Archiviazione Dati (fonte wikipedia)

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Archiviazione Dati                             (fonte wikipedia)
       « [L'archivio è] una struttura permanente che raccoglie, inventaria e conserva
       documenti originali di interesse storico e ne assicura la consultazione per finalità di
       studio e di ricerca. »
             (Codice dei beni culturali e del paesaggio - DLgs n. 42 del 22 gennaio 2004, art. 101 comma 2, lettera c)

       Per archivio si intende un complesso ordinato e sistematico di atti, scritture e
documenti prodotti e/o acquisiti da un soggetto pubblico o privato (ente, istituzione,
famiglia o individuo nel normale esercizio delle proprie funzioni), durante lo svolgimento
della propria attività, e custoditi in funzione del loro valore di attestazione e di tutela di un
determinato interesse. L'interesse potrà essere di varia natura: politico-sociale
(amministrativo, giudiziario, scientifico, militare, religioso...) o patrimoniale.
In secondo luogo, per estensione, si è chiamato "archivio" anche il locale destinato alla
loro conservazione e l'ufficio, organo o ente cui è affidata istituzionalmente la
conservazione, tutela e valorizzazione dei documenti storici.

Uno schedario
       Secondo un'etimologia accettata, il termine archivio deriva dal greco ἀρχεῖον,
tramite il latino archium/archivum/archivium, che significa "palazzo dell'arconte", luogo in
cui, presumibilmente, si conservavano anche gli atti emanati dal magistrato.
       Nel senso comune un archivio è un agglomerato di carte o altri materiali, una
raccolta di informazioni conservata per la consultazione, un campionario. Non mancano
nel linguaggio generico le accezioni negative: si pensi al verbo "archiviare", che può
essere sinonimo di "dimenticare", "mettere da parte", "seppellire". In realtà uno degli
elementi essenziali dell'archivio è proprio la consultabilità e la fruizione.
       In senso stretto l'archivio è quel complesso di documenti caratterizzato da un
vincolo archivistico, naturale e originario. Il vincolo, che è il nodo dell'archivistica, è quella
caratteristica che fa sì che la raccolta si formi in maniera spontanea e mai attraverso una
produzione volontaria: in ciò sta la grande differenza tra archivi e raccolte (di oggetti, come
le collezioni, o di libri, come le biblioteche, ecc.), poiché i primi si formano come diretta
conseguenza dell'attività spontanea di un soggetto produttore dei documenti, mentre le
seconde sono sempre frutto di scelte mirate, a spettro più o meno ampio, e difficilmente
esaustive dell'intera complessità di un fenomeno in generale.
       La mancanza del "vincolo" genera talvolta degli equivoci, che portano a chiamare
archivio anche quelle raccolte che in senso stretto non sarebbero tali: ad esempio esiste la
prassi di chiamare "archivi" le raccolte storiografiche (come l'Archivio Storiografico Italiano)
costituite in maniera predeterminata, attraverso acquisti e ricerche, che sono più
assimilabili alle biblioteche.

Tra le funzioni principali di un archivio si ricordano:
   •     la conservazione, tutela e valorizzazione dei documenti;
   •     la redazione di inventari, repertori, indici o guide che consentano la consultazione
         del materiale archivistico;
   •     promuovere l'utilizzo dei beni conservati, per esempio in campo didattico.
L'organizzazione dell'archivio è oggetto di studi (che vanno sotto il nome di archivistica),
prevalentemente con il fine di aumentare i benefici derivanti dall'archiviazione per mezzo
di una gestione il più possibile razionale, facilitando la ricerca e la conservazione,
contenendo gli spazi e i costi.

Storia
         La gestione della memoria tramite archivi è ampiamente documentata almeno dal III
millennio a.C., grazie a scoperte archeologiche di interi archivi di tavolette di argilla, tra i
quali spicca quello di Ebla in Mesopotamia (quasi integro, con circa ventimila tavolette);
nel secondo millennio spiccano invece gli archivi degli Ittiti in Anatolia, trovati a Hattusas.
Importanti sono anche gli archivi di Mari, Amarna, Ugarit e Pilo di Messenia. Non ci è
giunta testimonianza della presenza di particolari metodologie archivistiche per quelle
epoche.
         Nell'età classica si passò a supporti più agili e leggeri (papiro, pelle, pergamena),
ma anche più volatili, tanto che la stragrande maggioranza degli archivi egiziani, greci e
romani è oggi perduta. Restò però l'uso di registrare alcuni avvenimenti di massima
importanza su supporti più duraturi, come le incisioni su lastre di marmo o di pietra, per
salvaguardarne la memoria in eterno (epigrafia). Nella Roma repubblicana si conosce
dalle fonti l'uso di tavolette lignee sia imbiancate e scritte a inchiostro (album), sia rivestite
di cera e incise (tabulae cerussatae), che venivano custodite con la massima cura in
ambienti sacri. Di esse tuttavia non è pervenuta a noi alcuna traccia. In epoca imperiale il
sistema archivistico venne perfezionato e nacquero le idee di memoria eterna dei fatti e
della fides verso le scritture degli archivi pubblici. Ma i problemi legati alla fragilità nel
tempo dei supporti ha fatto sì che siano veramente esigue le testimonianze archivistiche
dal I millennio a.C. al I millennio d.C., con rare eccezioni riguardanti episodici, singoli
documenti.
Solo sul finire del I millennio d.C., allo scadere dell'alto medioevo, l'uso della
pergamena e lo sviluppo sociale ed economico degli ordini religiosi e della Chiesa
permisero la conservazione di una significativa quantità di documentazione archivistica,
via via più consistente. La nascita dei Comuni segnò un grande sviluppo, con
l'introduzione della carta, dei libri e degli armari, al posto delle poco pratiche capse e
scrinia (casse e scrigni). Nacquero in questo periodo figure addette alla conservazione dei
documenti, i notari, che ordinavano e custodivano il materiale proveniente dagli uffici
comunali, rendendolo disponibile per la fruizione dei funzionari pubblici e dei privati
cittadini che avessero un interesse pertinente. Si può dire che agli inizi del Trecento quella
del notaro-archivista fosse già una professione ben definita e qualificata. All'epoca
comunale risalgono anche i primi regolamenti sulle gestione degli archivi pubblici.
       Dalla seconda metà del XVI secolo nacque un vero e proprio dibattito teorico
sull'archivistica, con la stampa di importanti opere al riguardo, soprattutto in area tedesca,
con riflessioni sul metodo e sull'organizzazione degli archivi. Nel XVII e XVIII secolo, fino
alla metà del XIX, si aggiunsero i contributi degli studiosi italiani, con grandi archivisti
come Francesco Bonaini, Cesare Guasti e Salvatore Bongi, che inventarono il cosiddetto
"metodo storico", tutt'oggi il più usato. In quel periodo si ebbero i maggiori sviluppi della
disciplina archivistica sia a livello teorico che pratico, riuscendo a risolvere svariati
problemi, tra i quali spiccava ormai quello del riordino degli archivi antichi. Nel Novecento
ebbero importanza i teorici olandesi e altri studiosi che perfezionarono le teorie
archivistiche già formulate.

Gli archivi contemporanei
       Negli anni più recenti sono tornati alla ribalta i problemi legati alla formazione, la
gestione e la conservazione degli archivi, soprattutto in riguardo all'introduzione di nuove
tecnologie, che in futuro potrebbero rivoluzionare la consistenza degli archivi. Si tratta in
particolare delle tecnologie informatiche e telematiche, che hanno reso impellente la
revisione di metodologie ormai consolidate da decenni. L'uso delle nuove tecnologie,
soprattutto dopo aver superato una prima fase di sperimentazione un po' improvvisata
all'inizio degli anni Ottanta, si sta via via affinando sempre maggiormente, con
procedimenti più meditati, consapevoli e raffinati, sostenuti anche dall'istituzione di appositi
organismi statali (in Italia il CNIPA, Centro Nazionale per l'Informatica nella Pubblica
Amministrazione), anche se restano da sciogliere i dubbi legati all'organizzazione dei
documenti che non comprometta il vincolo e alla conservazione dei nuovi supporti digitali
nel futuro: se un foglio di carta ha infatti dimostrato di poter essere conservato, tramite le
opportune cautele, anche per secoli, per quanti anni sarà consultabile un supporto DVD o
un disco rigido? Questi sono i nodi da sciogliere nel presente e nell'immediato futuro.

Il vincolo
       Il nesso che distingue un archivio da una raccolta qualsiasi o da una collezione è il
cosiddetto vincolo archivistico. Tale vincolo deve necessariamente avere le caratteristiche
di "naturalità" e "originalità": la prima significa che gli elementi dell'archivio siano stati riuniti
in maniera involontaria, rispecchiando la normale attività di produzione del soggetto; la
seconda significa che il vincolo naturale fosse presente "all'origine" dell'archivio, quindi
che sia stato creato con procedure adatte fin dall'inizio.
       Se la prima caratteristica può decadere quando una parte dell'archivio viene
dispersa o distrutta, il requisito dell'originalità resta per sempre a qualificare la parte
restante dell'archivio, a meno che la distruzione sia pressoché totale oppure l'archivio non
sia stato ricostruito in base a scelte volontarie, magari da un soggetto estraneo (ad
esempio un collezionista che ricrei un archivio smembrato di un personaggio illustre
comprando i singoli pezzi sul mercato): in questo secondo caso è più corretto parlare di
"raccolta di carte".

Vita di un archivio
       Un archivio nasce innanzitutto quando un soggetto, detto "produttore" (di
documentazione), decide di conservare le testimonianze delle proprie operazioni: a questa
decisione è legata la convinzione che tali documenti possano tornare ad essere utili in un
futuro più o meno vicino, per questo se ne evita la distruzione. Nelle fasi iniziali la
conservazione dei documenti ha essenzialmente finalità pratiche, amministrative e
giuridiche, mentre solo col passare del tempo, mentre questi interessi vanno sfumando o
decadendo, subentra un altro valore, di tipo storico, legato alla ricerca della conoscenza
del passato, da parte degli studiosi.
       La vita di un archivio si muove su una coordinata temporale (verticale) che va dalla
nascita alla chiusura dell'archivio (l'"archivio morto", cioè il cui soggetto produttore non
produce più documenti per la cessazione dell'attività, e quindi non è più soggetto agli
accrescimenti), fino all'ipotetica data della distruzione dell'archivio. Inoltre l'archivio si
riferisce a un determinato territorio ed a una serie di soggetti col quale il soggetto
produttore interagisce (coordinata orizzontale).
La nascita dell'archivio richiede alcuni elementi necessari:
   •   l'esistenza di un soggetto produttore, in attività e legato a una particolare tipologia
       di azioni;
•   la volontà di conservare le memorie, tramite supporti destinati a durare nel tempo
   •   la presenza del vincolo archivistico.
Fondamentale è poi il concetto di "ordine", che serve per garantire una struttura logica e
utile per la consultazione, anche se non incide la natura dell'archivio stesso: un archivio
disordinato resta sempre un archivio, magari in attesa dell'inventariazione e del riordino,
mentre un archivio senza vincolo non è un archivio.
Oggi la vita degli archivi, almeno quelli di enti pubblici e quelli privati dichiarati di pubblico
interesse, è regolamentata da precise disposizione di legge. Inoltre gli archivi in Italia sono
oggi considerati e tutelati come beni culturali.
La vita di un archivio è stata schematizzata in tre fasi, che corrispondono a:
   •   L'archivio corrente (per gli affari in corso);
   •   L'archivio di deposito (per gli affari detti "esauriti");
   •   L'archivio storico (per i documenti con più di 40 anni di età, destinati a venir
       conservati per sempre).
Questa impostazione "italiana" risale al teorico seicentesco Baldassarre Bonifacio. In area
tedesca prevale l'impostazioni in quattro fasi delle quali solo l'ultima è definita "archivio",
mentre le altre sono dette "registratura" (corrente, di deposito e prearchivio, ovvero la fase
di scarto), sottolineandone le finalità più immediate e pratiche; in area francese esistono
pure quattro fasi, come in Germania, ma vengono denominate già tutte "archivio", come in
Italia. La quarta fase del modello tedesco e francese è in sintesi la fase dello scarto, che in
Italia è inglobata al termine della fase di deposito. Durante lo scarto si distruggono tutti i
documenti ritenuti superflui per la memoria futura, ad esempio i doppioni, i contenuti
accessori, ecc.
       Nell'archivio i documenti sono di solito sistemati dentro delle "buste" (contenitori di
cartone nei quali si conservano i documenti raggruppati in fascicoli) che sono a loro volta
sistemati su delle scaffalature. Dentro alle buste i documenti, raggruppati in cartelline,
formano un fascicolo (insieme di documenti sistemati in ordine cronologico). Il fascicolo è
considerato l'unità base dell'archivio. Sulle scaffalature, oltre alle buste, sono presenti
anche dei registri (documenti formati da più fogli contenenti atti di genere vario) ma se
questi sono troppo rovinati vengono anch'essi racchiusi in buste.

Soggetti produttori di archivi
       Il soggetto è colui che produce o riceve i documenti che finiscono nell'archivio. I
documenti sono la memoria della sua attività specifica. A seconda della natura del
soggetto, specialmente nella disciplina giuridica contemporanea, si hanno diverse
disposizioni, regolate nella principale legge italiana sulla gestione degli archivi, il DPR
1409 del 30 settembre 1963.
Una prima distinzione è attuabile tra soggetti pubblici e privati. I soggetti pubblici si
dividono in:
   •   Soggetti pubblici "statali"
           o Centrali, come i Ministeri, la Corte dei Conti, il Consiglio di Stato, ecc.,
           o Periferici, come le Prefetture, le Questure, le soprintendenze, ecc.
   •   Soggetti pubblici "non statali", come Regioni, Province, Comuni, Associazioni
       Intercomunali e Comunità montane.
I soggetti privati si distinguono in:
   •   Soggetti privati singoli (persone fisiche e giuridiche, come le imprese individuali o gli
       artigiani)
   •   Soggetti privati complessi
   •   Nuclei familiari
   •   Associazioni
   •   Imprese
Nel caso dei soggetti privati le norme lasciano ampia libertà e, tranne nel caso in cui
intervenga una dichiarazione di pubblico interesse, i privati sono liberi di tenere o anche
distruggere i propri archivi, salvo restanti le sole disposizioni in materia fiscale e contabile,
che prevedono la conservazione di alcuni tipi di documentazione per un certo lasso di
tempo (in genere dieci anni).

Attività del soggetto
       In archivistica è fondamentale il concetto di attività, intesa come insieme di rapporti
"verso l'esterno", escludendo invece in linea di massima i comportamenti che si
esauriscono all'interno del soggetto. Durante l'attività ci può essere un periodo di inerzia,
che può essere transitoria o definitiva: nel secondo caso l'archivio non è più suscettibile di
aggiunte e si dice "morto".
       L'archivio non si forma mai per i soli comportamenti attivi del soggetto produttore,
ma sempre anche per il concorso di altri soggetti che vi interagiscono (si pensi ad esempio
ai carteggi in entrata e uscita). Da ciò discende il principio della non volontarietà della
formazione dell'archivio, che ne caratterizza la fattispecie rispetto alle raccolte "volontarie"
(come le collezioni di documenti).
Archivi come beni culturali
       In Italia gli archivi sono disciplinati tra i beni culturali. Una prima definizione
internazionale degli archivi come beni di interesse culturale risale alla convenzione dell'Aja
del 1954 (ratificata in Italia nel 1958), dove si citavano i beni artistici, architettonici,
archeologici, librari e archivistici "di grande importanza".
       La Convenzione di Parigi del 1970, voluta dall'UNESCO, riconobbe agli "archivi,
compresi i fonografici, fotografici e cinematografici" le misure atte a impedirne l'illecita
importazione, esportazione o trasferimento di proprietà.
       In Italia gli archivi avevano una gestione non legata ai beni culturali, infatti sin dalle
decisioni della Commissione Cibrario del marzo 1870 essi erano stati assegnati al
Ministero dell'Interno, sottolineandone la funzione prevalentemente amministrativa. I
restanti beni archeologici, architettonici, artistici e librari erano invece di competenza del
Ministero della Pubblica Istruzione.
       Con la creazione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali nel 1975, voluto da
Giovanni Spadolini e Aldo Moro, si decise, e solo in fase di conversione del decreto legge
(29 gennaio 1975) grazie ad una presa di posizione di gran parte degli archivisti di Stato
italiani, di inserire anche gli archivi tra i beni culturali, seguendo peraltro la linea già
prevista a livello internazionale fin dal 1954.
       La presenza degli archivi tra i beni culturali è stata ribadita dalle disposionion i del
Testo Unico (Dlgs. n. 490 del 29 ottobre 1999) e del Codice dei Beni Culturali (Dlgs. 42 del
22 gennaio 2004). In quest'ultimo testo sono precisamente indicati tra i beni culturali "gli
archivi e singoli documenti dello Stato, delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali,
nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico" e "gli archivi e singoli documenti,
appartenenti a privati, che rivestono un interesse storico particolarmente importante".
       Esiste quindi una fondamentale differenza tra archivi pubblici e privati: i primi sono
tutelati sempre, in maniera naturale, i secondi solo in casi speciali, scelti su basi
soggettive. Viene così rispettata la sfera del privato dei singoli cittadini, associazioni,
imprese, ecc., che sono libere di disporre a piacimento dei propri archivi, salvo le
eccezioni. Nelle successive definizioni però non si tiene conto del senso stretto degli
archivi come raccolte caratterizzate da un vincolo naturale e originario, assimilandoli, con
la perplessità degli addetti ai lavori, ad altre raccolte come "i manoscritti, gli autografi, i
carteggi" ovvero "le carte geografiche, e gli spartiti musicali aventi il carattere di rarità e
pregio".
Organizzazione archivistica internazionale
       In tutti i paesi del mondo esiste un interesse verso gli archivi come luoghi della
conservazione della memoria (culturale, amministrativa, pratica, giuridica, ecc.), per
questo essi sono tenuti e gestiti secondo precise disposizioni statali, che ne garantiscono
la conservazione. Ogni nazione segue però principi propri, che vengono stabiliti in maniera
autonoma e, pur con molteplici punti in comune, possono essere contraddistinti da forti
differenze sia nella forma che nella sostanza.

Consiglio Internazionale degli Archivi
       A livello internazionale esistono alcune organizzazioni che facilitano il collegamento
tra le singole entità nazionali, senza però imporre normative da applicare a livello
sopranazionale. Il Consiglio Internazionale degli Archivi (C.I.A.), che fa parte
dell'UNESCO, fu fondato nel giugno 1949 per assicurare la conservazione, la fruizione e la
valorizzazione del patrimonio archivistico mondiale. Vi partecipano le istituzioni
archivistiche nazionali, regionali, locali, pubbliche e private, le associazioni professionali di
categoria, archivisti a titolo individuale e membri d'onore: la sua struttura è quindi molto
articolata.
       Nel 1994, ha pubblicato la prima versione dell'ISAD(G) (General International
Standard Archival Description), un'iniziativa volta a definire uno standard da adottare per
la descrizione di ogni tipo di archivio destinato alla registrazione di documenti, siano essi
prodotti da organizzazioni, persone o famiglie.

Organizzazione archivistica in Italia
       In Italia gli archivi pubblici appartengono al Ministero per i beni e le attività culturali,
in particolare alla Direzione generale per gli archivi, che si occupa dell'alta direzione, della
tutela, della gestione tecnica ed amministrativa di tutto il settore e si avvale di un Comitato
tecnico-scientifico per finalità consultive. L'amministrazione opera poi tramite due istituti
centrali dotati di particolare autonomia (l'Istituto Centrale per gli Archivi, con finalità di
ricerca e di studio, e l'Archivio Centrale dello Stato) e tramite gli istituti periferici.
       Gli istituti periferici si dividono in Archivi di Stato, Sezioni di Archivi di Stato e
Soprintendenze Archivistiche.
       Gli Archivi di Stato sono cento, ed hanno sede in ciascun capoluogo di provincia
(tranne alcuni capoluoghi di recente istituzione, dove non sono ancora attivi). Si occupano
di conservare le carte delle amministrazioni statali centrali e periferiche della propria
circoscrizione (preunitarie e postunitarie) e gli archivi di enti pubblici e privati, quando
necessario. Gli Archivi di Stato inoltre controllano tutti gli archivi di istituti statali di quella
provincia: questura, prefettura, direzione di poste e telegrafi, ecc. Il nome tecnico della sua
mansione di controllo è "sorveglianza". In diciassette archivi di Stato hanno sede anche le
Scuole di archivistica, paleografia e diplomatica.
       Le Sezioni di Archivio di Stato sono trentaquattro (la legge stabilisce un numero
massimo di quaranta) e sono analoghe agli archivi di Stato, ma poste in un comune non
capoluogo, subordinate all'archivio di Stato del capoluogo. Si tratta di archivi formatisi
storicamente con una rilevante qualità e quantità di documenti che, secondo il principio
basilare di mantenere sempre gli archivi nel territorio che gli ha prodotti, vengono
mantenuti nella città di origine.
       Le Soprintendenze archivistiche, diciannove, sono in ciascuna regione (tranne in
Val d'Aosta, accorpata al Piemonte) e svolgono una funzione di tutela e di assistenza
verso gli archivi non statali, pubblici (Archivi di Regioni, Province e Comuni) e privati
dichiarati di notevole interesse storico (con notifica emessa proprio dalla soprintendenza).
       Nel linguaggio tecnico la sua mansione di controllo si chiama "vigilanza". La
vigilanza non comprende il controllo sulla fase di riordino, ma si limita a fornire un consulto
se richiesto. Sorveglianza e vigilanza sono attuate soprattutto per verificare che gli archivi
vengano gestiti beni, che i locali deputati agli archivi siano idonei, che lo scarto sia
effettuato correttamente, ecc. In particolare al momento dello scarto si ha un diverso modo
di procedere a seconda se si tratti di ente sorvegliato da un Archivio di Stato o vigilato da
una Soprintendenza.
       In Italia esistono inoltre un'Associazione Nazionale Archivistica Italiana (ANAI, con
scopi di coordinazione di categoria) e un'organizzazione propria degli enti pubblici
territoriali non statali, quali Comuni, Province e Regioni.

ARCHIVIO CORRENTE
       L'archivio corrente è la prima fase della vita dell'archivio, almeno secondo la teoria
e la legislazione italiana. Durante il periodo corrente si ha la nascita della documentazione,
che viene subito considerata "archivio" (secondo l'impostazione del teorico seicentesco
Baldassarre Bonifacio alla base di questo sistema), a differenza dell'impostazione dell'area
germanica, dove questa fase è chiamata "registratura corrente".
       Nel periodo corrente l'archivio nasce o riceve nuove carte, che vengono create
tramite il naturale svolgimento dell'attività del soggetto produttore. Ad esempio si produrrà
della corrispondenza (in entrata e in uscita), delle delibere (nel caso di soggetti pubblici),
degli atti, ecc.
       L'archivio corrente per legge (D.P.R. n. 1409/1963) contiene tutte le pratiche aperte
e tutte le pratiche chiuse nell'anno solare in corso (periodo di minimo giacenza). Può
capitare quindi che l'archivio corrente contenga anche materiale cronologicamente non
uniforme, prodotto in anni diversi. Le pratiche aperte infatti, in casi di particolare
complessità, possono restare in accrescimento anche per decenni (si pensi alla pratiche
per la costruzione di infrastrutture pubbliche).
           L'archivio corrente è un momento molto delicato della vita di un archivio, perché
un'organizzazione errata o comunque irregolare fin da principio, difficilmente potrà essere
corretta nelle fasi successive (di deposito e storica).
           L'archivio corrente ha finalità essenzialmente pratiche, amministrative (contabili) e
giuridiche: non vi si ravvisano ancora finalità di tipo storico, tipiche della fase degli archivi
storici.

Gestione dell'archivio corrente
Archivi privati
           In Italia i soggetti privati non sono soggetti a particolari normative in materia
archivistica, per cui la gestione dell'archivio corrente, come delle altre fasi, è libera. Solo
alcune tipologie di documenti, legati soprattutto alle ricevute di pagamento ed alla
contabilità, devono essere conservati secondo norme specifiche per un certo periodo di
anni. Fanno eccezione gli archivi privati dichiarati di interesse storico particolarmente
rilevante (artt. 10-13 del Codice dei beni culturali Dlgs. 42/2004), che sono assimilati agli
archivi pubblici.

Archivi pubblici
           Per i soggetti pubblici esistono invece delle precise disposizioni normative che
indicano i criteri per organizzare e conservare l'archivio, a partire proprio dalla fase
corrente. I principi di tali norme sono la conservazione della memoria e la sua fruizione da
parte della Comunità, nel rispetto dei limiti di legge. Questi principi esistevano in Italia
anche in fase preunitaria, sebbene le singole disposizioni fossero diverse da Stato a Stato.
Durante il periodo napoleonico venne introdotto il registro di protocollo, che sviluppò una
nuova forma di organizzazione dei soggetti pubblici, basato sul titolario di classificazione.

Protocollo
           Il protocollo è il registro su cui vengono trascritti progressivamente i documenti e gli
atti in entrata e in uscita dal soggetto. Questa registrazione, se condotta a norma di legge,
ha carattere di pubblica e riconosciuta certezza, cioè "fa fede" in caso di controversia
giuridica. Sul protocollo, che è il principale registro dell'archivio corrente, vengono annotati
per ogni documento in uscita o in entrata un numero progressivo, la data di ricezione o di
invio, il mittente o destinatario e il regesto, cioè un brevissimo riassunto del contenuto (di
solito l'oggetto della missiva). A questi dati, necessari per legge fin dal 1897 in Italia, si
aggiungono alcuni dati accessori, tra i quali è diventato ormai di importanza fondamentale
il riferimento al titolario di classificazione.
       Il titolario di classificazione è un elenco delle competenze dell'ente, a ciascuna delle
quali corrisponde un numero o una sigla diversa; per ciascuna competenza sono poi
elencate le varie sezioni o classi, cioè tutte le varie tipologie di atti prodotti da ciascun
ufficio. Questa classificazione serve per smistare la documentazione dall'ufficio di
protocollo agli uffici e, alla fine dell'anno, serve per chiudere l'archivio corrente e impostare
i faldoni per l'archivio di deposito.

Organizzazione della documentazione
       Quando si tratta di mettere in atto un'organizzare dei documenti per la gestione
pratica, è importante strutturare l'archivio secondo la struttura e l'attività del soggetto
produttore, con una certa libertà di scelta della forma più adatta. Per alcuni soggetti
potrebbe essere utile dividere le carte in fascicoli per ciascun settore di attività o per
ciascuna area geografica dove si operi o ancora, se si ha un numero limitato di referenti
esterni, per ciascun cliente/fornitore, in ordine alfabetico (e poi cronologico).
       Per strutture di piccole dimensioni (archivi personali o di attività individuali) può a
volte bastare semplicemente un criterio cronologico, con la produzione documentaria
inserita in un unico fascicolo, per ordine di arrivo. Altre volte le unità archivistiche sono
divise in base al supporto: materiale cartaceo (legato, come libri, codici, registri, o carte
sciolte, come buste, cartolari, faldoni, filze), materiale su supporto ottico (microfilm) o
informatico (e-mail, scannerizzazioni), ecc.

La serie
       La "serie" in archivistica è una posizione logica per raggruppare la documentazione.
Una serie di documenti può essere selezionata per materia, per cronologia o per attività.
La divisione per materie o argomenti, un tempo molto in auge, è quella un po' più
rischiosa, perché spesso scompagina con scelte volontarie, anche forzate, il naturale
accumularsi della documentazione, facendo affievolire il vincolo archivistico naturale. Per
fare un esempio un'impresa potrebbe raccogliere sotto ciascun fascicolo tutta la
documentazione e gli atti relativi a un progetto, dai contatti col committente
(corrispondenza), ai progetti elaborati, alle valutazioni economico/finanziarie, ai resoconti
tecnici, fino alle fatturazioni finali e i documenti di consegna.
La divisione cronologica è la più naturale, ma spesso è poco pratica usarla come
"primo livello", soprattutto nei soggetti produttori complessi; inoltre bisogna decidere se
usare un criterio cronologico legato alla data effettivamente apposta sulla memoria scritta
(ad esempio la data in cui è stata scritta una lettera) o, più spesso, la data di ricezione e
registrazione.
          La divisione più usata è quindi quella che segue le funzioni e l'articolazione
dell'attività del soggetto produttore della documentazione; ciò è specialmente frequente
nei soggetti pubblici, i quali hanno una serie di settori e competenze attribuiti
istituzionalmente, ciascuno dei quali ha una serie di uffici predisposti: nell'archiviazione per
attività quindi non si tratta altro che di ricalcare la struttura burocratica del soggetto
produttore.

Chiusura dell'archivio corrente
          Istituzionalmente nei primi quindici giorni di gennaio (anche se nella pratica spesso
si sfora tale soglia) si procede alla chiusura dell'archivio corrente dell'anno appena
concluso. L'incaricato archivista chiude il registro di protocollo e si presenta in tutti i singoli
uffici a raccogliere tutte le pratiche concluse, riunendole in serie (a loro volta composte da
uno o più faldoni) che sono ricomposte seguendo i codici del titolario di classificazione.
Fatta questa operazione il materiale viene trasferito nell'archivio di deposito, dove resterà
in giacenza per 40 anni.

ARCHIVIO DI DEPOSITO
          L'archivio deposito è la seconda fase della vita dell'archivio, almeno secondo la
teoria e la legislazione italiana. Durante il periodo di deposito la documentazione giace per
quarant'anni, vicino al termine dei quali vanno effettuate le operazioni di scarto del
materiale che non si intende conservare. In seguito l'archivio diventa "storico" e non è più
possibile distruggere alcuna documentazione. In area francese e tedesca la fase
dell'archivio di deposito è invece distinta in due fasi separate: una di giacenza e una di
scarto (detta "archivio intermedio" in Francia e "prearchivio" in Germania).
La vita dell'archivio è scandita da una fase di formazione nel presente (archivio corrente),
una fase di transito (l'archivio di deposito, appunto) ed una fase finale, senza scadenza
temporale (archivio storico). Questa impostazione deve una sua prima formulazione agli
studi del teorico seicentesco Baldassarre Bonifacio, sviluppata e arricchita fino ai giorni
nostri.
          All'inizio del nuovo anno l'archivista di un soggetto tenuto a seguire le disposizioni
normative in materia di archiviazione (ad esempio un ente pubblico) si reca in tutti gli uffici
e raccoglie tutte le pratiche chiuse nell'anno appena concluso, facendo spazio per quelle
che arriveranno con l'attività del nuovo anno.
        Tutta questa documentazione viene così trasferita in una nuova ubicazione poiché
non deve più rispondere alle pressanti esigenze di consultazione (per fini pratici,
amministrativi), ma può comunque tornare utile di tanto in tanto. Per la legge sulla
trasparenza l'archivio di deposito deve restare consultabile, anche da soggetti esterni con
un interesse diffuso1.
        La legislazione italiana prevede un deposito di quarant'anni: entro tale soglia si dà
per scontato che l'utilità dell'archivio per fini pratici e amministrativi sia gradualmente
sfumata fino a azzerarsi quasi del tutto, mentre l'interesse dal punto di vista storico e
culturale sia via via maturato, rendendo i tempi giusti per trasferire la documentazione in
un'altra sede, dove venga messa a disposizione soprattutto di terze persone, sospinte da
motivi di studio.
        L'archivio di deposito è quindi una fase di transizione. Trascorsi i quarant'anni
l'archivio viene trasferito nella cosiddetta sezione separata, se l'ente ne dispone, o in un
archivio di concentrazione (come un Archivio di Stato).

Gestione dell'archivio di deposito
        Un aspetto fondamentale per la gestione di un archivio di deposito è la
razionalizzazione e organizzazione della documentazione. Il metodo più seguito per il
carteggio è quella di ricomporre i fascicoli seguendo la numerazione del titolario di
classificazione, che viene assegnata fin dal momento del protocollo: ogni serie numerica
indica il ramo dell'attività, l'ufficio competente e la sottoclasse. La seconda sotto-
ordinazione si fa per numero di protocollo, che è indissolubilmente legata all'ordine di
arrivo cronologico del documento nell'attività del soggetto.
        Ad esempio in un Comune si avranno per l'anno "2000" la serie delle Delibere della
Giunta, ordinate cronologicamente, accanto alle Delibere del Consiglio Comunale e ad altri
documenti,      che nel complesso            costituiranno     la   grande     sezione     "Segreteria e
amministrazione". Un'altra sezione potrebbe essere "Lavori Pubblici" e così via.
        Per i registri invece si crea una serie autonoma, ordinata solitamente in maniera
cronologica, salvo quando si renda necessaria la costituzione di sottoserie. Si avrà quindi
la serie dei registri di protocollo degli anni passati, ordinati uno dopo l'altro e non in
allegato a ciascuna macrosezione annuale.

1
 Ci sono comunque dei limiti di consultabilità: 70 anni se un atto riguarda una persona; 50 se riguarda un
ente; è riservata se riguarda la sfera morale, religiosa, politica, sessuale, sanitaria, ecc.
Il materiale che va in deposito deve essere elencato e la disposizione dei documenti
deve essere organizzata con cura, divisi in faldoni e fascicoli. I locali dove viene depositato
il materiale devono essere adeguati a tale scopo, privi di minacce come l'umidità,
l'eccessiva luce, la vicinanza a fonti idriche o di calore, e corredati da un'impiantistica a
norma di legge. Importante è anche il carattere di esclusività (i locali non devono
contenere altro materiale che non quello d'archivio) e di accesso riservato agli archivisti.
       Nella fase di deposito si deve iniziare un'analisi della documentazione che permetta
di procedere, verso lo scadere del termine dei quarant'anni, alla fase di selezione e scarto
della documentazione superflua, per alleggerire la consistenza archivistica e renderla più
praticabile.

Lo scarto
       Le operazioni di scarto sono uno dei momenti più delicati della vita di un archivio,
poiché irreversibili. Innanzitutto lo scarto non deve mai compromettere il vincolo
archivistico, che fa sì che un archivio possa essere considerato un "complesso organico",
capace di ricreare l'attività del soggetto produttore.
       Per procedere allo scarto esistono alcuni criteri oggettivi, ma in linea di massima è
sempre necessaria una certa discrezionalità soggettiva dell'archivista che se ne occupa.
Tra gli strumenti oggettivi c'è quello di predisporre un "massimario di scarto", che preveda
per ogni tipologia di atto un termine cronologico di giacenza, che va dal minimo di un anno
a tempi illimitati (come per i carteggi, le delibere e i registri). Inoltre sarebbe buona norma
procedere a un primo scarto al momento di conclusione di ciascuna pratica, cioè nella fase
dell'archivio corrente, eliminando in particolare tutte le copie e, dagli anni Settanta, le
fotocopie che aumentano il volume del fascicolo. Altre volte lo scarto avviene con la
riproduzione del materiale su un supporto meno ingombrante (come la scannerizzazione e
memorizzazione informatizzata), anche se in questo campo la mancanza di conoscenza
della reale durata dei supporti elettronici col passare degli anni ha frenato questa opzione.
Lo scarto vero e proprio è regolato in Italia dagli articoli 25 e 35 del D.P.R. 1409 del 1963,
che lo lega alla fase di deposito ed all'applicazione del massimario di scarto, basato a sua
volta sul titolario di classificazione. Il massimario è una sorta di indicizzazione a grandi
linee della giacenza minima di un documento ed è regolato, a sua volta, dalla legge 241
del 1990, modificata con la legge 15/2005 e col Decreto Legislativo 35/2005. Il massimario
però è legato essenzialmente a finalità pratiche, amministrative e giuridiche, mentre tace
sulle finalità culturali dell'archivio nel futuro, necessitando delle valutazioni supplementari
decise soggettivamente dall'archivista.
Sono stati evidenziati così due principi:
•   La conservazione del documento: gli originali degli atti tipici di quell'ente devono
       essere sempre conservati (delibere, statuti, ma anche fatture, ecc.).
   •   La conservazione della memoria di una notizia: si conservano ogni atto che
       contiene una notizia in maniera esclusiva.
Un esempio di documentazione che viene scartata è quella legata ai cartellini dei
dipendenti: i massimari di scarto indicano in genere una conservazione minima che va dai
5 al 25 anni, dopodiché si possono scartare perché la notizia di ciò che un dipendente ha
fatto si trova anche nel fascicolo personale (dove si trovano i permessi messi per iscritto,
ecc.), nell'archivio dell'ufficio ragioneria (buste paga), ecc. Un altro esempio di notizia
ridondante è quella dei fogli scritti per ordinare materiale: di solito le informazioni sono
contenute nelle fatture. Lo stesso vale per i solleciti e, talvolta, le lettere di
accompagnamento. Per altri materiali che sono tenuti in copia, come quelli normalmente
affidati ad altri enti, si procede spesso a uno scarto a campione: di             faldoni se ne
conservano solo (per esempio) solo per mantenere la memoria di tale pratica e della
modulistica dell'epoca.
Il materiale da scartare viene innanzitutto selezionato, poi si deve redigere una "proposta
di scarto", con i titolo delle serie, gli estremi cronologici e la consistenza (il peso in kg.).
Inoltre si devono mettere per iscritto i motivi dello scarto e precisare come tale azione non
vada a intaccare il vincolo naturale dell'archivio. La proposta viene valutata da una
commissione, che varia a seconda del tipo di soggetto. Per gli archivi di enti pubblici statali
"sorveglia" (questo è il termine tecnico) l'Archivio di Stato di quella provincia; per gli archivi
di enti pubblici non statali (comuni, province e regioni) "vigila" la Soprintendenza
archivistica regionale.
       Quando la proposta è approvata il materiale, in Italia, veniva obbligatoriamente
prelevato, a partire da un regio decreto del 1928, dalla Croce Rossa, che dopo aver fatto
una pesa del materiale lo porta al macero in una cartiera, con addetti che garantiscano la
distruzione nella macchina spappolatrice. Con questo compito si voleva dare una fonte di
guadagno dalla cessione della carta alle cartiere private per la Croce Rossa. Dal 2001 le
pubbliche amministrazioni possono servirsi di ditte specializzate che vengono appaltate su
autorizzazione del Ministero dei Beni Culturali.

Il trasferimento nell'Archivio storico
       L'ultima fase della gestione dell'archivio di deposito è il trasferimento nei locali
dell'Archivio storico, che dovrebbe avvenire dopo 40 anni, ma nella pratica è più diffuso un
trasferimento cadenzato a blocchi di anni. Per effettuare lo spostamento viene predisposto
un apposito verbale e un elenco di consistenza, uno schema cioè che per ogni unità o
serie indichi il numero progressivo, il titolo, il numero di pezzi, la loro tipologia e gli estremi
cronologici. Si tratta di un tipo di inventario, che in alcune zone è in uso fin dal Medioevo
(come all'archivio del Comune ed all'archivio del Capitano del Popolo di Bologna).
       Alcuni enti pubblici hanno un proprio archivio storico, detto "sezione separata". Ad
essa gli archivi arrivano con l'istituto giuridico del versamento.
Gli enti che usano un archivio di concentrazione possono avvalersi di vari istituti:
   •   il versamento (tra due soggetti della stessa struttura istituzionale ed aventi la stessa
       natura giuridica),
   •   il deposito (i soggetti hanno diversa natura giuridica, ad esempio da privato a ente
       pubblico e il soggetto che deposita mantiene la proprietà),
   •   la donazione (il soggetto cede la proprietà a titolo gratuito)
   •   l'alienazione (cessione di proprietà a titolo oneroso).

ARCHIVIO STORICO
       L'archivio storico è la terza e ultima fase della vita dell'archivio, almeno secondo la
teoria e la legislazione italiana. In area francese e tedesca è la quarta (e comunque
ultima). Un archivio diventa storico dopo quarant'anni di deposito, durante i quali vanno
gradualmente ad affievolirsi fino a pressoché estinguersi gli interessi di natura pratica,
contabile, amministrativa e giuridica degli atti in esso contenuti; d'altro canto dopo
quarant'anni si considera ormai maturato un interesse di tipo culturale e storico, per questo
l'archivio viene messo a disposizione di terze persone mosse da fini di studio.
       La vita dell'archivio è scandita da una fase di formazione nel presente (l'archivio
corrente), una fase di transito (l'archivio di deposito) ed una fase finale, senza scadenza
temporale (l'archivio storico, appunto). Questa impostazione deve una sua prima
formulazione agli studi del teorico seicentesco Baldassarre Bonifacio, sviluppata e
arricchita fino ai giorni nostri.
       Teoricamente ogni anno gli archivisti dovrebbero preparare la documentazione
vecchia di quarant'anni per la fase storica; nella pratica ciò avviene più frequentemente
per blocchi di anni. L'archivio diventato ormai storico viene così trasferito nella cosiddetta
"sezione separata" (che spesso è sinonimo di archivio storico stesso), se l'ente ne
dispone, o in un archivio di concentrazione (come un Archivio di Stato), dove i ricercatori
possono recarsi per studiare il materiale.
       L'archivio storico ha finalità "prevalente" culturali, ma non unicamente: si pensi agli
Archivi Notarili Provinciali, che custodiscono documenti che ancora dopo molti decenni
producono effetti giuridici. Infatti gli archivi notarili vengono passati agli Archivi di Stato
solo dopo cento anni di deposito.
Le operazioni che avvengono in questa fase sono il riordinamento, la
predisposizione di mezzi di corredo e strumenti per la ricerca e, infine, la predisposizione
per la fruizione da parte di terzi.

Gestione dell'archivio storico
       Un archivio per passare alla fase storica deve aver subito lo scarto archivistico: gli
archivi di Stato ad esempio non accettano materiale da scartare, anche perché nella fase
storica lo scarto è vietato, salvo una complessa procedura che richiede l'autorizzazione
ministeriale.

Il riordino
       La prima operazione da compiere su un archivio storico è quindi quella del
riordinamento del materiale, che serve per dare ai documenti la loro disposizione definitiva
(almeno in linea teorica). Il principio a cui ispirarsi durante il riordino non è sempre stato il
medesimo, anzi vi sono state varie scuole di pensiero con alterne vicende, che hanno
centralizzato l'attenzione del dibattito sulla teoria e metodologia archivistica almeno dalla
metà del XVIII secolo.
       Schematizzando si sono avuto tre principi fondamentali:
           •    Principio di pertinenza
           •    Principio di provenienza
           •    Metodo storico

Principio di pertinenza
       Il principio di pertinenza è frutto dell'impostazione illuminista prevede la divisione
della documentazione secondo un titolario di classificazione per materie, intervenendo
pesantemente sull'ordine originario e distruggendo i criteri di organizzazione nati durante
la fase di formazione dell'archivio. Questo metodo ebbe particolare successo a cavallo tra i
secoli XVIII e XIX, soprattutto nel Nord-Italia e in particolare a Milano (sotto la direzione
dell'archivista Luca Peroni) e, in maniera minore, negli Stati del Centro-Sud. In Toscana ad
esempio dopo le soppressioni leopoldine si smembrarono gli archivi degli ordini monastici
separando la documentazione cartacea da quella pergamenacea.
Poiché questo metodo mette in serio pericolo l'organicità della documentazione, fino a
minacciare la sopravvivenza del vincolo archivistico, è stata bandita in tutta Europa nella
gestione degli archivi, ma resta comunque un metodo col quale confrontarsi avvicinandosi
ad archivi storici frutto di quell'epoca.
Principio di provenienza
       Il principio di provenienza nacque già alla fine del Settecento in opposizione al
principio di pertinenza. Per la prima volta venne applicato in Danimarca nel 1791, dalla
Commissione per l'Ordinamento degli Archivi Camerali, e poi venne usato in Germania dal
1816, con riconoscimento formale dal 1819 quando l'Accademia di Berlino consigliò di
abbandonare il metodo di pertinenza in favore di questo. Tale principio impone il rispetto
dei fondi, cioè delle strutture originarie entro le quali l'archivio nasce e si evolve. Ma
nell'organizzazione interna permetteva ancora una gestione mista, per pertinenza, per
cronologia, per topografia o anche semplicemente in maniera alfabetica.

Metodo storico
       Il "metodo storico" nacque in Italia, in particolare in Toscana, grazie all'intervento
dell'archivista Francesco Bonaini, ed è ancora oggi il metodo basilare per la gestione degli
archivi. Uno dei primi archivi a venire ordinati integralmente col metodo storico fu l'Archivio
di Stato di Lucca, grazie alla direzione di Salvatore Bongi, i cui inventari (datati dal 1872 al
1888) sono ancora oggi portati ad esempio.
Il metodo storico mette al centro dell'attenzione di chi riordina la storia del soggetto
produttore, inquadrata nel contesto storico-istituzionale sia generale che locale. Il vero
lavoro dell'archivista diventava così, come ribadito anche dalla scuola olandese della fine
del XIX secolo, lo studio del soggetto produttore, della sua struttura e della sua storia, che
doveva essere riportata in un'introduzione storico-istituzionale alle carte. Tramite questo
studio era possibile comprendere a fondo le condizioni in cui si era formata e ordinata la
documentazione, permettendo una facile ricerca senza imporre un ordine diverso da
quello originario.
Il metodo storico prevede di valutare sei aspetti:
   •   La politica generale e particolare dell'epoca
   •   Le istituzioni a livello generale e particolare dell'epoca
   •   Le istituzioni del soggetto produttore dell'archivio
   •   La sua realtà burocratica
   •   Le sue modalità gestionali
   •   Le sue prassi archivistiche

Altri metodi
       Oggi è in corso un dibattito su eventuali nuove metodologie da applicare al
riordinamento    archivistico,   soprattutto   a   fronte   dell'introduzione   delle   tecnologie
informatiche e della globalizzazione che inevitabilmente coinvolge anche il settore
archivistico. Al momento non esiste ancora un posizione univoca su questo argomento e il
problema fondamentale è innanzitutto riuscire a capire la sopravvivenza del vincolo e la
durata negli anni dei supporti informatici, se siano cioè in grado di garantire la
conservazione delle informazioni anche per le generazioni future. L'esperienza
sull'argomento non è ancora sufficiente a fornire risposte certe.

Periodizzazione
       Talvolta può essere utile dividere le carte di un archivio per periodi, cioè per grandi
periodi cronologici divisi da variazioni politiche, istituzionali, burocratiche, normative e
gestionali del soggetto produttore o del contesto generale. Un esempio tipico è la divisione
in Italia prima e dopo l'unità, o tra Regno e Repubblica.
       La periodizzazione non è necessaria e va usata con parsimonia perché crea delle
fratture nella documentazione. La circolare ministeriale del 1966 segnò alcuni estremi di
periodizzazione uniformi per tutti gli archivi italiani, invitando ad usare una periodizzazione
storica generale, piuttosto che particolare. Ne deriva che, in linea di massima, si doveva
interrompere le serie dove erano avvenuti alcuni passaggi fondamentali del cambiamento
della struttura dello Stato o degli enti territoriali sovrani, piuttosto che nei momenti della
loro ricezione delle novità istituzionali e burocratiche, con nuove norme, nuovi registri ecc.,
nel singolo archivio.

Elementi di corredo e strumenti di ricerca
       Fondamentale è predisporre una serie di strumenti che servano per gestire e
consultare gli archivi. La terminologia per definirli non è univoca, ma secondo
l'impostazione di Alessandro Pratesi, esistono due grandi tipologie:
   •   Mezzi in funzione dell'archivistica (mezzi di corredo)
   •   Mezzi in funzione di altre discipline (strumenti per la ricerca)
I mezzi di corredo sono i primi ad essere compilati e sono tutti quei prodotti legati
all'illustrazione diretta e immediata dagli aspetti archivisti. Si dividono a loro volta in mezzi
di corredo primari (elenchi, guide e inventari), sussidiari (indici, rubriche e repertori),
complementari (sunti, transunti, regesti e trascrizioni) e atipici (cataloghi, per archivi non
organici).

Elenchi
       I mezzi di corredo primari hanno ovviamente un ruolo fondamentale. Tra essi
l'elenco archivistico è una descrizione del materiale archivistico in un archivio, sia esso
ordinato o non ordinato. Vi sono riportati un numero progressivo per ciascuna unità
archivistica, la consistenza di ognuna di queste unità, la loro tipologia, il contenuto e gli
estremi cronologici. Un elenco può essere analitico (quando le unità archivistiche sono
riportate e descritte una per una), sommario (con le unità raggruppate in più serie) o misto.
        Si hanno, a seconda della finalità per cui sono redatti, elenchi di consistenza (per
meri fini conoscitivi), di versamento, di deposito, ecc.

Guide
        La guida archivistica (come la Guida Generale degli Archivi di Stato dell'Ufficio
centrale per i Beni Archivistici) fornisce informazioni più generali su un archivio o su un
insieme di archivi. Vi trovano la denominazione dell'archivio o dell'istituzione che lo
possiede, l'indirizzo e tutte le notizie per accedervi; brevi notizie storiche sul soggetto
produttore e la storia della raccolta; cenni sull'illustrazione delle serie archivistiche; una
sezione descrittiva, dove brevemente si elencano le serie col titolo, la consistenza e gli
estremi cronologici; un apparato critico con la bibliografia archivistica specifica; un indice
dei fondi.
        Si distinguono le guide "generali" (su ambiti territoriali molto vasti), da quelle
"specifiche" (su singoli archivi o soggetti produttori), "topografiche" (per luoghi) e
"tematiche".

Inventari
        L'inventario è la massima espressione del lavoro archivistico. È il più complesso e
articolato dei mezzi di corredo e, in sintesi, vede esposti in maniera estesa gli elementi che
nelle guide sono esposti solo sinteticamente. Per scrivere un inventario bisogna avere una
conoscenza molto profonda delle carte di un archivio, le quali devono essere già state
riordinate.
        L'inventario si espleta seguendo alcune fasi operative, che necessitano una ricerca
storica (generale e locale) e istituzionale, una conoscenza approfondita del soggetto
produttore (storica, istituzionale, burocratica) e, infine, delle vicende dell'archivio dalla
formazione a oggi. Queste informazioni confluiranno nella stesura delle introduzioni
generali e particolari, ma sono anche necessarie per comprendere il significato delle carte
secondo l'applicazione del metodo storico.
Le parti introduttive necessarie di un inventario secondo il metodo storico sono:
   •    Introduzione storica generale sul periodo nel quale è stato prodotto l'archivio
   •    Introduzione storica/istituzionale sul soggetto che ha prodotto l'archivio
•   "Nota archivistica", che riporta le condizioni di rinvenimento dell'archivio e le
        operazioni che l'archivista via ha effettuato (riordino, ecc.) e con quale metodologia

    Dopo le introduzioni si trova una sezione descrittiva, dove ogni serie è illustrata e
preceduta da un cappello che indica le notizie sulla normazione che regolava la
produzione di quei documenti, e rileva la presenza o meno di uniformità, irregolarità o
accidentalità varie (se è una serie completa, se ci sono lacune e perché, se ci sono state
variazioni nel titolario di classificazione, ecc.). Ogni unità archivistica riceve una
numerazione "a corda" (o "a catena"), che è progressiva. Poi si indica il titolo della serie,
che si trova scritto sulla coperta del registro, sulla costola e sul frontespizio (bisogna
segnarli tutti se diversi). Nei registri più antichi si trova talvolta anche un titolo nel fondo di
coperta.
Le informazioni successive sono di tipo statistico: tipologia del pezzo (registro, filza, carte,
pergamene, ecc.), consistenza (numero delle carte o delle pagine, fogli sciolti come
allegati2, ecc.), tipo di legatura.
        Poi si indicano i numeri delle "vecchie segnature", cioè di tutte quelle di prima del
riordino, utili per capire la storia dell'archivio e la presenza o meno di manomissioni.
Segue l'indicazione del contenuto principale (che può essere diverso da quanto scritto sul
titolo), che viene decisa dall'archivista.
        La sezione successiva indica le particolarità della serie, come la presenza di lettere
capitali, miniature, contenuti accessori, ecc. Infine si scrive lo stato di conservazione
(ottimo, buono, mediocre, pessimo).
        La sezione descrittiva si articola poi in più parti, con le intitolazioni, la struttura fisica
di ciascuna serie, i contenuti (principali, secondari e accessori) e gli estremi cronologici.
Infine vi si trovano gli indici, di vario genere, e la bibliografia essenziale.

La fruizione
        Un aspetto fondamentale della gestione degli archivi storici è quello della
consultabilità, che è la finalità stessa per la quale l'archivio viene conservato. L'accesso è
regolato da varie disposizioni di legge, a seconda delle finalità e del tipo di archivio.
        Negli archivi di Stato e negli Archivi storici di enti pubblici la fruizione è garantita per
tutta la documentazione tranne i documenti dichiarati di carattere riservato e relativi alla
politica interna o estera dello Stato, per i quali si devono attendere cinquant'anni dopo la
loro data. Inoltre la legge sulla privacy allunga i tempi per la consultazione di documenti

2
 Gli allegati si numerano con la pagina o foglio di riferimento, barrato il numero dell'allegato, es. 146/1 vuol
dire l'allegato uno alla pagina (o foglio, a seconda della metodologia usata) 146.
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