ATTI DELL'ARCIVESCOVO - Chiesa di Milano

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          ATTI DELL’ARCIVESCOVO

LETTERA AI PARROCI E AI RESPONSABILI DI        COMUNITÀ PASTORALI
DELL’ARCIDIOCESI DI MILANO

Usura e criminalità, piaghe da prevenire
e affrontare anche sul piano pastorale
(Milano, 2 gennaio 2019)

Ai Parroci e ai Responsabili di Comunità pastorali dell’Arcidiocesi di Milano

Reverendissimo Signor Parroco,
    come sicuramente sarà a conoscenza, il fenomeno delle difficoltà di molte
persone e famiglie nel far fronte all’indebitamento, al pagamento di affitti, di ra-
te di prestiti o di mutui, sta assumendo dimensioni sempre più preoccupanti.
Mentre dieci anni orsono, quando scoppiò la prima grande crisi finanziaria, il
problema riguardava famiglie già in difficoltà che videro peggiorare in breve
tempo la propria situazione, attualmente questa forma di grave disagio sta col-
pendo molte persone che, fino a poco tempo fa, godevano di una situazione
apparentemente tranquilla.
    In particolare, oltre ai tanti casi di sovraindebitamento, si assiste, con sem-
pre maggiore frequenza, a famiglie che vedono messa a rischio la prima abita-
zione acquistata a suo tempo tramite un’operazione di mutuo. A tutto ciò dob-
biamo aggiungere anche la nuova patologia rappresentata dal gioco d’azzardo
che, insieme ad aggravare l’esposizione debitoria con banche e finanziarie, spes-
so sfocia nell’usura. Fenomeno carsico che emerge solo nei casi più drammatici
(suicidi).
    Anche la città di Milano e il circondario sono interessati dalla presenza di
consorterie criminali, che si insinuano nel tessuto economico produttivo, at-
traverso traffico di stupefacenti, riciclaggio del denaro, usura, controllo del
territorio per affari illeciti, fino a infiltrazioni istituzionali, approfittando delle
situazioni di difficoltà economiche in cui versano soprattutto le piccole/medie
imprese, spesso indotte a ricercare linee di credito non convenzionali. Si ha sen-
tore che le organizzazioni criminali stiano contattando tali imprese, ponendosi
inizialmente in una posizione di partenariato per poi inserirsi nelle gestioni e-
conomiche, spesso tramite consulenti compiacenti, per acquisirle saldando i de-
biti dell’imprenditore e facendolo continuare a lavorare nella propria impresa
come loro sottoposto. L’efficacia di tale sistema di penetrazione del territorio
è altresì rappresentata dall’omertà e dal senso di isolamento che gli esponenti
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delle cosche riescono a generare nelle loro vittime, le quali per paura non col-
laborano con le Forze di polizia, come peraltro risulta dal limitato numero di de-
nunce presentate.
    Come Chiesa di Milano vorremmo fare qualcosa di più per prevenire e af-
frontare questa situazione. Oltre alla necessità di alzare l’attenzione su questo
fenomeno che attraversa il territorio ed è spesso ignorato, ci sembra importan-
te cogliere i segnali dello stesso, che si manifesta attraverso il disagio delle
persone, famiglie, imprenditori che sono affiancati dalla criminalità organiz-
zata con proposte: di denaro facile, di offerte di beni e servizi con eccessivi scon-
ti, proposte di acquisto dei debiti, delle case, della proprietà di quote delle im-
prese o delle licenze di aziende in situazione di forte difficoltà. Inutile eviden-
ziare i danni sociali che una infiltrazione profonda delle mafie può causare: vio-
lenza, corruzione, infiltrazione nella politica e nelle imprese, avvelenamento
della libertà di mercato, condizionamento della democrazia, produzione di mec-
canismi di ingiustizia e marginalità.
    Come potrà ben comprendere, si tratta di situazioni molto complicate che,
per essere affrontate e valutate, necessitano di formazione pastorale, competenza
tecnica e consulenza che può essere fornita solo da persone professionalmente
specializzate e in grado di fornire il necessario supporto.
    La Caritas Ambrosiana sta favorendo la costruzione di una rete di soggetti
che possono operare sia sul piano formativo e pastorale che operativo, a parti-
re anche dal Protocollo d’intesa per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni
dell’usura e dell’estorsione nella provincia di Milano recentemente firmato.
    In alcuni casi si rende necessario il coinvolgimento diretto delle Forze del-
l’Ordine con le quali possiamo collaborare, per favorire accertamenti e per-
corsi che portino a smascherare quello che spesso si rivela come una vera e
propria trappola delle organizzazioni criminali o all’eventuale denuncia.
    Per questo, qualora venisse in contatto con casi come quelli sopracitati, La
invitiamo a informare senza indugio la Caritas Ambrosiana (tel. 02.76037212)
o la Fondazione San Bernardino Onlus, con sede in Piazza Borromeo n. 6 a
Milano (tel. 02.87395532), che da anni si occupa di lotta al sovraindebitamen-
to e prevenzione all’usura per la Conferenza Episcopale Lombarda.
    RingraziandoLa per la collaborazione l’occasione ci è gradita per porgerLe
cordiali saluti.

Milano, 2 gennaio 2019 – Santi Basilio e Gregorio Nazianzeno

   https://www.chiesadimilano.it/news/chiesa-diocesi/usura-e-criminalita-pia-
ghe-da-prevenire-e-affrontare-anche-sul-piano-pastorale-250369.html
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OTTAVA DI NATALE – MESSA PER LA PACE
Insieme a pregare per la pace. La buona politica
è al servizio della pace
(Milano - Duomo, 1 gennaio 2019)

[Nm 6, 22-27; Sal 66 (67); Fil 2, 5-11; Lc 2, 18-21]

Quelli che pregano Dio

    Quelli che pregano Dio si rivolgono a Dio ogni giorno, si dispongono ad a-
scoltare Dio, confidano a Dio le loro speranze, le loro preoccupazioni, ricevo-
no da Dio parole che sono come lampade per il cammino, parole che sono co-
me l’abbraccio che consola, il rimprovero che corregge, la forza che spinge
oltre. Quelli che pregano il Padre del Signore nostro Gesù Cristo si rivolgono
a Dio gridando “Abbà! Padre!”, invocano che venga il Regno di Dio, regno di
pace e di giustizia, pregano che si compia la sua volontà che vuole che tutti
gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. È per questo
che siamo convenuti qui, noi che preghiamo il Padre, per professare la fraternità
profonda che ci unisce nonostante le nostre storie complicate, per rinnovare la
nostra fede nella provvidenza del Padre che accompagna i nostri giorni con la
forza dello Spirito Santo ed essere così tenaci e fiduciosi nel compiere le ope-
re di Dio. Siamo convenuti per condividere la preghiera e la fede e imparare
da Maria l’arte di custodire il mistero: «Maria, da parte sua, custodiva tutte que-
ste cose, meditandole nel suo cuore». Quelli che hanno imparato da Gesù a
pregare il Padre vivono ogni giorno alla presenza del Padre, quando l’anno fi-
nisce e quando l’anno comincia.
    Ma noi che preghiamo Dio in questo inizio d’anno, abbiamo qualche cosa da
dire alla città in cui viviamo? Siamo raccolti nelle nostre chiese perché non
abbiamo spazio altrove? Ci troviamo tra noi perché ci sentiamo stranieri nella
città?

La benedizione per l’anno che inizia

    Noi abbiamo sì qualche cosa da dire a tutti. Noi abbiamo la fierezza e la
responsabilità di non tacere negli spazi pubblici della città. Noi abbiamo rispetto
di tutte le istituzioni legittime e di tutti i rappresentanti delle istituzioni e pro-
viamo simpatia per tutti coloro che assumono la responsabilità per le istituzio-
ni. E abbiamo qualche cosa da dire. Siamo cittadini italiani ed europei e ci tro-
viamo come fratelli anche con cittadini di altri Paesi e abbiamo qualche cosa
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da dire. E parliamo con discrezione e rispetto, parliamo non come chi vuole
fare da maestro o impancarsi a giudice, ma come persone e comunità che han-
no a cuore la città e il Paese in cui si trovano a vivere.
    E la prima parola che abbiamo da dire è la benedizione di Dio. Ripetiamo
per le nostre comunità, per le città, per tutti, le parole del libro antico: «Ti be-
nedica il Signore / e ti custodisca. / Il Signore faccia risplendere per te il suo
volto / e ti faccia grazia. / Il Signore rivolga a te il suo volto / e ti conceda pa-
ce» (Nm 6,24-26).
    La prima parola dell’anno è la benedizione, è la rivelazione dello sguardo pa-
terno e benevolo di Dio per tutti i suoi figli: il volto del Padre sia l’incoraggia-
mento, la consolazione, la benedizione per tutti, per coloro che sono lieti e per
coloro che piangono e sono soli, per coloro che sono disperati, per coloro che
sono spaventati della vita e di quello che li aspetta, per coloro che sono mala-
ti, per coloro che sono senza lavoro, per tutti!

La buona politica è al servizio della pace

    La benedizione di Dio non è solo un augurio, ma un’alleanza, un impegno
di Dio a dare forza al bene e a chi opera il bene. Quando l’antica benedizione di-
ce: «il Signore ti conceda pace», si dichiara che il Signore sta dalla parte di quel-
li che operano la pace. La pace non può essere interpretata in modo intimisti-
co e privatistico. La pace è un concetto politico. La pace è il nome della con-
vivenza buona, della vita serena. La pace è il nome del bene comune: la poli-
tica è proprio l’azione condivisa per promuovere, custodire, difendere il bene
comune. «La vita politica autentica, che si fonda sul diritto e su un dialogo
leale tra i soggetti si rinnova con la convinzione che ogni donna, ogni uomo e
ogni generazione racchiudono in sé una promessa che può sprigionare nuove
energie relazionali, intellettuali, culturali e spirituali» (Messaggio di Papa Fran-
cesco per la Giornata della Pace, 1 gennaio 2019, n. 5).
    Noi che preghiamo Dio sentiamo una particolare responsabilità per rinno-
vare le parole di benedizione e insieme per renderci disponibili all’impresa co-
mune.
    Le Chiese non fanno politica, ma hanno qualche cosa da dire alla politica, in-
coraggiano uomini e donne a fare politica con la coerenza, l’onestà, la lungi-
miranza che servono per la pace: «la pace si basa sul rispetto di ogni persona,
qualunque sia la sua storia, sul rispetto del diritto e del bene comune, del crea-
to che ci è stato affidato e della ricchezza morale trasmessa dalle generazioni
passate» (Ibid n. 6).
    Le Chiese non fanno politica, ma sentono la responsabilità di contribuire a
incoraggiare, motivare, sostenere l’impegno politico di tutti per un grande pro-
getto politico di pace: «la pace, in effetti, è frutto di un grande progetto politi-
co che si fonda sulla responsabilità reciproca e sull’interdipendenza degli es-
sere umani» (Ibid n. 7).
    Le Chiese non fanno politica, ma invitano ancora e sempre a conversione
ATTI DELL’ARCIVESCOVO          19

perché tutti i figli di Dio siano operatori di pace: «la pace è una conversione
del cuore e dell’anima, ed è facile riconoscere tre dimensioni indissociabili di
questa pace interiore e comunitaria: la pace con se stessi […] la pace con l’al-
tro ... la pace con il creato» (Ibid n. 7).
    Le Chiese non fanno politica, ma benedicono con le Parole del Signore o-
gni uomo, ogni donna che operano per la pace.
    Siate tutti benedetti da Dio: «Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conce-
da pace!».

EPIFANIA DEL SIGNORE
Dov’è colui che è nato, il Re dei Giudei?
(Milano - Duomo, 6 gennaio 2019)

[Is 60, 1-6; Sal 71 (72); Tt 2, 11-3,2; Mt 2, 1-12]

    Non parlate troppo male della gente di questa nostra terra! Non continuate
a ripetere i luoghi comuni che riducono la gente di questa terra a gente sempre
di fretta, sempre intenta a calcolare, a progettare, a vendere e a comprare!
    Questa è anche terra di inquietudini, di attese, di domande, di pensieri. Que-
sta gente è anche gente che alza la testa per leggere i cieli e indovinarvi una
promessa. Questa terra è anche terra di poeti. Nei Magi si riconoscono spesso a-
strologi e cultori della scienza delle stelle. Credo però che anche loro fossero
un po’ profeti e un po’ poeti.
    Ma questa nostra terra è certo anche terra di poeti. E la domanda dove sia Ge-
sù, chi sia Gesù, quando si possa incontrare Gesù, che cosa possa fare per noi
Gesù continua ad abitare la città.

    «Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro / per vedere il Signore se mai pas-
si. / Ahimè, non sono un rampicante ed anche / stando in punta di piedi non
l’ho mai visto» (E. MONTALE, Diario del ’71 e del ’72, Come Zaccheo): forse
l’attesa è stata delusa? forse il desiderio si è spento? Siamo forse più saggi, se
siamo rassegnati e non aspettiamo nessuno?
    […]
    «e non aspetto nessuno: / nell’ombra accesa / spio il campanello / che im-
percettibile spande / un polline di suono - / e non aspetto nessuno.
    Ma deve venire, / verrà, se resisto, / verrà d’improvviso / quando meno l’av-
verto. / Verrà quasi perdono / di quanto fa morire, / verrà a farmi certo / del
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suo e mio tesoro. / Verrà come ristoro / delle mie e sue pene, / verrà, forse già
viene / il suo bisbiglio». (C. REBORA, Canti anonimi, 1922, Dall’immagine te-
sa)

   E poi accorgersi che l’attesa è stata prevenuta, che non è l’uomo che cerca
dove sia nato il re dei Giudei, ma è il Salvatore del mondo che non si stanca di
cercare chi vuole esse salvato:
   «Ma io so che mi ama / e ti dirò che si preannuncia sempre / con una gran-
de frescura in tutte le membra / come se tu ricominciassi a vivere / e vedessi il
mondo per la prima volta. / E questa è la fede, e questo è lui, / che ti cerca per
ogni dove / anche quando tu ti nascondi /per non farti vedere». (A. MERINI,
Sei fuoco e amore, 45)

    È quindi promesso e possibile l’incontro che riempie di grandissima gioia,
come una risurrezione:
    «Voi che siete oppressi / ed esaltati nel male / ricordate che eravate violini
/ pronti a suonare / le ragioni del mondo. / Poi qualcuno, / un demone assur-
do di sacrificio / vi ha troncato le ultime parole. / Ahimè, poveri vetri infranti
/ che siete finiti in mille pezzi / e non sapete più ricomporvi. / Ma il mio sguar-
do d’amore / tornerà a ridarvi armonia». (A. MERINI, Cantico dei vangeli, 71-
72)

    Ecco, la nostra terra è terra di poeti:
    «… / Poesia, poesia che rimani / il mio profondo rimorso, / oh aiutami tu a
ritrovare / il mio alto paese abbandonato - / Poesia che ti doni soltanto / a chi
con occhi di pianto si cerca - / oh, rifammi tu degna di te, / poesia che mi guar-
di». (A. POZZI, Preghiera alla poesia, In Poesia Italiana - Il Novecento, 551)

    La nostra è terra di poeti e c’è uno spiraglio di poesia anche in questa gen-
te che sembra sempre di fretta, in questa terra che sembra fatta solo per lavo-
rare; in questa terra la gente custodisce uno spiraglio e forse da quello spira-
glio irrompe la luce della stella e la grandissima gioia.
    Possiamo quindi accompagnare la conclusione del periodo delle feste na-
talizie con la benedizione che il Signore è venuto a portare, per fare alleanza
tra il cielo e la terra, per annunciare il Regno di Dio. Molti non lo sanno, mol-
ti forse non lo cercano, ma i credenti si incantano nella contemplazione e tor-
nano agli impegni consueti responsabili della speranza.

    «[…] / Dormi, o celeste, i popoli / chi nato sia non sanno; / ma il dì verrà che
nobile / retaggio tuo saranno; / che in quell’umil riposo, / che nella polve ascoso
/ conosceranno il Re». (A. MANZONI, Il Natale)
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FESTA DEL PATRONO SAN BASSIANO
Oltre, santo popolo di Dio!
Avanti, santa Chiesa di Lodi!
(Lodi - Cattedrale, 19 gennaio 2019)

[Ez 34, 11-16; Sal 22 (23); At 20, 17-18. 25-35; Gv 10, 11-16]

1. Dalla festa del Patrono all’obbedienza al Buon Pastore

    La festa del Patrono è una festa pacifica, tranquilla, rassicurante: perpetua
la tradizione, ripropone l’immagine della città sicura. Sicura perché chiusa tra
le sue mura, sicura perché forte della laboriosità e dell’impegno civico dei suoi
cittadini, sicura perché fiera della sua storia e capace ogni anno di replicare i
suoi riti festosi, sicura perché immagina che in alto vegli il patrono venerato che
con la sua potenza di intercessione stende come un manto di protezione. Così
è la festa del Patrono: tranquilla, rassicurante, intesa a celebrare una stabilità in-
discussa e indiscutibile.
    Ma la Parola delle Scritture irrompe nella pacifica e paciosa tranquillità
della festa patronale con immagini e parole, appelli e provocazioni che inquie-
tano e scuotono. Propone infatti invece dell’immagine rassicurante del patro-
no che veglia sulla città, l’immagine del pastore che sta in mezzo a un gregge
minacciato dai lupi, il pastore che si strugge per la dispersione del suo gregge
e si sfianca per radunarlo, ricondurlo, rianimarlo, il pastore che si espone al ri-
schio della vita perché le sue pecore abbiano salva la vita.

2. L’immagine della Chiesa: il popolo in cammino

    La Parola delle Scritture che è stata annunciata invita a rivolgere alla Chie-
sa diocesana in festa uno sguardo e una considerazione meno rassicuranti e
pacificati, più drammatici, più inquieti, più incerti e più tesi a cercare di inten-
dere, più disponibili alla docilità, meno rassegnati alla ripetizione. La figura
del gregge e del Buon Pastore è una immagine della Chiesa più precaria, me-
no statica. La comunità si vede più come “popolo in cammino” che come cit-
tadella fortificata, più come un accampamento presso un incrocio di strade
trafficate che come una istituzione consolidata arroccata in una posizione pro-
pizia alla difesa.
    La festa di san Bassiano come il pastore zelante immagine del Buon Pasto-
re che guida il suo gregge dice dunque alla Chiesa diocesana: alzati! cammi-
na! ascolta la voce del Pastore che ti chiama, che ti raduna, che ti guida ai pa-
scoli abbondanti sui monti di Israele!
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    Alzati, cammina, santa Chiesa di Dio, ascolta la voce del Buon Pastore!
Affidati alla promessa, diffida dei tuoi calcoli, lascia le tue nostalgie, abban-
dona il tono del lamento e del malumore e lascia che la promessa susciti in te
la speranza, la speranza lieta, la speranza forte, la speranza tenace, la speranza
che tutta ti anima di un fremito, di una attesa, di uno slancio. Alzati! Cammi-
na!
    Alzati, cammina, santa Chiesa di Dio! Deponi la zavorra che intralcia il
passo, ritrova la libertà di essere creativa, continua a considerare con attento
discernimento quello che fai per distinguere tra la tradizione irrinunciabile che
ti rende saggia e le abitudini che ti rendono pigra e smarrita di fronte ai cam-
biamenti. Deponi il carico del superfluo, del decorativo, delle cose accumula-
te solo per lo sperpero e l’esibizione. Cammina più libera, più povera, più co-
raggiosa nella profezia, santa Chiesa di Dio!
    In cammino, popolo santo di Dio! Lasciati condurre dal Buon Pastore alla
gioia, alla festa degli ottimi pascoli: abbandona il lamento e il malumore, la-
scia perdere l’elenco dei problemi e l’amarezza del risentimento e lasciati con-
durre alla gioia di essere amato dal Signore, dell’essere in comunione con il
Signore che ti rende partecipe della sua vita.
    In cammino, popolo santo di Dio! Lasciati condurre dal Buon Pastore at-
traverso la valle del pianto per seminarvi il sorriso, non lasciarti spaventare
dalle asprezze del deserto, fa sgorgare là dove vivono i fratelli e le sorelle le sor-
genti dell’acqua che disseta, metti mano all’impresa di aggiustare il mondo e
di costruire una convivenza serena, solidale, generativa di futuro insieme con
tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
    In cammino, popolo santo di Dio! Lasciati plasmare dalla compassione del
tuo Buon Pastore per soccorrere gli afflitti e i disperati con la condivisione del-
la speranza, con la condivisione della vita eterna, non solo con le cure palliati-
ve dell’elemosina e della prossimità precaria. In cammino verso la Gerusa-
lemme nuova e gloriosa, popolo santo di Dio, indica a tutti gli uomini la terra
promessa del compimento, della pienezza, della beatitudine.
    Ero venuto per celebrare la festa del Patrono san Bassiano, la Parola delle
Scritture ha incoraggiato piuttosto a celebrare san Bassiano come quel pastore
santo che incoraggia a seguire Gesù, il Buon Pastore che guida ai pascoli di
vita eterna e paga con il prezzo della sua vita la nostra liberazione e la nostra
festa. Lasciamoci convincere ad essere la Chiesa che si alza in piedi e si in-
cammina, popolo pellegrino verso il Regno di Dio.
ATTI DELL’ARCIVESCOVO          23

PREGHIERA ECUMENICA
Cercate di essere veramente giusti
(Milano - Basilica di S. Ambrogio, 22 gennaio 2019)

[Dt 16, 18-20]

1. La giustizia: un grido!

    Nella Scrittura la giustizia è un comando del Signore. Ma nella storia è un
grido. È il grido dei giusti ingiustamente oppressi, è il grido dei poveri ingiu-
stamente poveri, è il grido dei figli ingiustamente trattati come schiavi, è il gri-
do dei padroni della terra ingiustamente trattati come presenze indesiderabili
perché impediscono di rubare tutte le ricchezze delle foreste e del sottosuolo.
    La giustizia è un grido: il grido di Abele, la vittima di cui nessuno si cura.
È il grido dell’Africa, in ogni modo derubata e inquinata dalla corruzione; è il
grido dell’Asia, in ogni modo umiliata da condizioni di lavoro che conducono
allo sfinimento; è il grido dell’America, in ogni modo impoverita, inquieta; è
il grido dell’Europa, in ogni modo impaurita, invecchiata, spopolata; è il gri-
do dell’Oceania, in ogni modo desolata per la sua solitudine, per la sua inquie-
tudine.
    La giustizia è un grido. Chi lo ascolta?
    La storia degli uomini resta sorda al grido che protesta contro l’ingiustizia.
L’ascolteranno le Chiese?
    Dio ascolta il grido del povero. I figli di Dio ascolteranno?

2. La giustizia: una libertà difficile

    «Non accettate regali!». L’avvertimento del Deuteronomio rivela l’insidia
che continuamente mette alla prova i giusti. Non accettate regali, perché il re-
galo rende ciechi i sapienti.
    La giustizia è la pratica di uomini liberi, di popoli liberi. I regali oscurano
la capacità di discernimento, la franchezza della parola, la possibilità di scri-
vere una storia giusta, alternativa alla storia ingiusta.
    Infatti coloro che sono ingiustamente ricchi fanno regali alle Chiese, perché
benedicano le loro ricchezze; coloro che sono ingiustamente potenti fanno regali
alle Chiese, perché benedicano il loro potere; coloro che sono ingiustamente
privilegiati fanno regali alle Chiese, perché benedicano i loro privilegi.
    E le Chiese sono tentate: infatti hanno bisogno di risorse per vivere, per
continuare le loro opere, per curarsi dei poveri, per soccorrere tutti i bisogni.
    Le Chiese sono quindi nel dilemma: che cosa fare? Dovranno continuare
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ad accettare regali per aiutare i poveri perché almeno sopravvivano, continuando
a restare poveri? Dovranno rinunciare ai regali per contrastare le ricchezze in-
giustamente accumulate e così diventare Chiese povere, che non possono aiu-
tare nessuno? Dovranno alzare la loro voce e invitare i poveri a contrastare
l’ingiustizia anche a costo di scatenare la rivoluzione? Dovranno restare mute,
sorde, appartate – perché ogni rivoluzione peggiora le cose e ogni accondi-
scendenza conserva le condizioni ingiuste e insopportabili – e perciò si costi-
tuiranno in piccoli frammenti di società alternative, di monasteri, di comunità
estranee alla storia, ma abitate da una giustizia esemplare?

3. Le Chiese non hanno risposte?

    Le grandi domande rimangono senza risposte. Il comando di Dio: «Cercate di
essere veramente giusti» suona come invito a una rettitudine personale che prati-
chi almeno la coerenza, visto che non può praticare la trasfigurazione della storia.
    Le Chiese, i giovani delle Chiese, si radunano in preghiera perché non si ras-
segnano a non avere risposte. Si radunano per dire: la giustizia ci impegna a
un’impresa comune. Nessuno può far fronte all’ingiustizia da solo: noi Chiese
e Comunità cristiane vogliamo obbedire al Signore, essere veramente giusti. Per-
ciò dobbiamo cercare insieme le parole da dire, le azioni da compiere, la doci-
lità al Signore che indica la via.
    Non abbiamo ricette, ma abbiamo gesti efficaci da compiere; non abbiamo
soluzioni, ma abbiamo una testimonianza da dare; non abbiamo rimedi generali,
ma coraggiosi passi da compiere; non abbiamo intenzioni velleitarie, ma ci fi-
diamo di Dio: «Cercate di essere veramente giusti e così resterete in vita e
possederete la terra che il Signore, vostro Dio, sta per darvi».

FUNERALE ONOREVOLE GIUSEPPE ZAMBERLETTI
Dalle ferite dell’umanità viene forse la speranza?
(Varese - Basilica di S. Vittore, 29 gennaio 2019)

[Gb 19, 23-27; Sal 114 (115); Rm 6, 3-9; Gv 19, 31-37]

1. Le ferite

    Si può descrivere la vicenda umana come una storia di ferite: le ferite che
affliggono uomini e donne, nonni e bambini, popoli del sud e popoli del nord.
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    Ferite: ferite che lacerano la fragile carne dell’umanità, troppo fragile e trop-
po inerme di fronte alle violenze, alle insidie dei mali oscuri e indomabili; fe-
rite che fanno sanguinare l’anima, l’animo umano troppo esposto agli insulti
dell’ingiustizia, della prepotenza, dell’infedeltà, della cattiveria, della violen-
za assurda dell’uomo sull’uomo.
    Ferite che rovinano la terra, questo pianeta troppo fragile, indifeso di fron-
te alla violenza degli elementi, alla avidità dello sfruttamento, alla stupidità del-
l’inquinamento.
    Ferite che inquinano il convivere degli umani, insinuando il sospetto che
gli altri siano una minaccia, suggerendo l’indifferenza come forma di astuzia,
incoraggiando l’aggressività come forma di difesa, alimentando l’odio come ri-
vendicazione di diritti.
    Ferite, ferite: si può raccontare la storia umana come storia di ferite.

2. Evitare, ignorare le ferite, approfittarne

   Ci sono quelli che cercano un riparo al rischio di essere feriti in qualche
improbabile rifugio, in qualche angolino tranquillo, in qualche rassicurante pre-
sunzione di essere al sicuro, anche se gli altri sono nella tribolazione. Ci sono
quelli che cercano di schivare le ferite con qualche astuto artificio e una inge-
nua fuga che si immagina una estraneità dalla vicenda comune che sia irrag-
giungibile all’insidia del male.
   Ci sono quelli che nelle ferite degli altri, del pianeta, del convivere degli u-
mani intravedono affari, vantaggi miopi di guadagni privati nella pubblica de-
vastazione, acquisizione di potere per gente dissennata che vuole ignorare che
dovrà rendere conto.

3. Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco

    Nella tribolata storia ferita e sofferta dell’umanità si è consegnato anche
Gesù il Figlio di Dio: si è fatto figlio dell’uomo, fragile e inerme di fronte alla
violenza, esposto alle ferite, anche all’estrema ferita, inutile, assurda, «veden-
do che era già morto […] con una lancia gli colpì il fianco» (Gv19,33).
    E l’ultima ferita subita da Gesù si rivela sorgente di acqua e sangue, di vita
nuova.
    Il Verbo di Dio ha visitato le ferite della storia umana, se ne è fatto vittima
e ne è diventato il salvatore. Ha mostrato come si curano le ferite, come si gua-
riscono e come possono essere trasfigurate in un principio di salvezza.

4. Una via per visitare le ferite della storia umana

   Gesù ha dunque aperto una via e ha chiamato a seguirlo: che fare di fronte
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alle ferite della terra, del cuore umano, del convivere degli uomini?
     Questo si può fare: prendersene cura fino a soffrirne, chinarsi sulle ferite
per farne principio di vita, di nuova vita, di un convivere riconciliato.
     Noi siamo qui a tributare il nostro omaggio, a esprimere la nostra gratitu-
dine, a condividere una preghiera per un uomo che questo ha fatto: si è curato
delle ferite dell’umanità. Ha sofferto le ferite degli anni tribolati del terrori-
smo, e in particolare della drammatica vicenda di Aldo Moro, amico e compa-
gno di partito; ha sofferto le ferite della terra devastata, dei terremoti disastro-
si. L’intraprendenza e la determinazione, la lungimiranza e la fiducia nell’u-
manità dell’on. Zamberletti hanno dato vita a un sistema di cura per le disgra-
zie nazionali che hanno offerto l’occasione alle istituzioni e alla società civile,
alle forze dell’ordine e ai volontari per esprimere il meglio di sé.
     Le ferite restano dolorose, le morti restano irreparabili, ma i cuori genero-
si, la società nelle sue espressioni migliori proprio per chinarsi sulle ferite del-
la terra e della gente ha saputo mobilitarsi, sentirsi fiera di contribuire al soc-
corso, rendersi disponibile per sacrifici e fatiche con la sola gratificazione di
aver restituito speranza, sorrisi, voglia di vivere e gusto di vivere insieme a gen-
te travolta talora da forze incontrollabili della natura, talora vittima dell’ottu-
sità e dell’imprudenza.
     L’on. Zamberletti resta identificato con la Protezione civile, un modello or-
ganizzativo di alta qualità e di ideali affascinanti.
     Ma in questo ultimo saluto lo sentiamo non solo un benemerito del passa-
to, ma un discepolo che ha seguito Gesù e ha imparato e ha insegnato che sul-
le ferite umane si devono chinare gli uomini e che in questo prendersi cura de-
gli altri, dei fratelli feriti e tribolati, diventiamo uomini migliori e il meglio di
noi stessi diventa motivo di speranza per l’umanità, come se, in qualche mo-
do, anche dalle ferite della storia escano sangue e acqua, una vita nuova.

MEMORIA DI SAN GIOVANNI BOSCO
Dov’è il paese felice?
(Milano, 31 gennaio 2019)

[Ez 34, 11-12. 15-16. 23-24. 30-31; Ger 31,7b. 9b. 10. 20; Fil 4, 4-9; Mc 9, 33-37]

1. L’ostinato ripresentarsi della domanda

   Lo so che è proibito, eppure c’è gente che continua a porre la domanda. Lo
so che non si dovrebbe e che si rischia di fare figure, eppure c’è gente che con-
ATTI DELL’ARCIVESCOVO          27

tinua a porre la domanda, magari di nascosto, magari solo fra sé e sé. Eppure
continua a porre la domanda.
    La domanda è proibita non perché ci sia una legge che la vieti, ma perché
se poni quella domanda riveli di essere ingenuo, ti rendi ridicolo. Come si fa
infatti a porre la domanda: come si fa per essere felici? Dove è il paese felice?
Chi può ancora immaginare che esista un paese felice? Che si possa ancora
seriamente parlare di felicità? Perché questa è la domanda proibita: dove è il pae-
se felice?
    La domanda è proibita, non perché ci sia una legge che la vieti, ma perché
se poni questa domanda è perché riveli di avere dubbi, di non rispondere con
l’ovvietà obbligatoria e i luoghi comuni indiscutibili che pretendono un sorri-
so squadernato e una doverosa esibizione di felicità. Talora le suore e i preti sem-
brano incaricati della risposta d’ufficio e se domandi: “dov’è il paese felice?”,
devono per forza rispondere: eccolo qui! Io sono felice! Io ho trovato qui la
risposta e tutto quello di cui ho bisogno per essere felice!
    L’ostinato ripresentarsi della domanda, sia là dove non si dovrebbe, per non
passare da ingenui che credono ancora alle favole, mentre la persuasione indi-
scutibile è che non esista nessun paese felice e che la gente seria dovrebbe
piuttosto rassegnarsi, ma anche là dove non si dovrebbe perché sono già state
date tutte le risposte, significa che si deve ancora cercare.

2. Il paese felice è una promessa, non una utopia

    Il paese felice non è un sogno che non esiste in nessun luogo, ma in cui è bel-
lo smarrirsi e distrarsi come in una evasione consolatoria, una specie di realtà
virtuale in cui trattenersi, perdere tempo, sfuggire agli impegni e alle asprezze
della vita ordinaria. Il paese felice è piuttosto il paese promesso dal Buon Pa-
store che guida il suo gregge: si tratta di un cammino piuttosto che di una fan-
tasticheria, si tratta di lasciarsi condurre dal Buon Pastore. Stare con lui, ascol-
tare la sua parola, compiere con lui il cammino, lasciarsi consolare dal suo per-
dono, incoraggiare dalla sua pazienza. Il paese felice è una meta, non un risul-
tato, è la casa accogliente che si apre come un abbraccio, non una terra di con-
quista in cui si entra a viva forza. Il paese felice è la nostra vocazione, piutto-
sto che la nostra torre di babele costruita per sfidare il cielo.

3. Il paese felice è per chi arriva ultimo

    La discussione dei discepoli di Gesù rivela il pregiudizio che per essere fe-
lici si deve arrivare primi: chi è più bravo, chi si impone sugli altri, chi riceve
più riconoscimenti è più vicino alla gioia. Questo pregiudizio manifesta conti-
nuamente la sua falsità, eppure continua ad essere il motivo per molto darsi da
fare, molto impegno e molta prepotenza.
    Ma Gesù rimprovera i suoi discepoli e contesta il loro pregiudizio, rivelan-
28      ATTI DELL’ARCIVESCOVO

do che i primi ad entrare nel paese felice sono gli ultimi, cioè quelli che non han-
no nessun motivo per vantarsi, ma solo motivi per ringraziare, quelli che sono
persuasi di non meritare niente, ma si rallegrano di aver ricevuto tutto. La ve-
rità che Gesù rivela è che il segreto della gioia è lasciarsi amare, rendersi con-
to di essere amati, imparare ad avere stima di sé non per come mi vedo io, ma
per la stima con cui mi considera il Signore: siamo preziosi ai suoi occhi; Ge-
sù non vuole che vada perduto nessuno di questi piccoli.

4. Il paese felice è la dimora dell’umanità trasfigurata

    Gesù infatti ha seminato nella storia umana e nella vita di ciascuno un prin-
cipio di trasfigurazione, ha reso possibile cioè agli uomini, proprio a questi
uomini e donne così precari, miserabili, imperfetti quella cosa stupefacente e
meravigliosa che è “far il bene”, fare bene il bene, essere buoni, compiere le
opere di Dio.
    L’opera educativa che abbiamo imparato da don Bosco è proprio questo a-
spettarsi del bene, il bene possibile, il bene anche imperfetto, il bene spesso e-
roico che ciascuno può compiere, oggi, qui, per questo preciso contesto e que-
ste concrete persone.

   La domanda sul paese felice continua a inquietare il cuore umano, come
per suggerire che ci sono buone ragioni per sperare, che siamo tutti un popolo
in cammino verso l’incontro che ci rende felici per sempre, tutti: giovani in
cerca di sé e consacrati che vivono in attesa del Regno, del ritorno glorioso
del Signore. Nessuno è perso per sempre, nessuno è già arrivato. In fondo c’è
poca differenza tra la suora più santa e il prete più esemplare e il ragazzo più sca-
pestrato, la ragazza più ribelle. C’è poca differenza. Siamo tutti pellegrini e
troviamo i segni rassicuranti di essere sulla strada giusta perché stiamo con il
Signore, il Buon Pastore, ci lasciamo amare da Lui e riusciamo persino, per gra-
zia, ad amare come Lui.
ATTI DELL’ARCIVESCOVO          29

COMUNITÀ PASTORALE “S. PAOLO VI” IN PADERNO DUGNANO
PARROCCHIA DI S. GIORGIO IN LIMBIATE
Quale segno, quando è esaurita la speranza?
(12 e 13 gennaio 2019)

[Is 55, 4-7; Sal 28 (29); Ef 2, 13-22; Lc 3, 15-16. 21-22]

1. Il popolo era in attesa

    Ci sono tempi in cui il popolo è in attesa, tutti sembrano in sospeso, perce-
piscono l’imminenza di qualche cosa, l’arrivo di qualcuno che segnerà una svol-
ta nella vita della città, del paese e nella propria vita.
    Tutti erano in attesa di qualcuno, di un salvatore, di un liberatore, di un
messia.
    Un tempo di attesa è un tempo di eccitazione; ogni cosa insolita viene inte-
sa come un segno, ogni personaggio che si distingue per qualche cosa fa nascere
la domanda: ma sarà lui?
    Perciò la gente si raduna facilmente, lascia anche le occupazioni solite, vuo-
le vedere, vuole sapere. Si creano anche disordini. Il popolo si raduna anche
in luoghi improbabili, come nel deserto.
    Ai tempi di Giovanni il precursore e di Gesù il popolo è in attesa: perciò le
folle seguono Giovanni nel deserto e vedono il segno del battesimo come un
segno messianico; poi viene Gesù e viene la voce dal cielo e le folle seguono
Gesù, restano incantate dalle sue parole, fino a inoltrarsi nel deserto senza pen-
sare a che cosa mangiare.
    Ci sono tempi in cui il popolo è in attesa e ogni segno suscita entusiasmo.

2. Quando non si aspetta nessuno

    Ci sono però anche tempi in cui il popolo non aspetta nessuno, la speranza
è esaurita. Il popolo è così immerso nelle cose di tutti i giorni che se si annun-
cia una novità non alza neppure la testa, piuttosto scuote il capo, come per di-
re: “Sì, lo so, le solite cose!”.
    L’eccitazione si riserva per i particolari di cronaca, per emozioni passegge-
re e per eventi marginali, rinchiusi in parentesi che non cambiano niente della
vita di nessuno.
    Ci sono tempi in cui il popolo non aspetta nessuno, e nessuna voce dal cie-
lo persuade a una sequela, nessun evento suscita entusiasmo.
30      ATTI DELL’ARCIVESCOVO

3. Il nostro tempo

    Forse il nostro tempo è un tempo senza attese e senza entusiasmi. Come si
presenterà il Regno di Dio? I cristiani abitano il tempo, ogni tempo, e prega-
no, ogni giorno: “Venga il tuo Regno!”.
    Verrà una voce dal cielo? Arriverà un profeta che susciterà la domanda di tut-
ti?
    Il messaggio di oggi è che non c’è una voce che venga dal cielo, non c’è
un profeta solitario che attiri l’attenzione, ma c’è «tutta la costruzione che cre-
sce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi venite
edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito».
    Il segno per questo tempo è la Chiesa, la comunità cristiana, la fraternità
che riconcilia nella pace i popoli divisi dall’inimicizia, avvicina i lontani «gra-
zie al sangue di Cristo […] Egli è venuto ad annunciare pace a voi che erava-
te lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo
presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito».

4. La Visita Pastorale per la missione della Chiesa in questo tempo

    Cosa fa la Chiesa quando non avverte intorno a sé l’entusiasmo delle folle
che accorrono? Cosa fa la Chiesa quando vive in un tempo in cui sembra che
la gente non si aspetti nulla? La Chiesa rimane lì. Deve continuare a fare luce,
anche quando magari le persone si lamentano: “Dite sempre le stesse parole…”.
Noi annunciamo le parole che danno speranza di vita eterna; e forse arriverà
un giorno in cui verranno accolte con più attenzione, quando lo scoraggiamen-
to di fronte al peso del quotidiano sarà tale che ritornerà ad essere interessante
sentirsi dire “Ecco, il Signore viene. Il regno di Dio è in mezzo a noi”.
    La carità praticata diventa il segno di questa presenza che è già salvezza: non
attraverso eventi clamorosi, ma nella trasfigurazione quotidiana della storia.
    Noi non siamo qui come Chiesa per giudicare il nostro tempo, per rimpian-
gere un’epoca passata, per rincuorarci l’un l’altro dicendo: “Va bè, siamo rimasti
in pochi; cerchiamo almeno di farci coraggio tra noi, di stare bene dentro i con-
fini rassicuranti delle nostre comunità e delle nostre abitudini”.
    Al contrario, siamo qui per domandarci come poter rimanere fedeli al com-
pito di essere voce capace di raggiungere i nostri contemporanei, la gente che
incontriamo ogni giorno, e di annunciare loro le parole necessarie alla speranza.
    Vorrei che la Visita Pastorale favorisse proprio una riflessione su cosa si-
gnifichi essere una comunità cristiana in questo territorio; non tanto preoccu-
pata di se stessa – “Come faremo? Riusciremo a sopravvivere?” –, quanto piut-
tosto pronta a interrogarsi sulla sua capacità di rimanere fedele alla missione che
il Signore le ha affidato: in questo tempo, non in un altro; in questo luogo, non
in un altro; con queste risorse, non con le risorse degli altri. La Visita Pastora-
le è proprio l’occasione per esaminarsi, per guardare il presente e immaginare
come potrebbe essere il futuro che ci aspetta.
ATTI DELL’ARCIVESCOVO          31

   Prendo dunque spunto dalla seconda lettura, che ci presenta un bellissimo
brano tratto dalla Lettera agli Efesini, per provare a rispondere alla domanda:
come dobbiamo essere? Quali punti di riferimento risultano importanti per u-
na Comunità che voglia intraprendere o rilanciare il proprio cammino in fe-
deltà alla missione ricevuta?
   E sottolineo tre aspetti, che vi raccomando.

    Il primo è quello di sentirci riuniti dal sangue di Cristo. Lui ha fatto la pace
tra noi: con il suo sangue ha abbattuto il muro di separazione che divideva
quelli che erano lontani e quelli che erano vicini. Poiché è lui la nostra pace,
un primo aspetto irrinunciabile è stare uniti a Gesù, lasciarci amare da lui, es-
sere riconoscenti perché lui ci ha convocati. La Comunità cristiana si raduna non
perché dice: “Siamo amici tra noi, siamo abituati, viviamo qui nel quartiere,
ci troviamo simpatici gli uni gli altri”; queste sono valide ragioni per ritrovar-
si insieme, ma non costituiscono la Chiesa; sono legami costruiti sulla carne e
sul sangue, cioè su elementi di simpatia superficiale, e possono dare inizio a buo-
ne iniziative, a cose belle, ma non fanno la comunione costruita intorno al Si-
gnore. Noi non ci raduniamo insieme perché abbiamo interessi in comune, per-
ché abbiamo a cuore alcune iniziative e allora “Ah, che facciamo? Adesso ci
mettiamo a organizzarle e saremo contenti se viene tanta gente”; come se il
fare cose fosse l’anima della Chiesa. Certo, anche questo è bello, utile e a vol-
te doveroso; però non è ciò che ci unisce. Ciò che ci unisce è il mistero di Cri-
sto, che ha dato la sua vita per fare dei molti uno solo. Il senso di comunione
costruito sulla convocazione svelata da Gesù fonda la Chiesa. Questo ci per-
mette di riconoscere che siamo un’unica realtà: non esiste una Chiesa di Cal-
derara, una di Incirano, una di Dugnano e poi una di Paderno, come se fossero
tante Comunità indipendenti, che sussistono ciascuna per proprio conto, un
po’ arroccate nelle loro abitudini e timorose che il mettersi insieme agli altri
significhi perdersi. No, la Chiesa si arricchisce nell’allargare i suoi confini; e
dunque l’Unità Pastorale non è una specie di terapia per curare una qualche
malattia, perché mancano i preti o le risorse e si cerca di mettersi insieme per
rimediare al problema. La Comunità Pastorale è invece segno di quella voca-
zione alla comunione che fa la Chiesa. Le Comunità che si separano, sostenendo:
“Noi siamo i vicini e voi siete i lontani”, contraddicono il desiderio di Gesù di
fare dei molti un cuor solo e un’anima sola. Le Comunità che escludono gli
altri come possono poi radunarsi a celebrare l’Eucaristia? Le Comunità che
diventano schiave del pregiudizio come incarnano la missione di Gesù, venu-
to per abbattere l’inimicizia e per fare la pace tra coloro che sono vicini e co-
loro che sono lontani? Contemplare l’opera di Gesù, immergersi nel suo mistero,
lasciarsi trasformare dal suo sangue, cioè – in una parola – celebrare l’Eucari-
stia, significa aderire a una comunione, formare una sinfonia di voci diverse per
l’unico cantico che si innalza a Dio.
    Questo è il primo aspetto che vorrei raccomandare: il senso di una comu-
nione fondata in Gesù, che non pone separazioni tra noi e voi, tra quelli di qui
e quelli di là, tra quelli che sono vicini e quelli che sono lontani.
32      ATTI DELL’ARCIVESCOVO

    Un secondo aspetto la Lettera agli Efesini ce lo suggerisce attraverso que-
sta espressione affascinante: «In lui – cioè Gesù – la costruzione cresce ben
ordinata». Perché una Comunità cresca “ben ordinata” dev’esserci un disegno
che appassiona; non può semplicemente trattarsi di una specie di tentativo di far
stare insieme le cose o di organizzare iniziative.
    Il compito di dare corpo e anima alla Comunità Pastorale è esattamente il
modo in cui si traduce in concretezza storica il mistero che celebriamo. La
scelta di costituire delle Comunità Pastorali – che qui si sta sperimentando or-
mai da un po’ di anni – vorrebbe esprimere la vocazione delle Parrocchie a guar-
dare agli altri come a fratelli con cui collaborare, per mettere insieme le risor-
se, le intuizioni, le sapienze, affinché tutta la costruzione cresca ben ordinata.
    Una costruzione ben ordinata ha bisogno di una intelligenza: è necessario
condividere le prospettive, il progetto; focalizzare l’obiettivo per cui lavorare.
Quando si costruisce un palazzo tutte le maestranze – muratori, elettricisti, i-
draulici, eccetera… – devono prima accordarsi: “Qual è il progetto che voglia-
mo realizzare?”. Poi ciascuno porterà la propria competenza affinché la co-
struzione cresca ben ordinata. Anche la nostra opera ha bisogno di intelligen-
za più che di reazioni emotive; di confronto più che di puntigli; di sinergia nel
cercare le soluzioni migliori piuttosto che di un arroccamento in atteggiamen-
ti di difesa per salvare le proprie cose.
    Il nostro progetto oltre all’intelligenza ha pure bisogno di passione, perché
non stiamo lavorando per un adempimento burocratico, ma per un cammino
in comunione. Dovremmo dunque appassionarci per questo traguardo così bel-
lo e così cristiano: diventare insieme «un cuor solo e un’anima sola».
    Ecco i segreti affinché la costruzione cresca ben ordinata.

    Voglio infine segnalare un ultimo aspetto, sempre tratto dal brano della Let-
tera agli Efesini che abbiamo proclamato: «Anche voi venite edificati insieme
per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito».
    “Anche voi”: significa che ciascuno di voi è “abitazione di Dio per mezzo
dello Spirito”.
    La vita cristiana non è una organizzazione: non è fatta di numeri e di quan-
tità, ma di persone. E lo scopo di tutto l’intervento dell’opera di Dio è che o-
gnuno diventi “abitazione di Dio”. Dobbiamo quindi sentirci tutti all’altezza del-
la nostra vocazione, della dignità di essere realmente figli di Dio, tempio di Dio.
E questo non per meriti di intelligenza o per risultati di opere, ma per grazia. Sia-
mo diventati abitazione di Dio in virtù del battesimo, che non consiste sempli-
cemente nella purificazione da qualche macchia, ma è lo Spirito Santo che vie-
ne ad abitare in noi e ci rende tempio di Dio. Ciascuno di noi è abitazione di
Dio e dunque abbiamo il diritto di avere stima di noi stessi, di sentire come è
preziosa la nostra vita. Così come di avvertire la responsabilità di essere pre-
senza di Dio nella vita ordinaria: sul posto di lavoro, nel nostro condominio,
nel negozio in cui facciamo le nostre spese, nell’ambulatorio in cui ci siamo
recati per curare le nostre malattie… In qualunque luogo della quotidianità noi
siamo un segno della presenza di Dio; missionari non perché ci mettiamo a fa-
ATTI DELL’ARCIVESCOVO          33

re discorsi, ma con il nostro stile di vita, attraverso quei tratti di una persona-
lità umile, buona, sempre in rapporto con Dio.

    In questi tempi in cui non ci si aspetta che i cieli si aprano e che scenda u-
na voce dal cielo, chi raggiungerà gli uomini nostri contemporanei? Dio ci ha
riempito del suo Spirito e ci ha mandati in mezzo a loro – nel condominio, in uf-
ficio, all’ospedale, a scuola, al campo di calcio – per essere abitazione di Dio;
non come voce di Dio che scende dall’alto dei cieli con un effetto clamoroso,
ma con la delicatezza del sussurro del Padre rispettoso che dice: “Ecco, c’è un
Salvatore. C’è la presenza del regno di Dio in mezzo a noi”.
    Viviamo dunque questo tempo e siamo grati al Signore del momento che
ci dà da vivere, che è questo e non un altro. Sentiamo la responsabilità e la bel-
lezza di essere Chiesa: convocati e uniti dal mistero che celebriamo; edificati at-
traverso la nostra partecipazione intelligente e appassionata alla storia di oggi;
grati di essere, ciascuno, quell’abitazione di Dio in mezzo agli uomini che lo
Spirito Santo fa di noi.

PARROCCHIA DI S. ANTONIO DA PADOVA IN LIMBIATE
COMUNITÀ PASTORALE DEI “SANTI AMBROGIO E MARTINO VESCOVI”
IN PADERNO DUGNANO
COMUNITÀ PASTORALE “S. MARIA NASCENTE E SACRA FAMIGLIA”
IN PADERNO DUGNANO

La Chiesa, per tener viva la grande speranza
(19 e 20 gennaio 2019)

[Est 5, 1-1c.2-5; Sal 44 (45); Ef 1, 3-14; Gv 2, 1-11]

Nel paese dei desideri piccoli ci sono sei anfore

   Nel paese dei desideri piccoli, infatti, i desideri sono piccoli e le anfore of-
frono in abbondanza quanto serve per i desideri piccoli.

1. Il piccolo desiderio: quando c’è la salute c’è tutto

    Nel paese dei desideri piccoli tutti i cittadini sono d’accordo che l’importante
è la salute, perciò ciascuno desidera di stare bene, desidera che gli passi quel do-
34      ATTI DELL’ARCIVESCOVO

lore alla spalla, quel mal di denti, quel valore sbagliato della pressione e del
colesterolo. L’importante è la salute: e perciò c’è l’anfora piena dell’acqua che
soddisfa prontamente: si chiamano antidolorifici, ansiolitici, antiipertensivi, be-
tabloccanti, integratori. Nel paese dei desideri piccoli è importante la salute
ed è proibito porre le domande grandi, è proibito nominare il desiderio gran-
de, è proibito domandarsi: ma dopo? che cosa succede dopo aver vissuto tanti
anni in buona salute? Nel paese dei desideri piccoli non si può coltivare il de-
siderio grande della vita eterna.

2. Il piccolo desiderio: almeno un po’ di compagnia

    Nel paese dei desideri piccoli, tutti cercano un po’ di compagnia. È proprio
triste essere soli. Ci vorrebbe qualcuno che mi sorrida o almeno che si accor-
ga che io entro in casa, qualcuno che mi faccia una carezza, o almeno che fac-
cia le fusa e si lasci accarezzare, ci vorrebbe qualche amico o almeno qualcu-
no che mi faccia compagnia chiacchierando del più e del meno, bevendo insieme
un bicchiere e anche più d’uno.
    Perciò c’è l’anfora dell’acqua che soddisfa i desideri piccoli, qualcuno che
ogni tanto fa un po’ di compagnia, magari pagando quello che è giusto, o almeno
un cagnolino, un gattino, un pesce rosso, per non sentirsi soli.
    Nel paese dei desideri piccoli è proibito coltivare il grande desiderio: ma
io vorrei un amore fedele, vorrei amare ed essere amato per sempre fino alla
fine, servisse pure un sacrificio. Non si può coltivare il desiderio dell’amore fat-
to di dedizione affidabile, di reciprocità promessa e mantenuta.

3. Il piccolo desiderio: qualche soldo sa spendere

    Nel paese dei desideri piccoli, abita il desiderio del benessere, del lavoro che
dà benessere, sicurezza, possibilità di indipendenza e anche di un po’ di diver-
timento. Perciò c’è l’anfora dell’acqua che soddisfa il desiderio del benessere,
se non c’è un lavoro, almeno un lavoretto; se non se ne ricava abbastanza per
costruire un futuro, almeno ci sia abbastanza per divertirsi una sera, per eccitarsi
per una notte.
    Nel paese dei desideri piccoli è proibito coltivare il desiderio grande di u-
na società giusta, solidale, laboriosa e sobria, che offra lavori veri e riconosca
il merito e soccorra chi non basta a se stesso.

4. Il piccolo desiderio: sentirsi sicuri

    Nel paese dei desideri piccoli, abita il desiderio della sicurezza, che le pau-
re siano cacciate di casa, che sia scaricato altrove quello che inquieta.
    Perciò c’è l’anfora dell’acqua rassicurante, quell’attenzione a mettere por-
te corazzate e infissi a prova di intrusione, quell’allontanare quello che è sco-
nosciuto e perciò inquietante, quell’evitare l’inconsueto come fosse strano, quel
ATTI DELL’ARCIVESCOVO           35

desiderare di non doversi confrontare con quelli che vengono da altri paesi, a
meno che si possano trattare come servi.
   Nel paese dei desideri piccoli è proibito desiderare che la sicurezza non sia
garantita dalle inferriate e dalla solitudine, ma dai legami del buon vicinato e
da una pratica ordinaria della solidarietà.

5. Il desiderio piccolo: farsi notare

    Nel paese dei desideri piccoli uno esiste perché si fa notare, perché espone
le sue foto dappertutto, perché qualcuno parla di lui, gli manda messaggi, gli
fa gli auguri per il compleanno o gli fa i complimenti per qualche impresa as-
surda. Perciò c’è l’anfora dell’acqua che soddisfa il desiderio di farsi notare, è
l’acqua dell’apparenza e della notizia, dell’immagine e del messaggio che si can-
cella da solo.
    Nel paese dei desideri piccoli è proibito desiderare d’essere semplicemen-
te se stessi, conosciuti nella propria verità non per la notizia pubblicata, ma
per la stima data e ricevuta.

6. Il desiderio piccolo: che ogni capriccio sia accontentato, basta che non
pianga

    Nel paese dei desideri piccoli, talora i piccoli diventano padroni, hanno i lo-
ro capricci e per i genitori sono ordini perentori. I genitori cercano di acconten-
tare ogni capriccio e fanno enormi sacrifici; eppure i capricci non finiscono mai
e i figli più crescono e meno sono contenti, “con quello che si fa per loro!”.
    Perciò c’è l’anfora dell’acqua che è l’accondiscendenza per accontentare i
capricci. Non servirà a renderlo felice, ma almeno smette di piangere e di tenere
il muso.
    Nel paese dei desideri piccoli è proibito coltivare il desiderio grande di in-
dicare la via della gioia, aiutando l’incontro con Gesù, la Via, la Verità, la Vita.

   Nel paese dei desideri piccoli il centro è la città mercato: lì si trova tutto, si
trova sempre quello che serve per soddisfare il desideri piccoli.

    La Visita Pastorale è il momento in cui la comunità cristiana si raccoglie con
il Vescovo per essere quella parola amica, quella luce rasserenante che dice:
per i desideri piccoli andate pure al supermercato. Ma siete autorizzati, siamo
tutti autorizzati, anzi chiamati ai desideri grandi: la felicità che non delude, la
verità che fa risplendere in ciascuno la gloria di Dio, la società giusta e solida-
le, l’amore fedele e dedicato, il buon vicinato, la vita eterna.
    Per i desideri grandi noi abbiamo solo una risposta: aprite le porte a Cri-
sto!
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