16 GIUGNO - UFFICIO STAMPA - Libero Consorzio Comunale di Ragusa

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16 GIUGNO
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Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   16 GIUGNO 2019

                               LA SICILIA
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                                 SEGUE
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POLITICA                                                                                                            16/6/2019

Musumeci con la Lega "Sarò l’alfiere del
Sud"
Il governatore raduna in piazza Verdi le truppe di Diventerà bellissima e annuncia la svolta filo-
Salvini " Voglio federare i movimenti e portare a Roma le questioni meridionali". Porte aperte alla
ricandidatura Nelle prime file Genovese junior, molti burocrati e manager sanitari. " Ma non farò
campagna acquisti"
di Antonio Fraschilla « Menomale che a Roma c’è la Lega: con loro dialogheremo. A breve inizierò un viaggio nelle regioni
del Sud per federare tutti i movimenti come Diventerà bellissima, in Calabria, in Puglia e in Campania, che si riconoscono in
questo centrodestra. Voglio portare al tavolo nazionale le questioni del Mezzogiorno». Il governatore Nello Musumeci torna
nell’agone politico e rilancia il suo ruolo di leader del centrodestra al Sud in stretto raccordo con Matteo Salvini. Un impegno
che aveva preso nel patto siglato con il governatore della Liguria Giovanni Toti per costruire la terza gamba del centrodestra a
trazione leghista. Un asse che in autunno potrebbe anche andare al voto per le Politiche.
Musumeci riunisce Diventerà bellissima, e lo stato maggiore della Regione, in piazza Verdi a Palermo per lanciare la fase due
del suo movimento. Altro che ritiro in campagna dopo questa esperienza a Palazzo d’Orleans: il governatore vuole avere un
ruolo nazionale e si pone come riferimento di Salvini al Sud. «Il Meridione ha bisogno di unire le forze, ha bisogno di far
sentire la sua voce a Roma e in Europa, e questo lo può fare solo nel centrodestra — dice Musumeci — voglio costruire
un’alleanza o una federazione con tanti movimenti come Diventerà bellissima nelle regioni meridionali. Attenzione, io non
voglio togliere voti e classe dirigente a Forza Italia. Voglio portare al voto i milioni di meridionali che alle Europee si sono
astenuti. Dalla prossima settimana inizierà un viaggio nel Meridione per costruire questo fronte. Ma non farò campagna
acquisti né avvierò il mercato delle coscienze. Non l’ho fatto all’Ars, non lo farò altrove».
Musumeci cerca così di evitare tensioni con i centristi, a partire da Forza Italia che in queste ore è in grande difficoltà: Toti
minaccia di portarsi via un pezzo del partito, il leader Silvio Berlusconi vuole fare lui l’accordo con Salvini anche sciogliendo il
partito. Ma di fatto Musumeci annuncia l’avvio di un progetto per costruire una casa moderata del nuovo centrodestra,
esattamente il ruolo che hanno avuto Udc, Forza Italia e, in Sicilia, Cantiere popolare e Mpa.
Non a caso il primo che a breve potrebbe salire su questa nuova Diventerà bellissima è Luigi Genovese, figlio di Francantonio,
che lascerà il gruppo di Forza Italia all’Ars. In piazza, ad ascoltare Musumeci, Genovese junior è in prima fila. Non c’è invece
un pezzo di classe dirigente che ha già lasciato Forza Italia, come il sindaco di Catania Salvo Pogliese, che però sembra molto
interessato al progetto nuovo di Musumeci.
L’orizzonte, per tutti, è comunque quello del centrodestra di Salvini. Il governatore, nel suo lungo intervento, attacca
continuamente il Movimento 5Stelle e i suoi esponenti, definendoli « impostori » : « Per fortuna a Roma c’è chi ci ascolta come
la Lega, anche se su alcuni temi, come le quote tonno, deve ancora darci risposte».
Ad ascoltare Musumeci in piazza, oltre agli esponenti di Diventerà bellissima, anche un pezzo della burocrazia regionale: ci
sono Maurizio Croce, che guida l’ufficio per il dissesto idrogeologico, e poi dirigenti generali e manager della sanità come
Salvo Cocina, Tuccio D’Urso, Maria Letizia Di Liberti, Angelo Aliquò, Beppe Battaglia, Fulvio Bellomo e Mario
Parlavecchio, tra gli altri.

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Il governatore, nel rivendicare tutte le azioni fatte in questi quasi due anni di governo, apre anche a una sua ricandidatura o
comunque non dà più per scontato il ritiro in campagna, come aveva detto all’inizio del suo mandato. «Da oggi inizia per me un
nuovo percorso e proverò a riportare i tanti astenuti al Sud di nuovo al voto — dice — ma attenzione: a chi pensa già alla mia
successione come governatore, a chi lavora alle spalle, dico: " Lascia perdere". Io non amo certe scorrettezze e certe furbizie».
Insomma, Musumeci che fino a qualche mese fa sembrava non voler entrare nella partita politica, tanto che non ha schierato
Diventerà bellissima alle Europee, adesso invece rilancia il suo ruolo e lo fa in Sicilia ma anche a livello nazionale.
Rimane da capire come riuscirà a tenere insieme questo nuovo ruolo politico con gli equilibri all’Ars, dove ancora la
maggioranza è in mano a chi con la Lega proprio non sembra volerci andare, da Gianfranco Miccichè ai centristi, passando per
l’Mpa di Lombardo. «E chi esclude che, se si va a votare in ottobre a livello nazionale, poi non possa accadere la stessa cosa in
Sicilia, visto che ci sarebbe nel Paese una nuova geografia politica? » , sussurra qualche suo fidato collaboratore in piazza
Verdi. Già, chi lo esclude?

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POLITICA                                                                                                              16/6/2019

Segretario sotto scacco liti continue, big
muti il guado infinito del Pd
Atteso per domani a Roma il verdetto sulla contestata elezione di Faraone Niente direzione, niente
simbolo alle elezioni. " Siamo un partito a metà"
di Claudio Reale Un dirigente dem di maggioranza lo dice senza giri di parole: « Siamo un partito a metà». Perché il Pd che già
domani potrebbe conoscere la sorte dei ricorsi dell’opposizione interna sulle mancate primarie che hanno portato all’elezione
del renziano Davide Faraone dimezzato lo è davvero: con una segreteria ma senza una direzione, cioè senza l’organismo
interno che deve prendere le decisioni, presente senza simbolo alle elezioni comunali ma parzialmente rianimato dalla risalita
alle Europee, debole nell’opposizione al governo regionale ma col segretario particolarmente attivo nelle denunce su temi come
rifiuti e beni culturali.
Il nodo, d’altro canto, è proprio il congresso che non c’è stato. Già domani la commissione di garanzia nazionale, presieduta
dalla zingarettiana Silvia Velo, potrebbe pronunciarsi sul ricorso dei sostenitori di Teresa Piccione ( zingarettiana a sua volta),
che si è sfilata dalla corsa alla segreteria durante un congresso che ha fatto esplodere il partito. « I ricorsi — soffia il deputato
regionale Luca Sammartino, esponente della maggioranza interna — si basano su una concezione drammaticamente vetusta » .
« O troviamo le ragioni dello stare insieme — avvisa il vicesegretario Antonio Rubino — oppure diventeremo ostaggio delle
dinamiche nazionali e questo ci consegnerà a una guerriglia permanente ».
Il calumet della pace — in una vicenda che si intreccia con gli scontri nazionali e che rischia di aprire un nuovo fronte fra
zingarettiani e renziani dopo la polemica su Luca Lotti — è poggiato sul tavolo: fra i dirigenti della maggioranza interna molti
fanno riferimento agli organismi ancora da nominare — appunto la direzione, la presidenza del partito, il 40 per cento
dell’assemblea regionale e le segreterie provinciali — come possibili compensazioni. « Il punto — annota però uno dei big
dell’opposizione interna, Antonello Cracolici — è che in questo momento siamo un partito che non discute più». Dalla
composizione della neonata segreteria Zingaretti, però, alla vigilia non arriva un segnale distensivo: l’unico siciliano è
Giuseppe Provenzano, per una formazione che secondo Rubino « umilia l’Isola ».
Le conseguenze si riflettono sulla vita concreta del partito. «Il Pd — accusa Sammartino, che un paio di giorni fa ha ottenuto
l’archiviazione dell’indagine a suo carico sui voti sospetti alle Regionali — deve dire cosa vuole fare per i territori, che idea ha
per la Sicilia». Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: alle amministrative di maggio il partito si è presentato col simbolo
solo a Castelvetrano, rimanendo peraltro fuori dal ballottaggio, mentre in tutto il resto dell’Isola è confluito in liste civiche dalla
geografia variabile, mentre « alle Europee — attaccano dalla minoranza interna — l’unica iniziativa collettiva è stata una
conferenza stampa». E se il voto del 26 maggio ha visto i dem risalire al 16,6 per cento rispetto all’11 delle Politiche 2018, nel
partito si procede in ordine sparso: « A fare opposizione al governo nazionale — sibila un big della minoranza interna — ci
pensa solo Leoluca Orlando » . « All’Ars — controbattono dalla maggioranza — la linea è confusa sull’opposizione a
Musumeci, ma a fare la linea è il capogruppo». Cioè Giuseppe Lupo, esponente della minoranza interna da qualche settimana
un po’ defilato: raggiunto da un avviso di garanzia per corruzione, giovedì ha lasciato che fosse Cracolici a parlare per i dem
durante il dibattito sulla questione morale. «Ma in quell’occasione — concedono dalla maggioranza interna — anche altri
partiti hanno fatto parlare deputati diversi dal capogruppo. Del resto non è la prima volta che Cracolici parla in aula per il Pd».

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Intanto si naviga a vista. Con le sole denunce di Faraone su beni culturali e rifiuti a fare da contraltare all’afasia del partito: «Il
problema — sbuffano però dalla minoranza — è che non è chiaro se siano iniziative personali o del Pd». Tanto più che le prese
di posizione del segretario — soprattutto sui rifiuti, per anni un assessorato di area renziana durante l’era Crocetta — prestano
il fianco alle risposte del governo Musumeci: « Questi problemi — gli ha detto per esempio venerdì l’assessore alla Sanità
Ruggero Razza ribattendo a una sua denuncia su Morgantina — saranno sempre più prontamente risolti come invece non sono
stati mai affrontati dal precedente governo, di cui Faraone è stato massimo garante politico, come leader siciliano del Pd». O di
quello che, in attesa della pronuncia sui ricorsi, ne è rimasto in piedi. E che anche i dirigenti della maggioranza descrivono
ormai come «un partito a metà».
Il leader renziano si concentra su rifiuti e beni culturali
Provenzano entra in segreteria nazionale ma Rubino attacca "Così ci umiliano"
j Sotto assedio Davide Faraone segretario regionale del Partito democratico ed ex sottosegretario renziano In alto, Nello
Musumeci parla al raduno di Diventerà bellissima in piazza Verdi

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Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   16 GIUGNO 2019

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ECONOMIA                                                                                                             16/6/2019

La mossa anti deficit del governo blinda i
risparmi di reddito e Quota 100
La proposta a Bruxelles, le cifre stanziate e non spese verranno usate per ridurre il disavanzo anche
nel futuro: dieci miliardi in tre anni. In campo la Finanza per stanare gli abusi

di Valentina Conte

ROMA — Il governo è pronto a mettere sul piatto della trattativa con l’Europa tutti i risparmi derivanti da reddito di
cittadinanza e quota 100. In modo strutturale, non solo per quest’anno, ma anche nei prossimi. Per evitare l’apertura di una
disastrosa procedura per debito eccessivo, Palazzo Chigi - in coordinamento costante con il ministero dell’Economia - è
disposta dunque a garantire per iscritto e con dati puntuali, nella imminente lettera di risposta alle richieste di Bruxelles, che gli
avanzi delle due misure cardine di Lega e Cinque Stelle saranno blindati da assalti politici di varia natura. E andranno a
ripianare il disavanzo, a tenere dunque i conti in riga.
E non si tratta di briciole. Dalle pensioni potrebbero arrivare tra i 5 e i 7 miliardi nel triennio. Dal reddito di cittadinanza
almeno 3. Ma in quest’ultimo caso il bottino potrebbe salire molto più su. Non solo per le richieste di sussidio inferiori alle
attese. Ma perché nella seconda fase dei controlli – affidata alla Guardia di Finanza, dopo quelli automatici su reddito e
patrimonio svolti da Inps – potrebbero scattare revoche importanti. Un miliardo di euro, nelle prime stime, già assegnato e non
dovuto. Da sommare al miliardo che il vicepremier Luigi Di Maio già ritiene in surplus - non richiesto, quindi rispetto allo
stanziamento di 5,6 miliardi per il 2019.
Due miliardi dal reddito e uno dalle pensioni rendono di fatto la manovrina di correzione per il 2019 inutile: i soldi ci sono,
proverà a spiegare il ministro dell’Economia, Giovanni Tria. E a questi si aggiungono entrate extra da tasse, contributi,
dividendi, utili che saranno quantificate entro la fine di luglio, nel bilancio di assestamento. L’Europa - come anticipato ieri da
Repubblica - ne chiede 9 per risanare anche lo sforamento 2018. Ma questa cifra sarà tema di confronto. Anche perché viene
considerata da Palazzo Chigi solo una base di trattativa, che coglie i desiderata dei Paesi Ue rigoristi, vogliosi in questa fase di
apparire integerrimi con l’Italia. Il premier Giuseppe Conte ha già dichiarato che l’autocorrezione dei conti sarà «naturale», è
nelle pieghe del bilancio. Secondo questa lettura, il deficit scenderebbe dal 2,4% previsto nel Def per quest’anno (ma la
Commissione stima il 2,5%) al 2,1. E non si esclude di tornare al 2%, fissato nella manovra del "balcone", se fosse necessario
come ulteriore e finale sacrificio.
Usare gli avanzi di reddito e quota 100 per rispettare le regole Ue avrebbe il pregio di stemperare la critica di Bruxelles sulle
due misure di welfare, simbolo del governo gialloverde. Nel rapporto sul debito inviato a Roma il 5 giugno scorso - che ha
avviato la procedura di infrazione - la Commissione le addita come concausa dello sfascio dei conti: il reddito perché privo di
impatto positivo sul Pil e quota 100 perché indebolisce la sostenibilità del bilancio italiano nel lungo termine. Palazzo Chigi
ricorderà che quota 100 è un’opzione di flessibilità sperimentale, dalla durata circoscritta a tre anni, che non cancella la legge
Fornero (21 miliardi nel triennio, ma effetti per 48 miliardi in 10 anni). Mentre il reddito, seppur permanente, si sta rivelando
un sussidio anti-povertà imprescindibile perché più ampio del già esistente Rei. Ma meno impattante dei 7 miliardi all’anno
previsti dal 2020 in poi.
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Nessuna retromarcia sulle misure bandiera, è la tesi. Ma un utilizzo di quelle risorse in modo utile per il Paese. In vista di un
autunno caldissimo tra clausola Iva da 23 miliardi e flat tax leghista.
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L’INCHIESTA

Al Csm nuove carte su Lotti, Ferri e il pg di
Cassazione
di Carlo Bonini

Nelle intercettazioni un colloquio tra Fuzio e Palamara Le manovre per la Procura di Perugia: l’obiettivo è il pm Ielo
ROMA – Avviso ai naviganti. Il calvario non è finito. Dalla Procura di Perugia è partito alla volta del Csm un nuovo robusto
faldone di carte. Si tratta delle trascrizioni di quel che restava delle conversazioni captate dal software spia "Trojan" installato
nell’Iphone di Luca Palamara fino al 29 maggio scorso, giorno in cui è stato disattivato. E, per quanto se ne sa, sarà una nuova
onda destinata a travolgere ciò che resta politicamente dei già malconci parlamentari del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri (le
nuove carte documenterebbero in maniera ancora più stringente il loro coinvolgimento nel mercato delle nomine), ma anche a
creare nuovi cortocircuiti nel Csm. Nelle nuove carte sarebbe infatti allegata anche una conversazione del 27 maggio tra
Palamara e Riccardo Fuzio, il Procuratore generale della Cassazione che, nei giorni scorsi, ha firmato gli atti di incolpazione
dello stesso Palamara e dei consiglieri che, con lui, partecipavano alle riunioni carbonare (Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli,
Antonio Lepre, Gianluigi Morlini, Luigi Spina).
Staremo a vedere. Ma è certo che il quadro rischia di incrudelirsi ancora di più. Anche perché un altro lacerto del primo set di
carte già arrivate da Perugia al Csm offre, nel frattempo, nuovi dettagli su un altro angolo del verminaio.
"Su Perugia stavolta i napoletani non mi inc..."
Siamo di nuovo alla notte del 9 maggio. Quella della riunione carbonara in hotel. E la partita di cui si discute è quella per la
successione alla Procura di Perugia di Luigi De Ficchy (andato in pensione il 2 giugno scorso). È una nomina — ormai lo
sappiamo — vitale per i destini di Palamara che, in quel momento, è in corsa per diventare Procuratore aggiunto a Roma, e per
questo appoggia la nomina a Procuratore di Marcello Viola. E lo è perché il nuovo Procuratore di Perugia deve garantirgli due
cose. Chiudere senza danni l’indagine per corruzione che lo riguarda. E aprire un procedimento penale nei confronti del suo
"nemico". Il magistrato da cui è ossessionato e che ritiene, insieme a Giuseppe Pignatone, architetto di un complotto di cui si
ritiene vittima insieme al suo "amico" Luca Lotti: il Procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo.
Ebbene, ai primi di maggio, a Perugia sembra ormai destinato, per comune accordo tra le correnti, un magistrato capace e per
bene: il Procuratore aggiunto di Napoli Giuseppe Borrelli. È una nomina che Palamara subisce, avendo perso quello che
considerava il suo candidato, il Procuratore di Velletri Francesco Prete. Per questo decide cavalcarla facendo arrivare a Borrelli
il messaggio che se arriverà a Perugia è grazie a lui e solo a determinate condizioni. È un’operazione da mercato dei tappeti per
la quale — come confida al consigliere Luigi Spina la notte del 9 maggio — è necessario passare attraverso il consigliere del
Csm Michele Ciambellini, in quota alla corrente Unicost. Ciambellini è infatti il magistrato napoletano che, in Consiglio, ha
coagulato il consenso intorno a Borrelli e, in qualche modo è garante degli equilibri del distretto napoletano. Ma il problema è
che Palamara non sa come agganciare a dovere Ciambellini, che definisce «uno che fa il feudatario». «Mi hanno già inculato —
confida a Spina — perché a Napoli ogni magistrato scredita l’altro. Ognuno dice dell’altro che non conta un cazzo. L’unica è
che su Napoli l’unica carta che possiamo giocarci e di cui mi fido di più è Sirignano » . Cesare Sirignano, napoletano, pm

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anticamorra, è alla Direzione Nazionale Antimafia. E, per giunta, la sua compagna Ilaria Sasso Dal Verme, è distaccata al Csm
nella strategica quinta commissione, quella per gli incarichi direttivi.
"Sai cosa mi ha detto De Raho?"
Agli occhi di Palamara, Sirignano ha anche un altro pregio. Lavorando alla Direzione Nazionale Antimafia è un canale — a suo
dire — per guadagnare l’appoggio del Procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, napoletano anche lui. Che,
nel suo schema, è necessario. Perché la proposta che Palamara si prepara a far arrivare a Ciambellini in Consiglio è uno
"scambio di figurine". Borrelli (napoletano) andrà a Perugia, Catello Maresca (napoletano) andrà come pm alla Direzione
Nazionale antimafia e, in cambio, Ciambellini, quando si tratterà di votare il Procuratore di Roma sposterà il suo voto da
Giuseppe Creazzo a Marcello Viola (il candidato di Palamara e Lotti). Per convincere Spina, Palamara si spende anche il nome
di De Raho. «Questo discorso che ti sto facendo l’ho fatto non solo a Sirignano, ma anche a Cafiero. Sapeva tutto della
situazione di Roma e di quello che mi volevano fare e mi ha detto: "Hai perfettamente ragione sul ridimensionamento di
Pignatone"» .
Raggiunto da Repubblica, il Procuratore Cafiero De Raho, fatica a trattenere lo sconcerto. L’arzigogolo di Palamara e il
mercato in cui qualcuno vorrebbe tirarlo dentro per sporcarlo gli sono ignoti. Ha una sola parola. Definitiva. «Quello che mi
viene attribuito è pura millanteria» .
"Borrelli ha le palle?"
Chi parla invece la stessa lingua di Palamara è Sirignano. Alle cinque del pomeriggio del 7 maggio i due mettono le cose in
chiaro. Palamara non si fida di Borrelli. Dice: «Questo (Borrelli ndr.) ce l’ha le palle per farlo? Perché mi dicono che è il
candidato di Area (la corrente di sinistra della magistratura ndr.) ». Perché quello che deve fare Borrelli, quando sarà
Procuratore di Perugia, è indagare Paolo Ielo quando da lui andrà da lui Stefano Fava, pm a Roma, con un esposto. Sirignano lo
rassicura: «Ho parlato con Peppe (Borrelli ndr.) e gli ho detto: "Guarda che se vai tu a Perugia, è perché sei affidabile. E
capiscimi cosa vuol dire questa parola". Gli ho anche detto: "Te la devo spiegare?". E lui ha detto: "No, no, ho capito". Io e te
siamo troppo legati per dirti che Borrelli è 99 per cento» .
Giuseppe Borrelli ha denunciato Cesare Sirignano alla Procura di Perugia. E nel farlo ha consegnato una registrazione audio in
cui è la prova inoppugnabile che Sirignano millantava sul suo conto con Palamara. Voleva farlo apparire un bandito. Ha
scoperto di aver trovato un magistrato, e per questo ora pagherà il conto.
ANGELO CARCONI/ANSA L’addio
Pasquale Grasso, pm a Genova, si è dimesso dalla presidenza della Associazione nazionale magistrati
Repubblica Nell’articolo di ieri l’intesa tra Antonello Racanelli e Palamara. Ieri le sue dimissioni da segretario di Magistratura
Indipendente

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LA RIFORMA

Intercettazioni e tempi d’indagine tra 5S e Lega
l’intesa è lontana
Bonafede non vuole limitare la stampa: "Non ci interessano le faccende private, ma ciò che ha
rilevanza pubblica sì". Mercoledì vertice con Conte. Legnini: "Mattarella non è mai intervenuto sulle
nomine"

di Liana Milella

ROMA — Si chiamano Bonafede e Bongiorno. Nomi che potrebbero evocare serena collaborazione. Ma uno, il Guardasigilli
Alfonso Bonafede, è di fede grillina. La seconda, Giulia Bongiorno, è ormai una sfrenata salviniana. Sono avvocati tutti e due.
Adesso litigano sulla riforma della giustizia e mercoledì tenteranno un accordo con il premier Giuseppe Conte come mediatore.
Lei considera Bonafede un "manettaro". Lui vede nelle sue uscite una linea che difende gli imputati. L’ultimo scontro c’è stato
ieri. Bonafede, da mesi, lavora alla riforma, ma senza indiscrezioni. Bongiorno invece anticipa le sue idee sulle intercettazioni e
sulla strategia per accorciare i processi. Bonafede perde la pazienza. Il malumore trapela da via Arenula: «Le proposte della
lega? Sono già nella riforma tenuta fuori dal tritacarne della campagna elettorale».
Le novità? È presto detto. Riforma delle intercettazioni e stretta sui tempi delle indagini preliminari. Partiamo dalla prima.
Bongiorno propone lo stop al gossip e pensa addirittura a un reato per chi pubblica; stop anche alle cosiddette intercettazioni "a
strascico", intercetti uno indagato, e poi a catena ascolti anche altri. Bonafede invece ha bloccato, e la Lega l’ha dovuto subire,
la riforma Orlando fino a dicembre 2019. Testo contestatissimo che prevedeva un armadio blindato in cui nascondere gli
ascolti, l’obbligo per il pm di decidere subito quali conversazioni fossero "rilevanti" per le indagini. Le altre non andavano
neppure trascritte. L’idea di Bonafede è differente: «Non c’interessa sapere delle faccende private delle persone, perché quello è
un ambito che non c’entra col pubblico. Non ci interessa il taglia e cuci di frasi sparse per dimostrare le tesi di chi scrive. Non
c’interessa sapere della singola frase estrapolata da un brogliaccio, senza che sia perfettamente contestualizzata. C’interessa
sapere ciò che ha rilevanza pubblica, ciò che è di interesse pubblico». Il Guardasigilli non vuole bavagli per la stampa. Ritiene
che possa e debba essere pubblicato tutto ciò che è di interesse pubblico; è contrario al gossip, ma di certo non pensa a un reato
contro i giornalisti.
Scontro tra i due anche sui tempi delle indagini. Su cui già aveva messo mano l’ex ministro Andrea Orlando, modificando
l’articolo 407 del codice di procedura penale che disciplina appunto la durata massima delle indagini preliminari. Bonafede
cambia la regola. Ci saranno tre "scaglioni" basati sulla gravità dei reati. Ma v’è di più: la proroga dei termini interviene una
sola volta e solo per ulteriori sei mesi. Poi, se il pm non ha ancora notificato né l’avviso della conclusione delle indagini, né ha
richiesto l’archiviazione, verrà depositata la documentazione sulle indagini e sarà messa a disposizione dell’indagato e della
persona offesa. Solo in caso di specifiche esigenze, su indagini per reati gravi, l’avviso potrebbe essere ritardato per un periodo
limitato di tempo. La stretta è evidente. Ma Bongiorno la vorrebbe ancora più drastica.
E siamo al Csm. Forse unico argomento su cui le posizioni di Bonafede e Bongiorno sono più conciliabili. Entrambi sono per il
sorteggio. Una prima selezione casuale tra le 9mila toghe, poi comunque un voto su quelle estratte, perché se si saltasse

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l’elezione la norma sarebbe incostituzionale. Bonafede non mancherà di sottoporre a Mattarella la sua proposta. Soprattutto
adesso, con il Quirinale sotto attacco per la vicenda delle nomine che sta travolgendo il Csm. A negare ogni ingerenza ieri è
stato l’ex vice presidente Giovanni Legnini, che dall’inizio dello scandalo sulle toghe sporche era rimasto in silenzio. Allibito
dalle progressive rivelazioni, ieri non ce l’ha fatta più. Eccolo dichiarare che «Mattarella non è mai intervenuto sulle nomine
dei capi negli uffici e ha sempre garantito l’autonomia del Csm e dei suoi organi, limitandosi a fornire indirizzi generali
sull’attività consiliare e sul rispetto delle procedure». Con Mattarella, come con Orlando prima e Bonafede poi, i rapporti «sono
sempre stati improntati al rigoroso esercizio delle rispettive prerogative costituzionali, senza alcuna ingerenza né sulle nomine
né su altre decisioni». Ma l’inchiesta di Perugia porterà con sé anche la drastica riforma di Bonafede sulle regole per
promuovere le toghe, basata su punteggi e rigidi criteri meritocratici per bloccare camarille e intese sottobanco.

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5 STELLE

Onorevoli grillini quelle restituzioni ferme da mesi
Dimenticate le eccedenze degli stipendi E i soldi potrebbero finire a Rousseau

di Annalisa Cuzzocrea Emanuele Lauria

ROMA — La grande paura è che la legislatura finisca presto e che quindi, i soldi, convenga tenerseli da parte. Il grande
sospetto è invece che il famoso conto intermedio nato per le restituzioni del Movimento 5 stelle, quello in cui i parlamentari
versano l’eccedenza dei loro stipendi, si stia ingrossando per foraggiare ancora una volta l’Associazione Rousseau. E non i
fondi votati dagli iscritti sul blog. Tanto che, da mesi, quasi la metà dei parlamentari M5S ha smesso di restituire.
Al primo fondo, per il contrasto della povertà educativa infantile, sono andati 970mila euro delle passate restituzioni. Ma altri
590mila, dovevano andare a un fondo per il diritto al lavoro dei disabili. E 440mila a quello contro la violenza sulle donne. Non
pervenuti perché quei fondi non sono attivi. Non c’è ancora un codice iban cui versare, almeno a quanto trapela dai direttivi di
Camera e Senato. Che assicurano: è un problema che si risolverà presto. Ma non riescono a fermare i sospetti di molti deputati
e senatori, già indispettiti per il fatto che, secondo il regolamento varato mesi fa, i fondi residui che rimarranno sul conto del
comitato per le restituzioni andranno, al momento dello scioglimento, all’associazione Rousseau presieduta da Davide
Casaleggio. E quando è previsto lo scioglimento del comitato? Entro 90 giorni dalla fine della legislatura. Se si interrompesse
bruscamente, dicono i parlamentari più riottosi, ci sarebbero altri soldi per la già nutrita cassaforte M5S (cui vanno già
obbligatoriamente 300 euro al mese per ogni deputato, senatore, membro del Parlamento europeo o consigliere regionale).
Senza contare gli interessi già maturati sul conto milanese della Banca Profilo di via Cerva, che fa capo al fondo Sator di
Matteo Arpe.
Che sia per questo o per altri motivi, fatto sta che 155 parlamentari dei 326 M5S in Parlamento sono in ritardo con i pagamenti.
Entro il 10 maggio avrebbero dovuto contabilizzare le restituzioni di gennaio e febbraio, ma oltre la metà non l’ha fatto. La
maglia nera — come si può vedere dal sito Tirendiconto — ce l’hanno il senatore Alfonso Ciampolillo, il collega di Palazzo
Madama Sergio Puglia e la deputata Francesca Troiano, che non effettuano versamenti da luglio. Dopo di loro, alla Camera, il
più ritardatario è l’attore Nicola Acunzo (non versa da agosto) insieme a Flora Frate. Ma sono indietro anche sottosegretari
come quello agli Esteri Manlio Di Stefano e ministri come Danilo Toninelli, fermi a ottobre. E anche Riccardo Fraccaro, Vito
Crimi, Barbara Lezzi, che al 10 maggio — com’era previsto — non hanno ancora contabilizzato gennaio e febbraio.
Il sistema è complicato: prevede la restituzione (oltre ai 300 euro per Rousseau) di almeno 2mila euro di indennità, più quello
che non si spende per gli eventi ufficiali M5S e per l’esercizio del mandato. Alcuni si metteranno in regola all’ultimo momento
(entro il 31 luglio bisognerebbe versare quanto dovuto per marzo, aprile e maggio), ma quacosa si è chiaramente inceppato.
Mettendo in allarme i direttivi di Camera e Senato e i vertici del Mo vimento. C’è un problema di fiducia: non esattamente una
cosa da poco, quando si hanno per le mani milioni di euro.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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