CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE SULLE PROSPETTIVE DI EVOLUZIONE DELLA FIGURA DELL'INGEGNERE E DELLA SUA FORMAZIONE

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CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE SULLE PROSPETTIVE DI EVOLUZIONE DELLA FIGURA DELL'INGEGNERE E DELLA SUA FORMAZIONE
Università degli studi di Cagliari
            Facoltà di Ingegneria e Architettura

      CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE SULLE PROSPETTIVE DI
     EVOLUZIONE DELLA FIGURA DELL’INGEGNERE E DELLA SUA
                         FORMAZIONE
Documento di lavoro definito dalla Commissione delegata dal Consiglio della Facoltà di
Ingegneria e Architettura dell’Università di Cagliari, costituita da: Simonetta Palmas
(simonetta.palmas@dimcm.unica.it), Giuseppe Mazzarella (mazzarella@unica.it), Giorgio
Querzoli (querzoli@unica.it) e Corrado Zoppi (zoppi@unica.it)

La Giunta della Conferenza per l’Ingegneria ha promosso una ampia discussione
sull’evoluzione nei prossimi decenni della figura professionale dell’ingegnere e sulle sfide
che dovrà affrontare e sulle implicazioni riguardo alla sua formazione. La discussione è
stata avviata attraverso un documento che traccia in modo esaustivo le grandi linee a livello
internazionale, anche riprendendo le riflessioni svolte dalle principali scuole ed istituzioni
coinvolte nella formazione ingegneristica nel mondo, e propone di strutturare la
discussione secondo tre assi portanti:
  - le professioni del futuro e le sfide per l’ingegneria,
  - i modelli formativi che possono supportare e accompagnare i futuri ingegneri,
  - la progettazione di programmi formativi adeguati e appropriati per il contesto italiano.
Il presente documento si propone di portare un contributo di discussione approfondendo
alcuni aspetti di questi assi nel contesto specifico della formazione dell’ingegnere in Italia.

Le professioni del futuro e le sfide per l’ingegneria
1. Gestione integrata del territorio e resilienza ai cambiamenti climatici: un tema importante
      per la formazione professionale dell’ingegnere nel periodo che accompagna e segue
      l’emergenza pandemica.
Tra le più significative competenze necessarie, in termini interdisciplinari, per indirizzare
temi di grande rilevanza dell’Ingegneria in relazione alla gestione del territorio, in rapporto
alla resilienza ai cambiamenti climatici, sono da considerare, nel breve e medio termine, la
mitigazione dell’innalzamento delle temperature, l’indirizzamento delle criticità derivanti
dal rischio idraulico e da frana ed i paradigmi della gestione urbana concernenti
l’emergenza pandemica.
Nel seguito si propongono alcune riflessioni su queste tre questioni, sottolineandone le
implicazioni in chiave di percorso formativo, scientifico e tecnico, dell’ingegnere che
contribuisce alla progettazione dell’assetto del territorio.

A) Mitigazione dell’innalzamento delle temperature.
La caratterizzazione spaziale dei fenomeni della temperatura al suolo, delle ondate di
calore e delle isole di calore urbane, ed il relativo indirizzamento in termini di pianificazione

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dell’uso dei suoli, comporta la messa in atto di politiche del territorio che necessitano delle
competenze tecniche di diverse discipline tipiche della formazione di base e specialistica
dell’ingegnere.
L’impatto più rilevante sugli aumenti della temperatura al suolo è rappresentato dalle aree
urbanizzate, che limitano o impediscono la circolazione dell’aria e l’impatto del
raffrescamento sottovento (Oke, 1988). In queste zone, il comfort termico generato dalle
aree vegetate è quasi del tutto assente (Geneletti et al., 2019). Le misure di pianificazione su
microscala, volte a ridurre la temperatura al suolo in contesti urbanizzati, si basano sulla
messa a dimora di alberi, sull’aumento nella dotazione di zone verdi urbane attraverso
l’impianto di essenze su aree prive di verde oppure l’ampliamento di zone urbane in parte già
dotate di spazi vegetati, la realizzazione di tetti e pareti “verdi”, pavimentazioni permeabili,
giardini pluviali e depressioni vegetate (Geneletti et al., 2019; Palla & Gnecco, 2015; Liu et al.,
2014), molto efficaci anche nel caso di eventi meteorici estremi, soprattutto in ambito
urbano.
Nelle zone periurbane ed extraurbane, le aree caratterizzate da agricoltura intensiva ed
estensiva, e da spazi aperti, comportano impatti negativi sulla temperatura al suolo molto
simili a quelli delle aree urbanizzate. Le aree ad agricoltura intensiva, seppur non
impermeabilizzate, si caratterizzano per la presenza di una fitta vegetazione a bassa
crescita che impedisce la circolazione dell’aria e il raffrescamento sottovento, e, pertanto, si
connotano per bassi valori di comfort termico e di evapotraspirazione (Irmak, 2012).
Le coperture dei suoli più efficaci nel mitigare l’aumento della temperatura al suolo sono le
foreste e le aree boschive e arbustive di transizione, e le praterie naturali, garighe e
vegetazione sclerofilla, grazie alla presenza della vegetazione che riduce la quantità di
calore immagazzinato nel suolo attraverso la traspirazione (Youneszadeh et al., 2015). A tal
fine, sarebbe auspicabile che le coperture dei suoli caratterizzate dal più basso grado di
antropizzazione siano oggetto di misure mirate all’attenuazione del fenomeno del
surriscaldamento. In particolare, tali misure dovrebbero sostenere le transizioni graduali
da aree ad agricoltura intensiva o estensiva, oppure incolte, ad aree alberate, boschive,
arbustive o forestali.
Politiche basate su sistemi di incentivi per il rimboschimento riferiti alla rendita agricola
rappresentano approcci di politica di piano per ridurre la temperatura al suolo nelle aree
rurali. Queste misure sono sicuramente più efficaci nelle aree agricole estensive o incolte,
mentre, per quelle caratterizzate da un’attività agricola intensiva, e quindi da alte rendite,
questi cambiamenti d’uso del suolo sono meno praticabili (Hyytiainen et al., 2008), in quanto
difficilmente un sistema di incentivi riuscirebbe a compensare la perdita di reddito. Tuttavia,
in riferimento a queste aree, le amministrazioni nazionali, regionali e locali potrebbero
giocare un ruolo-chiave nella individuazione delle aree potenzialmente convertibili, nella
definizione delle dimensioni ottimali delle aree da convertire e per quanto riguarda la
fattibilità finanziaria degli investimenti pubblici (Zavalloni et al., 2021).

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B) Il rischio idraulico e geologico.
I cambiamenti climatici generano impatti negativi sul ciclo integrato dell’acqua e sui
fenomeni legati alla gestione delle risorse idriche. L’instabilità idraulica e geologica può
essere concettualizzata come un cambiamento dei flussi naturali, superficiali e nel
sottosuolo, generati dalle interazioni tra l’organizzazione spaziale delle attività legate agli
insediamenti umani e questi flussi (Margottini, 2015). Quindi, l’instabilità idrogeologica causa
una situazione di più o meno accentuata pericolosità per le comunità insediate, ed i relativi
sistemi economici e produttivi (Trigila et al., 2018). Ad esempio, nel 2018 circa il 91% dei
comuni italiani si sono caratterizzati per un’esposizione alla pericolosità da piene e da frana,
ed il 16% del territorio nazionale è classificato come area ad alta pericolosità, con una
popolazione di circa 1,6 milioni di persone che vivono in aree a pericolosità geologica e oltre
6 milioni che abitano in aree che fanno rilevare pericolosità idraulica (Trigila et al., 2018; Di
Giovanni, 2016). Frane, piene, erosione costiera, subsidenza e valanghe sono tipici di queste
zone. Glie eventi franosi caratterizzano l’instabilità dei versanti, costituiti da roccia, suolo,
rinterri e riempimenti artificiali, o dall’integrazione di questi materiali, che possono cadere,
scivolare, rotolare, fluire o spandersi (Cruden & Varnes 1996). La rapida espansione degli
insediamenti umani, la deforestazione e l’urbanizzazione aumentano la probabilità
dell’accadimento di eventi franosi (Tiranti & Cremonini, 2019). Mentre, tuttavia, per quanto
riguarda il rischio idraulico sono disponibili una vasta gamma di studi e di modellizzazioni
che lo mettono in relazione ai cambiamenti climatici (effetto-serra, aumento delle
precipitazioni e connessioni con l’impermeabilizzazione del suolo legata all’espansioni degli
insediamenti ed all’urbanizzazione), lo sviluppo di studi e modelli che associano il rischio
geologico ai cambiamenti climatici è ancora a livello sperimentale (Seneviratne et al., 2012;
Stoffel et al., 2014; Gariano & Guzzetti, 2016)
La relazione tra la presenza di infrastrutture verdi e la mitigazione dell’instabilità idraulica è
stata recentemente studiata (Zucaro & Morosini, 2018) e modellizzata tramite lo Storm
water management model (Mei et al., 2018) e la Life cycle cost analysis, in termini di aiuto
alla decisione, anche in relazione all’impatto positivo delle infrastrutture verdi
sull’approvvigionamento idrico e sulla qualità dell’acqua erogata (Chen et al., 2015).
Parimenti, è stata analizzata l’influenza della copertura vegetale e dell’uso del suolo sugli
eventi franosi, in termini di numero, conseguenze ed implicazioni (Papathoma-Koehle &
Glade, 2013).
Benché la messa in opera di infrastrutture verdi costituite da sequenze di aree naturali e
seminaturali sia molto efficace nel mitigare o neutralizzare la pericolosità idrogeologica,
l’utilizzo di questi strumenti spaziali è, in termini tecnico-applicativi, ancora piuttosto
difficile, data la complessità della progettazione, tipicamente interdisciplinare, i costi
economici e gli oneri finanziari (Caparrós-Martínez et al., 2020, Commissione Europea,
2013).
Non vi è dubbio che, nella valutazione della fattibilità tecnica ed economica di
un’infrastruttura verde, si ponga la necessità di modelli controfattuali. L’implementazione di
questa modellistica implica la disponibilità di basi di dati territoriali complesse e costose,
sia dal punto di vista finanziario che temporale (Palmer et al., 2015).

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C) Pianificazione urbana e pandemia.
La pianificazione della città che segue, o seguirà, la conclusione dell’emergenza pandemica
pone all’attenzione dei tecnici del territorio diverse problematiche, di cui quelle che seguono
sono una parte importante.
La grande distribuzione.
Nel prossimo futuro il paradigma dei grandi shopping center, non sarà più proponibile: l’alta
concentrazione di persone e di merci ed il loro configurarsi come luoghi in cui le attività del
tempo libero e la socializzazione trovano una delle loro espressioni più significative, non
potrà essere accettato. Bisognerà riprogettare gli spazi della socializzazione legati alla
vendita al dettaglio, evitando la concentrazione ed il sovraffollamento. (Vedi per esempio:
New South Wales Stadia Strategy (NSW Government, Office of Communities, 2012) ed il
nuovo stadio del Cagliari Calcio (Balletto & Borruso, 2019)).
I centri storici e i centri degli affari.
Secondo Jacobs (1961, p. 36): “[T]here must be eyes upon the street, eyes belonging to those
we might call the natural proprietors of the street. The buildings on a street equipped to
handle strangers and to insure the safety of both residents and strangers, must be oriented
to the street. They cannot turn their backs or blank sides on it and leave it blind ”. Condizioni
fondamentali, che rendono operativo questo controllo nelle zone centrali delle città, sono
l’uso differenziato dello spazio pubblico e l’alta densità dei fruitori di queste zone nei diversi
momenti della giornata (Carmona, 2015).
Anche l’idea dei centri degli affari e dei centri storici come luoghi sicuri, in quanto soggetti ad
un controllo sociale continuo da parte degli utenti dello spazio urbano, viene messa in
discussione dalle nuove condizioni di distanziamento sociale che caratterizzano il periodo
pandemico e post-pandemico. I centri degli affari ed i centri storici potrebbero perdere la
loro caratterizzazione di poli di attrazione connotati da un elevato grado di sicurezza, così,
ad esempio, la Quinta Avenue (Birch, 1996), Boston North End (Jones et al., 2019), il Centro
Storico di Roma (Clough Marinaro & Solimene, 2020; City of Rome, 2018; Coppola et al., 2014),
Milano Duomo-San Babila (Bonfante & Pallini, 2014), Firenze Duomo-Signoria (Alberti &
Paloscia, 2018), le Ramblas (Urbano, 2015; Casellas, 2009), ecc. L’illusione della Radiant
Garden City Beautiful di Jacobs (1961) viene meno.
La riduzione delle catene dell’offerta alimentare.
Le catene dell’offerta mostrano difficoltà di funzionamento perché:
    si tende ad acquistare di più e ad avere scorte alimentari per la paura dei momenti di carenza
       di offerta e per la necessità di minimizzare la presenza nei supermercati (il “Just in time” non
      funziona più e c’è la necessità di aumentare le scorte domestiche);
     il lavoro “agile” porta ad aumentare la domanda di alimenti da preparare e consumare a casa,
      perché a casa si consumano più pasti durante la giornata.

L’accorciamento delle catene dell’offerta alimentare porta ad un avvicinamento dei luoghi
della produzione ai luoghi del consumo, con un evidente aumento della qualità di quanto si

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consuma. Allo stesso tempo, aumenta il costo medio del cibo, con conseguente rischio per
la popolazione a reddito più basso.
La produzione alimentare può avvenire attraverso canali alternativi, quali orti urbani, orti
comunitari, roofgardens, tetti verdi, ed agricoltura urbana.
L’approccio basato sull’agricoltura urbana offre una vasta gamma di servizi ecosistemici,
tra i quali la purificazione dell’aria, lo stoccaggio dell’anidride carbonica, la riduzione
dell’inquinamento da rumore, i benefici effetti psicologici derivanti dalla disponibilità di spazi
urbani all’aria aperta per il riposo e dall’esercizio dell’attività agricola nel tempo libero.
Modalità di trasporto: molte alternative e moltissimi dubbi.
Il trasporto pubblico collettivo, quale modalità principale per gli spostamenti (lavoro, studio,
tempo libero) che punta ad operare in condizioni di domanda in equilibrio con l’offerta, cioè a
piena capacità, nelle ore di punta, è in contrasto con il paradigma del distanziamento sociale.
Le alternative da tenere presenti sono tante e, in questo momento, difficilmente
rappresentabili in termini di modelli di integrazione sistematica.
Diminuisce la domanda di trasporto pubblico collettivo da parte dei lavoratori che operano
in modalità di lavoro agile. Aumenta l’utilizzo del mezzo proprio. Per tragitti brevi, si
prediligono gli spostamenti a piedi, in bicicletta con o senza pedalata assistita, scooter a
benzina o elettrico, monopattino elettrico. È evidente come la combinazione di questi mezzi
di spostamento costituisca un’ulteriore possibilità per effettuare gli spostamenti in
sicurezza.
Le implicazioni di tutto questo sulla progettazione dello spazio pubblico sono evidenti e non
facilmente integrabili nei contesti urbani attuali. Gli impatti sull’inquinamento atmosferico
sono, pure, ancora da studiare in termini sistematici.
Aspetti positivi e criticità della gestione del territorio durante e dopo l’emergenza
pandemica.
Effetti positivi di breve periodo: diminuzione del consumo di energia, delle emissioni di gas
serra e dell’inquinamento atmosferico.
Nel medio lungo termine: per mitigare gli effetti della devastante crisi economica del
periodo pandemico e post-pandemico non è escluso un massiccio investimento nella
produzione industriale, senza tenere in gran conto le catene produttive che generano
pesanti impatti in termini di inquinamento atmosferico (free riding). L’estensione della
elettrificazione dei trasporti sarà fondamentale nell’ambito della decarbonizzazione del
sistema della mobilità sostenibile.
Infine, vanno considerate le questioni dell’urbanizzazione diffusa, della riorganizzazione del
sistema dei trasporti, dell’aumento del consumo di suolo e degli effetti di lungo periodo
sull’aumento della temperatura al suolo.
Al momento, alcuni punti chiave restano in dubbio: Le politiche orientate alla rigenerazione
dei tessuti storici delle città segneranno il passo, ma, ci chiediamo: gli investimenti per la

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rigenerazione urbana saranno diretti ad altri contesti, ad esempio ad un’espansione urbana
estensiva, con l’interessamento dei territori rurali e periurbani?
Una più equilibrata e meno centralizzata distribuzione delle attività residenziali, lavorative e
legate ai servizi pubblici, condurrà l’assetto urbano e periurbano a configurarsi come un
sistema territoriale policentrico, con piccoli insediamenti? tipo una rete di villaggi?
Quali saranno gli impatti generati dalla nuova organizzazione reticolare ed estensiva degli
insediamenti sul territorio in termini di consumo di suolo, di capacità di sequestro e
stoccaggio di carbonio, di innalzamento della temperatura, e di sistema dei trasporti?
Come tenere conto, nei processi di gestione del territorio e nella definizione delle prassi di
pianificazione, dell’oggettiva necessità dell’accorciamento delle catene della produzione e
dell’offerta alimentare? Ci saranno net gainer e net loser? In che modo si terrà conto delle
produzioni agricole urbane e del loro impatto sulla qualità urbana?
I precedenti punti non potranno inoltre esulare da un altro fondamentale requisito legato
alla transizione energetica e alla neutralità climatica

D) Neutralità climatica e transizione energetica
Già dal 2018 L’Europa si è lanciata in una sfida ardua, candidandosi a diventare entro il 2050 il
primo continente al mondo a neutralità climatica. L’idrogeno verde sarà uno degli elementi
chiave della transizione energetica e l’Europa dovrà fare da guida. Per farlo sarà necessario
compiere scelte coraggiose, scommettendo e investendo su un sistema energetico
integrato e più efficiente.
La sostituzione dei combustibili fossili, l’uso dell’idrogeno come vettore energetico, lo
sfruttamento delle fonti di energia rinnovabile, la mobilità a zero emissioni, saranno punti
chiave per il raggiungimento di un tale ambizioso obbiettivo.
In particolare, la possibilità di sfruttare le fonti di energia rinnovabile per la produzione di
elettricità potrà guidare verso l’elettrificazione dei sistemi industriali ed ambientali,
riducendo le emissioni di gas climalteranti, e migliorando la qualità dell’aria soprattutto in
aree densamente popolate (la scarsa qualità dell’aria è il principale problema sanitario e
ambientale in Europa). L’elettrificazione dei trasporti, del residenziale e del terziario
insieme allo sviluppo di tecnologie di produzione da fonti di energia rinnovabile sarà quindi
determinante per raggiungere gli obiettivi UE a breve e medio-lungo termine in materia di
qualità dell’aria.
L’idrogeno verde insieme ai cosidetti e-fuel, combustibili sintetici climate-friendly derivati
da processi di elettrolisi alimentati da energia elettrica rinnovabile, saranno inoltre
fondamentali per il processo di elettrificazione indiretta nei settori in cui la sostituzione dei
combustibili fossili non è economicamente conveniente (ad es. per le applicazioni
dell’industria pesante, nella navigazione e nell’aviazione).
L’Italia è ben posizionata nella produzione di tecnologie connesse alla produzione di
idrogeno verde, in particolare gli elettrolizzatori e i componenti ausiliari per processo
produttivo, con una quota del 25,2% sul totale UE, seconda solo alla Germania. Lo scenario
attuale indicherebbe un livello di penetrazione dell’idrogeno che si può stimare al 23% al

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2050. Tuttavia, non siamo ancora ai livelli richiesti dai vari programmi, né in termini di
produzione di H2 né di sfruttamento delle energie rinnovabili e, al momento, esistono ancora
diverse barriere tecnologiche da abbattere nel campo della produzione dell’H2 verde.
Comunque, il tessuto produttivo europeo e il sistema educativo e di ricerca hanno ottime
condizioni per fare del continente un leader mondiale nella tecnologia e nella produzione
dell'idrogeno. Da queste basi si potrà partire per fare i cambiamenti necessari ad
ottimizzare i percorsi formativi degli ingegneri.

E) Le competenze scientifiche, tecniche e professionali dell’ingegnere in relazione alla
     resilienza ai cambiamenti climatici ed al recupero rispetto alla crisi generata
     dall’emergenza pandemica
Il quadro, certamente parziale e non strutturalmente sistematico delineato sopra, descrive
un sistema di competenze che sono proprie delle discipline ingegneristiche applicate alla
transizione energetica, alla decarbonizzazione del sistema industriale ed energetico,
nonché alla gestione ed alla pianificazione del territorio, ed al governo dei fenomeni urbani.
Una prima conclusione è che il sistema di competenze tecniche dell’ingegneria non si
identifica con un’unica figura professionale, ma, piuttosto, configura la necessità di un
approccio interdisciplinare in cui più figure professionali giocano ruoli diversi e
complementari.
Le competenze, tutte necessarie e, quindi, da integrare, nei processi di definizione delle
politiche, dei piani e dei progetti, si identificano, in termini esemplificativi, dalla discussione
proposta in questa sezione. Le competenze dell’ingegneria idraulica e delle costruzioni
idrauliche, della difesa del suolo e delle georisorse, si integrano nella caratterizzazione
relativa al rischio idraulico e geologico, e necessitano dell’integrazione delle scienze
geologiche e pedologiche; queste stesse competenze si integrano con quelle della
pianificazione urbana e dell’ambiente naturale, dell’ecologia e della botanica, per la gestione
degli usi dei suoli e dell’organizzazione degli insediamenti residenziali, naturali, terziari e
delle attività ricreative. L’ingegneria dei trasporti, dell’organizzazione delle reti della grande
distribuzione, della pianificazione dei centri storici e della rigenerazione urbana, e lo studio
e la conoscenza delle dinamiche dei gusti in materia di alimentazione, e delle prassi e delle
modalità dell’abitare e dei servizi alla popolazione ed alle imprese, sono altre questioni
centrali e significative della gestione del territorio nel periodo pandemico e post-
pandemico. Questo quadro si alimenta, inoltre, attraverso le competenze fondamentali delle
discipline ingegneristiche concernenti i sistemi di analisi territoriale e di monitoraggio, la
gestione dei sistemi informativi, dei big data, dell’informatizzazione dell’offerta e della
gestione dei servizi e del telerilevamento, della produzione e della distribuzione
dell’energia, anche con riferimento all’efficientamento energetico, alle fonti di energia
rinnovabili ed alle problematiche legate alle emissioni di gas climalteranti negli edifici civili
ed industriali, che trovano un’espressione tecnica rilevante nelle categorie concettuali della
smart city e del paesaggio come fenomenologia della natura e della storia.
Il problema del raggiungimento della neutralità climatica, unitamente al processo di
elettrificazione del sistema di industriale e dei trasporti richiederanno una trasversalità di

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competenze di tutto il settore ingegneristico (industriale e civile/ambientale) per consentire
la formazione di personale attivo nei settori di power to H2, e power to fuel, che saranno alla
base della produzione e dello stoccaggio dell’energia.
La formazione tecnica e professionale dell’ingegneria della gestione del territorio si articola
su due livelli: la capacità di comprendere e gestire i processi complessi che la gestione del
territorio implica, e le competenze per contribuire alla pianificazione, progettazione e
gestione di questi processi.
Il percorso formativo dell’ingegnere comporta, quindi, una formazione generalista, in cui
acquisisce, in termini trasversali, le conoscenze di base che riguardano i diversi campi
disciplinari coinvolti e sopra richiamati, ed in particolare, quale competenza trasversale
fondamentale, la capacità di lavorare in team per pianificare, progettare e gestire i processi
complessi. La formazione tecnica specialistica accompagna la formazione generalista, ed è
caratterizzata da continui richiami alla necessità dell’integrazione dei saperi.
La figura dell’ingegnere, necessita della costruzione di percorsi di apprendimento
interdisciplinari, di cui momento fondamentale è costituito da percorsi didattici in cui
studentesse e studenti sperimentano la costruzione interdisciplinare della pianificazione,
progettazione e gestione dei processi territoriali attraverso il lavoro organizzato in team.

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Università degli studi di Cagliari
                    Facoltà di Ingegneria e Architettura

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La progettazione di programmi formativi adeguati e appropriati per il
   contesto italiano
Una riflessione su come strutturare gli studi di Ingegneria nei prossimi venti anni, e sui
contenuti che stanno diventando, o che diventeranno necessari in questo periodo, ha due
aspetti: uno sostanziale, sui contenuti, e uno formale.
Il primo è ampiamente trattato nel position paper.
Per quanto riguarda l'aspetto formale, i documenti citati nel position paper, di scuola
anglosassone o vicini a questa, danno poco supporto. Troppo diverse sono le normative, e
anche i vincoli posti dal processo di Bologna e da come questo è stato recepito
nell'ordinamento italiano. Conviene quindi partire da quella che, a breve potrebbe (forse
dovrebbe) essere la configurazione degli studi di ingegneria in Italia, mostrata in figura.

Un primo punto critico è l’esistenza, all'uscita della scuola superiore, di tre percorsi:
      laurea triennale (LT);
      laurea a orientamento professionale (LOP);
      Istruzione tecnica superiore (ITS).
notando che, per quest'ultima, "Le competenze in esito ai percorsi ITS della durata di sei
semestri sono riferibili al VI livello del Quadro Europeo delle qualifiche per l'apprendimento
permanente (EQF)." [Sito MIUR su ITS]. Livello che è lo stesso delle lauree (sia LOP, sia LT).
Si rende quindi urgente definire con chiarezza ruolo e funzioni dei diversi percorsi in
relazione ai loro sbocchi lavorativi nei diversi ambiti del sistema produttivo. Il chiarimento è
necessario a definire con precisione gli obiettivi formativi dei diversi percorsi, permetterà
una più efficacie azione di orientamento sia in ingresso che in uscita, ed eviterà inutili

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inefficienze e doppioni nel sistema dell’alta formazione. Analoghe considerazioni vanno
fatte per i vari tipi di formazione post-lauream di primo e socondo livello (master e dottorati)
di cui si accennerà nel seguito. La discussione dovrebbe vedere coinvolti i rappresentanti
del sistema produttivo attraverso il coinvolgimento delle associazioni imprenditoriali e degli
ordini professionali.
La normativa sugli ITS è in fase di modifica legislativa, e diversi punti possono essere critici
per le scuole di Ingegneria:
      verranno erogati da "accademie per l’istruzione tecnica superiore ";
      hanno lo scopo di "sostenere ... l'aggiornamento e la formazione in servizio dei
       docenti di discipline scientifiche, tecnologiche e tecnico-professionali della scuola";
      nella struttura di gestione dovrà esserci un Dipartimento Universitario, oppure un
       ente di ricerca pubblico o privato; Nella definizione delle aree disciplinari nessun
       ruolo spetta al Ministero dell'Università;
      sono previsti accordi con il sistema Universitario, che definiscono (oltre alla
       spendibilità dei crediti ITS nei corsi di laurea a indirizzo professionale, il che mi pare
       del tutto condivisibile) anche "le modalità per ... sostenere, attraverso l’adozione di
       tabelle nazionali di corrispondenza, il riconoscimento dei crediti acquisiti dai
       diplomati degli ITS Academy ... ai fini dell’eventuale prosecuzione degli studi in
       percorsi di laurea. ".
Di conseguenza, i due percorsi triennali (LOP e LT) vanno ripensati, e in tempi più brevi
dell'orizzonte 2040, per tener conto di questa mutata situazione. Il che vuol dire, anche, che
le LT potrebbero dover avere, al loro interno, una struttura ad Y con un ramo pensato per il
proseguimento verso la LM (oppure verso master con taglio più generale, ad es.,
economico) e uno pensato per una uscita verso il mondo del lavoro, in posizioni di media
responsabilità, eventualmente dopo un master di approfondimento tecnico in un ambito
specifico. Con la possibilità, per i laureati di questo ramo della Y, di proseguire verso una LM
col superamento di due-tre corsi singoli (o di un master). Mentre le LOP devono essere
molto integrate col mondo produttivo. Il loro asset principale è la richiesta della EU di una
laurea per fare attività professionale. E questo va sfruttato cercando di spingere le ITS
Academy a costruire essenzialmente persorsi biennali.
Il tutto sempre che la EU non richieda, invece, per fare attività professionale, un diploma che
sia semplicemente al VI livello del Quadro Europeo delle qualifiche per l'apprendimento
permanente (EQF). In tal caso la concorrenza degli ITS diventerebbe molto più forte.
Va infine notato che in molte professioni ingegneristiche (soprattutto relative alle lauree
dell'area 9) già ora non occorre una iscrizione all'albo. E per esse la concorrenza degli ITS
sarà comunque significativa.
Proprio i master di I livello dovrebbero, a questo punto, essere un punto qualificante del
primo livello universitario. Master che dovrebbero essere organizzati in collaborazione con
aziende o ordini professionali, i quali devono fornire anche docenza qualificata, ospitalità di
tirocinanti e, se necessario, laboratori.

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Uno dei problemi del raccordo tra Università e mondo del lavoro è proprio la elevata
costante di tempo delle modifiche alla formazione universitaria. Mentre i master
(soprattutto se le regole interne alle varie sedi lo agevolano) possono essere modificati con
notevole rapidità, in modo da fornire le competenze necessarie alle aziende in tempi
compatibili con le loro esigenze. Naturalmente i master dovrebbero dipendere dal titolo
richiesto per l'ammissione. Un master per LT (di cui va comunque approfondita la utilità)
dovrebbe avere una formazione molto specializzata ma con contenuti anche di tipo
formativo (con un taglio simile ai vecchi corsi di terzo anno della laurea quinquennale)
sempre legati all'argomento del master. Master per LOP devono invece essere centrati sul
binomio conoscenze-abilità, in modo da fornire una formazione sempre legata alla
applicazione pratica ma più concettuale (dopo questo tipo di master, il laureato LOP
dovrebbe sapere che in una procedura ci possono essere punti critici, e sapere a chi
chiedere per esaminarli, senza essere in grado di risolverli in proprio).
A questo punto la LM può essere ripensata come la seconda parte di un percorso di cinque
anni, e in cui possono (forse debbono) trovare spazio contenuti interdisciplinari.
A valle della LM1, una formazione di livello ancora più alto e taglio "aziendale" può essere
perseguita utilizzando le varie forme di dottorato (industriale, innovativo, in apprendistato)
previste dalle ultime norme. Tenendo conto che solo un ridotto numero di laureati può
accedervi, ma d'altra parte le posizioni lavorative di questo tipo sono (stante la ridotta
propensione all’innovazione delle aziende italiane) abbastanza ridotte, nonostante il PNRR
si ponga come obiettivo l'aumento di domanda e offerta di lavoro con questa qualificazione.
L'ultima parte di queste considerazioni riguardano la interdisciplinarietà e la
multidisciplinarietà (e coinvolge anche il discorso sui Master di II livello).
I due termini, nonostante siano spesso confusi, sono profondamente diversi. La formazione
ingegneristica non può che essere interdisciplinare, nel senso che, per un qualunque
progetto, è impossibile non avere almeno qualche conoscenza di ambiti diversi da quello
proprio del progetto. Conoscenze che servono a dialogare con gli specialisti degli altri
settori, avendo almeno un linguaggio comune e una idea delle possibilità e limitazioni degli
altri ambiti.
Le lauree di base sono per loro natura ad ampio spettro e quindi interdisciplinari, ma lo
sviluppo di questa conoscenza deve essere una attività portante anche nelle Lauree
Magistrali.
Un corso multidisciplinare è invece un corso di studi in cui si vuole costruire una figura
professionale intermedia tra due ambiti. Un esempio attuale (anche se non completamente
pertinente) sono i corsi di studio "Medicina+Ing. Biomedica". Questi corsi possono avere due
configurazioni:
    1. corsi in cui i due ambiti hanno peso simile e contenuti non eccessivamente legati
       all'altro ambito;

1
    Ovviamente, a valle della LM deve esistere anche un percorso di approfondimento di tipo scientifico, che è il
    Dottorato di Ricerca. Ma questo punto esula da queste considerazioni.

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  2. corsi in cui si sviluppa uno dei due ambiti in maniera sostanzialmente equivalente a
     corso monodisciplinari, e dell'altro si sviluppano, in dettaglio, solo quegli aspetti di
     interesse del "major".
Il primo caso è, a mio avviso, quello relativo alla classe di LM in "Data Science", mentre non è
più (a causa della divisione) quella in "Scienze e ing. dei Materiali", che però, volendo,
potrebbe essere (forse) recuperata da una LM interclasse.
Il secondo caso è quello dei corsi (già attivi o in fase di attivazione) di "Medicina+Ing.
Biomedica". Ma può essere anche il modello per le scuole di Ingegneria, sia all'interno di LM
(usando opportunamente gli indirizzi), sia utilizzando i corsi di Master di II livello.

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I modelli formativi che possono supportare e accompagnare i futuri
   ingegneri
Il contesto
Per delineare quali dovranno essere gli elementi salienti della formazione ingegneristica
nei prossimi decenni è innanzitutto è importante identificare le mutazioni di contesto già
avvenute o in via di svolgimento e alle quali dovranno essere date risposte. Queste possono
essere classificate in:
  i) variazioni delle condizioni generali in cui si svolgono le attività antropiche (e.g. i
     cambiamenti climatici);
  ii) evoluzione delle conoscenze scientifiche e tecnologiche (e.g. la scienza e tecnologia
      della trasmissione e trattamento dei dati);
  iii) l’evoluzione del modello formativo dell’ingegnere nell’Università italiana (e.g. in
       conseguenza dell’avvicendarsi delle norme sui percorsi di laurea).
Dalle prime due emergono nuove domande a cui la figura dell’ingegnere è chiamata a dare
risposte, e questo è un ulteriore elemento di cui si dovrà tener conto nel progettare la
formazione.
Inoltre, va tenuto conto che lo scenario di riferimento è, e sarà, in continua evoluzione, quindi
una delle caratteristiche dei futuri ingegneri dovrà essere la capacità di adattamento
positivo ai cambiamenti. Va tenuto conto che la struttura del modello formativo plasma i
mezzi cognitivi dell’individuo dotandolo (o meno) degli strumenti per analizzare
razionalmente problemi mai affrontati prima, e concepire e strutturare idee nuove. Per
questo motivo, è sulla struttura del modello formativo che bisogna puntare per garantire sia
la capacità di adattamento, sia le qualità indicate nel documento Ingegneria2040 come la
creatività (fantasia, curiosità) e l’interdisciplinarità (capacità di collegare conoscenze e
metodi provenienti da ambiti molto diversi).

Le conoscenze trasversali
Le variazioni delle condizioni generali in cui si svolgono le attività antropiche e l’evoluzione
delle conoscenze scientifiche e tecnologiche disponibili richiedono che il bagaglio di
conoscenze trasversali di cui è dotato ogni ingegnere sia aggiornato.
1. Interazione con l’ambiente.
Il pressante calendario dettato dall’Unione Europea per arrivare alla neutralità climatica nel
2050 fa sì che ogni attività imprenditoriale, industriale, e tecnologica dovrà, nei prossimi
decenni, essere considerata nel quadro della transizione ecologica.
Ogni ingegnere dovrà quindi essere in grado di capire lo sviluppo del sistema ambientale,
inteso come sistema dinamico complesso non lineare e l'impatto delle tecnologie e delle
opere sul sistema ambientale, e comprendere la dinamica.

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Per far questo, sarà necessario che ogni ingegnere abbia un insieme di conoscenze che non
padroneggia a livello specialistico, ma delle quali può essere fruitore consapevole:
   - dovrà padroneggiare concetti come: climate-change, neutralità climatica; transizione
     energetica, ecc.,
   - capire e conoscere i fenomeni non-lineari e la dinamica dei sistemi complessi;
   - capire e conoscere concetti come quelli di sostenibilità, resilienza, analisi del ciclo di
     vita (LCA).
2. Scienza e tecnologia dell’informazione.
In questi anni stiamo osservando lo sviluppo di alcune tecnologie la cui interazione sinergica
sta avendo un effetto dirompente:
  - sensori a basso costo e interconnessi che consentono il monitoraggio distribuito in
    quasi tutti gli ambiti tecnologici;
  - tecnologie di telecomunicazione che consentono di mettere in rete questi sensori in
    modo continuo e più in generale di acquisire informazioni in grande quantità su
    moltissimi sistemi e infrastrutture;
  - tecnologie dell'informazione, come l'intelligenza artificiale e il deep learning, che
    consentono di gestire ed interpretare le grandi quantità di dati che sono rese disponibili.
L'applicazione di queste tecnologie coinvolge profondamente tutti gli ambiti professionali.
Stiamo passando da una stagione nella quale era possibile l’acquisizione di pochi dati
sporadici nello spazio e/o nel tempo a una stagione nella quale ogni sistema, ogni opera
ingegneristica, è in grado di fornire un continuo flusso di dati che ne descrive lo stato in
modo dettagliato. Di conseguenza l'approccio ingegneristico ai problemi si è spostato dallo
sviluppo e utilizzo di complessi modelli prognostici, in grado di fornire il quadro completo
sulla base di poca informazione, allo sviluppo e utilizzo di tecnologie di analisi dei dati per
estrarre l’informazione significativa in forma sintetica dall’enorme mole di dati disponibili.
Per far questo, sarà necessario che ogni ingegnere abbia un insieme di conoscenze che, pur
non padroneggiando a livello specialistico, può utilizzare come fruitore consapevole. Si
tratta di un tipo di conoscenza simile a quella che è entrata a far parte della cultura di base
dell'ingegnere nei primi anni '90 nella programmazione dei calcolatori elettronici: non un
tema confinato agli ingegneri informatici e ai matematici applicati, ma parte del bagaglio
culturale di qualsiasi ingegnere. In particolare, si ritiene che i temi fondamentali siano:
  - le tecnologie per l’acquisizione e trasmissione distribuita dei dati nel contesto in cui
    ciascuna figura ingegneristica sarà chiamata ad operare (Internet delle Cose, Remote e
    Proximal Sensing, ecc.);
  - le metodologie di trattamento di grandi moli di dati, anche attraverso le tecnologie di
    intelligenza artificiale;
  - l'ingegnere dei prossimi anni dovrà inoltre conoscere le conseguenze e le potenzialità
    dell’uso delle tecnologie dell’informazione nell’ambito in cui è chiamato ad operare, per
    esempio attraverso i concetti di struttura o infrastruttura cognitiva, di smart city, ecc.

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Le conoscenze di base
Le conoscenze chimico-fisico-matematiche sono gli strumenti attraverso i quali
l’ingegnere interpreta la realtà e la modifica. Il modo (in termini di qualità e quantità) in cui le
apprende determina quindi l’impostazione generale delle modalità in cui pensa ed affronta i
problemi.
Negli anni il rapporto tra il mondo della formazione ingegneristica (le Facoltà di Ingegneria)
e le scienze di base è cambiato in modo radicale; ma a questi cambiamenti non è seguita una
riflessione approfondita che è ora necessaria e urgente.
In estrema sintesi: siamo passati da un mondo nel quale gli allievi di Ingegneria seguivano
gli stessi corsi di base degli allievi di Scienze: il corso di matematica per ingegneri era lo
stesso che per i matematici, e lo stesso valeva per fisica, ecc. In questo mondo la
preparazione di base era al massimo livello di approfondimento teorico per tutti. Questa
impostazione è andata smussandosi negli anni seguenti alla diffusione dell'università di
massa, con una differenziazione sempre maggiore, a scapito della formazione teorica e a
favore degli aspetti esecutivi/applicativi per ciò che riguarda il mondo dell'ingegneria.
L’introduzione del 3+2 ha portato alla diffusa frammentazione dei corsi e ad una sottostima
dei crediti necessari per le materie di base. Nei tempi più recenti abbiamo assistito ad una
inversione di questa tendenza, superando gli eccessi del periodo iniziale. Pur tuttavia, anche
per una naturale evoluzione, oggi la didattica delle materie fisico-matematiche
nell'ingegneria è fortemente orientata alla risoluzione degli esercizi, e spesso, entra poco, o
punto, negli aspetti teorici. Questa impostazione si riflette nei metodi di verifica
dell'apprendimento che sono oggi prevalentemente basati sulla verifica scritta della
capacità di risolvere esercizi e che quasi mai contemplano la discussione orale di aspetti
teorici o dell'approccio a problemi applicativi complessi.
Questa impostazione didattica mal si concilia con l'impostazione deduttiva tipica della
formazione dell'ingegnere italiano, che tuttora permea molti dei corsi degli anni successivi.
L'approccio fortemente deduttivo è (stato?) un punto di forza (per la capacità di affrontare
problemi complessi e fuori dall'ordinario) e al contempo di fragilità (per i tempi di laurea e la
selettività) della Scuola italiana di Ingegneria, per esempio rispetto alla Scuola
anglosassone, figlia dell'empirismo, e tipicamente imperniata su di un approccio induttivo.
Su questo tema è importante avviare una riflessione, che coinvolga anche le società
scientifiche delle discipline fisiche e matematiche, con lo scopo di accordare
armonicamente l'impostazione paradigmatica delle materie di base con quella della
successiva formazione ingegneristica. In mancanza di questa riflessione, le nuove
generazioni di ingegneri rischiano di perdere i punti di forza dell'approccio deduttivo senza
acquisire i punti di forza di quello induttivo.

Interdisciplinarità e capacità di lavorare in team
All'ingegnere dovrebbe essere garantita una solida formazione teorica, che garantisca la
flessibilità necessaria ad affrontare le (imprevedibili) sfide del futuro, ma, al contempo,
dovrebbe essere potenziato il "saper fare" attraverso un approccio esplicitamente orientato

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Università degli studi di Cagliari
            Facoltà di Ingegneria e Architettura

ai problemi. L’obiettivo potrebbe essere raggiunto attraverso moduli formativi basati su
obiettivi progettuali complessi e nei quali più ambiti disciplinari siano al servizio
dell'obiettivo progettuale, e non il contrario, come spesso avviene quando la formazione
rimane semplice enunciazione teorica. Laboratori nei quali collaborano docenti di diversi
SSD, e nei quali gli allievi dovrebbero sviluppare un progetto che richiede di utilizzare le
diverse competenze. Questo modello formativo sviluppa una mentalità orientata ai problemi
e promuove la capacità di lavorare in team, alcuni degli obiettivi chiave identificati nel
documento proposto dalla CopI.

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