CHI È LA PERSONA GIUSTA PER RACCONTARE EXFADDA A SAN VITO DEI NORMANNI - CHEFARE

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CHI È LA PERSONA GIUSTA PER RACCONTARE EXFADDA A SAN VITO DEI NORMANNI - CHEFARE
Chi è la persona giusta per raccontare
ExFadda a San Vito dei Normanni

L’Italia ha bisogno di una nuova biografia culturale: insieme a Il Saggiatore e con il supporto di
MiBAC e SIAE e il loro progetto ‘Per Chi Crea’, abbiamo BAGLIORE, un programma di 6 residenze
artistiche per scriverla — una delle residenze si terrà a San Vito dei Normanni nell’ex-stabilmento
enologico di ExFadda, un laboratorio urbano nato dal recupero di un vecchio stabilimento enologico
e oggi rifunzionalizzato attraverso un cantiere “partecipato” — lo spazio (4.000 mq ed un ettaro di
giardino) ospita oggi circa 30 organizzazioni attive nei campi della musica, dell’arte, dello sport,
dell’artigianato e del welfare.

Si tratta di un community hub che attraverso la condivisione di risorse (spazio, relazioni,
competenze, denaro) cerca di favorire giovani che hanno un’idea da realizzare o vogliono imparare
collaborando ad iniziative già attive. BAGLIORE offre 6 borse di residenza a 6 scrittrici e
scrittori under 35 residenti in Italia — 5 mesi di programma, 15 giorni di residenza artistica a
1.600€ lordi di contributo.
CHI È LA PERSONA GIUSTA PER RACCONTARE EXFADDA A SAN VITO DEI NORMANNI - CHEFARE
Le candidature sono aperte fino al 4 ottobre e per aiutare i candidati a scegliere meglio e a
raccontarsi meglio, abbiamo chiesto ai nuovi centri culturali che ospiteranno BAGLIORE di dirci,
secondo loro, che tipo di persona sarebbe la più adatta a raccontare le loro iniziative.

Continuiamo il nostro viaggio tra i nuovi centri culturali che ospiteranno BAGLIORE con Ginevra
Errico, community manager di ExFadda a San Vito dei Normanni.

Vuoi saperne di più sui nuovi centri culturali? Nella nostra
colonna di ricerca I Nuovi Modi di Fare Cultura ne abbiamo
intervistati a decine.
Cosa accade nel tuo centro culturale?
Il laboratorio urbano ExFadda nasce dal recupero di un vecchio stabilimento enologico abbandonato
a San Vito dei Normanni, un complesso di proprietà pubblica in disuso dalla fine degli anni
Cinquanta. Il laboratorio è gestito da una società di comunicazione locale (Sandei Srl) in
collaborazione con la Cooperativa Sociale Qualcosa di Diverso e da numerose organizzazioni sociali
formali e informali,

ExFadda è un incubatore di comunità, un posto dove gli abitanti, soprattutto i più giovani, possono
imparare in situazione, mettersi alla prova, creare un lavoro in stretta connessione con le risorse del
territorio in cui vivono. ExFadda ha permesso la nascita e lo sviluppo di diversi progetti in ambiti
differenti (dalla fotografia alla danza, dalla musica all’artigianato, dalla pedagogia allo sport, dalla
gastronomia all’arte), alcuni dei quali sono ospitati all’interno degli spazi dell’ex stabilimento
facendosi promotore/i della cultura cooperativa e dell’impresa sociale sul territorio.

ExFadda, per conto delle associazioni che al suo interno si occupano di musica, danza e teatro, è
risultato vincitore dell’edizione 2018 di Culturability, la call della Fondazione Unipolis per sostenere
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progetti culturali innovativi ad alto impatto sociale che rigenerano o riattivano spazi abbandonati o
sottoutilizzati. “Da grande sarò un teatro!”, questo il nome del progetto vincitore, ha l’obiettivo di
rifunzionalizzare e avviare la gestione condivisa di un grande ambiente ancora in disuso dell’ex
stabilimento enologico per trasformarlo in un centro di produzione e spettacolo per le arti
performative.

La comunità di ExFadda redistribuisce il valore economico generato su circa 60 persone tra docenti,
operatori, liberi professionisti, artisti, creativi, addetti ai servizi. Il valore sociale complessivamente
prodotto è generato tra il libero uso di spazi coperti e scoperti dell’ex stabilimento co-gestiti con gli
abitanti per l’intrattenimento ed il tempo libero; l’offerta di servizi gratuiti per gli abitanti per
l’orientamento, la co-progettazione, la raccolta fondi; l’inserimento lavorativo di ragazzi e ragazze
con disabilità; l’organizzazione di eventi e seminari informativi sul sistema di opportunità di natura
pubblica o privata; l’organizzazione e la produzione di eventi artistici e culturali accessibili a tutti; la
progettazione e realizzazione di percorsi di alternanza scuola-lavoro con gli istituti scolastici del
territorio.

L’esperienza di ExFadda ha ispirato le politiche pubbliche del Comune di San Vito dei Normanni
accompagnando l’amministrazione comunale nella progettazione del percorso di partecipazione per
la rigenerazione urbana SANTU VITU MIA risultato vincitore del finanziamento regionale per la
Rigenerazione Urbana Sostenibile e successivamente del Bando Partecipazione della Regione Puglia.

Nel 2017 la cooperativa Qualcosa di Diverso ha avviato la gestione di un’azienda agricola confiscata
alla criminalità organizzata di circa 50 ettari coltivati ad olivi e vigna. XFARM – Agricoltura Sociale –
questo il nome del progetto – ha come obiettivo creare un hub rurale per sperimentare nuove
pratiche agricole e sociali, promuovere la cultura antimafia tra le giovani generazioni e creare
occasioni di formazione e lavoro per i più giovani. MANIFESTO è il nome dell’olio extravergine di
oliva prodotto all’interno dei terreni confiscati.

Qual è il tuo candidato ideale?
ExFadda non può essere immaginata come una organizzazione classica ma dev’essere percepita
come una comunità. Per questo abbiamo deciso di chiedere alle persone che abitano ogni giorno il
Laboratorio Urbano una frase, una metafora, una caratteristica che vorrebbero ritrovare nella
persona che verrà a stare con noi per BAGLIORE. Di seguito le risposte:

      Dovrebbe essere una persona coraggiosa, capace di fare un’esperienza comunitaria con voi più
      che come osservatore esterno. Una persona con i codici sentimentali, politici, intellettuali per
      guardare alle cose piccole che fanno grande ExFadda.
      Indipendente.
      Semplicemente vivere… buttando via il superfluo.
      Il candidato ideale per ExFadda deve essere esperto in sviluppo sostenibile, particolarmente
      predisposto alla comprensione dei temi legati al bene comune e al benessere collettivo…
      magari un giornalista ambientale! E con un pizzico di follia, così tra noi non si sentirà a
      disagio.
      Pensiero fluido.
      Una persona capace di mettersi in gioco e ascoltare!
      Una persona entusiasta e flessibile capace di conoscere e raccontare un posto magico e folle
      come ExFadda.
      Under 18
      Capace di poter estrapolare dai racconti e dalla storia di ExFadda l’impatto generato a livello
      sociale ed economico su San Vito dei Normanni.
      Sensibile, garbato, improbabile, onesto.
      Curioso, di mentalità aperta, ficcanaso, socievole.
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Deve essere una persona empatica, con dei valori veri e profondi… Che sappia ascoltare.
      Capacità di ascoltare, empatia, zero presunzione.
      Una finestra sul giardino.
      Deve saper leggere nel profondo oltre l’evidenza. Deve avere una spiccata empatia.
      Mente vuota, cuore pieno.
      Penso che dovrebbe essere obiettivo e privo di troppe aspettative per avere la mente libera di
      capire e poter apprezzare tutte le situazioni nella loro complessità.
      Secondo me ci vuole uno che tende a fare domande scomode.
      Secondo me questa persona dovrebbe essere molto interessata alle attività svolte in modo da
      essere poi in grado di riportare tutto ciò che ha appreso; allo stesso tempo dovrebbe avere una
      mentalità abbastanza aperta perché, come ben sappiamo, è difficile gestire e comprendere
      determinati meccanismi.
      Un sognatore ad occhi aperti nel senso buono, cioè deve emozionarsi vivendo il sogno di
      ExFadda ma deve essere consapevole del valore che c’è dietro, trasmettendo così con la
      propria scrittura due messaggi: bellezza e comunità.

Dobbiamo superare il ‘bandismo’ per
ricominciare a fidarci dell’innovazione
culturale

È tempo di affrontare i nodi che condizionano lo sviluppo delle organizzazioni no profit che operano
nell’ambito culturale e sociale, soprattutto nel Mezzogiorno. Non solo per difendere l’operato di
migliaia di associazioni, cooperative, fondazioni, imprese sociali, che meritano rispetto, ma per
guardare con fiducia ad uno sviluppo equilibrato delle comunità, in cui cioè sono assicurati i servizi
sociali e culturali essenziali, si sperimentano progetti per la lotta alla povertà educativa e alla
dispersione scolastica, si incoraggiano i giovani a promuovere imprese nella gestione del patrimonio
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culturale e nella produzione culturale, si valorizzano i beni confiscati alle mafie, si coltivano
opportunità per costruire una economia civile.

Leggi e bandi non possono diventare
‘ostacoli’.
Per raggiungere questi obiettivi norme, leggi, bandi non possono diventare “ostacoli”. Abbiamo
conosciuto un tempo abitato da fiducia, speranza, aspettative, dopo l’approvazione della riforma del
Terzo Settore. Poi tutto si è “incagliato”. Non solo non si è data piena attuazione al nuovo quadro
normativo (che pure presentava alcune evidenti criticità) ma è stata avviata una campagna di
delegittimazione delle associazioni di volontariato, della cooperazione sociale e culturale, delle
organizzazioni non governative, alimentando un clima di sospetto e di sfiducia.

Sicché milioni di persone hanno dovuto difendere il proprio lavoro, la propria dignità, il loro servizio
alle comunità, il loro impegno civile, senza per questo coprire limiti e contraddizioni. Ora serve
voltare pagina. Senza aspettare soluzioni miracolistiche ma rimboccandosi le maniche e provando ad
interrogarsi anche sui limiti di una azione collettiva che, in qualche caso, ha smarrito l’orizzonte
entro il quale sono nati e si sono sviluppati i “mondi vitali”.

Ledo Prato

Nessuno può sentirsi escluso da questo processo che riveste il profilo di un’”autoriforma”. Ci sono
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nodi che vanno affrontati. Ne cito alcuni. C’è una dicotomia nelle stesse organizzazioni del Terzo
settore, fra Nord e Sud, fra aree interne e centri urbani, fra grandi cooperative, associazioni e la
miriade di piccole esperienze che si affannano quotidianamente. Chi è “grande”, spesso non si cura
di chi è più “piccolo”. Ci si prende cura della propria comunità ma non delle piccole realtà
associative che di quella comunità fanno parte e di cui molte volte sono il lievito.

Vivaio Sud è una rete informale di
associazioni, cooperative, imprese sociali,
progettisti che operano in ambito culturale e
sociale
La competizione, alimentata da un esasperato “bandismo”, mortifica le possibilità di crescita. Le
alleanze, i partenariati si fanno fra soggetti forti senza coinvolgere le realtà più piccole. Qualche
volta si “sceglie” di restare piccoli e la frammentazione non sempre consente di crescere. I
professionisti, legittimamente, emettono le proprie parcelle. Quelli più bravi, più ricercati, sono una
“merce” a disposizione di chi ha i mezzi adeguati. I più piccoli, a volte, devono ripiegare su
professionalità meno competenti in materia ma che hanno costi più abbordabili. Le conseguenze
sono immaginabili.

Questo quadro, già complesso, si fa ancora più grave se lo riferiamo al Mezzogiorno. Qui, le tante
straordinarie esperienze che, fra mille difficoltà, si sono fatte avanti fra sconfitte e conquiste, non
hanno facili interlocuzioni con il sistema bancario, non possono fare riferimento alle risorse delle
Fondazioni bancarie (poche e debolissime), si confrontano con enti locali deboli sul piano delle
risorse finanziarie e umane, operano spesso in contesti ostili perché rappresentano un presidio di
legalità e principi di comunitarismo.

Si costruiscono bandi pubblici sempre più
complessi con una serie interminabile di
vincoli e criteri di selezione che premiano chi
è già forte
In un sistema normativo sempre più tendente ad omologare le imprese no profit a quelle profit, si
costruiscono bandi pubblici sempre più complessi con una serie interminabile di vincoli e criteri di
selezione che premiano chi è già forte e collaudato. Un esempio per tutti. Asse II del PON Cultura
(destinato al Terzo settore). Dotazione iniziale 114 milioni. Domande presentate, 186. Ammesse 34
(il 18%!). Dopo tre anni le risorse ancora disponibili sono 84 milioni. E se è vero che non dobbiamo
affidare solo alle norme legislative la soluzione di questioni culturali e sociali è altrettanto vero che
la legislazione, la giurisprudenza, possono contribuire a semplificare o complicare processi e
procedure.

Quindi i fronti sono più di uno e ciascuno rimanda all’altro. Di questo e di altro parleremo a Salerno
il 19 settembre in occasione della VI edizione di Vivaio Sud organizzata da Mecenate 90, in
collaborazione con il Forum del Terzo settore.
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Vivaio Sud è una rete informale di associazioni, cooperative, imprese sociali, progettisti che operano
in ambito culturale e sociale, prevalentemente nelle regioni del Mezzogiorno, che si danno
appuntamento ogni anno per confrontarsi su temi “sensibili”, per imbastire rapporti, relazioni,
collegamenti, scambiarsi esperienze. Il titolo di questa edizione è “Fiducia nell’innovazione sociale e
culturale. Fiducia nel terzo settore”.

Un titolo che è anche un appello. I lavori (che hanno inizio alle 10.30 e di norma terminano alle ore
17.30/18.00) sono organizzati in due sessioni: al mattino si ascoltano gli interventi (15 minuti) di
alcuni esperti sui temi posti al centro del meeting.

Nella seconda sessione si presentano alcune esperienze, mettendo a tema le problematiche con cui
si sono confrontati i partecipanti nel corso dell’anno, con particolare riferimento alle questioni
presentate nella prima sessione.

Serve un supplemento di impegno civile,
culturale
In questa edizione avremo occasione di confrontarci anche sugli istituti della co-programmazione e
co-progettazione, disciplinati dal Codice del Terzo settore, con l’obiettivo di individuare le modalità
con cui è possibile comporre un quadro che migliori l’efficacia e l’efficienza nella erogazione delle
risorse destinate al Terzo settore nell’ambito culturale e sociale.

Per affrontare alcuni dei temi richiamati sono stati invitati: Sergio De Felice, Presidente di Sezione
del Consiglio di Stato, Michele Corradino, Consigliere dell’ANAC, Luca Gori, giurista della Scuola
Sant’Anna di Pisa, Carlo Borgomeo, Presidente della Fondazione con il Sud, amministratori locali
come Roberto Covolo, Assessore a Brindisi, economisti come Ludovico Solima e Stefano Consiglio,
esperti come Marco D’Isanto, Renato Quaglia e Agostino Riitano, Bertram Nissen di cheFare,
partner di Vivaio Sud.

Soprattutto tante donne e uomini impegnati in una economia che si vuole generativa di contesti
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sociali e culturali capaci di valorizzare le persone. Con loro, insieme a Maurizio Mumolo, Direttore
del Forum del Terzo settore, proveremo a condividere domande e a fare proposte. Perché lo richiede
il tempo che stiamo vivendo. Serve un supplemento di impegno civile, culturale, serve il coraggio di
individuare le criticità, la saggezza necessaria per avanzare proposte che segnino quella
discontinuità che serve per costruire un diverso presente prima ancora che un nuovo futuro.

Per partecipare a Vivaio Sud, inviare una mail a m90@mecenate90.it

Come salvare il giornalismo da se stesso: lo
slow journalism secondo Alberto Puliafito e
Daniele Nalbone

Lo sentiamo dire ogni giorno: il giornalismo è morto. Morto ammazzato. Se la situazione è questa, la
domanda sorge spontanea: chi l’ha ucciso? Da questa domanda muove il saggio Slow Journalism, di
Alberto Puliafito e Daniele Nalbone (Fandango Editore), in cui c’è, per iniziare, un’ammissione di
colpa: “La nostra indagine è anche una confessione: se il giornalismo è stato ucciso, anche Daniele e
io siamo colpevoli”, racconta a cheFare Alberto Puliafito.

La ragione è molto semplice: Alberto e Daniele sono stati a lungo, rispettivamente, direttore di Blogo
e responsabile di Today. “Da questo punto di vista, siamo stati complici: abbiamo fatto parte di quel
giornalismo che si basava solo o quasi sui click allo scopo di far vedere quanti più banner
pubblicitari ai visitatori. È un tipo di lavoro che, soprattutto per quanto riguarda il posizionamento
su Google attraverso la SEO, abbiamo fatto abbastanza bene; tanto da venir poi imitati da parecchie
testate mainstream”, spiega Puliafito. “Quindi, per cominciare, facciamo ammissione di colpa”.
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Come in ogni carneficina, i responsabili sono però numerosi. Al di là dei giornali che utilizzano
modelli di business basati sui click (spesso alla base delle numerose degenerazioni di giornalismo
sensazionalista, affrettato e poco accurato che vediamo ogni giorno), chi sono gli altri responsabili?
“Tutti ci dicono che la colpa è di Facebook e di Google. Sarà vero?”, si chiede l’autore di Slow
Journalism. “Noi non siamo diventati improvvisamente difensori di queste piattaforme: sappiamo
benissimo che ci sono dei problemi. Ma sappiamo anche che – per quanto tolgano alcune opportunità
– possono anche offrirne delle altre”.

In poche parole, Google e Facebook sono certamente responsabili di divorarsi una parte enorme
della torta della pubblicità digitale. Allo stesso tempo, un loro attento utilizzo fornisce agli editori la
possibilità di raggiungere una platea immensa di lettori, con positive ricadute economiche (per
quanto insufficienti a sopperire al calo di copie vendute in edicola).

È un omicidio un po’ strano: tutti dicono che
il giornalismo è stato ucciso, ma il cadavere
non si trova
La ricerca del colpevole, quindi, deve continuare: “Sarà mica colpa della gente che è stupida, come
spesso affermano i colleghi più fortunati; quelli regolarmente assunti nelle redazioni con contratti di
ferro?”, prosegue Alberto Puliafito. “Ma quand’è che la gente è diventata stupida? Significa che fino
a poco fa, quando compravano il giornale di carta, erano invece intelligenti?”.

“È un omicidio un po’ strano: tutti dicono che il giornalismo è stato ucciso, ma il cadavere non si
trova. La verità infatti è un’altra: il giornalismo non è morto. È un mestiere sempre necessario e si
trova ancora chi lo fa per bene: bisogna soltanto avere la pazienza di andarlo a cercare”, spiega
sempre Alberto. “Non c’è un omicidio, non ci sono degli assassini: ci sono semmai svariate concause
che hanno messo in grave difficoltà questa professione. E sono le stesse che andiamo ripetendo da
tempo: il modo errato in cui si è monetizzato il digitale, il calo delle vendite e degli abbonamenti, la
fiducia in costante discesa nei confronti del giornalismo (come di tutte le altre istituzioni)”.

Ma la colpa sta anche nell’autoreferenzialità di un mondo che, di fronte alle difficoltà che sta
incontrando, non trova niente di meglio che incolpare l’ignoranza di chi non legge più i giornali. È
possibile sostenere una tesi del genere? “Non ci credo. Anzi, penso che troppi colleghi si siano
dimenticati che il giornalismo è un prodotto che deve parlare a un pubblico; non lamentarsi se
questo pubblico non lo ascolta più. Uno dei problemi principali è che non ha saputo mettersi in
discussione. Se vogliamo generalizzare – e fatte le dovute eccezioni – possiamo dire che il modello di
business che c’era una volta è saltato completamente. Se prima l’inserzionista pagava per apparire
su un mezzo generalista come il quotidiano (perché veniva comprato da tot persone, veniva letto al
bar e quindi garantiva una certa esposizione), oggi gli inserzionisti sono molto più interessati a
raggiungere con precisione i loro potenziali clienti. Ed è in questo che Google e Facebook hanno
davvero fatto la differenza: hanno il monopolio dei dati e di conseguenza quello sulla pubblicità
digitale; lasciando agli altri soltanto le briciole”.
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A differenza di quanto avvenuto nel cinema e nell’industria discografica (che – dopo quasi due
decenni di pesante calo seguiti alla rivoluzione inaugurata da Napster – ha ricominciato a crescere
grazie alla diffusione dei servizi in streaming), il giornalismo non si è dimostrato in grado di
adattarsi all’epoca digitale. Come se ne esce? “La cruda verità è che un modello di business che ci
permetterà di tornare a lavorare come prima non esiste e non esisterà”, spiega Puliafito. “La
rivoluzione digitale è, per l’appunto, una rivoluzione. E le rivoluzioni fanno morti e feriti, non sono
un pranzo di gala; per usare la classica citazione”.

La situazione, quindi, è questa: la rivoluzione digitale ha cambiato il mondo sotto ai piedi dei
giornalisti e l’Italia ha investito pochissimo in ricerca e sviluppo. Sono passati due decenni dall’inizio
di questo processo e ci troviamo ancora oggi alle prese con un disorientamento completo. “In più, si
è creato un vero e proprio solco tra chi ha avuto la fortuna di entrare nel giro degli articolo 1 (i
contratti regolari da giornalisti, nda), che sono giustamente tutelati, e chi ha solamente la partita
Iva”, prosegue Alberto. “Le aziende ormai non ti chiamano neanche più giornalista, ma content
editor e ti pagano tre euro a pezzo. Ovviamente non si può dare la colpa a chi accetta questi
compensi: se uno ha bisogno di lavorare diventa ricattabile per necessità. È un cane che si morde la
coda: il modello di business salta, non si investe, i compensi scendono, la qualità scende, la fiducia
scende”.

Il contenuto dev’essere pensato per durare
nel tempo
Su un punto così importante come quello dei compensi, credo che sia il caso di fare un ulteriore
chiarimento. Spesso ci si immagina un giornalista che lavora tutto il giorno per scrivere un singolo
pezzo che viene pagato 3/5/15 euro. Le cose non stanno così. L’ho sperimentato per anni sulla mia
pelle: ciò che viene richiesto è di scrivere moltissimi articoli ogni giorno (anche dieci); articoli brevi
e da produrre all’istante, in cui si riprendono polemiche, dichiarazioni sui social dei vari politici,
gossip e quant’altro. In questo modo, per il giornalista che li produce, diventa possibile mettere
assieme un compenso che, in alcuni casi, può persino essere dignitoso. Il problema è (anche) un
altro: è dignitoso il giornalismo che si produce in questo modo, fatto di tonnellate di articoli che
diventano inutili nel giro di un paio d’ore?

“Anche quanto abbiamo visto durante l’incendio di Notre Dame è stato drammatico”, conferma
Alberto Puliafito. “Titoli che hanno il solo scopo di emozionare e che riportano i fatti in maniera
assolutamente esagerata”. Tutto questo è una conseguenza della necessità di fare clic sul web e,
ormai, anche di ridurre il calo delle copie; attraverso titoli urlati che possono diventare virali sui
social network (i casi di Libero o La Verità ci ricordano tutti i giorni questa particolare dinamica).
“Qual è allora la buona notizia? Avendo fondato, nel mio piccolo e assieme ad altri colleghi, un
progetto come Slow News – che rinuncia completamente alla raccolta pubblicitaria – abbiamo avuto
modo di conoscere altre redazioni che lavorano secondo questa logica”, prosegue Puliafito. “Realtà
come la danese Zetland, la britannica Delayed Gratification, l’olandese De Correspondent e altre
ancora. Tutte realtà che si sostengono, in forme diverse, grazie al supporto economico dei lettori.
Alcune usano il termine Slow Journalism e altre no; ma tutte hanno una cosa in comune: l’attenzione
nei confronti dei contenuti e la consapevolezza che la loro produzione non è solo qualcosa che costa
tempo e fatica, ma è anche un asset che va sfruttato sul lungo termine”.

Perché produrre un articolo pagato pochi euro e che genera attenzione per poche ore, quando si può
produrre qualcosa di qualità, pagato il giusto e che mantenga la sua freschezza per mesi se non
addirittura anni? Da questo punto di vista, uno dei casi scuola a livello mainstream è l’articolo What
Isis Really Wants del The Atlantic. Un pezzo di qualità, lungo, approfondito, che sfrutta anche una
chiave di ricerca molto comune su Google (“Che cosa vuole l’Isis?”) e che ha generato,
letteralmente, milioni di visite per mesi e mesi. Un articolo capace di coniugare successo in termini
di traffico con qualità e longevità. E che sicuramente svolge un ruolo sociale molto più importante
dei vari pezzi che riportano gli ultimi selfie di Salvini.

Mi chiedo se sia sostenibile un modello in cui
tutte le testate parlano della stessa notizia
allo stesso modo
“Il contenuto dev’essere pensato per durare nel tempo. E il digitale offre, da questo punto di vista, la
possibilità di manutenere gli articoli pensati in questo modo, aggiornandoli quando necessario”,
precisa Alberto. “Dal punto di vista del rapporto con i lettori, invece, i casi di Zetland e De
Correspondent ci insegnano soprattutto come vadano trattati gli abbonati: non delle persone da
contattare solo per il rinnovo dell’abbonamento, ma membri di una community con cui dialogare,
con cui relazionarsi, di cui ascoltare le richieste. Non significa avere un rapporto paternalistico o
confondere il ruolo dei giornalisti e dei lettori, ma avere consapevolezza che tra i nostri lettori ci
sono insegnanti, infermieri, avvocati: persone che hanno conoscenze che a noi giornalisti mancano”.
In questo modo, diventa possibile ascoltare le richieste dei lettori e pianificare i contenuti
prendendosi il tempo necessario”.

Finora, però, abbiamo parlato dei modelli di business di realtà editoriali di nicchia, che non
ambiscono e non hanno i mezzi per sostituire le testate più note, che continuano comunque a
svolgere un ruolo cruciale: tenerci informati su ciò che sta avvenendo in questo momento. “Non
nego la necessità di avere informazioni su ciò che succede adesso, ma mi chiedo se sia sostenibile un
modello in cui tutte le testate parlano della stessa notizia allo stesso modo”, precisa Puliafito. “Si è
obbligati a riempire gli spazi in ogni modo, anche dicendo assurdità. Quand’ero più giovane, in
televisione c’era l’edizione straordinaria: si interrompevano i programmi per cinque minuti, si
davano le informazioni e poi riprendeva la programmazione normale. Non era cinismo, in quei pochi
minuti venivano dette le cose che si sapevano: cos’altro ti devo dire sul momento?”.

Oggi invece si fanno maratone chilometriche ma inutili, in cui si ripetono all’infinito le stesse cose;
prima ancora che si abbia una vera conoscenza dell’accaduto. “Prendiamo il caso del crollo del Ponte
Morandi: nonostante tutto lo spiegamento di forze che c’è stato, il lavoro più bello l’ha fatto il New
York Times, con un reportage uscito quasi un mese dopo il fatto”. Il senso di tutto questo è: ci
servono davvero news immediate e incomplete o è meglio concentrare le risorse per investigare
davvero l’avvenuto; prendendosi il tempo necessario? “Uno dei modi per salvare il giornalismo è
capire che il nostro impegno dovrebbe rivolto verso qualcos’altro rispetto alle news, che ormai sono
diventate una commodity. Il giornalismo invece non si è mai interessato a quello che succede in
senso fondativo, ma solo in senso eccezionale. Come dice il direttore di De Correspondent: ‘Abbiamo
parlato per 150 anni del tempo che fa, avremmo dovuto invece parlare del clima che cambia’”.

C’è una sola strada da seguire: iniziare subito
a sperimentare, investire e trovare nuove
forme di produzione dei contenuti e di
business
Se la salvezza di musica e cinema è arrivata attraverso realtà come Netflix e Spotify, saranno
piattaforme come Apple News + o Blendle a risollevare le sorti economiche del giornalismo (usando
lo stesso principio: paghi un tot al mese e puoi accedere a tutti i contenuti che vuoi)? “Per quanto
riguarda Blendle, quando li ho intervistati ho avuto la sensazione di una startup che andrà
lentamente declinando. Non penso che il modello Netflix possa funzionare. Il giornalismo non è come
il cinema o la musica: nel giornalismo sei legato alla testata in una maniera completamente diversa
rispetto al legame che si ha con un’etichetta discografica. Invece di dare 10 euro al mese a Apple
News, è più probabile che si preferisca darli al giornale di fiducia”.

E infatti questa è la strada intrapresa da sempre più testate italiane come Repubblica, il Corriere e
La Stampa; che pubblicano numerosi articoli sotto il cosiddetto paywall, che richiede un pagamento
mensile per accedere a tutti i contenuti. “Per i big questa strada può funzionare eccome, ma devono
ripensare profondamente il loro giornalismo. Se provi questa via, devi avere il coraggio di rinunciare
a tutto il resto: togliere le gallery e le notizie curiose. Se vuoi convincermi a pagare, devi creare un
ecosistema completamente diverso”.

Questa strada, come noto, è quella perseguita con successo dal New York Times, che ha superato i 3
milioni di abbonati all’edizione digitale. Ma c’è un problema: il NYT è una testata che si rivolge
letteralmente a tutto il mondo, i cui abbonati arrivano in larga parte anche da fuori gli Stati Uniti
(16%) e che rappresenta comunque un caso unico. Può essere sostenibile anche per le testate
nostrane, che si rivolgono a una platea massima potenziale di 60 milioni di lettori (neonati inclusi)?
“Con i costi di struttura che queste testate hanno oggi, non si può fare. E in questi costi includo
anche il numero di giornalisti. Non c’è un modello di business che vale per tutti, ognuno deve
trovare la sua via”.

Se vogliamo evitare uno scenario apocalittico, in cui le realtà editoriali che oggi conosciamo
smettono di esistere per poi rinascere in maniera economicamente più sostenibile (lasciando quindi
sul terreno i già citati “morti e feriti delle rivoluzioni”), c’è una sola strada da seguire: iniziare subito
a sperimentare, investire e trovare nuove forme di produzione dei contenuti e di business; che
restituiscano prestigio a questa professione, e di conseguenza facciano riscoprire ai lettori il vero
valore del giornalismo di qualità.
Chi è la persona giusta per raccontare le
Officine Culturali di Catania

L’Italia ha bisogno di una nuova biografia culturale: insieme a Il Saggiatore e con il supporto di
MiBAC e SIAE e il loro progetto ‘Per Chi Crea’, abbiamo BAGLIORE, un programma di 6 residenze
artistiche per scriverla — una delle residenze si terrà a Catania negli spazi di Officine Culturali,
un’associazione culturale la cui presenza è diffusa in luoghi come il Monastero di San Benedetto, il
suo Museo della Fabbrica e il relativo Archivio, il Museo universitario di Archeologia, l’Orto Botanico
e il Museo Civico Castello Ursino.

Si tratta di un’impresa sociale in cui la ricerca e la progettazione si trasformano in esperienza e
racconto finalizzati a rendere i beni culturali uno spazio di integrazione e aggregazione per la
collettività. Nata nel 2009, oggi Officine Culturali conta 12 dipendenti e collaborazioni culturali di
alto livello con le maggiori istituzioni dell’area. BAGLIORE offre 6 borse di residenza a 6 scrittrici
e scrittori under 35 residenti in Italia — 5 mesi di programma, 15 giorni di residenza artistica a
1.600€ lordi di contributo.
Le candidature sono aperte fino al 4 ottobre e per aiutare i candidati a scegliere meglio e a
raccontarsi meglio, abbiamo chiesto ai nuovi centri culturali che ospiteranno BAGLIORE di dirci,
secondo loro, che tipo di persona sarebbe la più adatta a raccontare le loro iniziative.

Continuiamo con Ciccio Mannino, delle Officine Culturali di Catania.

Vuoi saperne di più? Nella nostra colonna di ricerca I Nuovi
Modi di Fare Cultura abbiamo scoperto cosa sono le Officine
Culturali.

Cosa accade nel tuo centro culturale?
L’associazione culturale Officine Culturali viene fondata il 2 novembre 2009. L’11 settembre 2018
l’associazione acquisisce la qualifica di Impresa Sociale ETS. Dal 2010, grazie ad un partenariato
con l’Università di Catania (non oneroso per l’Ateneo), l’associazione si prende cura del Monastero
dei Benedettini, oggi popolata sede universitaria nonché edificio di riferimento per la comunità
locale, che vi si riconosce sempre più. L’associazione, nata nel 2009 dall’aggregazione di studenti e
studiosi e oggi organizzazione non profit con 12 dipendenti a tempo indeterminato con CCNL
Federculture. Oggi Officine Culturali, socio e parte del Consiglio Direttivo Federculture e membro
dell’International Council of Museums (ICOM), svolge le sue attività tra il Monastero, il suo Museo
della Fabbrica e il relativo Archivio, il Museo universitario di Archeologia, l’Orto Botanico, il
Monastero di San Benedetto e il Museo Civico Castello Ursino.

In questi otto anni Officine Culturali ha ritenuto imprescindibile tutelare il patrimonio culturale,
rendendolo accessibile e comprensibile attraverso forme inclusive e partecipative di mediazione e
comunicazione sociale della ricerca scientifica. Non meno importante, il contrasto al fenomeno delle
povertà educative è stato assunto tra gli obiettivi principali delle azioni realizzate, nel quadro di una
visione generale di un welfare culturale con finalità di coesione sociale. Tali finalità sono state
perseguite grazie ad attività di ricerca e studio sul patrimonio culturale e i suoi possibili utilizzi.

Il risultato: circa 250mila visitatori accompagnati in 8 anni (38mila nel 2018); una adesione
crescente e convinta della comunità locale, sempre più consapevole della natura di bene comune del
Monastero e dei suoi utilizzi possibili; bambini e ragazzi di ogni età coinvolti a migliaia ogni anno
nella partecipazione ad attività educative e nella co-creazione di contenuti; processi inclusivi volti ad
abbattere barriere architettoniche, sociali, economiche e cognitive; scambio crescente tra la
comunità universitaria e il resto del territorio: tutto questo ha radicalmente cambiato la percezione
del complesso architettonico da parte della città, attivando sentimenti di integrazione,
partecipazione, coinvolgimento e cittadinanza attiva. Un orgoglio collettivo ben riscontrabile dalla
reputazione che i catanesi stanno costruendo in così pochi anni attorno al “loro” Monastero, vivendo
intorno ad esso una stagione di attivismo civico.

Officine Culturali vuole lavorare sul welfare culturale e la consapevolezza civica, grazie ad un
palinsesto storico-architettonico che restituisce complessità storica e non solo bellezza (funzione
educativa); e integrazione, grazie ad attività diversificate che consentono un continuo scambio tra le
persone (funzione coesiva): mediante la collaborazione tra un ente scientifico-didattico pubblico e
una organizzazione non profit, la Terza Missione dell’università si fa sperimentazione quotidiana,
public engagement, accessibilità, inclusione e infine motore di coesione sociale e valorizzazione
professionale del capitale umano e culturale.

Qual è il tuo candidato ideale?
Una persona curiosa, attenta alle idee che troverà, ma anche a chi usufruisce degli esiti di quelle
idee. Indipendente. Possibilmente che conosca il mondo dei beni culturali, e soprattutto che sia
intrigata dal rapporto che le persone intessono con quel mondo. E a cui, più in generale, interessino
le relazioni tra persone e luoghi. Una persona, infine, che non si spaventi a tuffarsi nel quotidiano di
un’impresa sociale che ogni giorno gestisce attività per centinaia di utenti, affronta emergenze,
tenta la sostenibilità, sogna l’efficacia del proprio operato.
Cos’è la lingua quando cessa di comunicare?
Vanni Bianconi presenta Babel Festival 2019

A settembre è ormai consueto l’appuntamento con i festival culturali che portano l’estate fin dentro
l’autunno con una serie di fine settimana sparsi nelle varie città italiane all’insegna della letteratura,
della filosofia, dell’ecologia e della scienza. Le piazze delle città diventano così veri e propri luoghi di
confronto e di scambio in cui si intessono nuove relazioni e se ne approfondiscono altre.
Ed è proprio partendo dall’idea della relazione che abbiamo con piacere intervistato Vanni Bianconi
che dirige un festival poco oltre i confini italiani che si caratterizza per un tema che per certi versi
riassume tutti gli altri: la traduzione. Babel Festival – che apre i battenti il 12 settembre – giunge
alla tredicesima edizione guidato da Vanni Bianconi, poeta e traduttore, originario di Locarno e da
dieci anni residente a Londra. Quando nasce e perché Babel Festival? Cosa vi ha ispirato? Quale
l’ambizione e la visione? Quale la necessità?

Babel nasce nel 2006, ospitando le lingue della diaspora ungherese, a 50 anni dai Fatti di Ungheria.
Erano gli anni Berlusconi, e i festival letterari sembravano offrire un’alternativa – se non un antidoto
– alle proposte culturali dei mass media. Babel è nato dal desiderio di mettere al centro una
dimensione della letteratura allora ancora trascurata, la traduzione. La traduzione che, intesa come
“ospitalità linguistica” – cioè la pratica che ti porta ad andare verso l’altro per poi poterlo invitare a
casa tua –, può servire da modello per altri tipi di ospitalità.

Babel si concentra sulle lingue meticce, le
seconde lingue, le lingue immaginate e
disprezzate
Questa l’ambizione e la necessità, mentre la visione passa dallo spioncino, ha a che fare con la
fiducia nella letteratura quando la si ascolta con cura, come fa il traduttore, parola per parola: come
è più significativo il dialogo tra traduttore e autore sulla ricorrenza di un termine o uno scarto
sintattico che non le interpretazioni critiche che tendono a sovrapporsi al testo, così un testo che ci
parla di una persona creandone la voce sa dirci di più sull’umanità o sul nostro tempo che molta
teoria accademica o pratica politica.

Come siete partiti e quanti siete ora? A quale il modello socio economico si ispira?
Eravamo un gruppo di amici vicini alle Edizioni Casagrande di Bellinzona, scrittori e traduttori. Ora
siamo una ventina di persone che ci lavorano sull’arco dell’intero anno. Il modello economico è
prevalentemente toyotista. A differenza di tanti festival più generici Babel affronta un tema specifico
da un’angolatura specifica: sceglie un paese ospite – Balcani, Inglesi Uniti d’America, Palestina,
Brasile ecc. – o un tema – Aldilà, Non parlerai la mia lingua quest’anno – che si confrontano
internamente con le traduzioni, linguistiche e culturali, e invita autori che vivono e scrivono in più
lingue, in dialogo con i loro traduttori italiani. Lo sforzo curatoriale è notevole, ma il risultato è
speciale, come fosse un unico incontro che si articola in tanti momenti sempre collegati tra loro.

Vanni Bianconi

Negli anni che pubblico ha raggiunto il Festival? Quale relazione si attiva tra gli autori e il pubblico?

Il festival rimane piccolo, senza sovrapposizioni di eventi in un unico teatro che ospita 380 persone,
su tre giorni. Ma a dipendenza dell’edizione, il pubblico può venire da tutta Italia o piuttosto dalle
regioni limitrofe, coinvolgere le comunità di immigrati che ritrovano i loro scrittori e le loro lingue o
gli svizzeri delle diverse aree linguistiche. Data la dimensione intima del festival il rapporto è stretto:
gli autori, star o esordienti che siano, ritrovano il pubblico a cena o nei castelli di Bellinzona.
Come si rapporta Babel Festival con il territorio? E quali pratiche promuove durante l’anno?

Per anni Babel ha portato il meglio della letteratura internazionale nel contesto del Cantone Ticino
per poi scomparire per un anno: molto del lavoro veniva e viene fatto a livello mondiale, con
collaborazioni con festival e case editrici, riviste e istituzioni internazionali. Per dirne due, abbiamo
appena curato una serie di performance di scrittori brasiliani di origine indigena e svizzeri che
hanno scritto dei testi collettivamente, al gigantesco festival FLIP di Paraty.

È nel passaggio, nello scarto, nella relazione,
che si può cogliere qualcosa di sé e di quanto
ci sta attorno
Un altro progetto potenzialmente illimitato è la rivista multilingue www.specimen.press, dove
pubblichiamo i testi delle decine di scrittori scoperti con il lavoro di ricerca di Babel, in qualsiasi
lingua e qualsiasi alfabeto. Ma da quest’anno è nato TESSin Babel, affidato a un gruppo di giovani
tornati in Ticino che organizzano incontri ed eventi sul territorio durante tutto l’anno.
Perché la traduzione? Quale il tema dell’edizione di quest’anno?

La propria lingua è ciò che più si avvicina a quel che si cerca di definire “identità” – ma per questo
Babel si concentra sulle lingue meticce, le seconde lingue, le lingue immaginate e disprezzate, e la
traduzione: l’identità non è mai identica a se stessa ed è nel passaggio, nello scarto, nella relazione,
che si può cogliere qualcosa di sé e di quanto ci sta attorno.

L’edizione di quest’anno si intitola “Non parlerai la mia lingua”: nata da curiosità linguistiche – cos’è
la lingua quando cessa di comunicare? – finisce per toccare l’attualità da molto vicino: mai come ora,
nella storia recente, le nazioni-stato sono divise da fazioni che sembrano aver perso la capacità di
ascoltarsi, e quindi ogni possibilità di intavolare un dialogo.
Abbiamo declinato il tema in quanti modi possibile: dal Codex Seraphinianus di Luigi Serafini e le
riflessioni sulle lingue immaginate di Paolo Albani, a un discorso sulle lingue disprezzate di Irvine
Welsh, e un suo DJ set di Acid House, dall’Archivio dei bambini perduti di Valeria Luiselli, che
ausculta la nostra realtà grazie al silenzio imposto ai bambini messicani internati al confine con gli
USA, alla Straniera di Claudia Durastanti, figlia di due genitori sordi immigrati a NY, in dialogo con
lo scrittore eritreo-etiope ipoudente Saleh Addonia, dalla performance di yodel contemporaneo di
Christian Zehnder alla tavola rotonda di traduttori di opere impossibili da tradurre.
Chi è la persona giusta per raccontare i
Bagni Pubblici di via Agliè di Torino

L’Italia ha bisogno di una nuova biografia culturale: insieme a Il Saggiatore e con il supporto di
MiBAC e SIAE e il loro progetto ‘Per Chi Crea’, abbiamo BAGLIORE, un programma di 6 residenze
artistiche per scriverla — una delle residenze si terrà a Torino nei Bagni Pubblici di via Agliè, un
centro socio-culturale che fa parte di una rete di collaborazione fra 8 altri progetti chiamata Case del
Quartiere.

Si tratta di un punto di incontro per nuovi e vecchi cittadini, al cui interno sono presenti le sedi di
associazioni, una sala con palcoscenico per le attività teatrali, il salotto/bar, una sartoria oltre ad
alcuni spazi all’aperto. BAGLIORE offre 6 borse di residenza a 6 scrittrici e scrittori under 35
residenti in Italia — 5 mesi di programma, 15 giorni di residenza artistica a 1.600€ lordi di
contributo.
Le candidature sono aperte fino al 4 ottobre e per aiutare i candidati a scegliere meglio e a
raccontarsi meglio, abbiamo chiesto ai nuovi centri culturali che ospiteranno BAGLIORE di dirci,
secondo loro, che tipo di persona sarebbe la più adatta a raccontare le loro iniziative.

Cominciamo con Erika Mattarella, dei Bagni Pubblici di via Agliè di Torino.

Vuoi saperne di più? Nella nostra colonna di ricerca I Nuovi
Modi di Fare Cultura abbiamo scoperto cosa sono i Bagni
Pubblici di via Agliè.
Cosa accade nel tuo centro culturale?
Cosa accade in via Agliè è una incognita quotidiana nel varcare la porta del nostro stabile: puoi
incontrare i “bagnanti”, ovvero i frequentatori del servizio doccia, che potrebbero raccontarti come è
andata la loro giornata, chi vince il campionato, se domani pioverà. Oppure darti consigli su case
popolari e dormitori, mercati a prezzi economici. A volte una doccia può aiutare a far scendere la
rabbia della frustrazione.

Oppure incontrare un abitante di Barriera, che espone magie e macerie di un quartiere frizzante,
che ogni giorno ha qualcosa da raccontare e raccontarsi, qualcuno da accogliere e da scoprire.
Ancora, potresti incappare in qualcuno che cerca lo sportello per avere aiuto e informazioni per
orientarsi nel magico mondo della burocrazia istituzionale. O un giovane o vecchio naif che ha
piacere di passare una giornata in quel dei Bagni, per leggere, conoscere qualcuno o semplicemente
lavorare.

A questi incontri ci affianchi un caffè, una birra, una torta, un pasto. E un concerto jazz, una serata
multicultura, una mostra di arte contemporanea o fotografia, uno spettacolo di teatro. E perché no,
un corso, un workshop, una presentazione di un libro con autore al seguito, un dibattito, un film.
Installazione artistica nelle docce per Artissima

Qual è il tuo candidato ideale?
I quartieri come Barriera di Milano, per niente unico nel suo genere e di cui sono piene le grandi e
medie città d’Europa, sono luoghi che nel bene e nel male hanno tanto da raccontare (del passato),
ma hanno anche tanto da esprimere (nel futuro).

Quartieri che sono belli e brutti come altri, che non devono essere vissuti come luoghi invivibili, e
per altro verso nemmeno come luoghi “da scoprire” da qualche flaneur radical chic che cerca di
cambiarlo senza percepirne la vera natura e viverlo come è. Crediamo fermamente che la
mescolanza sociale sia un grande valore per i quartieri come Barriera, ma purtroppo molte
esperienze di rigenerazione urbana non solo torinesi ma europee, ci hanno raccontato una storia di
trasformazione fatta di stravolgimenti, esclusione ed espulsione.

Con questa premessa, il candidato ideale dovrebbe essere in grado di percepire, leggere ed
osservare Barriera e la sua complessità. Che sia in grado di interagire con i suoi abitanti e
ricostruire un significato nuovo, capace di mettersi in gioco e non rimanere nella sua – volontaria o
involontaria – idea artistica a volte autoreferenziale. Abbiamo imparato con il tempo e grazie a
moltissimi artisti e scrittori che l’arte efficace è quella che interagisce e comprende; che un artista
incisivo è quello che ferma il proprio ego di fronte alla cittadinanza. Che ascolta. Che dialoga.

Naturalmente lo vorremmo bello e simpatico — e soprattutto scherzoso!
Candidati a BAGLIORE, il nostro programma
di residenze artistiche per scrittrici e
scrittori under 35

Stiamo cercando 6 scrittrici e scrittori under 35 residenti in Italia per partecipare a BAGLIORE, il
programma di residenze artistiche per scrivere una nuova biografia culturale dell’Italia.

BAGLIORE è realizzato dal centro per la cultura collaborativa cheFare e dalla casa editrice Il
Saggiatore. Con il supporto di MiBAC e SIAE, nell’ambito del programma ‘Per Chi Crea‘.

Compila qui sotto il modulo per candidarti a partecipare a BAGLIORE — la call si chiuderà venerdì
4 ottobre alle ore 12. I vincitori saranno annunciati entro martedì 22 ottobre.

Per ogni dubbio o domanda, contattaci a mail@che-fare.com.
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Partecipa a BAGLIORE, il nostro programma
di residenze artistiche nei nuovi centri
culturali

L’Italia ha bisogno di una nuova biografia culturale: abbiamo creato 6 residenze artistiche per
scriverla e a partire da oggi sono aperte le candidature per partecipare.

BAGLIORE è il programma di residenze artistiche per scrittrici e scrittori under 35 in 6 nuovi centri
culturali in Italia realizzato da cheFare e Il Saggiatore, è stato sviluppato con il sostegno del MiBAC
e di SIAE, nell’ambito del programma ‘Per Chi Crea‘.

BAGLIORE permetterà a 6 scrittrici e scrittori residenti in Italia di entrare a far parte di un
programma di residenza della durata di 5 mesi composto da workshop, lezioni e da una
residenza artistica della durata di 15 giorni. Per la partecipazione al programma di residenza è
previsto un contributo di 1.600€ lordi e la copertura delle spese di vitto e alloggio durante il
periodo di residenza nei nuovi centri culturali.

COME PARTECIPARE A BAGLIORE
Il bando di partecipazione è aperto a partire da oggi, giovedì 5 settembre, e si concluderà alle ore
12.00 di venerdì 4 ottobre — i vincitori di BAGLIORE saranno annunciati entro martedì 22
ottobre.
I NUOVI CENTRI CULTURALI
I nuovi centri culturali che ospiteranno le residenze artistiche del programma di BAGLIORE sono:

      i Bagni Pubblici di Via Agliè di Torino;
      gli spazi di CLAC a Palermo;
      l’ex stabilimento enologico di ExFadda a San Vito dei Normanni;
      l’Ex Villaggio Eni di Borca di Cadore;
      le Officine Culturali di Catania;
      i panorami di Pollinaria a Civitella Casanova.

Le scrittrici e gli scrittori in residenza saranno chiamati a realizzare un testo riguardante la loro
esperienza nei nuovi centri culturali — la raccolta di questi testi, infine, sarà curata e
pubblicata in un libro edito da Il Saggiatore.

PERCHÉ ABBIAMO CREATO BAGLIORE
L’obiettivo di BAGLIORE è favorire la realizzazione di una serie di testi di narrativa, fiction, non-
fiction, saggistica, poesia, fumettistica e narrativa illustrata con la finalità di:

      far emergere un nuovo racconto unitario dei nuovi centri culturali e delle comunità, reti e
      organizzazioni che rappresentano — un ecosistema di produzione, consumo e riflessione
      culturale di cui nessuno si è occupato fino ad ora;
      studiare ed approfondire i metodi e le dinamiche attraverso cui i nuovi centri culturali riescono
      a supportare la produzione culturale e l’attivazione di processi di coesione sociale;
      favorire le competenze creative delle scrittrici e degli scrittori partecipanti con particolare
      attenzione alla capacità di ascolto, lettura e interpretazione di fenomeni territoriali e
      all’interazione con editori e piattaforme di pubblicazione attraverso la convergenza conclusiva
      nel libro curato da Il Saggiatore.

IL CONTESTO
Viviamo in una crisi culturale permanente che è incapace di offrire visioni e opportunità. La via
d’uscita passa attraverso la valorizzazione di una cultura collaborativa che nasce dal basso grazie
allo sforzo di comunità disseminate sul territorio. È necessario un racconto corale che valorizzi e
definisca queste comunità, reti e organizzazioni restituendo all’innovazione culturale sul territorio la
sua giusta visibilità e importanza, con particolare attenzione ai luoghi in cui queste pratiche vengono
concepite e sviluppate.

Noi di cheFare chiamiamo questi luoghi nuovi centri culturali, spazi popolati da comunità, reti e
organizzazioni culturali nate in risposta alla crisi economica del 2008. I nuovi centri culturali sono
makerspace, biblioteche sperimentali, spazi rigenerati, community hub, residenze d’artista e Fablab
— sono spazi funzionali ma allo stesso tempo luoghi che fanno molto di più di ciò che li definisce.

DOMANDE FREQUENTI (F.A.Q.)
BAGLIORE è un programma di residenze artistiche a cui è possibile accedere attraverso un bando di
partecipazione. Tutte le informazioni sono disponibili all’interno del bando di partecipazione, ma
abbiamo creato una serie di F.A.Q. in continuo aggiornamento. Per ogni domanda, possiamo
essere contattati all’indirizzo email: posta@che-fare.com.

      Cosa si intende per scrittrice e scrittore ‘di età non superiore ai 35 anni’?
      Come indicato all’art. 6 del bando, con il termine scrittrice e scrittore di età non superiore ai
      35 anni si intendono quelle persone che non abbiano ancora compiuto 36 anni il 05.04.2019.
      Una scrittrice o scrittore che compirà 36 anni dopo il 05.04.2019, è considerato under 35?
      Si.
Una scrittrice o scrittore che compirà 36 anni il 05.04.2019, è considerato under 35?
  No.
  Possono candidarsi le scrittrici e scrittori di nazionalità non italiana?
  Sì, purché residenti in Italia. Come previsto all’art. 6 dei bandi, è ammesso il coinvolgimento di
  scrittrici o scrittori di età non superiore ai 35 anni e residenti in Italia, inclusi i soggetti di
  nazionalità non italiana, purché residenti in Italia.
  È possibile proporre la realizzazione di un’opera a fumetti per la realizzazione di testi relativi
  al soggiorno presso uno dei 6 nuovi centri culturali?
  Si.
  È possibile proporre illustrazioni o narrativa illustrata per la realizzazione di testi relativi al
  soggiorno presso uno dei 6 nuovi centri culturali?
  Si.
  È possibile avere una lista delle domande del modulo di candidatura? Mi è più comodo scrivere
  offline e poi copiare e incollare le risposte nel modulo.
  Certo, eccole.

Una modesta proposta perché gli incontri
letterari siano utili alla comunità e non di
peso per il Paese

Uno spettro si aggira per l’Italia, è lo spettro di uno scrittore, e tutte le librerie della penisola si sono
coalizzate per respingerlo. Lo scrittore è capa tosta, però. Non molla l’osso perché ha una missione,
sente le voci come Giovanna D’Arco e non sta fermo un momento, firma migliaia di libri all’anno. Il
problema è che poi vuole presentarli. Ma la presentazione di un libro più che un evento mondano-
culturale è diventata un supplizio medievale.

È sotto gli occhi di tutti che alle presentazioni non si va perché si vuole, ma perché si “deve”. Perché
l’autore è un amico/parente/collega. Perché se non ci vado “pare brutto”. Perché l’autore mi fa pena.
Nella maggior parte dei casi, però, la gente si dà malata o inventa scuse come a scuola. E quali che
siano i motivi, il risultato è sempre lo stesso: centinaia e centinaia di scrittori e scrittrici che cercano
di camuffare l’imbarazzo, fotografati da soli o quasi, accanto alle pilette dei loro libri. E con loro,
altrettanto imbarazzati e delusi, i librai che hanno messo su l’evento strombazzandolo sui social. Ma
il problema è che pubblicizzare un incontro letterario allontana invece che attrarre. Funziona al
contrario: se ne parli in giro la gente segna la data per ricordarsi di non passare dalle tue parti nel
giorno designato.

Il punto è che la stragrande maggioranza degli incontri letterari sono una tortura. E questo è uno dei
miserabili non detti che ammorbano l’aere delle italiche e auliche plaghe invase da scrittori, poeti e
auto-pubblicatori. Eppure dovremmo tutti esserci rassegnati all’idea che se pure hai scritto un libro,
non è detto che tu sia capace di presentarlo. Se non sai parlare in pubblico; se non ti sforzi di
buttare giù una scaletta, due appunti; se ti intestardisci a leggere ad alta voce ma non sai leggere, o
se peggio fai leggere a qualche attore con il birignao; se pensi che “ritmo” sia una vecchia macchina
della FIAT; se sei uno di quelli che “per me esistono solo i classici” e “che tempi, che tempi”, ma il
tuo ego ti ha portato ugualmente a scrivere; se pensi che tutto ti sia dovuto perché tu sei l’Autore; se
non hai capito che “scrittore” non significa “oratore”, potrai anche aver firmato un capolavoro, ma
non dovresti assillare le librerie pretendendo di presentare te stesso, la tua ascella pezzata e la tua
opera.

Non c’è solo lo scrittore, però, a cui vorrei parlare oggi. Perché in questo crimine ci sono due
colpevoli, l’autore e il libraio. Caro libraio indipendente, ma anche caro libraio di catena con lo
spazio-eventi, dico proprio a te: perché ti ostini a presentare Tizio, se hai letto il libro e hai
constatato che si tratta di un monolito inscalfibile, una muraglia di interminabili supercazzole più
ostinate del temibile tiki-taka? Come hai potuto pensare che quell’insalata di parole vomitata fuori
tempo massimo potesse piacere a persone che la sera prima hanno visto una puntata di Breaking
bad?

Non sto dicendo che il libro di Gesualdo Toponi, L’arte di mesmerizzare i cuori infranti, pubblicato
da Ombelico edizioni, sia così brutto. Sto dicendo che non tutti i libri entusiasticamente recensiti da
quarantenni animati da astratti furori siano presentabili nella tua onesta libreria di provincia. O ti
inventi qualcosa, qualcosa di nuovo, oppure meglio lasciar perdere.

Perché ci sono libri che se presentati si trasformano in macchine della morte. Vi ricordate
Hellraiser? C’è questo cubo di Lemarchand, che se manipolato evoca i cenobiti, demoni sado-
masochisti della sofferenza. Devo aggiungere altro? Cari librai, lo sappiamo che il dolorismo tira alla
grande sui giornali e sul web. Ma se usciamo dalla bolla virtuale e presentiamo un romanzo dolorista
in libreria, a provare dolore quasi sempre sarà il pubblico. Meglio evitare, allora, per concentrarsi
sul lato commerciale. Sembra bieco ma non dovremmo mai dimenticare che le librerie fanno cultura
vendendo i libri. Un’equazione in cui le parole “cultura” e “vendendo” sono indissolubili.
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