Chiavari Un Antico Presepe per - Aggiungere tutti i loghi - Liceo Marconi Delpino

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Chiavari Un Antico Presepe per - Aggiungere tutti i loghi - Liceo Marconi Delpino
Un  Antico
Presepe per
 Chiavari

  Aggiungere tutti i loghi
Chiavari Un Antico Presepe per - Aggiungere tutti i loghi - Liceo Marconi Delpino
Presentazione

In occasione del particolare momento che stiamo vivendo e cercando di proiettarci nel futuro,
crediamo che sarà sempre più importante creare punti di riferimento, riscoprire antiche tradizioni e
creare abitudini simboliche per la collettività.

L’istituto di Studio e Lavoro sembra davvero racchiuso in una “bolla temporale e spaziale” di
grande interesse sociale e artistica. L’ex convento, sede della fondazione e sconosciuto ai più,
merita un percorso di valorizzazione che lo restituisca ai cittadini inserendolo anche in percorsi
turistici tematici.

Ci sembra doveroso, visti i 200 anni dalla nascita dell’Istituto di Studio e Lavoro, e l’importanza
che la fondazione ha sempre rivestito per il tessuto sociale della città, condividere con tutta la
cittadinanza lo scrigno di opere d’arte arrivate a noi anche, e soprattutto, grazie alla donazione e
all’impegno di molti chiavaresi.
E’ nostro desiderio che le porte dell’ex convento siano aperte e che, una volta varcate si possano
ammirare le importanti opere in esso racchiuse, rendendo il complesso un luogo vivo e aperto alla
cittadinanza: rendendolo un luogo della cultura.

                                                                      Consiglio di amministrazione
                                                                     dell’Istituto di Studio e Lavoro
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Storia e sviluppo del complesso: testimonianze documentarie1
Dalla fondazione al Settecento
La prima documentazione nota circa il complesso di Santa Croce in Chiavari risale al 9 ottobre
1584, quando il Consiglio Cittadino si riunì per valutare la supplica dei frati Cappuccini, che
chiedevano che “gli fusse concesso un loco nel vicariato di Chiavari dove possino far stanza”.
Per le decisioni del Consiglio, il sistema di voto prevedeva allora che ciascun membro mostrasse
una sfera bianca nel caso di parere positivo, nera per quello negativo (“se alcuno se ne contenta dia
balla Bianca, se non nera”); ma la richiesta dei Cappuccini fu bocciata con la maggioranza di
diciassette sfere nere.
L’esito sfavorevole fu più tardi commentato con una frase concisa ma significativa da Gio. Agostino
Busco – autore degli Annali della città di Chiavari (1678) – il quale rimarcava che “l’opere buone
sono accompagnate da contrarietà”.
Nel 1586 i Cappuccini ottennero però in dono dal marchese Paolo Emilio Rivarola un terreno in
località Bacezza, oltre alla somma di 300 Lire Genovesi per iniziare i lavori di edificazione del
nuovo complesso. Lo stesso marchese – per tramite del Minor Consiglio di Chiavari – si fece poi
promotore di un invito ai cittadini facoltosi, affinché contribuissero alle spese di costruzione del
convento.
L’appello indubbiamente funzionò, visto che, tra il gennaio e il marzo del 1587, giunsero due
distinte donazioni, entrambe di 300 Lire Genovesi, come copertura delle spese necessarie all’avvio
dei lavori. Nella stessa occasione, inoltre, fu deliberato che dovessero presiedere la fabbrica del
nuovo convento – in qualità di Procuratori – i cittadini chiavaresi Gaspare Rivarola e Cipriano
Vaccà, coadiuvati da alcuni frati Cappuccini venuti da Genova, che si stabilirono dapprima “in una
casa a dietro la Chiesa di S. Maria in Bacezza”, poi in una villa più spaziosa “in posto Eminente, a
vista del mare e di Chiavari”, su un terreno nuovamente appartenente alla famiglia Rivarola.
L’anno successivo, “essendo ancora d.a Chiesa discoperta, et non havendo essi Padri Danari”, fu
richiesto pubblicamente al Minor Consiglio chiavarese e ai Cappellani di contribuire alle spese per
la copertura della struttura, per un totale di 200 Lire. I lavori terminarono certamente entro il 1589,
poiché a quella data il convento – dedicato all’Invenzione della Santa Croce – risulta già elencato
tra i trentuno complessi della comunità Cappuccina ligure, sottoposto alla Custodia di Genova,
insieme a quelli di Sestri, Voltri, La Spezia, Sarzana e Pontremoli.
La consacrazione ufficiale avvenne il 20 ottobre 1593 alla presenza dell’Arcivescovo di Genova
Alessandro Centurione; per l’occasione fu collocata una lapide marmorea, ancora presente sul muro
di accesso alla chiesa, che ricorda anche la concessione dell’indulgenza a chiunque visitasse la
chiesa nell’anniversario della consacrazione e per i successivi quaranta giorni.
L’originaria soluzione architettonica del complesso prevedeva il convento strutturato su un unico
piano e suddiviso in ventitré locali, diciotto destinati all’alloggio dei frati, più altri cinque per le
infermerie, tuttavia nell’arco di pochi decenni – visto l’aumento dei padri Cappuccini residenti – gli
spazi divennero insufficienti.
Il 20 marzo 1619 il Padre Emanuele, Guardiano del convento chiavarese, scriveva al Senato di
Chiavari, in merito all’esigenza di aggiungere ulteriori celle, “poiché quelle che vi sono non
capiscono l’alloggio dei Padri, che son di passaggio, ne li infermi, ma neanche i padri della
famiglia quali intenti al servicio di Dio per loro mera e pura carità”; la richiesta fu approvata dal
Maggior Consiglio della città che deliberò la spesa di 1.500 Lire Genovesi, da spendersi nei
successivi cinque anni. Quattro anni più tardi, in una lettera rivolta alle istituzioni locali, il nuovo
Padre Guardiano Agostino della Specia attesta che erano state raccolte altre 750 Lire per i lavori di
restauro del convento, specificando che i frati non avevano autorità di gestire direttamente il denaro,
ma delegavano il fabbriciere Agostino Rivarola “che per gratia sua si piglia cura di ricevere
l’elemosine che ci vengono fatte, et poi le spende in servitio di essa fabrica”.

1   da Il convento dei cappuccini e la Chiesa di Santa Croce a Chiavari, Valentina Borniotto, Sagep 2019
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Nell’ottobre 1653 la chiesa di Santa Croce divenne teatro di una solenne traslazione delle reliquie
dei santi Giuliano, Giovanni, Venerio e Giusta, che erano state donate da un altro esponente della
famiglia Rivarola, il frate Cappuccino Bonaventura, al nobile chiavarese Achille Costaguta, che a
sua volta le aveva poi destinate al convento. Le notizie dell’evento si ricavano dal manoscritto di
Gio. Agostino Busco, che era stato presente personalmente al momento della traslazione. Da tale
fonte si apprende che le reliquie erano state certificate come autentiche dall’Arciprete Noceto nel
maggio 1648, che le riteneva provenienti dalla basilica di San Saturnino di Cagliari.
La processione portò la cassa delle reliquie “sotto baldacchini per tutte le strade della Città e dei
sobborghi”, fino al torrente Rupinaro, dove si divise in due gruppi distinti: il primo diretto al
convento di Santa Croce, il secondo alla chiesa di San Giovanni Battista, nel cui altare maggiore
furono riposte le reliquie dei santi Donno e Luciano, nuovamente provenienti da Cagliari.
Gli ottimi rapporti tra i padri Cappuccini e la chiesa di San Giovanni Battista in Chiavari sono
documentati anche da una lettera del maggio 1700, firmata dal Priore e dagli anziani della comunità
chiavarese, che testimonia la presenza costante dei frati di Santa Croce a tutte le processioni
organizzate dalla Parrocchia, che essi “riconoscono per propria”.
Tra Sette e Ottocento
Negli anni trenta del Settecento sono documentate nuove notizie sulla presenza di reliquie: il 14
giugno 1729, nella Parrocchia di San Giovanni Battista e alla presenza dell’Arciprete di Chiavari
Gio. Batta Della Torre e di molti testimoni, viene concordata a Padre Vincenzo Maria Rivarola la
licenza ufficiale “di puotere in nome nostro riconoscere le Sacre reliquie de SS. Celestino,
Gaudentio, e Renato de’ quali nell’autentica di Roma in data 18 maggio prossimamente passato,
che le sarà presentata, e perciò aprire la cascietta in cui si trovano rinchiuse ad effetto di collocarle
in reliquiarii decenti, et ivi sigilarle col sigillo della sua Religione”.
Nel 1732 i sacri resti dei martiri Celestino e Gaudenzio e di santa Donata – nome modificato nei
successivi documenti, a correzione dell’erroneo riferimento a san Renato – furono poi
temporaneamente sistemati in reliquiari “parte inargentati, et indorati fatti à orami, o sia arabesco
d’altezza ciascheduno d’essi palmi tre circa compreso il piede, e larghezza uno, e mezzo circa”,
donati da Gio. Batta Dalla Torre, che ne mantenne la proprietà e che poi li trasferì nella propria
cappella dedicata a Sant’Antonio da Padova a Lavagna.
Nel 1743 la cittadinanza chiavarese supplicava il Senato cittadino di intervenire sulla strada che
conduce al convento, “in somma bisognosa di riparo e ristoro”, richiesta accolta positivamente
dalle istituzioni, che destinarono la cifra di 200 Lire per i lavori. Una nuova emergenza si verificò
nel 1776, quando la copertura della chiesa e del convento che “già di molti anni (...) abbisognano di
essere rifatti”, si trovava in condizioni disastrose, tanto che – scrivevano gli stessi Cappuccini – “in
questo stato di cose non è ora possibile continuare più oltre senza esporsi ad un prossimo evidente
pericolo di restare quei poveri Religiosi sepolti nelle rovine di quelle antichità”.
Gli anni 1797-1798 furono cruciali per la famiglia Rivarola, che, come si è visto, fu la principale
finanziatrice del convento, fin dall’edificazione cinquecentesca.
Il marchese Stefano Rivarola giunse a Parigi l’8 giugno 1797 con l’incarico di trattare con il
ministro francese Delacroix, al fine di conservare per Genova la libertà repubblicana, ma fu
accusato di congiurare ai danni della patria a beneficio della Francia. In un pamphlet del 27 giugno
1797, dal titolo Congiura scoperta in Parigi contro la libertà di Genova e dell’Italia, un autore
anonimo, firmatosi con lo pseudonimo di Valerio Publicola, accusava pubblicamente il Rivarola di
cospirazione.
L’opuscolo di quattro pagine – conservato in originale nell’Archivio Rivarola della Società
Economica – era stato stampato in Genova, ma immediatamente di uso in Chiavari, con la
conseguente indignazione della cittadinanza contro il Marchese.
Lo scritto presentava trenta punti atti a dimostrare la colpevolezza del Rivarola, tacciato di
tradimento nei confronti della già “agonizzante Oligarchia di Genova”. Da Losanna, il successivo
24 agosto, Stefano Rivarola inviava ai concittadini chiavaresi un’accorata lettera di risposta, in cui
proclamava la sua estraneità dalle accuse, esprimendo toni particolarmente coloriti nei confronti del
suo accusatore: “Non trascinerò nell’arena il suo miserabile autore, che non conosco; posto che si
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è coperto del velo dell’anonimo, lo conservi; se non ha l’audacia di un calunniatore, ne beva in
secreto il rossore. Lascio volentieri, che nasconda la sua fronte al ferro rovente dell’indignazione, e
della giustizia illuminata, e convinta della pubblica opinione”. La popolazione insorse comunque
contro il Marchese, giungendo a saccheggiare la sua dimora; in seguito al preventivo sequestro dei
beni imposto dal Governo, il Rivarola fu sottoposto a un lungo processo, da dove effettivamente
uscì completamente scagionato. I fatti si svolgevano in un momento di particolare importanza nella
storia locale, proprio in quel fatidico 1797, che vide la fine della secolare Repubblica di Genova e la
nascita della nuova Repubblica Ligure, in seguito alla Convenzione di Mombello. La prosecuzione
delle vicende politiche portò poi una nuova importante svolta – che coinvolgeva anche la città di
Chiavari – in seguito al decreto firmato da Napoleone a Compiegne il 25 aprile 1810, che prevedeva
“la soppressione delle compagnie, congregazioni, comuni ed associazioni ecclesiastiche” nel
territorio italiano.
In aderenza al “decreto del còrso imperatore”, il 25 ottobre 1810 il convento chiavarese di Santa
Croce fu quindi ufficialmente soppresso e sgombrato, il Santissimo Sacramento fu trasferito nella
vicina chiesa di Santa Maria di Bacezza, i beni materiali e gli arredi furono invece dislocati nella
cattedrale di Nostra Signora dell’Orto, mentre i dipinti delle cappelle nella chiesa di San Salvatore a
Cogorno.
Dopo una breve parentesi in cui i locali furono destinati a usi impropri – tra cui a fabbrica di
zucchero – soltanto cinque anni dopo, i frati poterono reimpossessarsi della sede. Nell’agosto 1815 i
primi cinque religiosi rientrarono nel convento dando sommariamente inizio al ripristino degli spazi
degradati e degli arredi sacri recuperati dalle chiese dove pochi anni prima erano stati depositati; il
giorno 20 dello stesso mese, quindi, la chiesa e l’altar maggiore ricevettero la benedizione ufficiale
dell’Arciprete di Chiavari Giuseppe Cocchi. Solo l’11 ottobre 1815, tuttavia, i padri poterono
ottenere la restituzione anche della villa annessa, con la riconsegna ufficiale delle chiavi del
complesso da parte di Antonio Daneri, capo della comunità degli anziani di Chiavari, all’allora
Padre Guardiano Michelangelo da Monterosso (Vincenzo Mangiamarchi), delegato dal Padre
Provinciale dell’Ordine Cappuccino.
Da una lettera di mano di Padre Isaia da Genova, Procuratore e Commissario Garante dei
Cappuccini, si evince come al luglio del 1818 non tutti i religiosi avevano ancora potuto rientrare
nel convento, soprattutto a causa delle condizioni di estremo degrado in cui si trovavano i locali, a
seguito dell’allontanamento dei Cappuccini.
Qualche anno dopo, nel 1826, Padre Michelangelo scriveva al confratello Pasquale da Marola
lamentandosi di uno stato ancora deplorevole del complesso, che “non aveva quasi più vestiggio di
convento”, riferendo come, nel periodo di vacanza dei padri, “in cucina ci era la fabrica del
zuchero di castagna, e di rum dello stesso, in Refettorio Macello, e acconcio de tonni, la stanza
aperta la comunicazione”, “mentre in chiesa non vi erano che le pure muraglie”.
In seguito alla riapertura della chiesa al culto e al conseguente ripristino e rinnovo degli arredi, tra
1826 e 1830 sono documentati parecchi interventi nel complesso, in particolare l’espansione
dell’edificio ecclesiastico, con l’aggiunta di due nuove cappelle, che trasformavano l’edificio
dall’originario impianto a navata unica, in una nuova struttura a tre navate. I documenti riferiscono
il nominativo di Michelangelo Lanata come capocantiere dei lavori, le spese furono coperte grazie
alle elemosine di privati cittadini chiavaresi.
Conclusi i lavori di ampliamento, nel biennio 1829-1830 i padri Cappuccini si impegnarono nel
restauro globale degli spazi, con il rifacimento delle vetrate, la costruzione di un nuovo pulpito
ligneo per la chiesa e la riconfigurazione della libreria – fortemente danneggiata dall’incuria dei
cinque anni di chiusura – attraverso l’aggiunta di nuove scansie e l’acquisto di volumi aggiuntivi.
A questo stesso periodo, inoltre, risale il rinnovamento dell’apparato pittorico della chiesa, con
l’inserzione di nuove tele che andavano a sostituire i dipinti allocati alla chiesa di San Salvatore di
Cogorno durante la soppressione e poi non più rientrati: su questo argomento si tornerà nel dettaglio
successivamente.
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L’11 dicembre 1841, il Padre Guardiano Fulgenzio da Genova scrisse al Comune di Chiavari per
chiedere un sussidio economico per l’innalzamento di un piano del convento. Dai documenti si
evince che la cittadinanza chiavarese si era già fortemente adoperata alla raccolta di una notevole
cifra, pari a 3.300 Lire e che i padri si stavano occupando dei lavori “dando opera di fornire a’
Religiosi Studenti un luogo in cui alle belle e sacre lettere avessero incitamento maggiore e per la
salubrità di quest’aria dolcissima e per le nobili discipline che in questa Città, se in altra mai della
Liguria nostra, sono cerche, e sapientemente coltivate”.
Tuttavia, riferiva il Guardiano, tra le spese di falegnameria, muratura e arredi, i frati si erano
indebitati per 9.000 Lire, per cui richiedevano l’aiuto del Comune, che due giorni dopo approvava
l’esborso di 1.000 Lire a beneficio dei Cappuccini.
I moti rivoluzionari del 1848 coinvolsero anche la città di Chiavari e, di fatto, interruppero qualsiasi
intervento all’interno del complesso.
Le truppe lombarde provenienti da Bobbio e Piacenza, capitanate dal generale Manfredo Fanti,
giunsero a Chiavari e furono smistate dal Sindaco in diversi edifici religiosi: in particolare nel
Seminario, in alcuni spazi della chiesa di Nostra Signora dell’Orto e nel convento di San Francesco
dei Frati Minori Osservanti, che fu interamente preposto all’alloggio dei soldati, privando quindi i
frati Francescani della loro sede.
Per questa ragione, lo stesso Sindaco di Chiavari scriveva l’8 aprile 1849 al Guardiano di Santa
Croce, pregandolo di dare alloggio ai Francescani, che erano stati costretti a lasciare il proprio
convento “per servire l’ognor crescente numero della Truppa”.
Fu probabilmente a seguito dell’armata, che alcuni religiosi della Provincia Lombarda dell’Ordine
Cappuccino giunsero in Liguria; al 1849 è documentata per esempio in Santa Croce la presenza di
Padre Angelo da Cologno, in visita al convento chiavarese, dove si adoperò per la costruzione di
una nuova meridiana.
Come noto, il 1850 sancì di fatto la separazione tra il Regno di Sardegna e la Chiesa, attraverso
l’introduzione delle Leggi Siccardi, orientate all’abolizione dei privilegi ecclesiastici: furono quindi
avviati i procedimenti di soppressione degli Ordini e di incameramento dei relativi beni mobili e
immobili da parte dello Stato, che proseguirono durante tutto il decennio successivo.
Il 29 maggio 1855 il Governo Piemontese promulgò la legge Cavour-Rattazzi (Regio Decreto n.
879), con la quale si sopprimevano le corporazioni religiose – salvo quelle che si dedicavano alla
predicazione, all’educazione o all’assistenza degli infermi – e si attribuivano le proprietà dei loro
beni a una apposita Cassa Ecclesiastica.
Il 16 luglio 1855, quindi, in ottemperanza al nuovo decreto, l’Insinuatore Cavasola e i funzionari di
Stato presero ufficialmente possesso del complesso di Santa Croce, procedendo all’inventariazione
di tutti i beni mobili; nonostante l’ingiunzione di sfratto, i religiosi riuscirono comunque a
mantenere l’alloggio nel convento per oltre un decennio.
Al 14 maggio 1864 si data lo sgombero definitivo del convento dei Frati Minori Francescani, ai
quali l’irruzione dei Carabinieri imponeva lo sfratto, a quella data i Cappuccini erano ancora
certamente alloggiati nel convento, tuttavia, attraverso le pagine del memoriale compilato dai
religiosi, si palesa il forte sentimento di apprensione che attanagliava i padri, consapevoli di dover
lasciare la loro sede da un momento all’altro.
Alla fine di giugno del 1865, il Sindaco di Chiavari si occupò di fare eseguire una stima di tutti i
beni del convento, per valutarne il valore economico.
Il 7 luglio 1866, il Regio Decreto n. 3036 sancì la definitiva soppressione “di tutte le corporazioni e
le congregazioni religiose regolari e secolari, ed i conservatorii e ritiri, i quali importino vita
comune ed abbiano carattere ecclesiastico”, imponendo che tutti i beni, di qualunque specie,
appartenenti alle istituzioni soppresse, dovessero essere devolute al Demanio, con l’obbligo per lo
Stato di devolvere una rendita al neonato Fondo per il Culto, che di fatto sostituiva la precedente
Cassa Ecclesiastica.
In ottemperanza a tale legge, il 7 luglio 1866 la proprietà del convento, della chiesa e della villa
annessa passò ufficialmente al Fondo per il Culto; qualche giorno più tardi i padri ricevettero dal
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Conservatore delle Ipoteche il modulo recante il regolamento di soppressione, dove erano obbligati
a indicare le generalità di ciascun religioso e la residenza prescelta in seguito allo sfratto.
Seppur non documentato con precisione, neppure nelle carte dei molti memoriali stilati dai religiosi,
il momento del definitivo allontanamento dei Cappuccini dovrebbe datarsi alla fine dell’anno 1866,
mentre il 27 giugno 1867 il Comune di Chiavari acquisì dal Demanio i locali, affittandoli dapprima
a privati cittadini, poi all’Istituto Nautico chiavarese e all’Istituto dei Sordomuti, nonché
destinandoli ad uso di lazzeretto per eventuali epidemie.
Certamente nel 1888 gli spazi erano ormai definitivamente vuoti, visto che in quell’anno il
Remondini, trattando dei locali dell’ex convento di Santa Croce, diceva “di presente non sapremmo
bene come utilizzato”.

Le ultime fasi: l’Ospizio di Carità e Lavoro
Il complesso di Santa Croce restò sfitto per almeno un decennio, quando le autorità iniziarono a
interessarsi della possibilità di un eventuale ripristino dei locali.
In favore di una restituzione degli spazi del convento ai Cappuccini si adoperò il Padre Provinciale
dell’Ordine, Giuseppe Debernardis, il quale il 26 gennaio 1895 scriveva al Sindaco di Chiavari
Antonio Arata, facendo una formale offerta d’acquisto del complesso per un totale di 25.000 Lire,
con la promessa di riaprire la chiesa al culto cattolico.
Il Sindaco si diceva favorevole alla soluzione, “non solo per la simpatia verso i frati, ma anche
perché nella chiesa riposavano le ossa degli antenati, e riaprirla al culto sarebbe stata opera
pietosa ed onesta pel rispetto dovuto ai defunti”.
In effetti, molti membri delle principali famiglie chiavaresi avevano trovato sepoltura nell’edificio,
come testimoniano le lapidi sepolcrali terragne dislocate nelle tre navate.
Altra offerta avevano presentato un gruppo di cittadini chiavaresi – Angelo Gazzano, Paolo
Paganini, Bartolomeo Sanguineti e Giuseppe Rocca – per una cifra pari a 32.000 Lire, “allo scopo
di impiantarvi un Hotel di primo ordine” e la Società Economica di Chiavari, che ventilò l’idea di
trasferire negli spazi del complesso l’Ospizio di Carità e Lavoro.
Inizialmente la maggioranza parve favorire l’offerta dei Cappuccini che, seppure più esigua
economicamente, era giudicata “d’utile spirituale e di gradimento alla popolazione cattolica”,
evitando peraltro la dispersione delle spoglie sepolte nella chiesa. Nel maggio 1897, il Consiglio
Comunale di Chiavari, previo consenso delle autorità competenti in materia, aveva deliberato la
vendita del convento al Debernardis, attraverso contratto privato; tuttavia, a seguito di numerose
polemiche, ricostruibili attraverso le fonti archivistiche, il Sottoprefetto intervenne per imporre il
ricorso a una regolare asta pubblica.
Nel frattempo, nell’ottobre del 1898, a seguito di una violenta mareggiata, la sede dell’Ospizio di
Carità e Lavoro – sul fronte del mare – subì forti danni e le fanciulle che vi erano ricoverate
trovarono alloggio presso l’ex convento di Santa Croce, messo a disposizione, per l’emergenza, dal
Comune di Chiavari.
L’Ospizio di Carità e Lavoro era nato ufficialmente il 28 dicembre 1819 durante il Consiglio di
Amministrazione della Società Economica di Chiavari, che si teneva nella casa del marchese
Stefano Rivarola, personaggio controverso e al contempo decisivo per la storia della città, di cui si è
parlato in precedenza. Il Rivarola veniva quindi a coprire il ruolo di protagonista per entrambe le
istituzioni: dalla Società Economica – fondata dal marchese nel 1791 – si diramò infatti, in
quell’occasione, la nuova costola dell’Ospizio, nato con l’obiettivo di ospitare le ragazze povere e
orfane, offrendo loro un alloggio sicuro e un impiego nella lavorazione delle stoffe.
Fin dalla sua fondazione, la Società Economica chiavarese patrocinava i lavori di filatura e
manifattura delle tele, anche attraverso l’istituzione di premi destinati a chi “apprenderà a mettere
in opra i curletti così utilmente in tante parti introdotti per la filatura dei lini”, progettando, già
dalle prime assemblee dei soci, l’apertura di una Scuola Professionale femminile, la cosiddetta
“Scuola delle Ragasse”; più tardi, nella seduta del 3 febbraio 1793, l’allora presidente Giovanni
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Battista Solari ribadiva l’utilità di una scuola di filatura per ragazze, che fu poi istituita con la
delibera del 23 novembre 1794.
Nel luglio 1795 i procedimenti per la fondazione della Scuola erano già avviati, la Società Ligure di
Storia Patria di Genova, che già in precedenza aveva espresso il suo apprezzamento a tale iniziativa,
donò 200 Lire, che furono utilizzate per l’acquisto di “una macchina moderna per la filatura”. Il 6
dicembre 1795, a spese di Stefano Rivarola, fu affittato un locale di due stanze in Piazza Rupinaro,
dove si trasferirono le prime cinque ragazze iscritte alla Scuola.
L’attività della Scuola fu tuttavia breve, abolita con l’avvento della nuova Repubblica Ligure del
1797; ma anche l’attività della Società Economica fu più volte interrotta durante i burrascosi periodi
rivoluzionari. Solo nel 1819, come detto in precedenza, i membri della Società decisero di
ricostituire un nuovo istituto femminile: la fondazione dell’Ospizio di Carità e Lavoro coniugava
però l’aspetto didattico con quello sociale, andando a costituire una sicura fonte lavorativa per le
giovani fanciulle in difficoltà
Alla presenza dei membri del Consiglio della Società Economica, il marchese Rivarola aveva
presentato un primo progetto di fondazione dell’Ospizio il 24 agosto 1819, raccogliendo poi le
norme per il nascituro ente in un documento presentato ai soci il successivo 25 ottobre.
Fin da tale documento si evince la missione dell’Ospizio, inteso come una “Scuola di filatura e
tessitura”, nella quale erano raccolte ed impiegate le “povere figlie abbandonate della strada”.

Il 28 dicembre 1819 fu decretata ufficialmente l’apertura dell’Ospizio, quindi, le prime sette giovani
accolte – accompagnate dalla Direttrice – furono condotte nella nuova sede, situata in un altro
palazzo concesso gratuitamente della famiglia Rivarola, “locale stabile e opportuno”.
Riferiscono i documenti che le ragazze, “spogliatesi del grembiule da festa che avevano, e postesi il
grembiule da lavoro, si sono poste a travagliare ciascuna al loro lavorerio”.
Seppur con alcune successive modificazioni, lo Statuto del nascituro Ospizio richiedeva alle
fanciulle sei “qualità indeclinabili” per l’ammissione: che esse fossero orfane o abbandonate,
oppure nell’impossibilità di essere mantenute dai genitori, che fossero in un’età compresa tra gli 8 e
i 12 anni, che fossero in buona salute “e non sospette d’affezioni attaccaticcie”, che avessero
necessaria attitudine al lavoro, che fossero battezzate e, infine, che fossero state vaccinate o
avessero già contratto il vaiolo. Le rette previste per le ragazze erano comprese tra le 8 e le 9 Lire,
per le residenti nella zona di Chiavari e tra le 10 e le 12 Lire per quelle provenienti da Genova, alle
ragazze orfane o abbandonate non era richiesto alcun contributo.
Con il progressivo incremento delle giovani alloggiate, tenuto conto del freddo eccessivo della
prima sede, i membri della Società valutarono un trasferimento in una nuova locazione, deliberando
la costruzione di un nuovo edificio a due piani sul fronte del mare.
La posa della prima pietra dell’edificio alla Marina risale al 9 giugno 1829, i lavori furono affidati
all’architetto Giovanni Battista Prato, mentre il Capomastro fu Ignazio Antonio Lanata di
Michelangelo, già allievo delle scuole della Società. Durante la solenne cerimonia, fu sotterrata
nelle fondamenta una cassa di piombo, contenente un documento che attestava le origini della
Società, cui erano accluse una medaglia d’argento della Madonna dell’Orto, una con l’effige di Re
Carlo Felice, una con quella di Re Vittorio Emanuele e svariate monete di Genova.
La scarsa disponibilità economica causava tuttavia un rallentamento della fabbrica, per cui, nel
novembre del 1831, si raccolsero le donazioni dei fedeli in Chiavari e Genova e, soprattutto, di
alcuni facoltosi cittadini, che contribuirono al raggiungimento della cifra necessaria.
Nel frattempo, dal 1833, le fanciulle furono temporaneamente trasferite in un altro locale, concesso
in affitto dal chiavarese Gio. Luca Sanguineti.
Conclusi i lavori, le fanciulle si spostarono nel nuovo edificio alla Marina il 18 agosto 1834,
qualche mese dopo, il 5 febbraio 1835, il palazzo fu ufficialmente inaugurato dall’allora Presidente
Nicola Benedetto Solari, alla presenza di molte autorità, tra cui il Canonico Antonio Maria Gianelli
(Prefetto della Direzione dell’Ospizio), Don Giacomo Rivarola (Prefetto dei Filomati) e Bartolomeo
Borzone (Rettore del Seminario di Chiavari), che si occuparono della benedizione solenne della
cappella interna.
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Di particolare rilevanza è la presenza del Gianelli, già Arciprete della Collegiata di San Giovanni
Battista della Diocesi di Chiavari, nonché fondatore della Congregazione delle Figlie di Maria
Santissima dell’Orto, che oggi prendono il nome di Suore Gianelline: direttamente coinvolto nelle
questioni della Società Economica, egli fu tra i principali artefici dell’edificazione della nuova sede
dell’Ospizio, che – come detto – si concluse nel 1835, cioè tre anni prima della sua elezione a
vescovo di Bobbio. In tempi più recenti la Chiesa riconobbe l’esemplarità della sua condotta e
avviò le pratiche della beatificazione (1925) e della successiva canonizzazione, ratificata
nell’ottobre 1951 da Papa Pio XII.
Alcune testimonianze archivistiche permettono di ricostruire con una certa precisione il
funzionamento dell’Ospizio fin dalla sua fondazione, ben documentato, peraltro, anche nei diversi
Statuti pubblicati a stampa dell’ente – in numerose copie – per i tipi del Premiato Stabilimento
Tipografico Chiavarese.
La Società Economica di Chiavari deferiva l’amministrazione dell’Ospizio ad alcuni soci
appositamente eletti, ai quali era destinato il titolo di Direttori; se questi fungevano da dirigenti
esterni, il vero motore dell’Ospizio era però costituito dalle Direttrici, solitamente donne nubili e di
origini umili, che svolgevano la funzione di maestre senza alcuna retribuzione, ma in cambio di
vitto e alloggio. Successivamente, al loro posto subentrarono le Suore Gianelline, le quali
ricevevano però un compenso. Il personale interno prevedeva, inoltre, la presenza di un Cappellano,
nonché di un medico, mentre la fornitura di medicinali era concessa in esclusiva – a partire dal 1834
– alla Farmacia Podestà di Chiavari.
Con alcune minime modifiche nel corso degli anni, il trattamento per le ricoverate prevedeva la
distribuzione del pane a colazione – prodotto all’interno dello stesso Ospizio – di una minestra a
pranzo e di zuppa, polenta o patate a cena; solo in occasioni particolari, per esempio durante le
festività religiose, era servita la carne per pranzo.
Il lavoro di filatura impegnava l’intera giornata, con la possibilità, per le ragazze più meritevoli, di
ottenere piccoli premi in denaro; inizialmente non era prevista una specifica istruzione, ma nei
giorni festivi alcuni volontari insegnavano alle giovani a leggere, scrivere e fare di conto. Più tardi,
alle fanciulle ricoverate era impartita una “educazione morale, religiosa e civile” e “l’istruzione
elementare prescritta dai programmi governativi”.
Al 1837, secondo la testimonianza del Casalis, le giovani ricoverate erano sessantasei, destinate ad
aumentare rapidamente di numero, visto che nel 1848 – quando gli spazi furono occupati
temporaneamente dalle truppe lombarde – erano già settanta, costrette a trasferirsi per qualche
tempo presso il palazzo del marchese Pallavicino a Lavagna.
Nella notte tra il 16 e il 17 ottobre 1898 le fanciulle “dovettero abbandonare la casa alla marina
minacciante rovina”, a causa di una “terribile mareggiata che faceva traballare fortemente la casa
e annunciava un’imminente catastrofe”; la direzione dell’Ospizio scelse dunque, in via provvisoria,
gli ex locali del convento dei Cappuccini come riparo delle fanciulle, ma i forti danni causati dal
mare, imposero di fatto l’abbandono della sede dell’Ospizio alla Marina.
L’edificio fu poi reimpiegato, a seguito della ristrutturazione, per usi civili, divenendo per anni sede
della Colonia FIAT di Chiavari, fino alla definitiva demolizione, durante la Seconda Guerra
Mondiale.
Risulta di particolare interesse la presenza dell’edificio, identificabile con certezza, nel dipinto di
Achille Funi (1890-1972) – tra i fondatori del gruppo Novecento – realizzato nel 1924, quindi già in
seguito al trasferimento dell’Ospizio; evidentemente la posizione immediatamente a ridosso sul
mare aveva colpito l’immaginario dell’artista ferrarese. La tavola, di piccole dimensioni, porta
indicativamente il titolo Chiavari e raffigura una veduta della marina – che palesa retaggi
dell’esordio futurista di Funi – occupata in gran parte dal palazzo dell’ex Ospizio.
Vista la distruzione della struttura – voluta nel 1944 dall’esercito tedesco, per ragioni logistiche –
questa testimonianza è di grande importanza ed è probabilmente l’unica che aggiunge informazioni
‘cromatiche’ sull’edificio, altrimenti visibile soltanto in fotografie in bianco e nero.
Persa quindi la sede originaria e viste le procedure di alienazione dell’ex convento dei Cappuccini
che il Comune stava mettendo in atto, la Società Economica di Chiavari ritenne perciò prioritario
Chiavari Un Antico Presepe per - Aggiungere tutti i loghi - Liceo Marconi Delpino
l’acquisto dei locali, dove le giovani erano già state ricoverate.
A seguito della procedura d’incanto, a cui parteciparono il Padre Debernardis, il cavaliere
Bartolomeo Sanguineti – per trasformare i locali in Hotel – e la stessa Società Economica, il
Consiglio Comunale di Chiavari notificava il 9 dicembre 1899 la vendita del locale alla Società
Economica; tuttavia, a causa della sospensione della procedura, decisa dal Prefetto, la vendita – per
un totale di 34.000 Lire – fu ufficializzata soltanto il 28 luglio 1900.
Ottenuto il possesso del convento, la Società Economica vi trasferì l’Ospizio e si adoperò fin da
subito all’ampliamento dei dormitori, attraverso la costruzione di un nuovo fabbricato a tre piani,
progettato dall’architetto rapallese Federico Cuneo.
L’amministrazione dell’Ospizio rifiutò il primo progetto presentato nel giugno 1901, mentre
approvò, con delibera del 25 aprile 1903, la seconda proposta dello stesso architetto; in seguito alla
procedura di appalto i lavori furono affidati alla ditta Lino Tinelli, con il recupero di alcuni materiali
dall’edificio della Marina. Concluso tra il marzo e il maggio 1905, il nuovo fabbricato fu agibile dal
luglio successivo.
In seguito alla riforma ratificata dall’allora presidente della Repubblica Italiana Giuseppe Saragat, il
26 agosto 1965 la denominazione dell’Ospizio fu poi modificata in Istituto di Studio e Lavoro. La
Fondazione, priva di fini di lucro, ha tutt’oggi sede negli spazi nell’ex complesso di Santa Croce e
persegue obiettivi di utilità sociale, con funzioni pedagogiche ed educative orientate ai giovani.

Patrimonio Artistico e Culturale2
I dipinti
“Elegante nella sua semplicità è la
chiesa de’ cappuccini, nella quale
si vede un quadro della Pietà, di
Cesare Corte”: con queste poche
parole,      Goffredo         Casalis
descriveva, nel 1837, Santa Croce
di     Bacezza,    senza     ulteriori
specificazioni circa la provenienza
del dipinto citato, né elencando
altre       opere       pittoriche
eventualmente presenti in chiesa.
Seppur tarda, tale testimonianza è
la prima a dare informazioni
sull’autore della pala; a questa
seguì, qualche anno più tardi,
quella di Carlo Garibaldi, il quale –
non essendo evidentemente a
conoscenza della data e della firma
autografa apposta sulla tela – la
attribuiva erroneamente al pittore
bolognese Baldassarre Croce.
L’iscrizione posta sul cartiglio in
basso a sinistra “1600 Caesar a
Curte P.” certifica, infatti, la
corretta attribuzione di Casalis,
mentre la breve citazione del
dipinto presentata nel 1888 dai
fratelli Remondini aggiunge una

2   da Il convento dei cappuccini e la Chiesa di Santa Croce a Chiavari, Valentina Borniotto, Sagep 2019
notizia ulteriore, ossia la sua collocazione sull’altare maggiore della chiesa: “un quadrilatero con
tre altari di legno, e sul maggiore spiccava un bel quadro della Pietà che il Casalis dice di Cesare
Corte”.
Si sottolinea che essa fu ritrovata soltanto nel 1985 da Giuliana Algeri, in un locale di servizio
dell’attuale Istituto di Studio e Lavoro, a efferente all’antico convento Cappuccino. La scoperta
della tela di Corte, della quale si era ormai persa memoria, fu di straordinaria importanza, sia per
l’aggiunta di un prezioso tassello al corpus del pittore, particolarmente esiguo in termini numerici,
sia per la presenza della data, che ha permesso una collocazione puntuale dell’opera all’interno
della biografia dell’artista. Figlio primogenito del pittore pavese Valerio Corte, Cesare fu
protagonista di vicende piuttosto travagliate, che culminarono nel clamoroso arresto a Genova il 30
dicembre 1612 con l’accusa di eresia; il suo profilo, tratteggiato solo brevemente dalla storiografia
locale, è stato ben ricostruito, in particolare, in un recente studio di Laura Stagno. Nato a Genova
nel 1550, Cesare desumeva dal padre i modelli della pittura veneta, ai quali affiancava la
conoscenza della coeva produzione di Luca Cambiaso, legato a Valerio Corte da un rapporto di
reciproca amicizia. Fino a tempi relativamente recenti, il catalogo delle opere certe del pittore si
limitava alla sola pala di Ognissanti nella chiesa genovese di San Francesco da Paola, ma gli studi
degli ultimi decenni hanno permesso di ampliare notevolmente il repertorio dei dipinti attribuitigli
con sicurezza. La sua attività come ritrattista e autore di soggetti sacri, destinati alla committenza
ecclesiastica, gli valse una discreta fortuna, che gli permise di lavorare non soltanto a Genova, ma
anche in Francia e soprattutto in Inghilterra, dove eseguì, ad esempio, il perduto ritratto della
Regina Elisabetta.
A fronte di una ben avviata e promettente carriera, la vita di Cesare Corte fu però travolta da “uno
strano, e improviso accidente”, che lo condusse alla clamorosa condanna per eresia.
Cesare ottenne infatti dall’amico lionese Orlando Enrì la custodia temporanea di una cassa, che
questi avrebbe dovuto in seguito recuperare; l’improvvisa morte dell’amico, però, spinse il pittore
ad aprire il baule, scoprendolo pieno di testi eretici, che non si esentò dal leggere.
A discapito dell’obbligo di denunciare immediatamente il possesso di libri proibiti, il pittore
trattenne presso di sé i volumi e, anzi, ne fu particolarmente influenzato, tanto da diffondere
pubblicamente le idee luterane. In seguito alla denuncia alla Corte dell’Inquisizione, seguì quindi
l’arresto – avvenuto il 30 dicembre 1612 – con la conseguente pubblica abiura da parte dell’artista;
egli non fu condannato alla pena capitale, ma restò in carcere, dove gli fu concesso di continuare
l’esercizio dell’opera pittorica. La sua morte, nella prigione genovese, si fa risalire al dicembre del
1619. La datazione al 1600, vergata dallo stesso pittore sulla tela chiavarese, permette quindi di
collocare il dipinto al culmine della maturità artistica di Cesare Corte, che a quella data aveva
cinquant’anni.
In questa fase sono particolarmente evidenti gli influssi della tradizione cambiasesca, che l’artista
rielabora, contaminandoli con i riferimenti alla pittura veneta, ereditati dal padre.
La scena della Deposizione del corpo di Cristo, fortemente drammatica e carica di intensità, doveva
costituire un sicuro impatto emotivo sui fedeli, ai quali peraltro la tela era rivolta direttamente, vista
la sua collocazione sull’altare maggiore.
Gli sguardi dolenti della Vergine e di san Giovanni, come il rapporto ‘tattile’ tra il corpo esanime di
Cristo e la Maddalena, sono dettagli che evocano infatti un ruolo ‘agente’ della tela sullo spettatore,
nell’ottica di una pittura di meditazione, di stampo pienamente controriformistico.
In piena aderenza alle fonti testuali, il cielo si è oscurato a causa della morte di Gesù, la cui croce
vuota spicca in evidenza al centro della collina del Golgota; ai due lati sono ancora visibili i ladroni
crocifissi, mentre gli strumenti della deposizione – chiodi e tenaglia – sono appoggiati a terra in
primo piano, vicini alla figura della Maddalena. Per garantirne maggiore visibilità, l’opera fu
trasferita, alla metà degli anni ottanta del Novecento, al Museo Diocesano di Chiavari, che conserva
inoltre il Matrimonio mistico di santa Caterina di Alessandria, di mano di Andrea Ansaldo,
proveniente anch’esso dalla chiesa di Santa Croce.
La storia di quest’ultimo dipinto è in parte simile a quella della tela di Corte, in quanto, anche in
questo caso, non si hanno notizie ab antiquo della presenza entro il convento. La scoperta
dell’opera si deve a Gian Vittorio Castelnovi, in quale la reperì nel 1981 – in condizioni
conservative precarie – in un locale dell’Istituto di Studio e Lavoro e diede avvio all’operazione di
restauro, poi eseguito sotto la direzione di Anna De Floriani. L’opera si data per via stilistica al
terzo decennio del Seicento, in un momento in cui l’artista genovese si muove ormai a pieno agio
nell’impaginazione delle scene entro architetture illusive, che caratterizzano molta parte della sua
produzione pittorica. L’abilità prospettica dell’Ansaldo fu in effetti elogiata già dagli storiografi
locali, in particolare da Carlo Giuseppe Ratti, che lo riteneva “fra’ più distinti Pittori della
Liguria”, esperto nelle “prospettive tanto ben condotte, e con sì artificiosi, e digradati passaggi
continuate, che l’occhio vi resta ingannato e insieme rapito”.
Proprio negli anni trenta del XVII secolo, questa sua propensione si arricchiva di una più profonda
conoscenza delle opere di Rubens, in particolare a seguito dell’arrivo a Genova della celeberrima
pala illustrante i Miracoli di sant’Ignazio di Loyola della chiesa del Gesù.
Come nel dipinto fiammingo, lo spazio prescelto da Ansaldo per la scena sacra della tela di Chiavari
corrisponde all’interno di un edificio ecclesiastico, che sostituisce la stanza privata di santa
Caterina, dove tradizionalmente è ambientata la vicenda narrativa; questo espediente permette
all’artista di costruire un ambiente molto più articolato, attraverso la scansione di diversi piani
spaziali, delineati dalle finte architetture che simulano l’interno della chiesa.
La visualizzazione di un’immagine mistica – che si attua con l’apparizione della Vergine con Gesù
                                                                                Bambino alla santa – è
                                                                                perciò messa in atto in
                                                                                uno spazio sacro e
                                                                                maggiormente
                                                                                ‘monumentale’,          a
                                                                                discapito dell’ortodossia
                                                                                scritturale.
                                                                                Il soggetto iconografico,
                                                                                di uso a partire dal
                                                                                Duecento,      ma      di
                                                                                particolare       fortuna
                                                                                specialmente        nella
                                                                                committenza di tipo
                                                                                monastico, ha elementi
                                                                                di particolare interesse:
                                                                                il matrimonio spirituale
                                                                                tra Caterina e Cristo si
                                                                                inserisce          nella
                                                                                complessità         delle
                                                                                numerose        metafore
                                                                                nuziali utilizzate dalla
                                                                                Chiesa in diverse fonti,
                                                                                in primis nel Cantico
                                                                                dei Cantici. Il racconto
                                                                                dell’unione      sponsale
                                                                                della santa con Gesù,
                                                                                però, compare per la
                                                                                prima volta all’interno
                                                                                De Sancta Kathelina
                                                                                Virgine, composto alla
                                                                                fine del duecento da un
                                                                                anonimo      autore    di
                                                                                ambito genovese, poi
                                                                                ripreso successivamente
da altre fonti agiografiche.
La leggenda narra che la santa si fosse addormentata dopo aver pregato davanti a una icona mariana
donatale da un eremita; in quel momento, colta dal sonno, Caterina vide la Vergine con il Bambino
che la invitava a unirsi in un matrimonio spirituale con Gesù; lo stesso Cristo però si rifiutava di
accettare la mistica unione, in quanto Caterina non era ancora stata battezzata. In seguito
all’avvenuto battesimo, Caterina ebbe quindi una seconda visione, in cui il Salvatore acconsentiva
alle nozze e le metteva l’anello al dito. La tela di Ansaldo mette in scena il momento cardine della
narrazione, scegliendo di seguire la via più filologica dell’iconografia, ossia raffigurando Gesù
infante, come lo descrivono le fonti letterarie; in altri casi, per esempio nell’opera di Luca
Cambiaso dell’Accademia Ligustica di Belle Arti, invece, Cristo è rappresentato come un fanciullo.
Di particolare interesse, infine, è l’inserzione dei due putti che stanno svelando l’icona della
Vergine, dalla quale aveva preso avvio la meditazione di Caterina e, quindi, la conseguente visione
mistica. Secondo Lauro Magnani, questo dettaglio è decisamente indicativo, in quanto “permette di
legare nella stessa rappresentazione, travolgendo ogni unità di tempo e luogo nell’edificio sacro
della chiesa, l’antica venerabile immagine della Vergine e la miracolosa apparizione del divino in
tutta la sua concreta evidenza”. L’importanza di questo particolare è stata più di recente evidenziata
anche dagli studiosi inglesi Jane Garnett e Gervase Rosser, i quali hanno focalizzato l’attenzione
sulla metafora dello svelamento, in quanto rivelazione di un fatto ritenuto miracoloso: il gesto dei
due putti, infatti, ha la specifica funzione di mettere in luce “the image unveiled”, cioè l’icona della
Vergine, indubbio cardine di tutta la narrazione.

Come già detto, entrambe le tele fin qui presentate non sono più presenti in Santa Croce, l’Istituto di
Studio e Lavoro ne mantiene la proprietà, ma esse sono attualmente collocate nel corridoio di
accesso alla sacrestia della basilica di Nostra Signora dell’Orto – cattedrale di Chiavari – in uno
spazio di pertinenza del Museo Diocesano della città. Gli altari della chiesa conservano comunque,
come si vedrà, dipinti di interesse.
La documentazione archivistica fa menzione della commissione, da parte del marchese Paolo
Torriglia e del cardinale Agostino Rivarola, di una tela raffigurante San Felice da Cantalice al
pittore genovese Francesco Costa, posta in chiesa nel 1830, in sostituzione di un dipinto precedente
(di analogo soggetto) all’epoca già fortemente deteriorato.
L’immagine di san Felice era di certo pienamente coerente al contesto, il frate di Cantalice, fu per
altro il primo dell’Ordine a essere beatificato nel 1625, per cui, di fatto, uno fra i primi Cappuccini
in assoluto a venire raffigurato in opere pittoriche. Con la conseguente canonizzazione, sotto il
pontificato di Clemente XI nel 1712, la sua fortuna iconografica conobbe un ulteriore sviluppo,
trovando frequenti riscontri anche nella comunità Cappuccina della Liguria.
Di quest’opera non vi è più traccia, ma si può ipotizzare fosse collocata nella seconda cappella della
navata sinistra, dove oggi è presente un recente dipinto devozionale effigiante Antonio Gianelli.
Ciò si deduce sulla base del fatto che la cappella in oggetto era posta appunto sotto il giuspatronato
della famiglia Torriglia, come testimonia la lapide marmorea al centro del pavimento, recante lo
scudo araldico del casato.
La prima cappella a sinistra, invece, conserva un’opera di pregevole qualità, raffigurante la
Madonna Immacolata con san Francesco d’Assisi e san Fedele da Sigmaringen, certamente
riferibile, per via stilistica, al pennello di Giuseppe Palmieri.
A supporto dell’attribuzione al pittore genovese si pongono le strette affinità con altre opere
autografe – con soggetti analoghi – presenti nelle diverse sedi Cappuccine della Liguria, per
esempio nel convento di Monterosso o in quello di Taggia.

Come ben sottolineato dalla critica – in particolare dagli studi di Daniele Sanguineti e Rita Dugoni
– l’attività pittorica di Giuseppe Palmieri si spiega soprattutto nell’ottica di una “totale conformità,
linguistica e compositiva alle attese devote dell’Ordine”, già riconosciuta dalla storiografia
settecentesca e in particolare da Ratti, il quale riferiva che “per molti Conventi de’ Cappuccini di
questa Provincia v’ha gran numero di tavole di questo Pittore. Egli era devotissimo di tal Ordine, e
perciò per que’ Religiosi eziandio senza alcuna mercede, spessissimo lavorava”.
Si concorda con Sanguineti sulla scarsa credibilità di tale affermazione, soprattutto vista la
straordinaria quantità di dipinti prodotti dall’artista per l’Ordine, tuttavia è certo che la sua carriera
artistica risulta legata quasi in esclusiva alla committenza dei Cappuccini. Evidentemente Palmieri
mostrava piena famigliarità con le tematiche iconografiche preferite dall’Ordine, tanto da attuare
soluzioni spesso reiterate con poche varianti, che però ben si adattavano alle esigenze di semplicità
e decoro – anche ‘didattico’ – che, nell’ottica dei Cappuccini, le immagini dovevano possedere.
L’iconografia del dipinto è a tutti gli effetti un ‘manifesto programmatico’ delle devozioni
Cappuccine, che accomuna le figure della Madonna Immacolata – particolarmente importante per il
contesto francescano – lo stesso san Francesco d’Assisi e il Cappuccino Fedele da Sigmaringen,
beatificato nel 1729, data che può quindi ritenersi post-quem per l’esecuzione del dipinto.
In un recente studio, si è analizzata la fortuna iconografica di san Fedele, spesso accomunato – per
ragioni esclusivamente simboliche, allusive a una comune lotta agli infedeli, nella duplice
accezione di eretici o di musulmani – a san Giuseppe da Leonessa. I due frati furono canonizzati
congiuntamente nel 1746, ma già a partire dalle fasi immediatamente precedenti alla loro
beatificazione, le immagini celebrative di entrambi avevano iniziato a diffondersi in maniera
sostanziale, con particolare frequenza – ovviamente – all’interno della committenza Cappuccina.
Lo stesso Palmieri si era spesso adoperato nella raffigurazione dei due santi – congiunti o separati –
riscontrabili in diversi dipinti di sua mano: nei già citati casi di Taggia e Monterosso, ad esempio,
ma anche nella chiesa della Santissima Concezione (o di Padre Santo) a Genova.
San Fedele nacque nel 1578 a Sigmaringen, nella Germania meridionale e partecipò alla prima
missione organizzata dalla Congregazione De Propagande Fide (1622), con lo scopo di
‘riconvertire’ i protestanti che si erano allontanati dal cattolicesimo. L’attività di predicazione e
conversione messa in atto da san Fedele da Sigmaringen si concentrò nella zona del cantone dei
Grigioni, in Svizzera, dove la maggior parte della popolazione si era convertita alle dottrine di
Huldrych Zwingli. La sua impresa durò però pochissimo tempo, in quanto, nello stesso 1622, pochi
mesi dopo al suo arrivo, egli fu aggredito e minacciato nella chiesa di Seewis mentre pronunciava
l’omelia; sfuggito da un colpo di archibugio, fu poi circondato da una folla di protestanti che lo
uccise a colpi di spade e mazze ferrate.
La mazza ferrata divenne quindi attributo iconografico fisso e quasi imprescindibile del santo,
presente anche nella tela di Santa Croce, sorretta e posta in evidenza dal putto in primo piano;
l’altro elemento che connota san Fedele è, poi, la palma del martirio, allusiva della sua morte
violenta.
Più generica è la rappresentazione di san Francesco, inserito nella composizione come compartecipe
della venerazione alla Vergine Immacolata.
All’interno della cultura francescana – entro la quale si orientano anche le scelte dell’Ordine
Cappuccino – il ruolo dell’Immacolata Concezione è, come noto, estremamente importante; anche
in Liguria è soprattutto la committenza francescana a richiedere agli artisti di rappresentare tale
soggetto, già in precoci esempi di primo Cinquecento.
La soluzione della tela chiavarese appartiene però a una fase più tarda dello sviluppo iconografico
dell’Immacolata, quando l’immagine risulta ormai codificata entro “la fissità di uno stereotipo
devoto”, reiterata, quasi costantemente, in modi pressoché costanti. Gli attributi che la connotano
sono infatti quelli che, almeno dal Seicento, costituiscono la via vincente dell’iconografia
immacolista: nell’ottica di una nuova lettura della Vergine quale Donna dell’Apocalisse – sulla base
di una contaminatio con il passo della Visione di san Giovanni Evangelista a Pathmos – la Vergine
presenta la veste bianca e blu e la corona di dodici stelle, in piedi sulla falce di luna, essa calca il
capo del serpente, simbolo del Male.
L’Immacolata della tela di Chiavari, circondata dagli angeli in volo, presenta strettissime affinità
con la Madonna Immacolata con san Fedele da Sigmaringen e san Felice da Cantalice del già
citato convento Cappuccino di Monterosso, anch’essa riferibile al pennello di Giuseppe Palmieri e
databile allo stesso torno d’anni.
Le fonti documentarie non sono risolutive circa la storia del dipinto: come nel caso di Monterosso,
la tela di Palmieri non è infatti citata dalle fonti archivistiche né storiografiche. Non si può quindi
sostenere ex-silentio che l’opera sia stata commissionata direttamente al pittore dalla comunità di
Chiavari, anche perché, visto il suo costante impegno per l’Ordine, egli avrebbe potuto produrre la
tela per qualsiasi altra sede Cappuccina ligure.
In assenza di certezze, si può ipotizzarne l’arrivo nell’agosto 1815: in quella circostanza, a seguito
della riapertura del convento dopo i cinque anni di chiusura imposti dal decreto napoleonico, non
tutti gli arredi e i dipinti che erano stati ricoverati presso la chiesa di San Salvatore di Cogorno
ritornarono a Santa Croce; riferiscono infatti le memorie manoscritte dei Cappuccini che “le due
ancone di legno delle cappelle” “restarono nella chiesa di S. Salvatore”, fatto che “fu supplito dai
massari della stessa chiesa col donativo fatto di una quantità di tavole”.
Se l’ipotesi è corretta, ne consegue che le quattro cappelle lignee della chiesa, tutte identiche per
dimensioni e struttura architettonica, dovrebbero essere state realizzate immediatamente dopo
l’arrivo del dipinto di Palmieri, probabilmente tra il 1826 e il 1829. Le Memorie manoscritte
raccolte dai padri Cappuccini attestano che alla data del 1820 “tutte le quattro cappelle” apparivano
“senza ancone di legno”, ma, nel giugno 1826, l’antica struttura a navata unica della chiesa di
Santa Croce fu stravolta da una profonda ristrutturazione, che la trasformava in un edificio a tre
navate.
Si legge nelle fonti archivistiche che “avea questa n.ra chiesa soltanto due capelle dalla parte della
sacristia, perciò piccola e incapace a contenere un numero conveniente di popolo”, per cui si
decise a quella data di dividere “il muro in due archi e con la stessa occasione a rendere la chiesa
uniforme si distrusse dall’altra parte della sacristia la muraglia interna, la quale separava una
cappella dall’altra (...) così fu divisa la chiesa in tre navate”. Qualche anno dopo la chiesa fu teatro
di una generale operazione di restauro, che vide fra l’altro il rinnovamento del pulpito ligneo, è
quindi probabile che, in quella occasione, fossero state rinnovate anche le quattro cappelle, con una
soluzione interamente in legno, in piena coerenza con la tradizione Cappuccina. A supporto di
questa ipotesi è il fatto che le dimensioni del dipinto di Palmieri si adattano perfettamente a quelle
della cornice lignea prevista nella cappella, come se quest’ultima fosse stata appunto confezionata
in seguito all’arrivo del quadro.
Inoltre, abbiamo la certezza dell’arrivo di un’altra tela nel 1830, quando il cittadino chiavarese
Sebastiano Descalzi e la consorte Bianchina donarono al convento un dipinto rappresentante San
Francesco d’Assisi “di celebre autore”.
La fonte archivistica attesta che tale quadro “donato negli anni antecedenti come piccolo, fu
aumentato nella quadratura dal n.ro pittore F. Venanzio da Genova onde fosse conveniente
all’altare”. La tela risulta in effetti ingrandita per adattarla alle dimensioni della cornice lignea,
elemento che parrebbe quindi comprovare la preesistenza dell’arredo ligneo atto a contenerla.
Lo stato conservativo precario della tela non ne permette un’analisi agevole. L’iconografia del
dipinto si inserisce in un filone di assoluto successo in ambito francescano: il santo di Assisi –
raffigurato in meditazione con il teschio fra le mani – indossa il saio comprensivo di cappuccio,
variante che trova particolare fortuna nella committenza Cappuccina.
Eclatanti in tal senso sono, per esempio, le diverse versioni del San Francesco in meditazione di
Francisco Zurbarán e, in particolare, la tela conservata all’Alte Pinakothek di Monaco (1660 circa),
la cui intensità patetica si coniuga a pieno con la spiritualità di stampo controriformistico del
Seicento spagnolo. Un esempio analogo, per ciò che concerne l’ambito ligure, si può riscontrare
nella tela di Luciano Borzone, in collezione privata, recentemente resa nota da Anna Manzitti e
ascrivibile al terzo decennio del XVII secolo.
L’ignoto autore della tela di Chiavari non sembra però seguire soltanto una generica tipologia, bensì
replicare un modello specifico, forse derivante da una stampa di carattere sacro oppure dal
frontespizio di qualche volume di particolare diffusione, che tuttavia non si è potuto ancora
identificare. L’esistenza di un prototipo è testimoniata dalla circolazione di una immagine
dall’iconografia codificata, replicata da diversi artisti – con minime varianti – in varie zone d’Italia:
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