Film italiani in concorso - Smart Marketing

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Film italiani in concorso - Smart Marketing
Festival del Cinema di Venezia 2021: 5
film italiani in concorso
Tra poco più di un mese (1-11 settembre), inizierà la 78esima edizione di quello che è e sarà
sempre il Festival del Cinema più antico e prestigioso del mondo, ovvero Venezia. Questa
edizione, per il Cinema italiano, sarà un’edizione record. Avremo infatti, ben 5 pellicole nazionali
in concorso, segno di una ritrovata vena produttiva, che fa ben sperare per il futuro.

Tutti film d’autore, che siamo sicuri, incanteranno le sale della Mostra del Cinema: America Latina,
thriller dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo con Elio Germano; Il buco di Michelangelo
Frammartino che narra una straordinaria impresa italiana di speolologia; Freaks out di Gabriele
Mainetti con Claudio Santamaria e Pietro Castellitto nel cast e Nicola Guaglianone, sceneggiatore
che ne firma il soggetto originale; Qui rido io di Mario Martone con Toni Servillo nel ruolo di
Eduardo Scarpetta; È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, in cui il regista premio Oscar,
racconta la sua passione per il Napoli di Maradona e la scomparsa dei suoi genitori, quando aveva
16 anni, nel 1987.

I titoli sono stati annunciati dal direttore artistico Alberto Barbera durante la presentazione del
programma della kermesse, che si terrà in Laguna dall’1 all”11 settembre 2021. Numerosa anche la
presenza del cinema italiano nei film fuori concorso o nella altre sezioni. Tra gli eventi più
importanti la pellicola d’apertura di Pedro Almodovar con Madres Paralelas e l’anteprima
mondiale di Dune di Denis Villeneuve. Nella Mostra, sarà forte anche la presenza femminile sia
come registe che come storie. Già annunciate le misure di sicurezza che saranno quelle in vigore in
tutta Italia con accesso in sala la cui capienza è dimezzata, con posti numerati e green pass.

A
l
b
e
r
t
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B
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b
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Direttore della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia.

Ovviamente, i “soliti noti” hanno storto il naso: “troppo vasta la presenza italiana in concorso”. Ai
detrattori, ha risposto il direttore artistico Alberto Barbera: “Non si tratta di sostenere a ogni costo
il cinema italiano, credo che il settore sia in un momento di grazia e se ben 5 pellicole sono arrivate
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al rettilineo finale, è perché lo hanno ampiamente meritato. Abbiamo lavorato per tutto l’anno, senza
sosta, nella selezione dei film – ha detto ancora Barbera -. Ci ha sorpreso la qualità media, che è
complessivamente più alta del solito, come se la pandemia avesse stimolato la creatività di tutti.
Sono ottimista sullo stato di salute del cinema italiano, nonostante le difficoltà dell’industria
cinematografica”.

Insomma, la Mostra del Cinema di Venezia, promette, come ogni anno, scintille, le solite
polemiche, tante pellicole interessanti e tanti ospiti, pronti a calcare il red carpet, di quello che
rimane il Festival dei Festival, 78enne, ma più giovane che mai.

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Un secolo di… Nino Manfredi
Qualche giorno prima del lockdown dello scorso anno, che ha messo in ginocchio l’Italia e il mondo,
ebbi l’onore di intervistare la signora Erminia Manfredi, moglie del compianto Nino, per il libro Il
ventennio d’oro del cinema italiano- 4 lustri di illustri, edito da Graus Edizioni. In
quell’occasione, così vibrante di emozioni, per un autentico e passionale estimatore di Nino
Manfredi, ne uscì un ritratto ancora più vero di quello che è stato l’attore, tra il privato e il
pubblico. Alla mia domanda se vi erano differenze tra il Manfredi privato e il Manfredi del
cinematografo, la signora Erminia rispose così:
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“Mio marito, dal punto di vista lavorativo, era l’esatto specchio di quello che lui era nella sua vita
  privata. Era una persona molto seria e faceva tutto con serietà, nel senso che era molto
  metodologico e si preparava su tutto. Ad esempio, quando gli proponevano un film, studiava il suo
  personaggio in maniera tale da entrare completamente nella parte e farla sua. Per esempio,
  quando ha fatto Geppetto, nel Pinocchio di Comencini, per prepararsi alla parte, pur non
  avendone l’età, andava di fronte alla nostra casa, a Roma, nel Giardino degli Aranci, a vedere
  come giocavano i bambini. Il tutto per delineare un Geppetto ancora attivo, desideroso di giocare,
  che poi grazie a questi “studi” è diventato quel personaggio immortale, che tutti noi continuiamo
  ancora ad ammirare. Mio marito amava un po’ tutti i personaggi che interpretava, perché in
  ognuno metteva sempre tutto se stesso e la sua professionalità, ma ad ognuno era in grado di
  donare sfumature sempre diverse, che fosse Pane e cioccolata o che fosse Brutti, sporchi e
  cattivi”.

Da questo estratto di quell’intervista, che porto sempre nel cuore, fuoriesce tutta l’essenza di quello
che è stato il metodologico Nino Manfredi, che rimane ad oggi, esattamente a 100 anni dalla sua
nascita un punto di riferimento assoluto nella storia del cinema italiano e della commedia
all’italiana, del quale è ritenuto uno dei “4 mostri”, assieme a Sordi, a Gassman e a Tognazzi.
Versatile e incisivo, poliedrico e magnetico, come pochi, nel corso della sua carriera ha alternato con
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uguale vigore ruoli comici e drammatici di notevole efficacia, risultando probabilmente il più grande
di tutti, nella sua capacità di entrare nel ruolo e regalarci personaggi immortali. La signora Erminia,
ha parlato dello strepitoso e struggente Geppetto del Pinocchio di Luigi Comencini; ma il tutto va
continuato ed ampliato con il Dudù di Operazione San Gennaro; con il meraviglioso padre di
famiglia dell’Italia del boom de Il padre di famiglia; o ancora il leggendario Pasquino di
Nell’anno del Signore. Ce ne siamo scordati tanti e potremmo continuare per ore, fino a far
diventare questo articolo un saggio vero e proprio, magari da pubblicare.

Eppure non basterebbe neanche un libro per ricordare la grandezza di un attore, che fa parte del
patrimonio storico ed emotivo del nostro Paese: un personaggio familiare, che fa parte di noi stessi,
di quello che siamo stati e di quello che siamo. 101 film interpretati, tra il 1949 di Torna a
Napoli e il 2003 de La fine di un mistero. In mezzo, 9 David di Donatello (record assoluto al
maschile), 6 Nastri d’Argento, 4 Globi d’oro e soprattutto la Palma d’oro a Cannes 1971, come
miglior opera prima per il suo capolavoro emotivo dal titolo Per grazia ricevuta. Basterebbe
questo palmares, per inquadrare Nino, anzi Saturnino, perché questo era il suo vero nome
all’anagrafe; ma non basta, perché la sua grandezza non è quantificabile in una stima di quanto il
suo lavoro abbia influenzato tutta la commedia, durante gli anni del fulgore della commedia
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all’italiana e anche nei decenni successivi.

Alcuni di questi film sopravvivono sulle vette più elevate del nostro cinema; altri ancora navigano più
in basso; ma tutti gli oltre 100 delineano quella che è stata la maestria metodologica di Manfredi, il
più grande nel tuffarsi nel personaggio regalandoci interpretazioni sempre diverse, ma sempre
particolarmente realistiche ed efficaci. Dopo una notevole gavetta, fatta di tante particine sparse qua
e là, il meritato successo arriva alla fine degli anni ’50, con titoli come Carmela è una bambola,
L’impiegato e Audace colpo dei Soliti Ignoti o Anni ruggenti, che ci consegnano un attore
diverso dal classico panorama cinematografico nazionale. E i titoli della seconda metà degli anni
’60, non fanno altro che confermare in pieno quell’intuizione. Proprio in questo decennio, Manfredi
mette a segno passo dopo passo numerosi successi, fino a quel 1969, che lo issa come miglior attore
italiano dell’annata, per quello che sarà il suo anno mirabilis. Nel solo quinquennio 1964-69 è
protagonista di oltre 20 film, tra film a episodi come Le bambole o I cuori infranti e
lungometraggi interamente basati sulle sue straordinarie capacità di attore a tutto tondo, quali
Straziami, ma di baci saziami, Italian secret service e Operazione San Gennaro, ambientato
all’ombra del Vesuvio e impreziosito da un prestigioso intervento del grande Totò; per finire con Il
padre di famiglia, uno dei migliori Manfredi di sempre, perfetto nel tratteggiare, come già
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anticipato sopra, il ritratto di un padre di famiglia alle prese con tutte le problematiche sociali e
lavorative degli anni ‘60. Un piccolo gioiello diretto dal regista Nanni Loy.

Ma soffermiamoci un attimo su Italian secret service del 1967, un sottovalutato, ma divertente
incrocio tra commedia all’italiana e parodia dei film di spionaggio americani. È il momento migliore
della carriera di Nino Manfredi che addirittura nel 1968 si aggiudica due David di Donatello ex-
aecquo sia per Italian secret service che per Il padre di famiglia. Caso più unico che raro nella
storia della cinematografia mondiale: un ex-aecquo con se stesso. Ciò sta a significare che le sue
interpretazioni, ormai, sono tutte di enorme spessore ed è forse l’attore più richiesto del panorama
italiano, tra la seconda metà degli anni ’60 e i primi anni ’70. Infatti, è proprio in questo periodo, che
l’attore prende piena consapevolezza di sé, dopo anni di gavetta, entrando sull’accogliente carro
della commedia all’italiana. Anno dopo anno l’attore scala le vette, pur mantenendo un profilo basso,
ravvisabile rispetto agli ingaggi medi degli altri colleghi del periodo: Mastroianni 120 milioni di lire,
Tognazzi 50 e Manfredi (si fa per dire) soltanto 30, anche se con un movimento oscillatorio.

Infatti, a seconda del suo gradimento rispetto alla sceneggiatura era consono alzare o diminuire la
richiesta, tenendo in mente vari fattori, quali lo studio approfondito del personaggio e i giorni di
impegno sul set. Non c’è da sorprendersi, il tutto rientrava in quella grande attenzione che il
professionista Manfredi, diffondeva nel suo lavoro: metodo, precisione e orgoglio. Molto spesso era
solito inserire con grande vigore, modifiche in seno di sceneggiatura, attirando non di rado,
polemiche accese con il regista di turno, quanto più era qualificato il secondo, tanto meno era
disposto a cedere il passo. E così, ad esempio sul set di Nudo di donna, nel 1981, avviene un
proverbiale e acceso diverbio tra Nino Manfredi e il regista Alberto Lattuada, con quest’ultimo che
decide di abbandonare anzitempo il set, e il primo che prenderà le redini del lavoro portandolo a
compimento.

Tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’80, Manfredi continua quel
processo di maturazione, che lo rende uno degli attori più amati del
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panorama nazionale.

Nominiamo, dunque, le sue migliori pellicole.
Nel 1969 è impegnato sul set di Straziami, ma di baci saziami (1968), gioiellino di comicità
paradossale e popolana, tutta giocata sul gusto per il calco filologico e deformante della subcultura
popolare, del patetico da fotoromanzo e del romanticismo da festival di Sanremo, che contiene
alcune delle più belle battute degli sceneggiatori Age e Scarpelli. Il trio di protagonisti è
semplicemente sublime: Manfredi, Tiffin e Tognazzi; mentre il regista è Dino Risi.

L’elenco delle interpretazioni memorabili di Nino Manfredi, strettamente nell’ambito del film a
episodi, del quale, va quì ricordato, Manfredi fu uno dei massimi specialisti, si arricchisce nel 1969,
di un film Vedo nudo, diretto anch’esso da Dino Risi, che rimane, come film corale, uno dei
migliori assoli dell’attore romano. Il migliore dei sette sketch che lo compongono è proprio l’ultimo,
ovvero quello che dà il titolo al film e che è rimasto nella memoria collettiva. E’ la storia di un
pubblicitario che vede denudate tutte le donne che incontra, ma quando crede di essere guarito la
stessa devianza psichica si manifesta con gli uomini. L’episodio, il più divertente del film corale, si
basa tutto sulla prova del grande Nino Manfredi e sulle sue espressioni facciali alle prese con le
visioni “nude”, che sono da antologia della risata e da scuola di recitazione. Un cortometraggio
molto conosciuto anche all’estero, dato anche il grande successo commerciale del film, tanto che
pare sia stato preso ad esempio, quando nel 2000 la regista Nancy Meyers ad Hollywood firmò la
pellicola What women want, con Mel Gibson. Anche quella è la storia di un pubblicitario alle
prese con l’altro sesso, ma stavolta invece di vederle nude, acquista il potere “magico” di ascoltare il
loro pensiero. Una prova in più del fatto che il cinema americano, ha spesso tratto spunto da quello
italiano, sempre precursore dei tempi.

Quello stesso anno l’attore prende parte a Nell’anno del Signore, campione di incassi della
stagione, il quale può essere considerato come il più grande film in costume della storia del cinema
italiano. In un cast a dir poco eccelso – Sordi, Tognazzi, la Cardinale, Salerno – si staglia
l’interpretazione del vero protagonista del film: Nino Manfredi. Sublime nel tratteggiare Pasquino, il
ciabattino, lo storico autore di invettive contro il Papa, nella Roma papalina del 1825. La splendida
interpretazione gli valse sia il Nastro d’argento che il David di Donatello come miglior attore
protagonista della stagione 1969. Fu proprio con questo film che Manfredi e Magni iniziarono una
fruttuosa e redditizia collaborazione, consolidatasi negli anni con In nome del Papa Re (1977) e In
nome del popolo sovrano (1991), secondo e terzo capitolo della trilogia sulla Roma papalina di
metà Ottocento, focalizzando l’attenzione sul rapporto tra clero pontificio, aristocrazia e popolo.

Proprio Nell’anno del Signore rappresenta il primo capitolo di questa trilogia con almeno una
perla destinata a entrare nella storia del cinema. Esattamente la scena finale –quando Pasquino
intuisce che il potere trae forza dalla sua mancanza di emotività, rispetto al popolo che “c’ha er
core” – è geniale e allo stesso tempo commovente. Spiega al suo discepolo interpretato da Pippo
Franco che “…li morti così con una burla de processo pesano più peggio e cor tempo diventano la
cattiva coscienza del padrone… perché solo sul sangue versato viaggia la barca della rivoluzione”.

Insomma, sacrificare due carbonari per risvegliare la coscienza del popolo: i primi vaggiti d’Italia 35
anni prima di Garibaldi, in un film realizzato all’alba dei tumulti che caratterizzeranno gli anni ’70 e
che il cinema nazionale ha prontamente descritto.
Procedendo velocemente, negli anni ’70, vanno citate altre memorabili interpretazioni. Come Per
grazia ricevuta (1971), che segna l’esordio in un lungometraggio di Nino Manfredi come regista, il
quale è comunque anche il protagonista del film, con una regia dal sapore naif e un soggetto
indubitabilmente nostrano e originale, a metà tra spiritualità e psicoanalisi, sulle conseguenze della
cattiva educazione religiosa. Record di incassi della stagione 1970/71. Nino Manfredi, come già
accennato sopra, vinse la prestigiosa “Palma d’oro” al Festival di Cannes per la miglior opera
prima. Molte scene rimaste nella storia. Capolavoro senza tempo, esattamente come C’eravamo
tanto amati (1974), di Ettore Scola, omaggio nostalgico, amaro e sincero al cinema italiano e più
in generale ad un pezzo di storia e al tempo che passa inesorabile.

Abbiamo poi anche Pane e cioccolata (1974), a detta di molti, il miglior film della carriera di Nino
Manfredi. Elogio dell’italiano all’estero con tante scene entrate nell’immaginario popolare. Manfredi
si supera, in un’interpretazione attenta e precisa e vince con merito il David di donatello come
miglior attore protagonista. In ultimo citiamo, alcuni film che rientrano nel Manfredi più
strettamente drammatico. Un esempio su tutti, Brutti, sporchi e cattivi (1976), un film
volutamente sgradevole, ambientato in una borgata degradata della capitale, dove Manfredi offre
un’ottima prova della sua straordinaria poliedricità.

E poi abbiamo gli ultimi grandi “fuochi”, scintille di grande cinema d’autore. Parliamo de Il
giocattolo (1979), splendido apologo sulla violenza privata, con un Manfredi drammatico che
convince appieno; e soprattutto Cafe express (1980), nei panni del venditore abusivo di caffè sui
treni Michele Abbagnano, a detta di molti la sua interpretazione più intensa e sofferta. E per questo
film Manfredi vinse l’ennesimo Nastro d’argento della sua sfolgorante carriera.

Insomma, fa davvero piacere, che nonostante stiamo vivendo un 2021 complicatissimo, le
celebrazioni in onore di Nino Manfredi, siano molteplici in tutto il nostro Paese: pubblicazioni,
documentari inediti, omaggi televisivi e numerosi articoli a lui dedicati. Questo vuol dire, che
abbiamo ancora una speranza. Abbiamo ancora la speranza che la cultura possa elevarci, che la
cultura possa educarci e che quindi la memoria di chi ha reso grande questo nostro martoriato
Paese, non si perda mai, nell’oblio degli abulici tempi moderni.

Perciò dobbiamo gridare con forza CIAO NINO ovunque lui sia…e studiarlo, amarlo al pari degli
altri suoi colleghi, perché appassionarsi al nostro cinema vuol dire imparare qualcosa di più su di noi
e vuol dire fare cultura, quella con la C maiuscola.

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NONPROFIT DAY 2021 Dan Pallotta vs
Stefano Zamagni: è stata sfida vera fra due
maniere di intendere il nonprofit
Conclusosi esattamente una settimana fa, il NonProfit Day 2021 ha riscontrato un successo di
pubblico ben oltre le aspettative e gli stessi numeri, che comunque sono incredibili: 4 ore di
diretta, 4.732 persone collegate, 1.531 commenti in chat, 2 big del nonprofit di livello
mondiale, 4 commentatori, tutti esperti del nonprofit italiano, 2 conduttori, 1 teatro, “Il
Piccolo” di Forlì, come location della regia remota dell’evento.

Noi di Smart Marketing eravamo media partner dell’evento e io stesso ho partecipato come
spettatore a questo appuntamento che era sostanzialmente diviso in due grandi blocchi. Un primo
che comprendeva la presentazione della location, il teatro “Il Piccolo” di Forlì, ovviamente senza
pubblico, nel quale i bravi e spigliati Valerio Melandri (Professore e Direttore Master in
Fundraising Università di Bologna e Fondatore Associazione Festival del Fundraising) e Stefano
Malfatti (Direttore raccolta fondi Istituto Serafico di Assisi e Presidente Associazione Festival del
Fundraising), hanno condotto, coadiuvati da un ottimo staff tecnico dietro le quinte, l’intero evento,
presentando il programma, la scaletta degli interventi e gli sponsor e i partner tecnici. I
commentatori della “grande sfida del nonprofit” sono un poker d’assi del non profit italiano:
Alessandro Betti (Direttore raccolta fondi Fondazione Telethon), Giancarla Pancione (Direttore
marketing & fundraising Save The Children Italia), Niccolò Contucci (Direttore generale
Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro) e Valentina Melis (Giornalista del Gruppo Il Sole24
Ore); mancava invece, bloccata da un imprevisto, Elisabetta Soglio (Giornalista del Corriere della
Sera, Responsabile dell’inserto Buone Notizie).

Sempre nel primo blocco ci sono stati i due interventi dei big del nonprofit: da una parte Dan
Pallotta, imprenditore, scrittore e attivista umanitario americano, autore del Ted Talk più visto nella
storia del nonprofit, intervistato da Valerio Melandri, e dall’altra Stefano Zamagni, il più
importante economista e garante del nonprofit italiano, inventore delle Onlus, Presidente della
Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, che invece ha tenuto una sorta di lectio magistralis sulle
differenze fra il nonprofit americano e quello italiano.

Ma assai più rilevante è stato il secondo blocco, nel quale la sfida fra Dan Pallotta e Stefano
Zamagni si è accesa ben oltre le aspettative: i due relatori si sono confrontati in uno scontro, che a
tratti è stato anche duro e aspro e non ha risparmiato anche qualche critica sul piano personale –
esecrabile – da parte del prof. Zamagni all’indirizzo di Pallotta; ma questo ha acceso anche le 4.732
persone collegate in chat, che hanno prodotto più della metà dei 1.531 commenti proprio in
questo blocco. Infine, i 4 assi del nonprofit italiano hanno tentato una sintesi fra i due pensieri dei
relatori principali, che non erano poi così distanti come la discussione poteva far pensare.

Il punto vero, come hanno rilevato molti partecipanti in chat, fra cui anche il sottoscritto, non è chi
ha ragione o meno, quale sia la filosofia migliore, quale l’approccio più consono; nel fundraising, e
nel marketing, così come nella vita, si cerca di fare il meglio che si può con gli strumenti e gli
approcci che si sono studiati ed affinati negli anni, costruendo la propria strategia a seconda del
cliente, del contesto e del periodo in cui operiamo. Pensate a quest’ultimo anno di pandemia, quante
cose che utilizzavamo un tempo non vanno più bene, quanti strumenti sono ormai obsoleti, quante
strategie inutili.

Il fundraising ed il mondo del nonprofit sono – anche al netto della pandemia – processi umani e
quindi dinamici, credere che ciò che ho imparato una volta vada bene per sempre è illusorio e
anche pericoloso. L’unica strada è studiare tanto, aggiornarsi sempre e verificare costantemente sul
campo le proprie strategie. Come diceva il grande psichiatra, psicoanalista e antropologo Carl
Gustav Jung, riferendosi alla psicologia:
“Impara tutto quello che puoi sulla teoria, ma quando sei di fronte
                      all’altro dimentica il manuale”.

Visto il successo di questa frizzante edizione del Nonprofit Day, cresce ancora più l’attesa per il
Festival del Fundraising 2021, il più importante momento di confronto e formazione per il mondo
del nonprofit e fundraising, che si svolgerà il 9, 10 ed 11 giugno dal vivo a Riccione e online, e
per il quale sono già aperte le iscrizioni: https://rebrand.ly/iscriviti_al_festival

Smart Marketing è felice di essere media partner del Nonprofit Day: l’evento
online che ha permesso di porre le basi per il nuovo modo di pensare il nonprofit
e al suo ruolo nel mondo post Covid-19.

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Playlist a prova di cottura: Barilla lancia
un nuovo modo di cucinare la pasta

  “Italiano mangia spaghetti e suona mandolino”

Da sempre è questo lo stereotipo dell’italiano, per chi italiano non è; del resto non possiamo negare
la nostra passione morbosa per la pasta e neppure per la musica.
In fondo, l’opera lirica è frutto del genio italiano e sono stati i nostri migranti a far diventare
popolare ed apprezzata la canzone italiana oltreoceano, così come è legato alla malinconia degli
emigrati italiani il tango argentino.

Ancor più che per la musica, la pasta, cardine della dieta mediterranea, ci identifica e rappresenta
nel mondo.

E se l’italiano suonasse il mandolino per tener conto del giusto tempo di
cottura?
Ironia a parte, tutto potrebbe essere quando si parla di un popolo che ha fatto della rottura degli
schemi e della creatività la sua bandiera.

Ci piace pensare che questa immagine evocativa abbia ispirato anche i creativi della Publicis Italy
(nota agenzia di comunicazione), tanto da spingerli a creare per la Barilla una playlist musicale che
funga da timer per la cottura perfetta.

Musica per ingannare il tempo interminabile passato a guardare il timer, che duri il tempo giusto
per far cuocere a puntino il tipo di pasta scelto e che ci eviti di andare alla ricerca dei minuti di
cottura sulla confezione, certe volte illeggibili.

Una playlist timer fruibile su Spotify che ci sollevi dall’incombenza di star lì a contare i minuti ed allo
stesso tempo ci intrattenga, idea tanto banale da risultare ovvia; in fondo, si sa che con un po’ di
musica tutto diventa più fluido e meno pesante da affrontare, tanto che molti creativi, e non, si
chiederanno: “Ma come mai non ci ho pensato prima?”

Forse perché la genialità non sta nel voler segnare il tempo di cottura, ma nel rendere questo
momento un’esperienza artistica immersiva che coinvolga tutti i sensi, un nuovo modo di concepire il
tempo impiegato per cucinare.

La pasta intesa come espressione artistica di ognuno, personalissimo processo creativo
accompagnato dalla musica dei 4 generi più ascoltati in Italia (i grandi classici del passato, la musica
pop, l’hip hop e l’indie), suggellato dalle visioni di 8 artisti di fama mondiale che hanno curato le
copertine delle 8 playlist pensate per Barilla.

Le copertine realizzate da Emiliano Ponzi, Van Orton, Alessandro Baronciani, Mauro Gatti,
Carol Rollo, Nico 139, Fernando Cobelo e Andrea Mongia danno un taglio decisamente pop,
evocando suggestioni ai provetti cuochi che si lasceranno trascinare per pochi minuti dalla musica di
playlist dai nomi altrettanto suggestivi come “Mixtape Spaghetti”, “Boom Bap Fusilli”, “Pleasant
Melancholy Penne”, “Moody Day Linguine”, “Top Hits Spaghetti”, “Best Song Penne”, “Timeless
Emotion Fusilli” e “Simply Classics Linguine”.

A quanto pare, le playlist verranno periodicamente aggiornate, nel perfetto stile della piattaforma
Spotify, per evitare l’effetto “noia” di cui sono spesso affetti gli utenti della rete.

Ci abbiamo provato anche noi, perdendoci nei successi senza tempo di “Timeless Emotion Fusilli”,
tra Beatles, Mina, Edoardo Bennato, Fabrizio De André, Enzo Jannacci, Luigi Tenco e Sergio
Endrigo, il risultato è stato cottura perfetta dei nostri fusilli ed un viaggio di 11 minuti tra gli
intramontabili capolavori della musica.

Davvero un bel modo di legare l’arte culinaria alla musica ed alle arti figurative, ma anche la
dimostrazione che le semplici campagne pubblicitarie non bastano più, qualsiasi brand, anche il più
commerciale di tutti, ha bisogno di trovare mezzi sempre più innovativi per arrivare al suo pubblico
e la musica, in questo senso, gioca un ruolo centrale.
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Il meglio del cinema italiano nel 2020
In questo disgraziatissimo e maledetto 2020, con la Pandemia da Covid-19 che ancora non sembra
darci tregua, il comparto culturale (congressi, conferenze, teatri, cinema, musei) è quello che più di
tutti ha sofferto l’immobilismo che ha bloccato il mondo. Il cinema ovviamente ha lavorato a
singhiozzo e si è adattato forzatamente alla moda dello “smart working”, che ormai ha conquistato il
mondo. Lo “smart working” nel caso del cinematografo, ha creato un momento a suo modo
epocale: la maggior parte dei film usciti nel panorama mondiale e nazionale sono approdate sulle
varie piattaforme di streaming online come come Rakuten TV, Infinity TV, Google Play, Chili,
TIMvision, Prime Video, Sky, Netflix o anche YouTube in versione a pagamento.

I cinema sono rimasti aperti, tra restrizioni e condizionamenti molto variegati, almeno fino ai primi
giorni di marzo; per riaprire poi, in estate, ma con una programmazione ridotta; e riprendendo poi,
un certo vigore tra settembre ed ottobre, quando un nuovo DPCM, ne ha previsto la chiusura a
partire dal 26 ottobre, in concomitanza con l’inizio della seconda ondata della pandemia.

In questo contesto molto angosciante e avvilente per tutto il comparto cinematografico, le pellicole
italiane uscite, in qualunque maniera, nella maledetta annata 2020, toccano le 240 unità. Un numero
cospicuo, bisogna dirlo, che testimonia come il nostro cinema, sia in ripresa e goda di una certa
freschezza di idee, non parimente riscontrabile una decina di anni fa, ad esempio.
Scopri il nuovo numero: Simply the best
    È indubbio che quest’anno passerà alla storia come l’anno della pandemia. Così come indubbio
                che quest’anno ha portato malessere sociale, psichico ed economico.
          Ma dobbiamo sforzarci di cogliere un bagliore di luce anche in un anno così buio.

Da qui una carrellata dei migliori film italiani dell’annata, tenendo conto di vari fattori, come la
popolarità degli attori impiegati, l’effettivo valore delle pellicole e infine del successo popolare,
estendibile anche in campo internazionale.

TOLO TOLO, di Luca Medici [Checco Zalone]

Al suo quinto film Checco Zalone, debutta alla regia, firmandosi con il suo vero nome di Luca
Medici. Lo fa con il suo copione forse più contestato, di sicuro il più ambizioso, arricchito anche da
una certa vena di critica politica, che lo eleva certamente dai suoi lavori precedenti. Sembra un’era
fa, ma un tempo nel nostro Paese si parlava solo di immigrazione. Checco offre la sua versione:
libera, graffiante, molto più della visione dei democratici del nostro Parlamento. Un film che ha
diviso spettatori e politica, ma che resta la tragicommedia (a fuggire dall’Africa all’Italia stavolta è
un italiano stesso) che nessun altro saprebbe fare. Incassi in calo: dai quasi 66 milioni di lire di
Quo vado, ai 46 dell’attuale film. Tanto basta per risultare campione di incassi annuali ed entrare
quindi nella storia del cinema italiano.

(Qui trovate la nostra recensione completa)

GLI ANNI PIU’ BELLI, di Gabriele Muccino

Remake dichiarato e in se, strepitoso omaggio a C’eravamo tanto amati, capolavoro di Ettore
Scola, è la storia di tre amici (Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria)
divisi dalla Storia e dalle storie personali; e di una donna (Micaela Ramazzotti) che proprio nel
corso della loro vita si legano e si allontanano. Ne esce una cavalcata (meravigliosamente girata)
dagli anni ’80 a oggi che ci riguarda tutti, nessuno escluso. Con sottofondo di Claudio Baglioni:
«Noi che sognavamo i giorni di domani, per crescere insieme mai lontani», che si lega un po’ alla
frase simbolo del film di Scola, recitata dal grande Nino Manfredi: “Credevamo di cambiare il
mondo e invece è il mondo che ha cambiato noi”. Nelle parti di Vittorio Gassman, Nino Manfredi,
Stefano Satta Flores e Stefania Sandrelli, il quartetto di attori non fa rimpiangere il passato e ci
regala uno squarcio di poesia, che ci riporta ai fasti di un tempo.

(Qui trovate la nostra recensione completa)

FAVOLACCE, dei fratelli D’Innocenzo

Vincitore all’ultima Berlinale dell’Orso d’Argento per la sceneggiatura, il film dei puntuali fratelli
D’Innocenzo, è una commedia familiare di periferia che fonde Pier Paolo Pasolini e Tim Burton, e lo
fa con un linguaggio stilistico, elegante e trasognante, che non può lasciare indifferenti. Disturbante,
divertente, necessario, fresco e innovativo, ha in Elio Germano, il suo punto di forza. Proprio
quell’Elio Germano che può essere considerato davvero l’attore dell’anno.
ODIO L’ESTATE, di Aldo, Giovanni e Giacomo

Odio l’estate è l’ultima fatica del leggendario trio composto da Aldo Baglio, Giovanni Storti e
Giacomo Poretti. Una pellicola che restituisce al trio i fasti del proprio glorioso passato. E questa
volta non si rimane delusi. Odio l’estate ha qualcosa di ognuno dei film storici del trio: ti fa pensare,
ti fa ridere e alla fine lascia una velatura di malinconia. Nel film si ritrova il solito Aldo fanfarone, il
solito Giovanni pignolo e il solito Giacomino perfezionista maniacale con il punto di forza di un
affiatamento collaudato e di un’amicizia sincera che dura da sempre, quasi a voler smentire, una
volta per tutte, i soliti detrattori, che avevano preannunciato o sperato in un disfacimento del trio. E
invece no, Aldo, Giovanni & Giacomo, dopo alcune scialbe prove sono tornati più convinti di prima al
cinema, con una sceneggiatura importante, ben scritta, e con un ritorno al passato.

(Qui trovate la nostra recensione completa)

FIGLI, di Giuseppe Bonito

Figli, già monologo reso celebre in tv da Valerio Mastandrea, è la commedia all’italiana
dell’annata. Mastandrea è anche il protagonista, insieme a Paola Cortellesi, dell’adattamento
cinematografico. La parabola dei genitori (non giovanissimi) che affrontano le fatiche erculee della
crescita di un secondo figlio è costellata delle tenerezze e delle malinconie della vita di tutti. Ma è
anche un resoconto infallibile della società di oggi: i protagonisti ultraquarantenni sono per primi gli
eterni “figli”, schiacciati dalla generazione precedente.

HAMMAMET, di Gianni Amelio

Raccontare gli ultimi sei mesi di Bettino Craxi è l’obiettivo, difficile e ambizioso dell’ultimo film di
Gianni Amelio. Sono passati 20 anni dalla sua fine prematura in Tunisia, complesso dire se pochi o
molti per cominciare a guardare con il giusto distacco il discusso leader politico socialista. Ma
Gianni Amelio con la complicità di un Pierfrancesco Favino reso straordinariamente somigliante ci
prova e ci riesce bene; rientrando in quel filone che negli ultimi anni ha visto alcuni dei più
importanti registi italiani affrontare la difficile materia di proporre una serie di personaggi politici
che hanno segnato la storia del Paese: dal dittico cinematografico Loro di Paolo Sorrentino su
Silvio Berlusconi, a Buongiorno, notte di Marco Bellocchio sul rapimento, la detenzione e
l’omicidio di Aldo Moro, senza dimenticare il Giulio Andreotti de Il divo, sempre di Sorrentino.

(Qui trovate la nostra recensione completa)

IL GRANDE PASSO, di Antonio Padovan

Strepitosa commedia lunare, opera seconda del regista veneto Antonio Padovan; che si serve della
classe interpretativa di Stefano Fresi e Giuseppe Battiston e della loro incredibile somiglianza
fisica; Il grande passo è un film ricco di ingredienti, situazioni e personaggi fuori dal comune. Il
tutto ruota, però, attorno ad un unico grande sogno: raggiungere la luna solo con le proprie forze.
Un fratello ostinato, tanto da costruire un vero e proprio razzo spaziale nella sua cascina di
campagna; ed un altro, bonario, accomodante, comprensivo, che ha a cuore le sorti del fratello, che
ha visto pochissimo nella sua vita, ma che è l’unico in grado di comprendere il suo malessere.
Battiston e Fresi spaziano perfettamente tra il toccante e l’esilarante, tra il grottesco e il
surrealismo, regalandoci scampoli di quella che può essere definita la “nuova” coppia del cinema
impegnato. Già perché la pellicola è davvero una spanna sopra la media delle commedie all’italiana
attuali. Il sogno dello spazio e dalla vita extraterrestre sono ben descritti, così come la capacità di
questo film, di far sognare il pubblico, ed infondere positività, strappando risate amare, ma
intelligenti. Il talento dei suoi due protagonisti e un finale davvero sorprendente ed azzeccato,
rendono la pellicola, per chi ama davvero il cinema italiano d’autore, una gemma preziosa.

(Qui trovate la nostra recensione completa)

I PREDATORI, di Pietro Castellitto

La miglior opera prima dell’anno è scritta, diretta e interpretata da Pietro Castellitto, figlio
d’arte del padre Sergio, che con I predatori ha vinto il premio Orizzonti per la sceneggiatura a
Venezia 77. Un’idea di cinema personale ma già molto identitaria, e invidiabile per la sua chiarezza.
C’è uno sguardo generazionale, fulminante e irriverente su questo scontro tra sottomondi (famiglia
popolare, grezza e neofascista, posta in contrapposizione con quella ricca, borghese e radical chic),
che però Pietro sviluppa su toni grotteschi e surreali, elaborando con un’ironia disarmante anche un
certo giustificato complesso edipico. Per un’analisi antropologica degli italiani che vale più di mille
trattati, travestita da filosofic-satira pronta a esplodere come una bomba a orologeria. Un ottimo
debutto, che certamente verrà confermato con l’opera seconda, già in cantiere per il 2021.

VOLEVO NASCONDERMI, di Giorgio Diritti

Ancora Elio Germano, attore italiano dell’anno, senza se e senza ma. Questa volta al servizio del
rigore di Giorgio Diritti. E del “genio e sregolatezza” (psichica: ma lì sta il genio) di Antonio
Ligabue, il più celebre dei nostri pittori naïf. Anche in questo caso, un biopic che biopic non è, bensì
opera pittorica, introspettiva, lieve sugli emarginati di tutti i luoghi e di tutti i tempi. E sui loro
talenti (in)compresi. Immersa in un’Italia di provincia che raramente è stata così concreta, umana,
realistica. Una collaborazione, quella tra Diritti e Germano, capace di generare il meglio del
connubio autore-attore. E che non è ovviamente passato inosservato: al secondo è andato l’Orso
d’Argento per la miglior interpretazione maschile all’ultimo Festival di Berlino.

PADRENOSTRO, di Claudio Noce

Lo scorso 12 settembre sul palco della 77esima edizione del più prestigioso e del più antico
Festival del Cinema, ovvero Venezia, un emozionatissimo Pierfrancesco Favino riceve la Coppa
Volpi, come miglior interprete maschile proprio per il film di Claudio Noce. L’avvenimento si erge
come uno dei momenti più prestigiosi del cinema italiano del nuovo millennio. D’altronde Favino è
ormai il miglior attore italiano degli ultimi vent’anni e l’interpretazione del vicequestore Alfonso
Noce, assassinato nel 1976 per mano dei Nuclei Armati Proletari, negli anni di piombo, è resa con
incredibile bravura e profondità drammatica, davvero senza eguali. Il film di Claudio Noce, sul
proprio padre dell’Alfonso, interpretato da Favino, scava nei meandri del dramma del terrorismo,
che colpì l’Italia e le più giovani generazioni, in quelli che furono definiti i “bui” anni ’70.
L’INCREDIBILE STORIA DELL’ISOLA DELLE ROSE, di Sydney Sibilia

Sydney Sibilia è un regista d’azione, innovativo nel panorama cinematografico italiano. Ha una
poetica rude, ma che lascia il segno, e pone lo sguardo sul rapporto tra libertà individuale e potere
costituito. La storia è di quelle italianissime, anarchiche e poco conosciute: l’avventura sessantottina
quasi inconsapevole di un nerd d’altri tempi, Giorgio Rosa, che fondò uno Stato indipendente al
largo delle acque di Rimini, mettendo in crisi Governo italiano, Consiglio d’Europa e ONU.
Primeggia ancora una volta Elio Germano, ma c’è anche altro che luccica: una Matilda De Angelis
deliziosamente bolognese e delicatamente seducente; e poi Zingaretti e Bentivoglio versione super
caratteristi. Un cast perfetto per plasmare la nuova commedia all’italiana a immagine e humour del
suo intelligente autore.

MISS MARX, di Susanna Nicchiarelli

Un film sulla figlia minore di Karl Marx, Eleanor, la quale porta avanti l’eredità politica del
padre Karl, avvicinando i temi del femminismo e del socialismo, partecipando alle lotte operaie e
combattendo per i diritti delle donne e per l’abolizione del lavoro minorile. La regista Susanna
Nicchiarelli, fa ballare Eleanor (un’ottima Romola Garai) sulle note di un pezzo dei Downtown
Boys come fosse Courtney Love. È proprio quel “punk”, tra le altre intuizioni, a lanciare Miss Marx
oltre il biopic. Attenzione però: non si tratta di un film femminista, ma semplicemente “libero”,
come ha spiegato la Nicchiarelli.

IL GIORNO E LA NOTTE, di Daniele Vicari

Una pellicola che detiene un primato da guinness: il primo “smart film” della storia del
cinema. Le riprese sono cominciate nella Fase 2 e sono state rese possibili dal fatto che gli attori –
in alcuni casi si tratta di coppie nella vita oltre che sulla scena – si riprendono da soli da casa
propria, grazie alla propria attrezzatura tecnica. L’idea non è solo quella di fare un esperimento
cinematografico ma anche quella di tradurre, dal punto di vista creativo, questo particolare
momento storico, caratterizzato da isolamento e restrizioni della libertà, con tutte le conseguenze
del caso, nel bene e nel male. Vicari porta con sé un cast d’eccellenza: Vinicio Marchioni e
Milena Mancini (coppia nella vita, in quarantena insieme alla famiglia), Dario Aita, Elena
Gigliotti, Barbara Esposito, Francesco Acquaroli, Isabella Ragonese, Matteo
Martari, Giordano De Plano. Tutti comunicano tra di loro in video attraverso le varie
piattaforme online, così come gli attori anche il regista è a casa sua e dirige il cast a distanza.

(Qui trovate la nostra recensione completa)

DIVORZIO A LAS VEGAS, di Umberto Riccioni Carteni

Un road movie garbato, divertente, fresco e ben congeniato, che si ispira alle commedie romantiche
americane, con tanto di lieto fine annesso. I protagonisti della storia sono Giampaolo Morelli e
Andrea Delogu, bella, brava e disinibita al suo primo ruolo cinematografico; ben supportati da
Grazia Schiavo, Ricky Memphis e Gianmarco Tognazzi in partecipazione straordinaria. La storia
è piuttosto ben congegnata negli snodi (pur all’interno delle esagerate circostanze comiche), ma
sono soprattutto i dialoghi a fare centro, e a risultare divertenti e romantici: il che è davvero una
rarità nel cinema italiano contemporaneo di commedia.

DNA- DECISAMENTE NON ADATTI, di Lillo & Greg

Lasciato, non a caso per ultimo, Dna- Decisamente non adatti è il più bel film di genere
comico dell’annata: nona fatica della coppia composta da Lillo & Greg, al secolo Pasquale
Petrolo e Claudio Gregori. I due tornano al cinema, dopo tre anni di assenza, con una commedia
decisamente azzeccata: surreale, dissacrante, esplosiva. La loro è un’accoppiata intelligente, che
dopo i tanti successi radiofonici e televisivi, ha saputo farsi spazio anche nel cinematografo. E questa
volta si testano, con risultati eccellenti, per la prima volta anche dall’altra parte della cinepresa. Il
racconto si lascia seguire e i due seguono tutte le regole della commedia popolare italiana,
riuscendo ad inserire la loro vena comica originale, che fa leva su giochi di parole intelligenti e
gustose parodie. Al loro fianco Anna Foglietta, sempre brava e sempre nella parte. Insomma quello
di Dna- Decisamente non adatti è un divertissement, davvero consigliabile, soprattutto in
momenti così difficili, come quelli attuali.

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La prima storica rinascita del cinema
italiano: dal muto al sonoro
Il cinema italiano si può dire che sia morto e risorto tante volte, e ogni volta dalle sue ceneri ha
saputo riemergere con sempre maggiore vigore e forza creativa. Quello che oggi vi voglio narrare è
la prima storica rinascita che ha visto per protagonista, l’allora giovanissimo cinema italiano.

Dobbiamo andare davvero, parecchio indietro nel tempo, quasi agli albori del cinema, quando nel
solo decennio 1909-1919 in Italia si realizzano ben 1525 pellicole. Era, chiaramente, il periodo
del glorioso muto, che dagli anni ’20 comincerà a mostrare la corda. Infatti, almeno fino agli anni
immediatamente successivi alla fine della Prima Guerra mondiale, l’industria cinematografica
italiana era molto attiva, e dato molto curioso, quello italiano era un cinema muto che aveva la
DONNA, come suo punto focale. Il divismo femminile nasce proprio in Italia negli anni 10 e gli eroi
del grande schermo erano proprio esponenti del gentil sesso: Lyda Borelli, Pina Menichelli,
Francesca Bertini, Leda Gys, Soava Galloni solo per citarne alcune. Queste attrici
rappresentavano donne forti, coraggiose, dignitose, tutte caratteristiche in embrione, di quelle che
renderanno immortale Anna Magnani, un ventennio dopo e con un sonoro in più.

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del primo film sonoro della storia, “Il cantante di jazz” (The Jazz Singer) del 1927.

Vennero poi gli anni ’20, quando a causa della concorrenza hollywoodiana, la produzione italiana si
arresta completamente. Per cui attori, registi e manodopera specializzata si mettono al servizio di
case statunitensi e tedesche. Nel 1923, ad esempio, la Cines cessa ogni attività con le riprese di una
versione di Ben Hur, produzione americana girata nei suoi stabilimenti romani. Negli altri paesi,
intanto, si fanno enormi progressi grazie a investimenti economici negli impianti produttivi.

Venne poi l’avvento del sonoro, a fine anni ’20, che manda in crisi tutte le cinematografie, compresa
quella italiana, già ampiamente provata dalla scarsità di mezzi e anche dal fatto che le maggiori dive
degli anni ’10, per una ragione o per l’altra si erano tutte ritirate dal grande schermo. Non c’erano
neanche artisti in grado di competere con l’eco e la fama derivanti dai maggiori attori d’oltreoceano:
Charlie Chaplin, Buster Keaton, Stanlio & Ollio, Rodolfo Valentino, che per un’appendicite
sarebbe morto nel 1926. Dicevamo dell’avvento del sonoro, avvenuto nel 1927 negli Usa, con “Il
cantante di Jazz”, di Alan Crosland. Dunque gli impianti devono essere necessariamente
modificati, con gran dispendio economico, per evitare di rimanere in posizione arretrata rispetto a
chi può investire nelle nuove apparecchiature.

Il sonoro provoca, indirettamente, anche la fine delle tante piccole ma floride manifatture
cinematografiche fondate a Napoli nei primi vent’anni del ‘900. Vesuvio Film, Dora Film, Napoli
Film, Eliocinegrafica, Tina Film, Miramare Film, e tante altre case di produzione, già vessate
dalla censura di regime – contraria alle tematiche popolari e folkloristiche predilette dalle produzioni
partenopee, quasi esclusivamente fondate sulla produzione di film tratti da celebri canzoni dialettali
– sono costrette a chiudere.

Gli unici film italiani degli anni ’20 erano quelli in costume, infatti la produzione nazionale
continuava a muoversi sui rodati binari della letteratura popolare, del feuilleton, del teatro e degli
eroi forzuti, senza affrontare il necessario ricambio. In quest’ottica di progressivo decadimento, gli
unici due esempi, che un po’ si elevano dalla mediocrità del periodo, sono Maciste all’inferno, di
Guido Brignone; e Gli ultimi giorni di Pompei, di Carmine Gallone ed Amleto Palermi,
entrambi del 1926. Niente di particolarmente significativo, mancava in pratica la manodopera
attoriale al cinematografo.

E qui ci ricolleghiamo all’incipit dell’articolo, cioè che dalle sue ceneri il cinema italiano ha saputo
sempre risollevarsi e splendere di nuova luce. L’avvento del sonoro, nonostante la chiusura delle
numerose case di produzione, dà proprio modo al regime fascista di interessarsi attivamente al
cinematografo, finendo per rilanciare la nostra produzione cinematografica. Certo, probabilmente
non fu un rilancio, che dai “quartieri alti” avvenne per puro amore dell’arte, ma fu piuttosto diretto
dalla consapevolezza che il cinema italiano potesse essere molto importante nella gestione del
consenso sociale. D’altronde, e non si fatica a credere a ciò, data la politica accentratrice del
governo mussoliniano, il regime diventerà l’unico finanziatore possibile dell’industria
cinematografica, suggellata con la costruzione, nel 1937 di Cinecittà, in aperta sfida agli studios di
Hollywood; e ancora prima con la fondazione del più antico Festival del Cinema della storia, ovvero
quello di Venezia, che ebbe la luce nel 1932.

L’Italia, negli anni ’30, ha quindi un cinema di regime. La censura presta molta attenzione alle
storie che vengono portate sullo schermo, impone autori e attori ma, soprattutto, strumentalizza il
mezzo cinematografico a scopi di propaganda politica, bellica ed espansionistica. Tutte queste
limitazioni imposte dal regime, porteranno all’assoluto divieto di qualsiasi rappresentazione negativa
dell’Italia contemporanea. L’artificialità di tale tipo di cinema venne crescendo con gli anni, ed
assunse il nome di cinema dei “telefoni bianchi”, un particolare tipo di commedie brillanti, girati
quasi esclusivamente in interni e privo di qualunque riferimento alla realtà storica del periodo. La
stagione interessa un periodo di tempo relativamente breve, dalla seconda metà degli anni ‘30 alla
caduta del fascismo. Il riferimento ai telefoni di colore bianco (all’epoca un segno di benessere
sociale) indica fin da subito i caratteri di questo cinema che portano al rifiuto di qualunque
problematica sociale, ponendo al centro della scena esili commedie sentimentali. Tali commedie
conoscono un effimero successo negli anni in cui il fallimento delle promesse del fascismo si fa
sempre più evidente.

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bianchi”.
Se da un lato il regime con la censura impone un tipo di cinema abulico e irreale; dall’altro autori
come Mario Camerini, Mario Mattoli, insieme agli umoristi dissacranti del Marc’Aurelio, dal
quale nacquero maestri come Monicelli e Fellini, beffano con intelligenza e astuzia il regime. Le
ambientazioni piccolo-borghesi narrate in commedie popolari come Il cappello a tre punte, Il
signor Max o Imputato, alzatevi! rivelano le speranze e i sogni collettivi della società italiana, per
quelli che saranno piccolissimi esempi di realismo, ancora allo stato embrionale. Lo stesso realismo
che poi, qualche anno dopo il maestro dei maestri Vittorio De Sica, farà suo, regalando al mondo
gli squarci di poesia della poetica neorealista.

Insomma, la prima rinascita del cinema italiano, pur nata principalmente per puri calcoli di interesse
politico, sarà in grado di distaccarsi da quest’ombra, costruendosi una propria autonomia ed una
propria identità. E farà il tutto rinascendo una seconda volta, al termine della Seconda Guerra
mondiale, esattamente come lo farà il nostro esausto e distrutto Paese.

Il primo segnale di ciò che renderà il cinema italiano il più grande del mondo, ovvero la sua assoluta
e unica capacità di parlare di noi stessi, di analizzare quello che siamo, con i tanti vizi e le poche
virtù, che accompagnano da sempre il nostro, in fondo, amato Paese.

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Favolacce - Il film
Vincitore dell’Orso d’Argento a Berlino per la Migliore sceneggiatura, Favolacce, film di
Damiano e Fabio D’Innocenzo, si issa, quasi senza ombra di dubbio, come la migliore pellicola
della falcidiata annata 2020. Speriamo che il cinema possa riprendersi nel corso dell’estate e del
prossimo autunno, ricordando come il suddetto film avrebbe già dovuto approdare nelle sale
cinematografiche lo scorso 16 aprile, poi bloccato per la pandemia da Covid-19 che ha posto l’Italia
in lockdown. Qualche giorno fa, in seguito alla riapertura delle sale cinematografiche, datato 15
giugno, alcuni film hanno avuto, è proprio il caso di dirlo, il coraggio di ripresentarsi lì dove la magia
del cinematografo ottiene la sua massima espressione, ovvero in sala.

Favolacce è uno di questi “eroi” che cercano di prendere in mano il cinema italiano. Una favola
nerissima, ma vera, in cui la coppia di autori ha riversato, attraverso la voce di un narratore, il vuoto
pneumatico di figure parentali (con in più un docente) che dovrebbero insegnare a vivere ai propri
figli mentre invece hanno perduto qualsiasi capacità di positività e di sguardo sul futuro.

I D’Innocenzo ci propongono solo tinte scure e a uno sguardo superficiale si potrebbe pensare che
di pessimismo oggi ne circola già abbastanza senza bisogno di ulteriore impegno. Di fatto però non è
così. Perché questa più che una favola nera è (ci si perdoni il gioco di parole) una favola ‘vera’. Basta
leggere le cronache quotidiane per rendersene conto.

E se nelle favole nere non ci sono principi azzurri qui invece ce ne sono ben due. Sono i D’Innocenzo
che, concentrando in una sorta di overdose narrativa il negativo sempre più presente nella società
contemporanea, anche se con una diffusione a macchia di leopardo, ci vogliono ammonire. Ci
ricordano che sempre più spesso i draghi dell’insensibilità e dell’amoralità (travestita da perbenismo
di facciata) si annidano in quelle grotte che sono diventate certe abitazioni in cui solo
apparentemente c’è tutto ciò che occorre. Questo film è la lancia che utilizzano per aiutarci a
prenderne coscienza e ad iniziare a stanarli per poi sconfiggerli.

Il film, tutto poggiato sulle meravigliose spalle di Elio Germano, ormai l’attore italiano più
importante del panorama nazionale, ha ottenuto anche 9 nominations ai Nastri d’Argento, tra cui
quella più prestigiosa come Miglior film. In questa speciale categoria, il film sembra essere il
favorito alla vittoria finale. Nella 75esima edizione, del prossimo 6 luglio, sapremo il verdetto.
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I 100 anni di Alberto Sordi, l’attore
simbolo di un’epoca che fu la perfetta
maschera dell’italiano medio e che, oggi,
sembrerebbe un esempio di virtù
Cento anni fa, il 15 giugno 1920, nasceva a Roma, per la precisione nel rione di Trastevere, Alberto
Sordi, ultimo figlio di Pietro Sordi, professore di musica e strumentista, e Maria Righetti, insegnante
elementare.

È considerato, insieme a Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi e Nino Manfredi, uno dei “4 Mostri della
commedia italiana”, o anche uno dei “4 Colonelli” dello stesso genere.

Di sicuro, dei quattro era il più popolare e vicino alla gente. Meno sornione di Tognazzi, meno
impegnato di Gassman, meno eclettico di Manfredi, Sordi fu, nei 200 film che interpretò nella
sua carriera, la vera maschera dell’Italiano medio, la cartina tornasole dei nostri tanti vizi e delle
nostre poche virtù.

  PER APPROFONDIRE:

  ■   Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema
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