esprimersi, poiché vi è il controllo invertito dell’attenzione.
Essa, come parte della difesa melanconica, va ad inibire il legame tra rappresentazioni di cosa e
di parola, scollegando queste due dimensioni [Lambotte, 1993].
Questa sorta di barriera, che esercita un controllo sulla traccia mnestica collegata alla parola,
applica una logica a posteriori, per evitare l’emergere dell’affetto. Nei casi in cui non fosse
possibile applicare tale caratteristica di logicità, il melanconico affermerà che il discorso è
incoerente. Ma i pensieri sfilano in modo automatico, la difficoltà nel controllarne il flusso è
costante, e già questo ci dà l’idea del costo che viene richiesto al melanconico per mantenere un
discorso monolitico [Lambotte, 1993].
A volte può accadere che l’attenzione si fissi su un particolare pensiero, favorendo l’uscita dallo
stato di letargia in cui il melanconico è immerso, salvo poi ritornarvi bruscamente. Janet chiamava
psicolessia [Janet, 1932], questo particolare stato di prostrazione psichica, cui fa seguito l’emergere
di un sentimento di vuoto. In altre parole, è come una bollicina che sale alla superficie in un lago
altrimenti piatto.
Riprendendo l’immagine della barriera e seguendo la prima topica, possiamo chiederci a che
livello si situa tale blocco. Se fosse tra preconscio e conscio, allora il preconscio si farebbe
invadere e sarebbe impegnato a neutralizzare le rappresentazioni di cosa, ricorrendo alla
circolarità logica che si riproduce costantemente. Tuttavia, secondo Lambotte, ci sarebbe
comunque qualcosa che sfugge, inoltre c’è già l’attenzione del conscio che tenta un simile
controllo, anche se in modo deficitario. Quindi, per completare il controllo, la barriera deve porsi
necessariamente tra inconscio e preconscio. Proprio su quel confine, infatti, il preconscio non
resisterebbe alla forza delle rappresentazioni di cosa e si farebbe invadere dalle loro connessioni
primarie. Inoltre, potrebbe accadere anche un movimento contrario delle rappresentazioni di
cosa, e cioè dal preconscio all’inconscio. Questo aprirebbe alla possibilità che pensieri complessi
possano essere fatti al di fuori della coscienza, e il soggetto resterebbe stupito quando essi
emergono. Quindi la coscienza verrebbe a configurarsi come una sorta di ricettacolo, esterno
rispetto alle percezioni, e interno rispetto a quei processi di pensiero inconsci che abbiamo
appena descritto, fatti cioè in modo inconsapevole [Lambotte, 1993].
Riassumendo, Lambotte individua nella rivolgimento dell’attenzione verso l’interno e nel
costituirsi di una barriera tra inconscio e preconscio, i primi ingranaggi della macchina
melanconica [Lambotte, 1993].

1.2 Di specchi e riflessi

Lo sguardo dell’Altro ha avuto ed ha un ruolo fondamentale nella vita di tutti noi, ma nella
macchina melanconica acquisisce un ruolo del tutto particolare. Infatti non c’è. Ma andiamo con
ordine. Secondo il nostro modello di riferimento, il melanconico non può avere un’immagine di
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sé poiché è occupata dalla madre, personaggio onnipotente che domina il bambino e lo tiene a
sé sfruttando la sua angoscia. Per poter trovare la sua dimensione, il bambino dovrà separarsi da
lei, trovando così il suo spazio e rompendo l’impasse del tutto o nulla [Lambotte, 1993].
Forse un po’ per sommi capi, potremmo dire che le famiglie con figli melanconici si
caratterizzano con una madre che trasmette sentimenti abbandono, colpa e aggressività, mentre
il padre comunica comprensione, protezione e rammarico per la situazione [Lambotte, 1993].
Arrivati a questo punto, per meglio comprendere il ruolo dell’Altro, è necessario fare una breve
digressione riguardo lo stadio dello specchio [Lacan, 1949]. Ciò che caratterizza la costituzione dello
specchio, dipende dalla qualità della partecipazione della madre agli scambi con il bambino
sottoforma degli sguardi, del sorriso, della voce, non meno importante è anche il luogo dove
avviene tale interazione. La successione di rimandi che la madre dà al bambino, permette la genesi
di una sorta di specchio ed il bambino si identifica con ciò che vi vede riflesso. Ora, grazie a
questo processo di assimilazione, che va al di là del puro aspetto cognitivo, poiché avviene su un
piano inconscio, il bambino cerca di aderire al riflesso così come ai bordi [Lambotte, 1993].
Questo, in accordo con quanto sosteneva Freud: “l’Io si trasforma così dall’Io-realtà [Real-Ich]
primordiale che ha distinto l’interno dall’esterno in base a un buon criterio obiettivo, in un Io-piacere allo stato
puro [purifiziertes Lust-Ich], che pone il carattere del piacere al di sopra di ogni altro” [Freud, 1915, p.31]. In
altre parole, il bambino introietta le fonti di piacere e proietta quelle di dispiacere, costituendo
così i suoi modelli inconsci. Inoltre, grazie allo specchio, il bambino in un primo tempo riconosce
la specie e si identifica, assimilando il volto della madre, grazie agli scambi fusionali con lei.
Successivamente si identificherà con il riflesso, e questo permette di giungere ad una
triangolazione e ad una relazione transitiva, in cui bambino vede e riconosce la madre e vede e
riconosce il riflesso dello specchio, che sarà così suscettibile di variazioni portate sia dalla madre
che dal bambino stesso [Lambotte, 1993].
Nel melanconico questo non avviene, o meglio avviene parzialmente, e da qui arriva la difficoltà
a percepirsi come corpo che occupa un certo spazio, proprio perché ha una visione parziale di
Sé.
Proseguendo nell’analisi del transitivismo che nasce dallo specchio, Lambotte sottolinea come,
da una parte, la transitività del bambino con il riflesso porterà ad una esteriorità in cui egli cercherà
il suo doppio. D’altro canto, la transitività della madre con il bambino, dà alla madre il compito
di catturare lo sguardo erratico del bambino e di riportarlo allo specchio. Questo processo può
avvenire se lo sguardo del bambino resta impregnato dell’imago materna, così come concepita da
Jung [Jung, 1911], cioè come modello inconscio di prototipi che orientano la percezione del
soggetto. Quindi nel transitivismo sono sempre presenti la forma generica, l’immagine speculare
ed il soggetto stesso. Esso può essere visto come opposto della proiezione, nel senso che
quest’ultima è un movimento centrifugo di espulsione, mentre il transitivismo risulta essere un
movimento centripeto, poiché il bambino partecipa all’esperienza altrui vedendola come propria,
poiché resta affascinato dallo sguardo dell’Altro [Lambotte, 1993]. In altre parole, è come se il
bambino chiedesse alla madre che gli porge lo specchio: “Quello sono io?” e in un primo tempo
gli venisse risposto: “Sì, sei tu”.
E nel melanconico, cosa è successo? Forse quello sguardo erratico non è stato catturato da
un’imago materna forte abbastanza, per tutta una serie di circostanze. Fatto sta che questo ha
portato ad una dissociazione del transitivismo, ad un vedere senza riconoscere, senza poter
riempire con l’affetto lo schema percettivo. Il blocco melanconico risiederebbe allora, proprio
nell’estraneità che egli prova quando tenta di far aderire alla cornice dello specchio, l’immagine
che l’Altro gli rimanda [Lambotte, 1993]. Ciò che vede riflesso non è ciò che è, come se già
sapesse che è un’illusione e che non vale la pena prendervi parte.
Seguendo questa ipotesi della defaillance dell’imago materna, non si genera lo scambio, poiché lo
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sguardo che era indirizzato al bambino si perde all’infinito, anche se egli cercherà di catturare
comunque ciò che l’ha attraversato. In altre parole, “se il volto della madre non risponde, allora uno
specchio sarà una cosa da guardare ma non una cosa in cui guardare” quindi “la percezione prende il posto di
ciò che avrebbe potuto essere l’inizio di uno scambio significativo con il mondo” [Winnicott, 1971, pp.189-191
parz. mod. in Lambotte, 1993]. È come se il bambino sondasse il volto del genitore, alla ricerca
di un indizio che risponda alla domanda “chi sono io?” non trovando risposta, non trovando
confine, si espandono il vuoto ed il nulla. Questo costituisce terreno fertile per lo sviluppo di
pulsioni di morte prive di ogni legame libidico. “So già che non esiste” “so già che è un’illusione”
“la verità è che è tutto finto”: è questa la frattura precoce dell’esistenza in cui è incorso il
melanconico, il prezzo dell’essere venuto in contatto troppo presto con la verità [Freud, 1915]. Il
ricordo di quelle prime relazioni deficitarie va a costituire il presente stereotipato del melanconico,
il senso del tempo viene perso, e passato e presente si fondono in un’unica dimensione [Lambotte,
1993]. Immaginate di vivere nella città che vi ha visti nascere, sempre nello stesso posto,
camminate per le strade ed i luoghi che vi hanno visti crescere, sempre gli stessi, e venite invasi
da immagini di voi stessi, da ciò che chiamereste ricordi, ma non riuscite a dare una prospettiva
temporale, per quanto vi riguarda è come se fossero avvenuti ieri, oppure sta succedendo proprio
adesso, ed invece sono passati anni: questa è la superficie dell’universo melanconico. In una
situazione del genere, l’evitamento è una strategia che si è sviluppata precocemente, e
sembrerebbe che il desiderio non si sia potuto sviluppare poiché non c’è stato l’investimento
necessario. Riassumendo, “in mancanza di un’immagine speculare sufficientemente investita, il melanconico
si sforzerebbe di ovviare a questo difetto di illusione o di immaginario – e per ciò stesso di desiderio – negando
vigorosamente tutto ciò che gli potrebbe sembrare abbaglio e menzogna di fronte ad una verità incontrata troppo
presto: quella della irriducibile finzione che definisce il soggetto” [Lambotte, 1993, p.245]. Ma è proprio
così?
Ritorniamo a quello sguardo materno che l’ha attraversato, analizzando un altro ingranaggio della
macchina melanconica. Lambotte ipotizza che nel riflesso dello specchio il bambino non abbia
visto Sé stesso, ma il volto della madre [Lambotte, 1993]. Tuttavia, non perdendosi d’animo e
lottando per la vita, il bambino ha cercato di intercettare lo sguardo materno in tutti i modi, al
fine di ricevere un qualche riconoscimento. Ma la ricerca sembra non avere mai fine, ogni
seduzione è stroncata sul nascere, per quanto egli faccia non sarà mai abbastanza, quindi sarà
costretto a introiettare un ideale irraggiungibile. In questo modo l’Ideale dell’Io viene a occupare la
scena del rapporto con l’Altro, e se questo preserva il melanconico dalla disintegrazione, lo porta
altresì ad evitare il mondo, negando e svalutando la realtà, impedendo ogni altro investimento
immaginario su di sé [Lambotte, 1993]. Continuando nella speculazione metapsicologica,
Lambotte ipotizza che l’Ideale dell’Io melanconico, sia costituito in parte dal SuperIo ancestrale arcaico
materno, coincidente con l’imago materna, dall’altra dal SuperIo transgenerazionale, che si traduce in un
sentimento di colpa del melanconico per essere un individuo eccezionale, nel senso che non si
omologa con il mondo [Lambotte, 1993]. Va da sé che l’identificazione con un Io Ideale maturo
non è possibile, a causa proprio della forza dell’Ideale dell’Io più primitivo e mai abbandonato.
Quest’ultimo, è così forte che il melanconico lo trasferisce sull’Altro, al fine di potersene
riappropriare e di ricostruire lo specchio, ma ciò non potrà mai avvenire, l’ideale è irraggiungibile
non può corrispondere con ciò che l’Altro gli rimanda, quindi seguirà un disinvestimento, il
melanconico si sentirà tradito, deluso e rassegnato, in una logica del tutto o niente [Lambotte,
1993]. La cosa è paradossale, ma forse non tanto, in quanto il tradimento è stato costruito ad arte
proprio dal melanconico stesso, al fine di far ricadere la colpa sull’Altro e non su di Sé, perché
non potrebbe sopportare il tradimento dell’ideale. In altre parole, è come se egli chiedesse alla
folla: “Voi, chi dite che io sia?”, ben sapendo che nessuna risposta sarà quella giusta, ma la folla
gli risponde ugualmente con varie voci, allora lui stizzito dirà che nessuno di loro ha capito
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veramente la sua natura, e potrà affermare che il mondo l’ha deluso, in quanto nessun rimando è
quello vero.
Lo sguardo trasparente che lo ha attraversato, ha portato al melanconico l’eredità di quel punto
all’infinito che spalanca il vuoto dentro di Sé e al quale egli cercherà di aderirvi per recuperare
l’immagine, ma questo riconoscimento non avverrà mai. Accanto alla costruzione del tradimento,
di cui egli si compiace, il melanconico comunque nelle relazioni sarà incline ad un intenso
attaccamento, con una facilità alla rottura [Lambotte, 1993]. In altre parole, è come se chiedesse
all’Altro: “Sei tu la persona che mi riconoscerà?” ma si risponde già: “No, non sei tu”.
Il bambino melanconico sa chi ha perso, ma non cosa ha perso. Ed è proprio questo ciò che gli
fa dire: “non posso amare gli altri; devo odiarli” [Lambotte, 1993, p.262]. Ma se quest’odio fosse
desiderio?

2. La macchina per desiderare desideri

Studiando questo stato dell’esistenza, ci immaginiamo la condizione melanconica come quella
della cellula staminale indifferenziata totipotente. Infatti, la melanconia può essere rappresentata
come una sorta di simbolo del caos, nel quale da un’origine si dipartono un numero infinito di
vettori, ciascuno dotato di direzione, verso, intensità propri. Ci sembra che la melanconia solo in
superficie sia quel lago piatto, e che nelle sue profondità si agitino creature di ogni sorta.
Seguendo quindi la prospettiva proposta da Lambotte, ci avventuriamo oltre i confini dello
specchio per dare uno sguardo al mondo prespeculare. Riprendiamo le fila partendo
dall’oscillazione melanconica, dove ad un estremo del pendolo troviamo un ritiro assoluto, e
all’altro estremo troviamo un adeguamento all’Ideale dell’Io piuttosto rigido che il melanconico
chiede all’oggetto esterno investito [Lambotte, 1993].

2.1 Di cornici labili

La successione di rotture identitarie cui il melanconico si sottopone al fine di far aderire l’Altro
al suo ideale, non fanno altro che nutrire l’Ideale dell’Io a spese di un Io Ideale latitante. Si può
aggiungere che l’oggetto esterno sia del tutto irrilevante, ciò che conta è il modello, cioè l’intera
struttura. Sembra che il tentativo del melanconico sia quello di appropriarsi dei tratti altrui,
cercando di farli aderire al modello, tuttavia egli è conscio dell’artificiosità di tale processo che
porterà inevitabilmente alla rottura del legame. Secondo Lambotte, è ipotizzabile che alla base
della melanconia non vi sia un lutto, ma un blanc [Green et Donnet, 1973], un vuoto, una
trasparenza [Lambotte, 1993]. Kraus sottolinea come il melanconico tenti di soddisfare in toto i
bisogni dell’Altro evitando così trovare la sua identità e legittimando l’Altro a trovargliene una
[Kraus, 1969].
Talvolta ironico, spesso sarcastico verso l’insignificanza della vita, ma anche convenzionale e
conformista, in quanto potrebbe adottare la morale come sua identità, il melanconico in questo
modo invalida ogni tentativo diretto verso il mondo [Lambotte, 1993].
Tellenbach parla di ordine melanconico, come difesa estrema verso ogni forma di colpevolizzazione
e di conflitto, tesa a sedare ogni tentativo di perturbazione dell’ambiente interno, una sorta di
immagine posticcia di Sé [Tellenbach, 1979]. Tuttavia, più che ad una immagine di Sé, sembra di
essere di fronte ad un vero e proprio palco scenografico, mutaforma e caleidoscopico, che
sottende l’assenza di forma del soggetto e che può essere mantenuto a lungo prima che inizi a
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crollare e a rivelare parti dell’ambiente interno che mistificava [Lambotte, 1993]. Il melanconico
pesca dall’Altro e dà così forma ad una sorta di personaggio compiacente, simile ad un fluido che
prende la forma di ciò che lo contiene. Sotto l’apparente calma della razionalizzazione, si
nasconde il caos dei pensieri che soffiano come venti impetuosi sul nulla della coscienza, dando
così l’immagine spaventosa di soggetti che “sembrano brillare agli occhi del mondo, con la morte
nell’anima” [Lambotte, 1993 p.271].
Sempre a proposito della labilità della cornice melanconica, Rehm evidenzia l’aspetto di una doppia
vita mentale del soggetto, necessaria per non cadere nel vuoto del fuori cornice [Rehm, 1926].
Quindi, se l’assenza di cornice coincide con il sentimento di vuoto cui si accompagna, allora
potremmo essere di fronte a ciò che Gebsattel chiamava derealizzazione [Gebsattel, 1937]. In altre
parole, il melanconico avverte il vuoto del mondo, ma senza perdersi completamente riesce a
mantenere la sua non-struttura, provando sentimenti di impotenza e disaffezione, trovandosi
costretto a mantenere rapporti formali con gli oggetti. Come conseguenza ulteriore, egli avverte
un sentimento di estraneità che porta alla sua caratteristica inibizione generalizzata [Lambotte, 1993].

2.2 L’essenza del vuoto e la sostituzione infinita dell’oggetto

Soffermiamoci su questo sentimento di vuoto più nel dettaglio. È possibile intravvedere una
ciclicità tra desiderio e vuoto, cioè possiamo essere in presenza di un desiderio abbastanza forte
da mobilitare e dirigere energie, sottraendole dall’incessante lavorio del pensiero per mantenere
lo status quo, ma dietro l’angolo sarà presente l’inevitabile ritorno al vuoto. Ora, questo non è
percepito come esperienza prolungata, ma la sensazione che descrive la persona è quella di essere
abitato da un vuoto, che porta alla perdita di cornice. Il mondo resta tal quale, ciò che entra è
l’estraneità, distanza incolmabile dal mondo, l’”essere di troppo”, l’”essere fuori posto”, tutto si
livella e, ricollegandoci a quanto detto nella prima parte, il conscio diventa il teatro delle tracce
mnestiche (rappresentazioni di cosa) slegate dalle rappresentazioni di parola [Lambotte, 1993].
Ma cosa c’è sotto il vuoto? Lambotte distingue la situazione depressiva, quindi più sul versante
nevrotico, da quella melanconica. Nella prima, infatti, il vuoto rappresenterebbe una sorta di
risoluzione che determina un’insensibilità temporanea nel soggetto e lo protegge dal lavoro del
lutto, che prima o poi si vedrà costretto a compiere. Nella situazione depressiva, è possibile
arrivare a riconoscere ciò che si è perso e che ha causato la temporanea amnesia. Nella melanconia
invece, il vuoto non copre un buco, ma copre il niente, perché la perdita è originaria, staccata da
ogni identificazione, e questo niente è il risultato di un disimpasto pulsionale mortifero. Poiché
l’Altro è assente, il desiderio si proietta all’infinito, ecco quindi il difetto di desiderio cui è stato
esposto il melanconico, in un tempo prespeculare. Sguardo non guardante, senza affetto, non-
desiderio, nella melanconia non è stato possibile instaurare l’illusione del gioco delle parti
[Lambotte, 1993].
Arriviamo quindi ad un’altra caratteristica della macchina melanconica. In Pulsioni e loro destini
[Freud, 1915], Freud descriveva le tre polarità della vita psichica, che sono: Soggetto (Io) –
Oggetto (mondo esterno), Piacere – Dispiacere, Attivo – Passivo. Nella melanconia, assistiamo
ad un malfunzionamento di questo circuito, poiché il melanconico non ha potuto discernere gli
oggetti piacevoli, introiettandoli, da quelli spiacevoli, proiettandoli, quindi l’Io melanconico
respinge gli oggetti a priori: questo è il piacere del melanconico. Gli oggetti restano in un’area di
indifferenza, non di indifferenziazione, per cui il melanconico non può arrivare a costituire un
universo di valori e a provare sentimenti di amore ed odio. Quindi non è che egli sia privo di
oggetti, solo non ha avuto a disposizione una presenza desiderante che lo seducesse alla vita, e
così ha dovuto imparare a padroneggiare il suo eccitamento troppo presto [Lambotte, 1993].
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Winnicott sottolinea come il bambino si sia trovato costretto ad effettuare un controllo interno
troppo precoce. Il SuperIo arcaico si sarebbe così formato sulla base di relazioni materne
connotate da sentimenti di aggressività e indifferenza [Winnicott, 1965].

2.3 L’ultimo filo di seta

Dal vuoto al niente e dal niente alla morte, il passo è breve, e possiamo chiederci se il melanconico
abbia paura della morte. A quanto sembra, un po’ di paura sembra avercela. Infatti, oltre la
scomparsa degli affetti, oltre il negativismo sistematico, si consuma la lotta mortale con l’oggetto
interno. “O lei (la madre) o io” sembra dire il melanconico, mentre l’Ideale dell’Io annienta il
desiderio e le identificazioni. In questa prospettiva sembrerebbe che sia il crollo ad assumere il
ruolo del desiderio, poiché comporterebbe la morte dell’Altro, in questo modo la dismisura
verrebbe punita sotto la mano di Nemesi guidata dal Destino. Continuando nella nostra ricerca
del desiderio nella melanconia, possiamo vedere come questo non sia assente, ma grezzo e
primitivo esercitato direttamente sulla realtà in un solipsistico piacere senza l’Altro, come un
bambino nella sua onnipotenza. L’Io Ideale del soggetto non può nascere, poiché fuso con l’Ideale
dell’Io esterno ed onnipotente [Lambotte, 1993]. Prendendo spunto da quanto detto da Winnicott
[Winnicott, 1963], si può vedere come togliendo le difese del negativismo e del Falso Sé,
regredendo quindi ad un tempo prespeculare, ciò che resta è solo la fine, cioè la morte, il suicidio
[Lambotte, 1993].
Questo può avvenire quando l’elaborazione difensiva inizia a cedere. Infatti, sappiamo che il
soggetto melanconico è piuttosto abile nell’esercizio della logica: se questa propende verso una
difesa, allora il melanconico tenderà a vedere nella figura del Destino l’acquietamento delle sue
ansie e del pensiero. Tuttavia, se l’elaborazione difensiva è troppo esigente, quella stessa logica
potrebbe propendere verso il suicidio, come atto di negazione estrema nella manifestazione del
niente. Anche in questo caso si arriverebbe ad un acquietamento del pensiero, e quindi la logica
sarebbe comunque rispettata [Lambotte, 1993].
Secondo Lambotte, nel melanconico è già avvenuta una prima morte senza origine e senza
oggetto, un blanc [Green et Donnet, 1973], poiché ciò che doveva avvenire non è avvenuto, ed il
soggetto ignora cosa sia. “Io non sono niente” [Lambotte, 1993, p.313], ripete il melanconico, e
questo lo pone in quel regime di sostituzione infinita d’oggetto vista precedentemente, senza
soluzione di continuità [Lambotte, 1993]. Per Fedida, il crollo nel melanconico è già avvenuto,
siamo oltre il vuoto, ma al tempo stesso il lutto viene invocato proprio per uscire dal vuoto, ma
per far sì che avvenga è necessaria la morte [Fedida, 1975, 1978]. “Le cose stanno proprio così […] la
perfezione non esiste, la verità nemmeno, il senso nemmeno etc. Ad ogni modo è la morte a presentarsi come l’unica
cosa certa. Dunque non vale più la pena cercare, né fare qualsiasi cosa” [Lambotte, 1993, p. 313].
In Caducità [Freud, 1915], Freud analizza i comportamenti delle persone di fronte all’ineluttabilità
della morte, individuando due principali tipi di reazioni: chi la vive come un lutto anticipato, e chi
con una reazione contraria, apprezza ancora di più la vita. Lambotte individua un terza via, quella
melanconica, che attraverso un lutto anticipato mette in atto l’effimero, anche la modalità
suicidaria scelta è significativa: la defenestrazione, proprio come rappresentazione dell’andare
oltre la cornice, per ricongiungersi con lo sguardo [Lambotte, 1993].
Il melanconico è nella forma simbolica dell’affermazione della negazione che, come abbiamo già
detto, è il risultato dell’essere stato esposto troppo precocemente alla verità, l’ha vista troppo da
vicino, cancellando così l’oggetto del desiderio. Tramite l’intervento di una potenza esterna,
l’Ideale dell’Io appartenente alla famiglia, il bambino riceve un’origine mitica che lo aliena per
sempre dalla società, una castrazione, Destino ineluttabile che non permette l’origine personale.
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Ed è proprio con questo Destino che il melanconico costruisce un potente significante che
preserva lo spazio del niente, mantenendo la coerenza del discorso, ultimo baluardo del mancato
riconoscimento da parte di un Altro dallo sguardo trasparente [Lambotte, 1993].
Tuttavia, questo buco nello psichismo, è un buco scavante che mobilita energia libidica anche se
senza oggetto, poiché quest’ultimo si è suicidato. Il tutto sembra ridursi ad una ripetizione del
trauma che afferma la negazione nel ruolo del niente [Lambotte, 1993]. Tuttavia, in questo buco
scavante non vi è la fine di tutto, ma una grande mobilitazione di energia, e perciò stesso di
desiderio appeso a quest’ultimo filo di seta. Come i buchi neri attraggono tutto a sé, anche la luce,
così il niente del melanconico è assimilabile ad una enorme bocca che inghiotte intere stelle.

2.4 Tra bordi evanescenti, niente e desiderio, emerge l’Eterno

Il melanconico si identifica in modo primitivo, tramite l’incorporazione, con il niente: lui è niente,
lui non ha niente. Non ha potuto mettersi in una relazione desiderante con l’Altro e, avendo
sperimentato troppo precocemente l’inganno dell’intersoggettività, non gli resta che agire il
niente. Egli sembra muoversi in un continuum, dove ad un estremo abbiamo il polo più isterico,
dove il vuoto d’amore viene portato in scena, mentre all’altro lato abbiamo il polo più
strettamente melanconico, che contiene ciò che resiste alla scena. Lo scopo di questa architettura
è quello di espellere l’angoscia. L’Ideale dell’Io, formato dalla cornice materna, quello sguardo
trasparente, si sovrappone all’Io ideale il vuoto che la cornice racchiude, l’immagine speculare senza
un abbozzo di immagine reale. Il melanconico non si dibatte contro il vuoto, poiché sa che i bordi
che temporaneamente lo racchiudono potrebbero cancellarsi ad ogni istante [Lambotte, 1993].
Ma cos’è questo niente che il vuoto copre? Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un
ingranaggio della complessa macchina melanconica. Ad un primo livello troviamo gli oggetti, le
cose, che per il melanconico coprono il niente sotteso ad ogni oggetto, che costituisce il secondo
livello. Al terzo livello, troviamo la summa di questi niente parziali, cioè il niente nella sua essenza,
e da qui ritorniamo al primo livello, che comporta il passare all’atto per far scomparire tutto ciò
che non è niente. Questo niente si può configurare come astratto nella sua forma negativa, quindi
sottoforma di concetto; oppure nella forma positiva porta al suicidio, quindi all’atto, ma questo
fa sì che venga a mancare chi pensava il niente, quindi ad altri sarà affidato il compito di pensarlo
e di trovare una strategia, ma questo porta alla conclusione che il niente non può essere non
pensato, quindi forse è meglio restare vivi e pensare al niente [Lambotte, 1993].
A questo punto il melanconico potrebbe dire “io non sono niente”, lasciando aperta la possibilità
al fatto che forse avrebbe potuto essere qualcosa, restando quindi all’interno della cornice; oppure
potrebbe dire “io sono niente”, ed in questo caso assumere l’identità del niente, ponendosi così
al di fuori della cornice. Lambotte mette in evidenza come il melanconico alterni fasi apatiche, in
cui è chiuso in Sé, a fasi proiettive, nelle quali investe l’Altro con il suo Ideale dell’Io, ripetendo la sua
prima morte. Sembrerebbe quindi che non vi sia spazio per il desiderio, o meglio che questo
venga confuso con il godimento puramente fisico e quasi autistico, senza che vi sia un Altro. Il
melanconico sembra dire che non desidera più niente, ma se così fosse, c’è stato un tempo in cui
desiderava? [Lambotte, 1993]. Lasciamo in sospensione il quesito per il momento.
Quindi, all’interno della cornice melanconica prende posto un reale disinvestito, all’interno del
quale il desiderio ha i suoi oggetti di investimento. Fuori dalla cornice, oltre il limite, il
melanconico potrebbe arrivare ad avere godimento e desiderio “veri” suoi, ma c’è il rischio di
trovare la morte; altra opzione potrebbe essere quella di restare ad osservare, nel vuoto della
siderazione del fuori cornice. Le due ultime prospettive, risultano essere molto più allettanti per
il melanconico, e possono essere poste agli estremi di un continuum [Lambotte, 1993].
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Escludendo quindi l’interno della cornice, il melanconico spazia tra la morte che potrebbe
derivare dal desiderio ed il restare a guardare da nessun punto, l’intero universo.
Cerchiamo di vedere più nel dettaglio come si è originato il buco scavante e da cosa è costituito.
Ritorniamo alle prime fasi di vita del bambino, lo specchio non si è ancora costituito e nel
bambino nasce un timido desiderio che si protende verso la madre. Tuttavia, proprio quando il
desiderio sta per raggiungere la madre, questa scompare e il bambino si ritrova ad affrontare la
carica di ritorno del desiderio che originerà il buco scavante, quel niente ricoperto dal vuoto.
L’Altro è ridotto ad occhi persi nell’infinito che esercitano solo la loro funzione e rimandano ad
una siderazione, occhi disabitati ad estranei che riflettono solo gli occhi di chi guarda. Quindi
“non vale la pena fare alcunché, poiché è veramente così” [Lambotte, 1993, p.375]. In altri termini, Lacan
parla di suicidio dell’oggetto, Freud parla di inibizione [Freud, 1925], fatto sta che nel melanconico il
desiderio è stato ucciso nel momento stesso in cui è nato. Si potrebbe ipotizzare che sia avvenuto
un trauma, ma Lambotte non concorda con questa soluzione, in quanto ciò di cui stiamo parlando
è avvenuto troppo precocemente ed il soggetto non aveva ancora identificato il suo oggetto
d’amore, quindi non poteva avere coscienza di ciò che stava accadendo. L’accento va posto più
sul processo che sull’oggetto in sé, e questo ha come conseguenza la rinuncia preventiva ed
inconscia ad ogni investimento, attraverso la modalità dell’espulsione [Freud, 1925].
L’inibizione generalizzata cui va incontro il melanconico, è frutto della scomparsa dell’Altro unita
al ritorno del desiderio. Al soggetto non resta quindi che occupare il posto del niente lasciato
dall’Altro, al fine di placare l’angoscia, ma questo negare la mancanza porta alla costituzione di
una rete di inganni e falsità. Con grande impegno di energie per mantenere lo status quo,
coprendo con il velo dell’illusione del vuoto il niente che lo sottende, il melanconico tenta così
una soluzione tra le più pericolose, poiché basta spostarsi un attimo, uscire dai bordi del velo, e
quell’angoscia arriva e con essa il rischio del passaggio all’atto. Dietro lo specchio giacciono le
riposte al niente, quelle stesse risposte che sottendono al ritorno alla morte, verità cui egli si è
così pericolosamente avvicinato. L’incapacità del melanconico di designare il suo oggetto del
desiderio, lo porta a vivere una frattura tra il godimento immaginario e l’opacità del godimento
reale [Lambotte, 1993].
Una soluzione potrebbe essere che un Altro riconosca l’immagine illusoria che egli si è costruito,
e la desideri, in questo modo potrebbe esserci seduzione alla vita, ed i processi identificatori
potrebbero giungere al loro sviluppo. Ma non è detto che ciò si verifichi.
Nel frattempo è necessario trovare un modo per restare nel fuori cornice senza morire. Al nostro
melanconico non mancano certo le idee, e la soluzione migliore è rappresentata da una figura
incappucciata che regge un libro, al quale è incatenata, un libro nel quale vi è scritta ogni cosa:
passato, presente e futuro di ogni essere vivente e dell’universo stesso. Ecco quindi che il ricorso
al Destino, al quale il melanconico arriva dal vuoto e dalla cavitazione del desiderio, costituisce la
formazione perfetta, cristallizzata, limpida e chiara che lo ripara dal niente senza nome. In questo
modo, egli non sarà mai esposto alla frustrazione del desiderio irraggiungibile, all’imperfezione
opaca del controllo, al fallimento della comunicazione. Nel presente egli investirà ogni singola
goccia di energia desiderante per mantenere lontano da Sé quel niente senza nome incorporato
originalmente, attraverso la sofisticazione del ragionamento e della logica. Il Destino determina
un solo rapporto assoluto con il mondo, che pone il melanconico in un vertice al di fuori della
catena dei lutti che caratterizza ogni scelta di vita. Niente vale la pena. In questo modo si
concretizza il mancato incontro con il mondo, poiché in questo modo il reale è totalmente
coincidente con la castrazione del desiderio, in una sostituzione infinita d’oggetto [Lambotte,
1993]. Il melanconico ha così costruito il suo nastro di Möbius.

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3. Faccia a faccia con il drago

In questa terza parte, vorremmo riprendere gli elementi che costituiscono il nucleo melanconico,
vale a dire l’affermazione del niente, la difesa del negativismo e il tema della morte, per cercare
di mettere in luce l’aspetto distruttivo di una tale organizzazione psichica. Thanatos è la quota
maggiore di ciò che resta da un probabile disimpasto pulsionale, quindi poco embricato ad Eros, ma
è proprio su quella poca Pulsione di Vita che può costituire una speranza. Il melanconico chiede
all’Altro di contenere la sua distruttività, e se si riesce a far questo, se anche quando egli ha raso
al suolo ogni cosa l’Altro è ancora lì, allora forse quella distruttività verso uno sguardo trasparente,
può trasformarsi in aggressività verso uno sguardo che lo riconosce, e quindi sarà possibile il
lavoro del lutto. Ma di questo ci occuperemo nell’ultima parte, per il momento l’unica cosa da
fare è scendere nell’abisso.

3.1 Negare per esistere

Secondo Lambotte, il melanconico è in uno stato regressivo nel quale la libido è legata
all’espulsione, mentre l’Io è fermo ad un livello narcisistico [Lambotte, 1993]. In questo stato
arcaico, primitivo, nato quando è scomparso il desiderio dell’Altro, affermare il niente diventa
affermare l’identità, proprio perché “senza identificazione niente immagine” [Lambotte, 1993, p.405].
Il melanconico nega per proteggersi, nega per difendersi e il desiderio è sospeso tra la negazione
e il Destino, in un’area pretraumatica, chiamata così proprio perché il bambino non ha ancora
potuto riconoscere l’Altro [Lambotte, 1993]. Riprendendo quanto afferma James se, nei primi
mesi, avviene una iperstimolazione dell’apparato sensoriale, le tracce mnestiche possono essere
eccedenti e senza scarica graduale, poiché l’apparato psichico in formazione non ha tenuta [James,
1960]. Questo porta come conseguenza che, nell’area pretraumatica, l’Io rifiuta gli oggetti del
mondo senza esaminarli, in risposta ad un ambiente ostile, molto ricco di pulsioni di morte
[Lambotte, 1993].
Ci si potrebbe chiedere se con l’affermazione del niente, siamo di fronte ad un delirio di
negazione. A questo proposito, Cotard [Cotard, 1884] fa coincidere il delirio di negazione con
l’intera prospettiva melanconica, quindi come sintomo primario; mentre Séglas [Seglas, 1897] lo
configura più come un passaggio verso la cronicità, un sintomo secondario in risposta ai ripetuti
attacchi all’emozione e alla volontà. Invece Resnik, seguendo la prospettiva kleiniana, lo vede
come una perdita di confine interno/esterno a causa di una eccessiva proiezione/introiezione
[Resnik, 1970].
Altro aspetto importante è che, nella storia dei soggetti melanconici, spesso emerge l’evento o gli
eventi che essi stessi identificano e configurano come traumatici, e scatenanti il loro stato. Questo
potrebbe essere un punto di partenza, in quanto possiamo pensarli inseriti in un registro del lutto
e quindi suscettibili di elaborazione, ma non dobbiamo altresì dimenticarci che costituiscono una
sorta di “trauma di copertura”, frutto anche questo dell’immenso sforzo che fa il melanconico
per mantenere l’universo devitalizzato sotto la rigidità della logica formale [Lambotte, 1993].

3.2 La sfumatura del negativismo

Lambotte parla di negativismo, più che di negazione, proprio per indicare una sorta di
atteggiamento esistenziale, nel quale il melanconico respinge ogni investimento giocando la carta
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del Destino, evidenziando come una qualsivoglia azione verso il mondo sia inutile, rispetto alla
Verità che egli ha intravisto. Per contro, egli ricorre ad una identificazione narcisistica con l’Altro
nel quale però si smarrisce. Questo “No” verso l’Altro e verso Sé stesso, in una opposizione
permanente, è un “No” verso il desiderio stesso, nel quale il melanconico manifesta tutta la sua
aggressività, verso quel periodo nel quale ha provato ad incontrare l’Altro, ma è morto la prima
volta [Lambotte, 1993].
Riassumendo, l’Io derealizzato del melanconico, retto dal niente e caratterizzato dall’indifferenza,
unito al negativismo a fargli da confine e a costituire una pelle contro la catastrofe originaria, fa
sì che il soggetto possa prendere distanza da Sé stesso e dal mondo, devitalizzandolo e rendendolo
meccanico e logico [Lambotte, 1993]. Quella stessa distanza è ciò che lo preserva dal suicidio,
mantenendolo in vita perché ha incorporato l’Altro scomparso. Masselon [Masselon, 1906] parla
proprio di derealizzazione melanconica, intendendo la perdita progressiva di interesse e curiosità per
il mondo, tuttavia senza dissociazione dell’Io [Lambotte, 1993].
Disperso in un limbo tra due morti, il melanconico ha trovato il suo stare. Infatti, se è già morto
non può morire, ma dietro al niente e al negativismo è possibile vedere all’opera la Pulsione di
Morte. Il negativismo, tramite l’anticipazione, preserva il melanconico dalla scomparsa degli oggetti
(“tanto prima o poi doveva succedere”), ma lo preserva anche dalla inevitabile perdita
dell’investimento dell’Io (“questa volta non sarà diversa dalle altre”).
Freud, identifica la Pulsione di Vita [Freud, 1920] come la tensione a unire differenti unità in sistemi
complessi, portando ad un aumento dell’entropia all’interno del sistema; mentre la Pulsione di
Morte [Freud, 1920] è la tendenza a disgregare le unità fino a renderle sistemi semplici in equilibrio
con l’ambiente, un abbassamento di tensione che fa aumentare l’entalpia all’interno del sistema.
Ora, ciò che chiamiamo vita, è dato dall’impasto di queste due pulsioni, mentre la morte è data
dal disimpasto di queste forze [Lambotte, 1993]. Ci si potrebbe chiedere in che rapporto stanno
all’interno della situazione melanconica, e lo vedremo meglio quando parleremo di émprise, quello
che ci interessa al momento, è far notare che è presente una certa quota di Pulsione di Vita.
A questo punto, si aprono al melanconico due strade: cedere all’autodistruzione, attuando il
disimpasto pulsionale, aggredendo così l’oggetto incorporato; oppure attuare l’impasto
pulsionale ed espellere l’oggetto incorporato [Lambotte, 1993]. In entrambi i casi, significherebbe
attuare la seconda morte, reale o meno che sia, ed uscire così dal limbo. In questo modo, il ricorso
alla teoria pulsionale, ci ha permesso di evidenziare come al di là della palude melanconica, vi sia
una seppur minima quantità di Pulsione di Vita, che combinata con una maggiore quota di Pulsione
di Morte, mantiene sì la stagnazione e lo status quo, ma anche in vita il soggetto stesso.
Più nel dettaglio, potremmo dire che quella Pulsione di Vita è costituita proprio dal desiderio
svanito [Lambotte, 1993], e questo sarà il punto di partenza per lo sblocco e l’uscita dall’impasse
melanconica. In altri termini, Thanatos, non proiettato esternamente e non sufficientemente legato
ad Eros, lo ha messo al suo servizio nella ripetizione autoerotica dell’autodistruzione. Ostow
sottolinea come un insufficiente investimento nell’Io da parte di Eros, porti ad un aumento
incontrollato della Pulsione di Morte [Ostow, 1960]. L’Io melanconico regredito, è costituito da un
polo di sensazioni a cui l’oggetto esterno verrebbe o meno assimilato, a seconda che incontri o
meno tratti in comune con l’Ideale dell’Io. Quindi, il narcisismo nella melanconia si configura come
una cosa a sé stante, slegata dalla vita psichica: un amore primitivo per Sé stessi. [Lambotte, 1993].
Se da una parte abbiamo il negativismo generalizzato per evitare la catastrofe originaria, dall’altra
avremo la ricerca compulsiva dell’oggetto per ricavarne una pseudoidentità, anche se legata
all’Ideale dell’Io, ma comunque sufficiente a deviare un po’ dalla Pulsione di Morte: queste sono le
due risposte che il melanconico dà all’inganno della verità [Lambotte, 1993].
Il melanconico non è estraneo al desiderio, infatti egli fu chiamato a quest’ultimo anche se per
poco, e questo gli ha impedito di cadere preda dell’autismo e del ritiro definitivo dal mondo.
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L’autoesclusione dal mondo costituisce per lui una difesa primitiva quando quest’ultimo si fa
insostenibile per lui, è come se potesse tollerare solo quantità infinitesimali di desiderio. “Se
l’Altro è scomparso, posso scomparire anch’io”, sembra dire, mentre emerge tutta la vendetta e
l’aggressività verso un oggetto colpevole di tradimento, tuttavia evidenziando la quota di
desiderio propria del soggetto stesso; ma l’altra domanda cruciale sembra essere: “se scompaio,
proverai Amore per me?”, ed ecco esplicitata la ricerca continua della sua identità, attraverso la
ripetizione della stereotipia nel gioco del tradimento. La scomparsa dell’oggetto coincide con la
scomparsa del soggetto, quindi il melanconico si trova costretto ancora una volta a difendersi
dall’angoscia, tenendo l’Altro distante con la logica, restando quindi sulla soglia del desiderio.
L’assenza dell’oggetto si fa morte, che fa svanire il desiderio ed è con questo niente del desiderio
che il melanconico si identifica. Bersani sottolinea l’aspetto del tradimento melanconico, usando
i termini di autoesclusione e autodistacco, per indicare ancora in modo più marcato il prezzo della
sofferenza pagato dall’Altro per sostenere l’identità del melanconico [Bersani, 1984]. Più che di
fronte ad un comportamento melanconico, siamo di fronte ad uno stato esistenziale contro
l’illusione e l’inganno dell’incontro con l’Altro, e forse, come diceva Freud in Lutto e melanconia
[Freud, 1915], la melanconia è proprio la malattia della verità, verità che egli coglie con maggior
acutezza [Lambotte, 1993].

3.3 Vivere la morte

Come abbiamo già detto, il melanconico vive ciò che possiamo chiamare una morte narcisistica
nello spazio tra due morti, quella dell’intersoggetività dell’impossibile incontro con l’Altro e
quella possibile per suicidio; questo stato è mantenuto attraverso l’identificazione col niente e
l’utilizzo della logica circolare [Lambotte, 1993].
L’oggetto è un oggetto negativo, per allontanare tutto ciò che potrebbe dare adito ad un
riconoscimento, per oltrepassare l’Altro con lo stesso sguardo con cui è stato oltrepassato,
perforandolo con la logica del formalismo del discorso. L’oggetto quindi non è scomparso, ma è
scomparso il desiderio ed è con questa scomparsa che il melanconico si è identificato. In
quest’ottica il suicidio rappresenta la messa in atto della presenza della negatività dell’oggetto, in
altre parole vorrebbe dire scomparire da una vita che si usurpa. Nel tempo prespeculare, il
melanconico è frutto di una sottrazione tra l’oggetto e il desiderio [Lambotte, 1993].
La seconda morte è confusa con il piacere, tuttavia per non scomparire realmente il melanconico
ricorre alla logica del tutto o niente, vita o morte, ideale o annientamento, nel quale
l’identificazione con il niente, unico significante di cui dispone, va a bloccare la parte simbolica e
la relazione con l’Altro. Il melanconico non può darsi al piacere, è al di qua del piacere, l’unico
modo che ha a disposizione, è quello di anticipare il piacere stesso. Tuttavia, questo è un processo
che richiede una quantità enorme di energia, e potrebbe diventare pericoloso per un apparato
psichico scricchiolante, poiché si potrebbe confondere il piacere derivante dalla scarica con il
piacere dei sensi, e quindi attuare la seconda morte. Per il melanconico il piacere è un’esperienza
traumatica, è la morte, ed in quel caso sarebbe proprio andare al di là del Principio di Piacere.
L’imperativo diventa “anticipare l’impossibilità del rapporto con le cose” [Lambotte, 1993, p.573], poiché
se il melanconico investe la realtà perde parzialmente la sua identità fusa con il niente.
Il niente, con il quale si è identificato, coincide con la morte dell’Altro, morte che lo abita e che
riduce notevolmente la sua tavolozza affettiva. Egli fa di tutto per evitare la paura della catastrofe
originaria, tuttavia se arriva a provare angoscia, questo può essere un buon segno. Infatti,
significherebbe che si trova più vicino alla realtà, e quindi il sistema difensivo che anticipa ogni
cosa sta cedendo, e questo porterebbe ad una scintilla di mobilità psichica [Lambotte,1993].
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Nella melanconia, negazione e (de)negazione sono strettamente embricate, la prima per quanto
concerne il registro simbolico, la seconda per quanto riguarda il registro del reale, nella paura della
catastrofe originaria. In conseguenza di questo, per il melanconico i rapporti umani non hanno
nulla a che vedere con lui, non solo, ma l’ideale assoluto introiettato non accetta limiti e
compromessi. Si trova bloccato in un al di qua, in un limbo paradossale dove egli è morto per
eccesso di vita, ma morire vorrebbe dire ricongiungersi alla vita stessa [Lambotte,1993]. Per
indagare meglio il concetto di morte, secondo Lacan ve ne sono di tre tipi [Lacan, 1953]: la morte
intesa come minaccia, cioè “se non lo fai ti uccido”, la morte intesa come sacrificio e la morte
intesa come suicidio, al fine di impedire al vincitore di celebrare la sua vittoria. Questa terza morte,
sembrerebbe quella che meglio può esplicitare ciò che si intende con morte per eccesso di vita
[Lambotte, 1993].
In conclusione, Lambotte analizza i rapporti tra melanconia e romanticismo, vista l’apparente
similarità e la possibile transitorietà, tra questo stato esistenziale e la corrente storico artistico
letteraria. Nella melanconia l’ideale di perfezione viene inteso come verità dell’essere, mentre nel
romanticismo rappresenta più una costruzione estetica. La melanconia ci dice che la realtà non
può subire adattamenti, quella è, quella rimane; il romanticismo, al contrario, è più morbido,
quindi la realtà ha limiti. L’investimento dell’oggetto nella melanconia viene denegato in un
mondo disaffetivizzato; mentre nel romanticismo assistiamo ad uno spostamento delle proiezioni
passando da un oggetto all’altro, e dove ciò che conta non è l’oggetto, ma il movimento dato
dallo spostamento. Infine, nella melanconia, potremmo avere un passaggio all’atto, mentre nel
romanticismo no [Lambotte,1993].
Riflettendo su questi aspetti, sembrerebbe che ciò che costituisce la transitorietà tra uno stato e
l’altro è proprio la presenza o meno di una certa di quantità di desiderio. Potremmo infatti pensare
al melanconico come un romantico devitalizzato, mentre il romantico potrebbe essere visto come
un melanconico vitale. In entrambi i casi, il desiderio è sentito come un distillato altamente
concentrato, ed è proprio nella sua giusta dose in quantità e tempo, che l’alchimia della vita può
avere luogo.

4. Émprise , ovvero cibo per bocche mai sazie

In questa ultima parte, vorremmo occuparci dell’aspetto vorace della posizione melanconica. Ci
sembra infatti, che in conseguenza della genesi del buco scavante e della sostituzione infinita
d’oggetto, il melanconico sviluppi la sua oralità in un appetito insaziabile, che ne fa una creatura
vorace ed aggressiva, questo potrebbe rappresentare quasi un capovolgimento di quanto finora
presentato. Forse proprio in questo si cela il desiderio melanconico, ancora grezzo, ancora
selvaggio. Riprenderemo quindi il concetto di pulsione d’émprise o Bemächtigungstrieb [Freud, 1905,
1915], al fine di calarlo nella realtà melanconica, per cercare di arrivare ad una sua possibile
risoluzione.
Secondo Gaddini [Gaddini,1969] l’identificazione sarebbe costituita da un’area psicoorale [Gaddini,
1969], che riguarda il rapporto con l’oggetto, è maggiormente esposta ai conflitti e la sua funzione
è quella dell’introiezione, nel senso di un’incorporazione biologica, un possedere l’oggetto. L’altro
componente dell’identificazione, è l’area percettiva o psicosensoriale [Gaddini, 1969], che concerne il
ritiro dai conflitti con l’esclusione dell’oggetto esterno che li provoca; la sua funzione è quella di
imitare per essere, l’oggetto quindi viene eclissato, non riconosciuto come esterno e separato
[Gaddini, 1969].
Da questo, Munari [Munari] prosegue vedendo nella funzione di imitare per essere, un collegamento
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